L’ex socio di Renzi sr.: “Voglio salvare Matteo dal massacro”

Tra la fine del 2017 e il 2018, Mariano Massone è un uomo amareggiato: nel 2016 a Genova ha patteggiato 2 anni e 2 mesi per la bancarotta di Chil Post, azienda gestita fino al 2010 da Tiziano Renzi, ma è convinto di aver pagato anche per altri. Ha problemi familiari ed economici: “Domani va all’asta la casa dove vivono i miei, è da tre giorni che non ho un euro in tasca”. Di tutto questo si lamenta con l’ex socio, Babbo Renzi, al quale rinfaccia però di avergli “fatto terra bruciata”. Un comportamento che Massone collega al tentativo di non creare imbarazzi alla carriera politica del figlio Matteo (estraneo a queste indagini): “Voglio abbastanza bene al mio Paese, per cui, se nel mio piccolo contribuisco a non far massacrare ulteriormente il ragazzo credo sia meglio per tutti”.

La mail è datata 20 febbraio 2018. Mancano meno di due settimane alle elezioni politiche del 4 marzo. Il Pd ottiene il 18% e Matteo Renzi poco dopo rassegnerà le dimissioni dalla segreteria del partito. La sua ascesa ritorna spesso negli scambi tra il padre Tiziano e l’ex socio Massone, che la ritiene parte del “contesto” che lo avrebbe trasformato in un appestato. A un certo punto però Massone scrive a Renzi sr.: “Trovo veramente incomprensibile questa abissale lontananza lavorativa e impossibilità nel fare qualcosa insieme, senonché, entrando nel reparto malattie infettive scopro di essere stramaledettamente infetto e aver infettato ciò che mi circonda. Ora non so a quanti e quali tuoi parenti stretti o strettissimi io faccia più o meno vomitare, di certo non ne sono felice, anzi sono molto dispiaciuto, ma anche qui non possiamo mica nasconderci dietro un dito, il mio augurio è quello di non metterti più di tanto in imbarazzo nel perorare la mia causa e sperare che il tempo aiuti a vedere con il giusto senso critico e nel giusto contesto le passate vicende da parte di chi ti sta vicino”.

Questi scritti fanno parte di un’integrazione di indagine della Procura di Firenze, agli atti del procedimento per false fatture e bancarotta di tre cooperative che vede imputati anche i genitori del leader di Italia Viva, ritenuti dai pm in tempi passati amministratori di fatto delle coop. I legali dei Renzi si erano opposti all’acquisizione del materiale, ma il giudice Fabio Gugliotta ha dato ragione ai pm. Tra i documenti depositati a processo c’è anche lo sfogo di Tiziano Renzi indirizzato al figlio. In questa missiva (rinvenuta nel pc di Tiziano e non si sa se mai spedita) che risalirebbe al 2018, Renzi senior parla anche di Massone: “È una persona che a Genova ha accettato il patteggiamento senza lottare (…) magari coinvolgendomi, sapendo che non aveva la condizionale. Io ho un debito di riconoscenza nei suoi confronti a prescindere”. Tiziano Renzi nel capoluogo ligure era stato indagato e poi archiviato, su richiesta dei pm, nell’indagine sul fallimento della Chil: la contestazione – decaduta – era di essersi liberato dell’azienda, di averla spogliata degli asset (confluiti in una nuova società) e di aver rifilato i debiti alla bad company, rilevata da Massone, e fallita dopo tre anni. Per il pm Marco Airoldi, Renzi sr. però aveva tagliato i ponti con la società.

In un’altra lettera, stavolta del 28 novembre del 2017, Massone ritorna su quei fatti: “Ho deciso di mandartela per mail, intanto ci sono scritte cose che solo io e te possiamo comprendere, non temere, ho finito di farmi prendere in giro da Amadori (Giacomo, giornalista de La Verità che si è occupato della vicenda, ndr) – scrive – Non entro approfonditamente nella vicenda Chil Post perché io posso capire quanto ti abbia fatto male, ma spero tu sia ben consapevole che chi ha fatto fallire Chil Post, a Genova (purtroppo per me e meno male per te, ma sono contento così) non è mai stato nemmeno indagato e in questi anni mi hai ferito/umiliato/asfaltato/sminuzzato quando solo te lo sentivo nominare”. Massone non fa il nome del soggetto che, a sua detta, sarebbe responsabile del fallimento della Chil Post e non è mai stato indagato.

