Stellantis, quei mega-bonus ai manager Fca per lasciare il comando ai francesi di Psa

Sugli uomini chiave di Fca sta per piovere una cascata di milioni. Dopo la chiusura della fusione con Psa in Stellantis prevista per il 16 gennaio, secondo il prospetto, l’amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles Mike Manley e il direttore finanziario Richard Palmer potranno beneficiare di premi in contanti per l’“accordo di conservazione” dei precedenti bonus aziendali di Fca. I bonus saranno pagati a causa dei loro cambiamenti di ruolo, compreso il fatto di non essere rientrati tra gli 11 consiglieri di amministrazione di Stellantis (in maggioranza in mano francese) mentre lo erano in Fca.

Nel 2019, anno dell’ultima remunerazione nota, Manley ha ricevuto da Fca compensi per 13,28 milioni, una volta e mezzo gli 8,55 milioni pagati all’ad di Psa e futuro Ceo di Stellantis Carlos Tavares. Secondo i calcoli di Automotive News Europe, per l’“accordo di conservazione” Manley potrebbe ricevere fino a 51,4 milioni cash. Palmer riceverà un bonus calcolato in parte in base alle sue azioni Fca e in parte pari al quadruplo del suo stipendio base annuo: il suo premio in denaro potrebbe arrivare a 16,6 milioni. Altri dirigenti di Fca in corsa per un premio cash una tantum per la fusione sono Pietro Gorlier (capo Europa, Medio Oriente e Africa e della divisione di pezzi di ricambio Mopar), Antonio Filosa (America Latina), Mark Stewart (Nord America), Davide Grasso (ad di Maserati) e Giorgio Fossati, responsabile legale. Il prospetto non indica l’entità dei loro premi perché questi dirigenti non erano consiglieri di Fca. Durante l’assemblea che l’altroieri ha approvato la fusione di Fca con Psa, Fossati ha dichiarato che “il pagamento sarà effettuato con l’intento che” Manley “rimanga con la società”. Secondo il presidente John Elkann, dopo la fusione Manley in Stellantis sarà capo della regione Americhe, mentre Palmer è candidato al ruolo di responsabile finanziario.

Per gli analisti sono tutti segnali del fatto che, alla faccia dell’annuncio di una “fusione tra eguali”, sarà Psa a comandare in Stellantis. Lo stesso prospetto, a pagina 103, spiega che “ai fini contabili” la società francese sarà “l’entità acquirente” di una “acquisizione inversa” di Fca in base a tre “indicatori significativi”: nel nuovo cda 6 consiglieri su 11 sono di nomina francese, il nuovo Ceo è quello di Psa, gli azionisti di Psa pagheranno un premio a quelli di Fca. In Stellantis il blocco francese degli azionisti di rilievo ex Psa prevarrà con il 19% (famiglia Peugeot 7,2%, Stato francese attraverso BpiFrance 6,2% e Dongfeng 5,6%), mentre la Exor degli Agnelli-Elkann deterrà il 14,4%. Gli accordi prevedono che l’intesa non potrà essere modificata per tre anni, il board non cambierà per quattro e Tavares resterà ad per cinque.

Calcio, ora i club spenderanno soldi che non hanno

Piangono miseria per gli stadi chiusi. Rinviano gli stipendi, pretendono ristori, non pagano le tasse. Poi arriva il calciomercato e si dimenticano di tutto, tornano a spendere, anche a debito, anche se le regole non lo permetterebbero. I presidenti del pallone son fatti così: la Lega Serie A ha chiesto che le società possano fare nuovi acquisti anche se non hanno denaro e non rispettano i parametri. E la Federcalcio gliel’ha concesso.

Questa settimana è iniziata la sessione di riparazione. Con la crisi che c’è per il Covid, ci si aspetterebbe un mercato al risparmio. Anzi, per molti proprio bloccato. Da anni la Figc ha introdotto norme più stringenti, per monitorare lo stato di salute dei club ed evitare fallimenti tipo Parma. Una di queste è l’“indicatore di liquidità”: un parametro contabile che, facendo la differenza fra disponinilità, crediti e debiti immediati, serve a capire la “solvibilità” di una squadra, cioè quanti soldi ha davvero. Chi non ne ha, non ne può spendere. La Figc l’aveva messo per iscritto: due volte l’anno la Covisoc monitora l’indicatore e chi non è in regola non è ammesso al mercato. O meglio, il mercato non sarebbe nemmeno bloccato, solo a saldo zero: non si spende più di quanto si incassa. In era Covid sono tanti fuori dai parametri e tanti avrebbero dovuto star fermi. Ma di rinunciare a colpi e plusvalenze per rattoppare squadre e bilanci, i patron non ne vogliono sapere. Mentre le istituzioni peroravano la causa del pallone e strappavano al governo il rinvio dell’Irpef fino a marzo, la Figc approvava l’ennesima deroga: anche le squadre fuori legge potranno fare mercato, anche in passivo, fino a 2,5 milioni di euro. Così le trattative sono già ripartite. Un esempio: il Genoa (che non naviga nell’oro) sarebbe pronto ad acquistare il giovane Portanova dalla Juventus per ben 7 milioni, mentre il rossoblù Rovella (in scadenza, gratis, fra pochi mesi), andrebbe a Torino per 10. Fortuna che c’è lo “sblocca mercato”.

“Report” su boss, Stato e Agenda rossa fa l’11,5%: parlare di mafia in tv funziona

Parlare di mafia, in prima serata, su una delle tre reti Rai, si può. E, in termini di ascolti, funziona. Lo ha dimostrato lunedì sera la trasmissione Report che immergendosi nelle trame che da via D’Amelio portano all’Agenda rossa, ai servizi, alla politica e ai boss di mafia, ha raccolto un incredibile 11,5% di share medio, finendo dietro solo al film commedia su Rai1 e al Grande Fratello Vip su Canale 5. Il volto di Salvatore Baiardo, il gelataio piemontese di origini siciliane che coprì la latitanza dei fratelli Graviano, che racconta di “più di tre” incontri tra Silvio Berlusconi e i Graviano e delle “copie” dell’Agenda rossa di Paolo Borsellino, trafugata quel 19 luglio 1992, in mano a più di una persona, è stato visto da 3 milioni di spettatori, con punte di 3,5. E lo share, partito al 3%, è arrivato alla punta del 13,5%. Rivelazioni ancora da verificare, che già ieri i legali di Silvio Berlusconi, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, hanno attaccato: “Sono state riportate come se fossero acclarate e veritiere affermazioni e indicazioni destituite di ogni fondamento e in molti casi palesemente inverosimili”. E minacciano querele.

Elkann, tavares e Julio Iglesias

Come ci insegnò Julio Iglesias, “si può arrivare alle stelle dicendo un semplice sì”. Ed è con un lungo, strascicato, orgasmico “sììììì” che la stampa italiana è arrivata se non alle stelle, a Stellantis, che poi sarebbe la società nata dalla fusione (vendita) di Fca ai francesi di Psa. Certo, il futuro è incerto e i rischi molti: l’Italia, per dire, potrebbe finire cancellata dalla mappa della produzione di auto, però l’azionista – la tribù Agnelli – è contento e il media mainstream è contento pure lui. Questa fusione, ad esempio, è “un’opportunità per l’Europa”, le dà “la possibilità di dettare le regole del mercato delle quattro ruote nei prossimi anni” (La Stampa). Anzi, è una risposta “a cambiamenti epocali nel business internazionale e alla tragedia umana, economica e sociale del virus” (?). Esageruma nen, ma “da oggi, niente sarà più lo stesso” ( Repubblica).