Successivamente Massone è stato coinvolto anche nell’indagine fiorentina sulla coop Marmodiv, vicenda per la quale ha patteggiato (i genitori di Renzi sono a processo in primo grado). Anche della Marmordim parla nella mail a Tiziano del 20 febbraio 2018 con oggetto: “Io mi fido di te”. “In merito alla Marmodiv – scrive Massone – credo di averti portato alla soluzione più neutra possibile, lontana da tutti i coinvolgimenti/rapporti che tu devi abbandonare. L’accoppiata siculo-cuneese (che è l’alter ego del primo) è pericolosissima, fidati, in questo caso tu di me”.

Vita, miracoli e domiciliari: esce un film per riabilitare Formigoni

L’uomo non difetta d’ego, e questo è noto. Ma serviva fantasia per immaginare che Roberto Formigoni arrivasse a interpretare un documentario su se stesso, presentandolo poi al cinema durante le ore di permesso dagli arresti domiciliari. E invece così è, in barba al senso della realtà di chi non sogna in grande. L’opera si chiama Roberto F., dura 52 minuti e sarà proiettata per la prima volta alla Cineteca di Milano il 2 marzo, con la preziosa introduzione del protagonista.

Il film è un atto di riabilitazione che sfocia nell’apologia, senza neanche porsi il problema di risultare esagerato. I guai giudiziari di Formigoni, lungi dal costituire un problema, sono semmai la molla per far partire il revisionismo, come chiarisce subito Pino Farinotti, ideatore del documentario: “Formigoni sta scontando una condanna a 5 anni e 10 mesi per corruzione, ma con la prova che sta dando di sé la giustizia forse è doveroso ri-raccontare la sua storia”.

E allora eccolo, il Celeste, ritratto in scene di vita quotidiana (mentre si pettina, mentre si prepara il caffè, mentre legge il giornale) e poi in mezzo alla città, in un racconto che alterna la sua voce a quella di commossi testimoni della sua magnificenza. Formigoni non teme accuse di falsa modestia: “La mia politica ha avuto forte valenza sociale. Mi sono molto preoccupato dei meno fortunati, ho pensato molto alle famiglie numerose, a quelle con anziani o con un reddito inferiore alla soglia di sussistenza”. Com’è umano lei, insomma: “Sono stati anni di grande riforme, prima fra tutte quella sanitaria. Abbiamo dato una botta d’efficienza agli ospedali allargando a poche rinomatissime strutture private”.

Ma ci sono anche imprese eroiche. Come quella volta che “Saddam aveva preso in ostaggio centinaia di italiani in Iraq” dopo l’invasione del Kuwait e allora entrò in azione Formigoni, che qui la racconta come Verdone tra le liane e i pirañas in Troppo forte: “L’Italia non faceva niente e allora decisi di muovermi personalmente. Andai in Iraq per incontrare Saddam. Lui tenne per tre ore la pistola sul tavolo. Gli chiesi un gesto di pace. Nel pomeriggio mi richiamarono e dissero di aver accettato la liberazione degli italiani”.

Formigoni, da attore consumato, può contare pure su valide spalle. Il già citato Farinotti ricorda come la Lombardia, durante il suo Regno, “si sia confermata leader nazionale di efficienza, operosità e accoglienza”. Cristina Cattaneo, già funzionaria della Regione, rammenta il presidente come uomo “di grandissimo carisma”, “aveva una voce forte e chiara”. Giancarla Neva Sbrissa, anche lei dirigente regionale, esonda quasi nel metafisico: “Aveva una sorta di innata potenza”. Andrée Ruth Shammah, regista e direttrice artistica, sintetizza: “Ci dava l’orgoglio di essere lombardi”. Colto da fantozziane allucinazioni competitive, Formigoni decide allora di sparare alto: “Non ho mai ricevuto un diniego, tutti i capi di Stato volevano incontrare Formigoni”.

È con queste premesse che il documentario, negli ultimi 5 minuti, torna sulla condanna del nostro eroe. E lo fa con un collegio difensivo di prim’ordine. Vittorio Feltri definisce “disgustoso” quel che gli è successo. Piero Sansonetti, direttore del Riformista per mestiere e giurista per hobby, assicura che “Formigoni è stato condannato, ma non ci sono prove”. L’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini giura “di aver letto e riletto la sentenza senza trovare un fatto che giustifichi la condanna”.