Una tale svolta epocale, ovviamente, ha bisogno di protagonisti adeguati. John Elkann “con tutte le presidenze che ha e con tutte le aziende che guida, non si può certo non definire un manager”, ma “l’appellativo gli va un po’ stretto”: “John è un industriale e un finanziere, un imprenditore e un capitalista” (Il Messaggero). E poi c’è Carlos Tavares, cioè l’ad di Psa che guiderà pure Stellantis: un superuomo. Appassionato di rally, ha messo nel contratto “la possibilità di partecipare ogni anno a 22 corse”. Siate buoni, però: “È l’unico ‘vizio’ di questo manager portoghese”, “un vero car guy, come nel mondo delle case automobilistiche si chiamano i manager capitati lì non per caso (Marchionne? ndr), ma perché l’auto è la loro vita”. Uno che le macchine “ha dimostrato di saperle vendere”, ma pure “guidarle, in maniera spericolata” e “all’occorrenza smontarle pezzo per pezzo”. D’altra parte, è un “perfezionista”, “si sveglia tutte le mattine alle 5 per fare i pesi e restare secco e tonico. Poi la giornata va avanti a ritmo serrato” (La Stampa). Corre Tavares, corre sempre: “Quest’anno festeggerà 63 anni e sfrutterà ogni spiraglio del suo impegno quinquennale per spremere al massimo 15 gloriosi marchi”. Occhio eh: “Ha già dimostrato più volte di saperci fare e, soprattutto, di essere velocissimo” (Il Messaggero). Sììììììì!

Pompei, che bella l’ultima scoperta

Che differenza c’è tra Pompei e la Rai? Nessuna: in tutti e due i casi appena si comincia a scavare non si finisce più. Il documentario Pompei, ultima scoperta è passato su Rai2 con notevole successo di ascolti, quasi il doppio della media di rete, raro momento di qualità tra i pacchi delle feste (quelli di Carlo Conti, e non solo); ma anche con una doppia polemica. Tanto per cominciare, si è scoperto che la scoperta del termopolio (uno spaccio alimentare conservatosi intatto, fave comprese) era di un anno precedente alla notizia che ha fatto il giro del mondo: un marketing a orologeria, di cui la Rai si è sicuramente giovata. Ma c’è anche chi ha protestato perché il documentario è una coproduzione internazionale di cui la Rai non fa parte. Spiace, ma non stupisce, viene da dire, perché anche il taglio era di respiro internazionale, stile Bbc e National Geographic, dunque ben lontano dallo stile Rai. Pompei, ultima scoperta è il racconto delle ricerche e delle tecniche di rinvenimento che hanno segnato la rinascita del parco archeologico più importante d’Europa, con la voce narrante del direttore Massimo Osanna. Dai tempi di Civiltà sepolte di C.W. Ceram, non c’è cold case più affascinante della storia dell’archeologia. Il futuro si può predire, ma il passato si può indagare, e tra i gialli del passato pochi hanno il fascino del caso Pompei, dove da tre secoli non si smette di scavare e scoprire. Anche la Rai se ne è occupata, ma alla sua maniera, senza una tradizione documentaristica alle spalle. A Viale Mazzini tutto tende alla fiction, anche il racconto della storia e dell’arte: tendenza Kazzenger nei casi peggiori, tendenza premiata ditta Angela nei casi migliori. Alberto Angela è un amabile Cicerone; ma quando arriva lui col favore delle tenebre, dei droni e dello slow motion, non vediamo Pompei; vediamo Alberto Angela a Pompei. Per una volta – ultima scoperta – abbiamo visto che a Pompei ci sono anche gli archeologi.

La battaglia del grano con le Abissine “dal sapore littorio”

Sulla nuova “battaglia del grano”, la battuta più bella la dobbiamo a Twitter: “Dove c’è Balilla c’è casa”. La pasta Barilla però non c’entra nulla. È un altro storico marchio italiano, La Molisana, a essere chiamato in causa in queste ore sui social network. Prima i fatti. Niccolò Vecchia, giornalista e conduttore di Radio Popolare, scrive un post sulla sua pagina Facebook in cui parla di alcuni tipi di pasta pubblicizzati dal sito del pastificio di Campobasso: “Negli anni Trenta l’Italia celebra la stagione del colonialismo con nuovi formati di pasta: Tripoline, Bengasine, Assabesi e Abissine”. Fin qui, spiega il giornalista, nulla quaestio: “I fascisti volevano celebrare il colonialismo, bontà loro”. E in effetti è storia: la macchina del consenso coloniale fu alimentata grazie a un enorme sforzo di propaganda soprattutto dopo le leggi fascisstissime, dal 1926. “Però l’aggiunta è contemporanea, di oggi”, prosegue il giornalista nel suo post, e “ne è responsabile questo brand: ‘La pasta di semola diventa elemento aggregante? Perché no!’”. Il bello, se così si può dire, deve ancora venire. Ecco una descrizione: “Di sicuro sapore littorio, il nome delle Abissine Rigate all’estero si trasforma in ‘shells’, ovvero conchiglie”. Naturalmente, appena tutto ciò è diventato tema di dibattito i responsabili dell’azienda hanno provveduto a cambiare subito i nomi. Dunque conchiglie rigate anche qui e non più “abissine rigate”; farfalline e non più “tripoline”, mezze fettucce ricce e non più “tripoline lunghe”. La famiglia Ferro, proprietaria del pastificio si è immediatamente scusata, spiegando di non avere avuto alcun intento celebrativo. L’errore sarebbe stato non controllare le schede descrittive, fornite da un’agenzia di comunicazione. “Il pastificio — ha detto l’amministratore delegato Giuseppe Ferro al Corriere — ha più di 100 anni. Noi abbiamo rifondato l’azienda nel 2011 e non abbiamo pensato a modificare quei nomi che, all’epoca, avevano tutti i pastifici. Ce ne scusiamo, perché quei nomi hanno rievocato in maniera inaccettabile una pagina drammatica della storia”.

Nonostante lo scivolone “dal sapore littorio” non c’è motivo di dubitare della buonafede dell’azienda. Del resto basta fare un giro on line per imbattersi nei Bengasini a marchio Carrefour o nelle Tripoline De Cecco: “La tradizione popolare vuole che questo formato sia stato creato in onore del re Vittorio Emanuele a Napoli”. I formati di pasta con questi nomi si trovano anche sui siti di ricette: dunque, anche se non ci abbiamo mai fatto caso, resistevano come retaggio di quegli anni, che sono – purtroppo – la nostra storia. E da quella storia è bene prendere le distanze quando se ne ha la possibilità: il nostro colonialismo, seppur tardivo e meno geograficamente rilevante rispetto ad altri Paesi europei (su tutti il Regno Unito), è stato troppo spesso liquidato come un’avventuretta tutto sommato innocua. Cosa che non risponde al vero: l’Italia fu un Paese razzista e non lesinò in massacri. Detto questo, il dibattito che è seguito alla “battaglia del grano” è stato in gran parte il solito isterico minuetto: gli antifascisti invocano un ridicolo boicottaggio della pasta La Molisana, i “duce-duce” annunciano razzie nei supermercati di maccheroni in nome dell’identità nazionale. Ora, noi non siamo tra quelli che si spaventano appena sentono la parola Mussolini o che rifiutano la possibilità di un dibattito storico che vada oltre il “fascismo brutto e cattivo”. Al nostro Paese farebbe bene fare davvero i conti con la storia invece che fingere, come accade a ogni 25 aprile, di aver vinto la guerra ed essere stati un popolo di partigiani. Però l’idea che qualcuno, nel 2021, associ l’identità italiana col fascismo e il suo “sapore littorio” fa venire i brividi e fa pure schifo.

 

Gli studenti Dimenticati da tutti, forse perché non incidono sul Pil

“Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”. Bello, eh? Piero Calamandrei, un padre della Patria. Giusto. Bravo. Ma quando? Si era detto, per le superiori, per esempio, il 7 gennaio, con densità del 50 per cento, a rotazione. Poi alcune Regioni… Poi qualche partito… Poi di nuovo le Regioni… Insomma facciamo l’11, o forse dopo, vediamo. Che poi dipende pure da dove abiti, quale tattica di sopravvivenza ha scelto il presidente della tua Regione usando chiusure e aperture come pedine dei suoi scacchi, dagli equilibri romani di qualche palazzo o palazzetto, o segreteria, da qualche corrente, eccetera eccetera. Insomma, ’sto fatto dei sudditi e dei cittadini sì, è bello, ma magari lo rinviamo un po’, perché qui non funzionano gli autobus.