Farinotti li lascia parlare e allarga le braccia sornione: “Non potevo mica censurarli”. D’altra parte che il suo nome è passato per qualche scandalo, essendo legato a doppio nodo al caso della Lombardia Film Commission, quel vorticoso giro di denaro per l’acquisto del capannone da 800 mila euro per il quale sono stati condannati i due commercialisti della Lega Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni (5 anni e 4 mesi il primo, 4 anni e 4 mesi il secondo). Farinotti della Lfc è stato il presidente (a titolo gratuito) a partire dall’estate 2018: fu lui che materialmente siglò il rogito con il quale Lfc comprava – e pagava per intero, in anticipo – la struttura di Cormano. E molto cinematografico fu anche il modo in cui ottenne l’incarico di presidente, come ha raccontato lo stesso Farinotti: “Sono in pasticceria e sto leggendo un articolo su Salvini. Alzo gli occhi e me lo trovo davanti. Gli dico: ‘Ma sono su Scherzi a parte?’. E lui: ‘Di uno come te avremmo bisogno come il pane’”. Oggi Giovanni De Santis, proprietario della Dna distribuzione, rivendica: “Siamo stati molto coraggiosi ad affidare Roberto F. a Farinotti, perché potrebbe dare adito a critiche. Ma ci siamo abituati”.

E figurarsi se non ci è abituato il Celeste, che tra un paio di settimane si presenterà alla Cineteca di Milano – a sua volta già coperta di insulti sui social – per presentare il film sulla sua vita col lusso di aver già fatto la tara ai difetti. “Continuerò a fare politica, non ci si può rinunciare”, è la minaccia di Formigoni negli ultimi secondi del documentario. Chissà quanto altro materiale per il sequel di Roberto F.

Vernice e scontri Torino, blitz a Confindustria

Un altro venerdì di tensioni tra le forze dell’ordine e gli studenti che ieri, in 200mila secondo gli organizzatori, dietro lo slogan “No alla scuola dei padroni” sono scesi in 40 piazze contro il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, l’Alternanza scuola-lavoro e gli stage nelle aziende. Non sono mancati scontri con polizia e carabinieri, in primis a Torino dove i ragazzi hanno preso di mira la sede di Confindustria. Dopo aver lanciato uova di vernice contro la palazzina di via Vela, alcuni giovani hanno forzato il cancello di ingresso e hanno tentato di entrare negli uffici, ma sono stati respinti a manganellate. Risultato: 7 feriti tra le forze dell’ordine, di cui 6 carabinieri, tra cui un ufficiale, e un funzionario di polizia. Una ventina di giovani, identificati come appartenenti all’area dei centri sociali, sono stati individuati dalla Digos e denunciati per violenza e lesioni.

A sostenere che siano stati i ragazzi a prendere di mira la sede degli industriali è invece il coordinatore nazionale dell’Unione studenti, Luca Redolfi, che con il Fronte della Gioventù Comunista ha organizzato la protesta: “I colleghi di Torino hanno individuato la sede di Confindustria per mettere in atto un’azione simbolica. Non avevamo l’obiettivo di entrare negli uffici, abbiamo forzato il cancello solo per fare un atto dimostrativo”. Redolfi non era presente alla manifestazione, ma il coordinatore cittadino dell’Uds, Alessandro Finetto, dà la stessa versione: “Sono stati gli studenti, ma non quelli del nostro movimento. Non sono in contatto con chi era davanti ai cancelli. Non so esattamente chi fossero. Pare che ci sia stata una ferita anche tra noi”. Per il coordinatore nazionale si è trattato, comunque, di un messaggio chiaro: “Come Confindustria entra ogni giorno nelle nostre scuole, noi abbiamo messo il piede nella loro casa”.

A Milano, il clima era altrettanto caldo. I ragazzi hanno chiesto le dimissioni del ministro dell’Istruzione e della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, contro il modello di Alternanza scuola-lavoro, dopo le morti di Lorenzo Parelli (nella foto) a Udine e Giuseppe Lenoci ad Ancona ma senza scontri: la manifestazione è partita al mattino in pieno centro e attorno alle 12,30 un gruppo di contestatori ha bloccato corso Buenos Aires provocando rallentamenti e problemi alla circolazione per diversi minuti. La Digos è intervenuta per spostarli in un punto diverso, consentendo così di regolarizzare il traffico.