Pare infatti accertato che il problema non sia la scuola, nel senso delle lezioni in presenza (bassa percentuale di contagi, secondo l’Iss), ma il modo di portarci studenti e insegnanti che affollano – maledetti – i mezzi pubblici. È un problema ben noto, almeno dal primo lockdown, che rimane intatto, intonso, irrisolto. Eh, che ci vuoi fare, il problema sono i mezzi pubblici. Dieci mesi dopo: Eh, che ci vuoi fare, il problema sono i mezzi pubblici. Cioè ministri, “governatori”, sindaci della settima potenza mondiale (?) in dieci mesi non sono riusciti ad architettare un modo serio e sicuro per portare la gente a scuola. Mi appello alla clemenza della Corte.

Ma poi, al di là delle tattiche e delle strategie, delle aperture annunciate e rinviate, del gioco a rimpiattino tra potere centrale e potere locale, la cosa che emerge è un pensiero di fondo, sotterraneo e, se così si può dire, trasversale, inconfessato ed evidente, un retropensiero tenace: lo studente non produce reddito, non aiuta il sacro Pil, quindi nella scala delle priorità finisce ultimo. Il divario tra narrazione e realtà è, in questo caso, clamoroso, una voragine. Da un lato il coro unanime “ragazzi studiate!”, e quando protestano o fanno un corteo “Non hanno voglia di studiare!”. E poi, nei fatti, eccoli chiusi dietro collegamenti precari, con mezzi tecnici spesso inaffidabili, quando ce li hanno, nuovo (ma prevedibilissimo) discrimine di classe che si condensa nel gap tecnologico immenso tra ricchi e poveri. Ma anche di più: sospesi in un limbo di invisibilità, circonfusi da un’aura di sospetto e di colpa imminente: “Vuoi far morire il nonno solo per seguire una lezione? Che egoismo!”.

Non si può dire quali effetti avrà questa sospensione della vita sociale e culturale di qualche generazione: per valutare le ricadute psicologiche ci vorrà tempo. Qualche conteggio più tecnico, invece si potrà fare presto, perché il calcolo della dispersione scolastica è abbastanza semplice di anno in anno. L’Italia sta messa bene, grazie, ai primi posti in Europa, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che ha mollato prima del diploma è del 13,5 per cento (Eurostat, 2019), e aumenterà senza dubbio. Significa decine di migliaia di italiani ogni anno destinati a lavori a bassa specializzazione, spediti ad affollare i piani bassi del mercato del lavoro, culturalmente deboli, insomma, una massa di manovra piuttosto utile. Quando saranno non più studenti, ma garzoni, precari di ogni tipo, lavoratori interinali, a intermittenza o a chiamata, allora potranno affollare i mezzi pubblici senza problemi e senza clamori per andare a lavorare. Ditelo a Calamandrei, bella quella cosa dei cittadini e dei sudditi, ma non è il momento, eh!

 

Apertura rinviata: al Pd la scuola non interessa

L’unico messaggio che passa dal fatto che alle 0.31 del 5 gennaio il governo della Repubblica decide che il 7 gennaio non si torna a scuola è che della scuola al governo non importa nulla. È quel che arriva a ragazzi, insegnanti, famiglie: ed è l’ennesimo colpo a una istituzione allo stremo. In realtà, questa ennesima Caporetto è frutto di un duplice conflitto, e di un intollerabile avvelenamento politico. Quest’ultimo è il risultato dell’inqualificabile banditismo politico del Ghino di Tacco del nostro disgraziato tempo: un nano politico capace di far nascere un governo solo per taglieggiarlo, maramaldeggiando su un Paese messo a terra dalla pandemia. E tra le gravissime responsabilità di questo innominabile c’è anche la distrazione di un intero governo, indotto ad abbandonare le cose urgentissime di cui dovrebbe occuparsi. Come scrive Manzoni, “i provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi”.