A Roma, si è registrato qualche problema in più. Gli studenti hanno lanciato uova e oggetti contro carabinieri e polizia. Poi, bloccati in via Frangipane, vicino al provveditorato, hanno ricominciato ad avanzare e nel vicolo di via del Buonconsiglio hanno tentato di sfondare la barriera degli agenti.

Anche Napoli ha dovuto fare i conti con un clima rovente ma senza incidenti. La manifestazione è stata organizzata da Uds, dal Fronte gioventù comunista, dal coordinamento studenti Flegrei e dal coordinamento Kaos. “Siamo partiti – spiega Francesco Ferorelli, coordinatore Uds del capoluogo – da piazza Garibaldi, siamo andati davanti all’ufficio scolastico regionale e alcuni manifestanti hanno macchiato la porta della sede dell’Usr con le mani dipinte di rosso. Siamo convinti che non servono più incontri, tavoli istituzionali. Fanno solo finta di ascoltarci”. E in tanti sono scesi in piazza anche a Cosenza: quasi duemila tra studenti, prof, genitori e attivisti hanno manifestato per le strade della città. Un corteo al fianco dei ragazzi del “Valentini-Majorana” che hanno denunciato presunte molestie da parte di un docente. La prossima settimana, intanto, la Rete degli studenti ha lanciato una mobilitazione permanente non solo a scuola ma anche nei luoghi di lavoro: lunedì si parte ad Ancona.

Molestie e morti: tutti i perché della rivolta

“Vieni anche tu con me, che se vado da sola questo mi si scopa”: è il messaggio che nel 2016 una studentessa della provincia di Roma invia alla sua amica. Le chiede di accompagnarla all’appuntamento che il suo professore ha organizzato su una chat intitolata “Stocazzo”. Lì arriva di tutto: battute, doppi sensi, frasi sconvenienti. Un giorno le invita “a prendere un caffè” che è una formula in codice per portarle in auto in una zona appartata. Una volta lì l’uomo chiede a una delle due di spogliarsi, la palpa, la bacia. Sui sedili posteriori, l’amica è impietrita. La chiameremo Isabella. È coraggiosa, Isabella, perché riuscirà a denunciare tutto a “La caramella buona”, onlus che si occupa di pedofilia e molestie su minori. Lì si metterà in moto un lento percorso che porterà, solo pochi mesi fa, alla condanna in primo grado del docente, ma anche all’evidenza di molti ingranaggi inceppati, di una tarda e pericolosa reattività quando si tratta di affrontare casi del genere. Che sono tanti, ogni anno, così come i processi e i procedimenti disciplinari. Vanno valutati uno per uno, ogni storia è a sé e a volte terminano anche in un nulla di fatto. Ma il tema è così delicato che sbagliare pure solo una volta può creare danni irreparabili.

Ed è anche per storie come questa che ieri i ragazzi di tutta Italia sono scesi in piazza a protestare, a partire da Cosenza. “Non chiediamo più diritti, ma il minimo sindacale per mettere piede dentro una scuola”: in piazza dei Bruzi Fausto Cirillo, 18 anni, studente del 5° anno protesta insieme ai suoi compagni. Dal 3 febbraio scorso hanno serrato il cancello del liceo “Valentini-Majorana” di Castrolibero, una cittadina della provincia: “Se non c’è la sicurezza di non essere molestati e non subire abusi, dentro una scuola non si può mettere piede”, scandisce dopo quasi tre settimane di occupazione.

La storia del “Valentini Majorana” è la più recente: tre ragazze hanno denunciato il professore di matematica dopo che una ex studentessa ha lanciato il profilo Instagram “Call Out Valentini-Majorana” che raccoglie testimonianze anonime. Tra frasi e atteggiamenti sconvenienti, l’uomo avrebbe anche chiesto l’invio di foto del seno in cambio della sufficienza. La procura lo ha iscritto nel registro degli indagati, l’ufficio scolastico regionale ha inviato un ispettore, il ministero altri due e l’accusa generale sembra essere che la preside, lì da 17 anni, sapesse e non abbia fatto abbastanza. Così come alcuni dei 200 docenti. Lunedì i ragazzi torneranno in classe: “Abbiamo vinto una battaglia: far partire le indagini del ministero su prof e preside, ci sono delle mail che dimostrano che la Maletta sapeva, ha solo spostato di plesso il molestatore e per anni ha fatto finta di non vedere”.

Abbiamo allora provato a capire che succede quando in una scuola arriva una segnalazione di molestia. L’iter è molto complesso. C’è una parte giudiziaria, che si avvia quando la procura viene a conoscenza di una notizia di reato e c’è il procedimento amministrativo, che riguarda la scuola, gli uffici regionali e nei casi più difficili il ministero. Vengono inviati degli ispettori, si raccolgono informazioni, si redige una relazione che potrebbe dare il via a un procedimento disciplinare, una sorta di processo parallelo con avvisi alle controparti, difesa e infine le eventuali sanzioni, che vanno dalla sospensione al licenziamento. Il problema è ciò che accade nel frattempo.

“Una delle cose che ci ha sconvolto nel caso delle molestie in provincia di Roma – spiega Anna Maria Pilozzi, vice presidente de “La Caramella Buona” che nel caso di Isabella e la sua amica si è costituita parte civile nel processo – è che nonostante avessimo inviato una segnalazione formale al preside e facessimo uscire comunicati stampa di continuo, non accadeva nulla. Il professore rimaneva a scuola e in quella classe”. Quando Isabella trova il coraggio di andare dalle forze dell’ordine insieme a Pilozzi, scopre oltretutto che erano già state avviate delle indagini dopo una segnalazione anonima alla questura. A scuola, invece, prende il via una seconda fase difficilissima: il professore fa pressione sulle ragazze che intanto vengono ascoltate dalle forze dell’ordine e su Isabella in particolare: la ritiene colpevole, percepisce che è stata lei a parlare per prima, la situazione si fa pesante. Si avvicina la maturità. Le alunne hanno paura di ritorsioni, ma arrivano anche altre testimonianze. Emerge che il prof importunava anche una ragazza con problemi di peso. “Mi diceva che ero bella, mi faceva sentire bene, unica” racconterà poi lei. La scuola, però, prende posizione solo quando arriva il rinvio a giudizio. Solo allora, dopo 5 mesi di terrore, l’uomo viene allontanato. Nel 2021 sarà condannato a 3 anni e 6 mesi in primo grado per violenza sessuale. “Non è mai arrivata una parola dal dirigente né prima, né durante, né dopo – spiega Pilozzi –. Spesso le ragazze non sanno a chi rivolgersi e con chi parlare: temono i genitori e le forze dell’ordine. Noi cerchiamo di fare da raccordo e le accompagniamo in questo percorso”. Il dirigente scolastico, oltretutto, non era neanche titolare: da reggente, gestiva più scuole contemporaneamente e questo non aiuta ad avere il polso della situazione. I presidi possono infatti agire prima rispetto all’iter giudiziario: possono spostare i docenti per incompatibilità ambientale o, come misura cautelare, possono sospenderli per un periodo. E nel caso dovessero ravvisare un reato devono riferire alle forze dell’ordine. “È importante garantire la presunzione di innocenza, ma bisogna riuscire a calibrarla con la presunzione di colpevolezza e la tutela dei minori – conclude Pilozzi –. Anche formando i docenti e il personale, che devono imparare a gestire queste situazioni”.

È il prossimo obiettivo dei ragazzi di Castrolibero, dopo che il professore è stato almeno temporaneamente allontanato e sono state avviate le pratiche per la sostituzione della preside: “Ora – conclude Fausto –, inizia la seconda battaglia: i centri antiviolenza non fanno corsi per studenti ma soprattutto per insegnanti e dirigenti, e non c’è alcun sostegno psicologico per le vittime. Li abbiamo chiesti al provveditorato”.

Ci sono poi anche i casi in cui, nonostante si sia percorsa la giusta strada amministrativa e giudiziaria, nulla va come dovrebbe. In provincia di Bari un insegnante è stato arrestato dopo un’indagine per violenza sessuale aggravata per aver molestato e ricattato gli studenti. Eppure, tra il 2006 e il 2009, quando insegnava in provincia di Bergamo, aveva avuto due condanne per un totale di 2 anni e 10 mesi di carcere, diventate definitive a ottobre 2019. Ma soprattutto aveva avuto come pena accessoria l’interdizione perpetua dalle scuole e da ogni ufficio o servizio in strutture frequentate da minori. E invece dal 2019, il 50enne – stando a quanto contestato dalla Procura di Potenza – avrebbe ottenuto nuovi incarichi come supplente: dal 2017 al 2020 nel potentino, tra il 2020 e il 2021 in provincia di Bari. Solo allora è stato licenziato per i suoi precedenti penali. Ma, a quanto pare, era già troppo tardi.