C’è poi il doppio conflitto: quello tra “governatori” di regione e governo, e quello, interno al governo, tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico. Il primo, ben noto, è la croce principale di tutta la gestione dell’emergenza pandemica, a partire da quella sanitaria: vengono al pettine i nodi della scellerata riforma del Titolo V del 2001, e appare folle pensare ancora all’autonomia differenziata. D’altra parte, su un tema unitario e nazionale come la scuola (“tutti i cittadini sentiranno nella scuola il presidio della Nazione”, prediceva in Costituente Concetto Marchesi), il governo dovrebbe trovare la forza “di mettere in riga le regioni ricorrendo ai poteri sostitutivi che gli sono attribuiti dall’articolo 120”, come ha scritto il costituzionalista Francesco Pallante.

Poi c’è lo scontro politico, che ribalta i termini del senso comune creato ad arte in questi anni: quello che vorrebbe il Pd partito della scuola e della cultura, opposto ai barbari analfabeti pentastellati. La verità è che proprio il Pd sta cercando di procrastinare il ritorno in presenza, mentre la ministra Azzolina (con tutti i suoi evidenti limiti) sta invece lottando encomiabilmente per difendere la scuola vera, con l’appoggio costante del presidente del Consiglio. A quanto è dato sapere, quest’ultimo farsesco rinvio di due giorni scolastici è stato imposto dal capo-delegazione Dario Franceschini: il ministro della Cultura non chiede alla ministra dei Trasporti (del suo partito, e della sua corrente) di lavorare ventre a terra per risolvere l’unico vero problema della scuola (che non è nella scuola, ma nei mezzi di trasporto pubblico necessari per raggiungerla), ma chiede di non riaprire le scuole. E lo fa due giorni prima del fissato rientro.

Ora, la domanda è: ma che idea ha il Pd della scuola, un partito che chiede i voti con manifesti in cui si legge “la scuola prima di tutto”? Essa dovrebbe stare a cuore in modo speciale a una sinistra che ancora rammentasse che è a scuola che si perde o si vince la battaglia contro le diseguaglianze. È lì l’unica residua speranza di un qualche ascensore sociale: di una qualche giustizia. E più la scuola è a distanza, più è ingiusta, e diseguale. Per non parlare delle conseguenze sulle famiglie più povere, e sul lavoro femminile. Non c’è un modo più brutale e radicale per calpestare ciò che resta della propria identità di sinistra che disprezzare in questo modo la scuola.

Perché è di disprezzo che si tratta, a questo punto. Le difficoltà della situazione, i suoi rischi, sono evidenti a tutti: ma l’incertezza ondivaga a cui la scuola è abbandonata, l’evidente noncuranza del lavoro massacrante di dirigenti e insegnanti, la frustrazione delle aspettative di ragazzi e famiglie, tutto questo è davvero imperdonabile. Personalmente credo che, con questi dati di contagio, la formula migliore sia una scuola superiore in presenza al 50%, a giorni alterni. Costruendo una vera didattica online (dalla fibra nelle scuole, a una piattaforma pubblica che svincoli dai giganti del web), e permettendo a edifici scolastici, ai professori e al martoriato ed eroico personale Ata di lavorare in sicurezza. E a tutti di avere una (relativa) certezza del futuro: e penso sia alle ultime classi (su cui incombe la maturità) sia ai più piccoli (già massacrati da un anno di follia organizzativa). Ma per questo sarebbe stato, ed è ancora, necessario lavorare giorno e notte ai trasporti pubblici.

Ora, che si scelga tale strada o che se ne scelgano altre, l’importante è tornare a scuola, e smetterla con questa grottesca ridda di contrordini dell’ultimo minuto, provenienti da un quartier generale dilaniato da risibili lotte di potere. Signori del governo, la scuola vi guarda: i vostri figli vi guardano. E lo spettacolo è indecente. Davvero.