Prof in sciopero della fame contro il Super green pass

“Ieri giravo per Roma con un piccolo cartello ‘sciopero della fame – no discriminazione’ e mi ha fermato ben due volte la polizia per identificarmi. Per loro era una manifestazione non autorizzata anche se ero da solo con la mia compagna. Mi hanno chiesto: ‘Contro cosa protesti?’. Ho spiegato e loro: ‘Ma allora sei no green pass’. E io ho detto no, quello è uno slogan, un’etichetta dei giornalisti, io sono contro la discriminazione che si chiami green pass o quarantena diversificata nelle scuole. Il green pass europeo non è una discriminazione, facilita la circolazione”, dice Carlo Cuppini, 41 anni, scrittore “per diletto”, redattore di Marsilio Editori per la saggistica e responsabile del bookshop di Palazzo Strozzi a Firenze.

Con Sergio Porta, professore di Urban design all’Università di Glasgow in Scozia, Cuppini ha promosso uno sciopero della fame “contro la discriminazione e la segregazione” a cui aderiscono già il medico nutrizionista Antonella Marsilia e la pedagogista Licia Coppo. Altri seguiranno, ma “ci sono decine di persone che digiunano in Italia, alcuni sono anche stati male”. Racconta: “Faremo a staffetta, non so se reggerò oltre domenica. Da lunedì siamo al quinto giorno, le energie vacillano, la vista si offusca… Nessuno vuole immolarsi ma dare un segnale forte sì”. A Roma Cuppini ha incontrato Marco Bella, deputato M5S: “Si è interessato, era disponibile, dice che le cose cambieranno ma anche loro hanno votato le misure”.

Il loro appello quasi non parla dei vaccini. “Sergio e io – spiega Cuppini – siamo vaccinati, altri non lo so, non è così importante. Protestiamo contro le esclusioni dalla vita sociale, culturale e lavorativa. Se ci fosse l’obbligo come in Austria non sarei d’accordo ma non farei lo sciopero della fame. Qui si sanziona chi disattende non un obbligo ma una raccomandazione”. Soprattutto contesta l’esclusione dei giovanissimi: “Cinquecentomila adolescenti – dice – sono in una situazione peggiore di quella di Rosa Parks (la donna simbolo della lotta contro la segregazione razziale negli Usa degli anni 50 del secolo scorso, ndr) che un posto sull’autobus ce l’aveva ancorché separato da quelli dei bianchi. Abbiamo ragazzini in psichiatria, che prendono psicofarmaci. Coinvolgere i minorenni viola le convenzioni internazionali per i diritti dell’infanzia, alcuni Garanti regionali l’hanno detto. Abbiamo deciso il digiuno pensando al 12enne che non può continuare la sua attività sportiva, al 15-16 o 17enne che non può andare in pizzeria con gli amici, in un teatro, in un cinema, in un museo, neanche con un tampone negativo, in genere per una scelta dei genitori. Salvo parlare del 15enne che chiama il Telefono azzurro per farsi vaccinare. Vuole la libertà o vuole vaccinarsi? È complesso…”.

I dati sull’aumento dei casi gravi in età pediatrica non gli hanno fatto cambiare idea: “Sono soprattutto piccolissimi”. E la “minore circolazione tra i vaccinati – osserva Cuppini – non giustifica scientificamente una separazione nell’accesso all’istruzione e alla socialità”, cioè le quarantene scolastiche differenziate per vaccinati e non. Non ha vaccinato i figli, che hanno meno di 12 anni e quindi non sono tenuti al pass: “Hanno fatto tutti i vaccini anche non obbligatori. Su questo invece abbiamo deciso di aspettare leggendo i media internazionali e le posizioni di società pediatriche come quella francese o quelle scandinave”. Cuppini non è del tutto insensibile all’argomento che il green pass ha fatto aumentare le vaccinazioni e contenuto almeno un po’ la circolazione del virus in un Paese dove il sistema sanitario, al crescere dei casi gravi, va in crisi prima che altrove. Ma non sopporta che fuori dal coro non si possa nemmeno parlare: “Un blocco, una propaganda insopportabile”.