 

Mail Box

Voto dem, ma sosterrò
Conte fino alla fine

Sono una elettrice del Pd, perché mio nonno e mio padre erano comunisti. Anche io sono stata da bambina un’attivista nelle famose “Case del popolo”. Sono nata in Emilia, provincia di Modena, e sono molto orgogliosa della storia della mia terra e dei miei familiari. Ma ora non mi riconosco più in questa sinistra, voglio al governo gente con un minimo di onestà e voglia di fare qualcosa davvero. Quindi, se cadrà questo governo sarò disposta a sostenere Conte. Voglio dargli fiducia e voglio che arrivi a fine legislatura. Spero che molti elettori Pd come me possano riflettere e cambiare la loro scelta.

Sandra Bulgarelli

 

Come si fa a credere
ai giornali dei “potenti”?

Direttore Travaglio, sto leggendo Bugiardi senza gloria e mi chiedo: come può un giornalista capire e scrivere ciò che lei scrive e amare ancora il suo lavoro? Come non essere nauseato da ciò che la grande stampa ci propina e non lasciare tutto e andarsene? Crede che si arriverà mai ad avere notizie sicure e veritiere? Come mai esistono ancora lettori che cadono nell’inganno delle notizie fuorvianti e scritte per compiacere il padrone di turno? Sono contento di leggere il Fatto perché date molto fastidio ai potenti: questo è un bene.

Ermanno Migliarini

Caro Ermanno, soltanto scrivendo la verità si può amare questo mestiere.

M. Trav.

 

Il vaccino cubano pare
una splendida notizia

Ho letto su un’agenzia di stampa un articolo sulla ricerca e sviluppo dei vaccini anti-Covid a Cuba (repubblica socialista!). Si diceva che il Paese (dove la ricerca è solo pubblica) abbia sviluppato già due vaccini (al cui sviluppo ha collaborato un ricercatore italiano, Fabrizio Chiodo) e che oltreché alla popolazione cubana verranno distribuiti gratuitamente ai Paesi del terzo mondo in accordo con l’Oms. Se è tutto vero (come mi auguro), mi pare che si tratti di un’eccellente notizia anche per noi lettori del Fatto, o no? Vi prego di confermare la notizia e, se non ne avete parlato (possibile mi sia sfuggito), spiegarmi perché non ne avete scritto: una svista?

Raffaele Fabbrocino

Gentile Raffaele, abbiamo letto anche noi degli studi cubani per i vaccini, che sono in fase avanzata e rappresentano, secondo il “New York Times”, ben l’8 per cento dei vaccini sperimentati in tutto il mondo. Ci auguriamo come lei che funzionino e siamo certi che Cuba farà il possibile anche per aiutare altri Paesi.

A. Man.

 

Come disinnescare
la minaccia di Renzi

Mi faccio e vi faccio tre domande, tralasciando l’assurdità della crisi di governo e il contesto drammatico in cui si consuma. 1) L’azione di Renzi è solo dettata da invidia e narcisismo, oppure cerca di ricattare per “risolvere-lenire” i suoi guai giudiziari e di qualche amico di cordata? Insomma: il metodo berlusconiano fa proseliti? 2) Perché il Pd non fa un appello agli italiani, in particolar modo al suo elettorato (che è anche quello derubato del suo voto da parte di Renzi e i suoi parlamentari) per disinnescare definitivamente le follie di Renzi? Perché non mobilita i territori dove questi signori sono stati eletti, per chiamarli con nome e cognome, isolarli e svergognarli dove vivono? 3) Perché il Fatto non si fa promotore di una petizione nazionale per chiamare a raccolta tutti i “costruttori” (alla Mattarella) per sostenere il governo oggi e per considerare un fronte progressista nell’immediato futuro?

Enzo Cecchini

 

Caro Enzo, la strada maestra è che quell’appello lo rivolga Conte nella sede della nostra democrazia: il Parlamento.

M. Trav.

 

Il mio supporto in difesa
della stampa libera

Vinco la mia umiltà per la coscienza, ormai rara, di appartenere a una “comunità”, quella del Fatto Quotidiano (comunità, non partito né movimento) che ci accomuna, ora, in difesa del diritto/dovere di informare i lettori. Aderisco, senza dubbi, alla partecipazione alle spese legali che doveste sostenere; sento che questo è per me un obbligo in qualche modo rivoluzionario nell’attuale contesto sociopolitico. C’è chi paga per indirizzare l’informazione, io pagherò perché l’informazione sia libera. Auguri a voi e al nostro giornale.

Loris Carett

 

Una manifestazione
per il premier

Siamo due fedeli lettrici del Fatto. Anche noi vi diciamo “grazie di esistere” e grazie per la salutare, politicamente parlando, boccata di ossigeno che ci fate respirare con le vostre analisi e il vostro puntuale racconto dei fatti. Con in più̀ quel tocco di ironia che ci fa sorridere anche in questa tragicommedia tipicamente italiana. Oltre il bellissimo sogno di Antonio Padellaro, anche noi avremmo un sogno. Una manifestazione oceanica a sostegno del Presidente Conte cui riconosciamo autonomia dai poteri forti, equilibrio, insospettata competenza e tanta pazienza. Forse troppa.

Violetta Cesaroni e Dede Tradardi

I tassi giornalieri mettono a nudo le lacune di alcune Regioni

Cari Bisbiglia & Sparaciari, ho letto il vostro dettagliato articolo sulla percentuale di vaccinati per ciascuna regione. Cortesemente, nel prossimo articolo sul medesimo argomento, aggiungete lo stesso dato a partire dal giorno di disponibilità dei vaccini (vaccinati/giorno)? Così verrà levato qualunque alibi alle Regioni… Io vi scrivo dalla Sardegna, che purtroppo è meno capace di altre nel gestire questa gigantesca emergenza sanitaria. Complimenti a tutta la redazione per l’ottimo lavoro. Grazie.

Giovanni Porcu

Gentile Giovanni, a parte le primissime (e pochissime) dosi del V-Day del 27 dicembre, sia la Lombardia sia il Lazio hanno ricevuto la prima vera fornitura settimanale del vaccino anti-Covid dalla Pfizer il 30 dicembre, rispettivamente 80.595 e 45.805 dosi. Come già indicato nell’articolo del 3 gennaio, terminati i primi tre giorni pieni di disponibilità del farmaco, la Lombardia aveva inoculato soltanto 2.416 dosi, dunque il 3% di quanto arrivato, contro il Lazio che si era già portato a quota 11.566, il 25,3% del totale. I dati riferibili alla giornata del 4 gennaio, pubblicati dal ministero della Salute, indicavano come la Lombardia avesse raggiunto quota 11.302 (quanto il Lazio il 2 gennaio), pari al 14% della disponibilità, mentre il Lazio aveva completato le inoculazioni con 29.678 dosi (64,8%), tenendo conto gli uffici regionali romani hanno già spiegato che circa un terzo del farmaco verrà conservato per i richiami. Essendo stata citata la Sardegna, i numeri ufficiali spiegano che il 31 dicembre – dunque con un giorno di ritardo, per problemi logistici – sono state consegnate 12.855 dosi, e vaccinate, anella giornata del 4 gennaio, 965 persone (pari al 7,5%), di cui 576 donne e 389 uomini, suddivisi per 937 operatori sanitari, 28 operatori non sanitari e ancora nessun ospite delle case di riposo. Il 4 gennaio sono arrivate nell’isola altre 3.765 dosi, altre 16.380 giungeranno l’11 gennaio, per un totale di 33.000 dosi previste. Gli stessi dati nazionali indicano come dal 31 al 4 gennaio siano state somministrate 191.011 dosi di vaccino sulle 479.700 già consegnate (il 39,8%): sopra il 50% c’erano solo Lazio, Toscana (56%) e Veneto (55,6%).

Vincenzo Bisbiglia e Andrea Sparaciari