C’è Speranza: “15 milioni per le famiglie di medici morti”

Dopo le polemiche per la bocciatura in Senato di un emendamento in sede di conversione del decreto-legge 24 dicembre 2021 che lo richiedeva, il Consiglio dei ministri ha approvato un fondo per gli indennizzi alle famiglie dei medici e del personale sanitario morti per Covid-19 di 15 milioni di euro. L’indennizzo riguarda i medici non convenzionati Inail, ovvero non dipendenti dal Ssn, oltre la metà dei medici deceduti, e il personale sanitario: “È un giusto riconoscimento – ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza – che l’Italia deve a chi ha svolto il proprio lavoro per tutelare la salute di tutti noi”.

Il via libera “sana una grande ingiustizia – commenta il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo) Filippo Anelli – È una questione di giustizia, un fatto etico prima ancora che economico. Ringraziamo il Ministro della Salute Roberto Speranza e la Ministra delle Pari Opportunità Elena Bonetti che – facendosi interpreti della richiesta avanzata dalla Fnomceo, hanno preso a cuore la causa, e il Governo tutto”.

Sono 370 i medici e gli odontoiatri morti durante la pandemia: di questi, 216 erano medici di famiglia, del 118, guardie mediche, specialisti ambulatoriali, liberi professionisti; 30 gli Odontoiatri a cui si aggiungono 90 infermieri.

“Si viene così a sanare una grave ingiustizia – ancora Anelli – che vedeva abbandonate a se stesse oltre 250 famiglie, che al dolore per la perdita aggiungevano la tribolazione economica”.

Mentre infatti i medici dipendenti hanno copertura Inail, questo non vale per i liberi professionisti e per medici convenzionati, che costituiscono oltre la metà dei medici scomparsi. Nessun risarcimento da parte dello Stato è andato quindi a queste famiglie.

Anche Silvestro Scotti segretario generale della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale) commenta con soddisfazione la decisione di oggi: “È un segnale importante di sensibilità politica – commenta – la dimostrazione che attraverso un dialogo serio e non urlato è possibile raggiungere obiettivi importanti e, in questo caso, anche porre rimedio a una grave ingiustizia”.

“Il sorteggio non deve farci paura, sceglie solo i candidati per il Csm”

Mentre gli emendamenti alla riforma del Csm, firmati dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, devono ancora approdare in commissione Giustizia della Camera, c’è un gruppo di magistrati che continua la sua battaglia affinché i candidati al Consiglio passino, come primo step, per un sorteggio “temperato”, che è già stato fatto nello studio di un notaio di Roma.

A organizzarlo “AltraProposta2022”, di cui fa parte anche Articolo 101, l’unico gruppo presente nel “parlamentino” dell’Anm a sostenere il sorteggio, mentre tutti gli altri vorrebbero un sistema proporzionale. Tutti d’accordo, o quasi, però, nel bocciare il sistema maggioritario, sia pure bi-nominale e con correttivi proporzionali, proposto dalla ministra.

Il sorteggio lo racconta Franca Amadori, consigliera della Corte d’Appello di Roma, presente nello studio del notaio: “In realtà avevamo chiesto all’Anm la saletta della sede centrale di piazza Cavour, e avevamo avuto l’autorizzazione. Ma lo stesso giorno del sorteggio, l’8 febbraio, la giunta Anm l’ha revocata (per la presenza di Radio Radicale, non indicata nella richiesta di permesso, ndr) e così siamo andati dal notaio”.

Come avete sorteggiato?

Abbiamo caricato sul computer del notaio il file Excel contenente tutti i nominativi dei magistrati eleggibili, 8mila circa, escluso chi aveva espressamente reso noto che non voleva partecipare, dopo di che è stato premuto il tasto “sorteggio”, che in realtà è un comando che si dà alla piattaforma per mettere in ordine casuale i nominativi inseriti. Un altro tasto, poi, ha bloccato il risultato, che è stato cristallizzato in un file a parte, che è tra gli allegati del verbale digitale del notaio.

Numero dei sorteggiati?

Si parla di multipli di 4: quindi 40 sorteggiati tra i giudici di merito; 16 tra i pubblici ministeri; 8 tra i giudici di legittimità in Cassazione. Tutti per metà effettivi e per metà supplenti.

La selezione finale come avviene?

Ci saranno le primarie con voto telematico segreto, il più sicuro. E dalle primarie usciranno i candidati da eleggere, il numero sarà sicuramente superiore ai posti da ricoprire, mentre le correnti hanno sempre candidato tanti magistrati quanti sono i posti disponibili, così di fatto sterilizzando la possibilità di scelta da parte degli elettori.

Nel 2014 avevate già fatto il sorteggio temperato. Neppure uno fu eletto…

La possibilità di farsi conoscere e quindi di essere votati da tanti colleghi in giro per l’Italia fu estremamente limitata, noi non siamo una corrente e non abbiamo un fondo cassa. Ma la cosa importante che vogliamo far capire è che il sorteggio non è, come qualcuno vuol far credere, una sorta di lotteria per cui chiunque venga estratto diventa consigliere del Csm. Rimane sempre l’ineludibile necessità che i candidati vengano votati dagli elettori, dai magistrati e di conseguenza il sorteggio ha un’unica incidenza: rendere indipendenti i candidati da qualunque assetto di potere, così da consentire all’elettorato di selezionare colleghi che mai le correnti avrebbero selezionato.

Che modello sarebbe quello delle correnti, secondo lei?

È diventato il modello di consigliere che sposta il vero luogo della decisione, non più nel Csm, ma nel ristretto della sua corrente.

Il Viminale smonta Salvini. Election day improbabile

La campagna referendaria di Matteo Salvini parte in salita. Il leader della Lega sa che non può fallire per risalire nei sondaggi e riprendersi la leadership del centrodestra, ma nelle ultime ore ha un’unica ossessione: il quorum. Salvini è consapevole che raggiungerlo sui cinque quesiti sulla giustizia sarà un’impresa ardua. Così giovedì ha chiesto che i referendum vengano accorpati alle amministrative di primavera in una data tra il 15 aprile e il 15 giugno: un modo per portare più gente possibile alle urne. Peccato che difficilmente sarà accontentato: fonti accreditate del ministero dell’Interno fanno sapere che l’orientamento è quello di non accorpare le due consultazioni.

Il motivo è semplice: negli ultimi anni, per prassi, i governi hanno scelto date diverse per referendum ed elezioni proprio per evitare che una consultazione influenzi l’altra. Al Viminale ricordano gli ultimi due casi: nel 2011, governo Berlusconi, i referendum per acqua pubblica, legittimo impedimento e nucleare si tennero il 12 e 13 giugno mentre per le amministrative fu scelta la data del 15 e 16 maggio; nel 2016, governo Renzi, il referendum sulle trivelle (che non raggiunse il quorum) fu anticipato di due mesi rispetto alle comunali: si celebrò il 17 aprile mentre le elezioni a Roma, Milano e Torino il 5 giugno. La stessa data che probabilmente sarà individuata per le comunali di quest’anno. L’ultimo precedente di un accorpamento con le elezioni risale al 2009 quando i cittadini furono chiamati a votare per abolire il premio di maggioranza e le pluricandidature del Porcellum, ma il quorum non fu comunque raggiunto. E dunque accorpare le due consultazioni sarà complicato. Anche perché pesano anche le motivazioni politiche: nessuno vuole fare un favore a Salvini. Né la ministra Luciana Lamorgese, presa di mira dal segretario della Lega, né tantomeno le forze di governo che si oppongono ai referendum, a partire da Pd e M5S. E visto che la decisione finale spetterà al Consiglio dei ministri, Salvini difficilmente la spunterà. L’altra paura del leader della Lega è che i quesiti sulla giustizia si trasformino in un referendum su di sé, visto che nemmeno i suoi alleati più stretti sembrano molto convinti. E così una sconfitta (o il mancato quorum) potrebbe dare la batosta finale a Salvini, in caduta libera dal Papeete. “Il rischio che faccia la fine di Renzi c’è…”, sussurra terrorizzato un colonnello salviniano riferendosi al referendum del 2016 che costò la poltrona da premier all’altro Matteo. Così Salvini proverà a “spersonalizzare” i referendum: ha escluso comitati del “sì” di centrodestra e sta pensando a comitati senza simboli di partito. Un modo per spoliticizzare la consultazione.

Intanto continuano le tensioni con gli alleati: FdI farà campagna per il “no” su legge Severino e custodia cautelare. Ma con Giorgia Meloni i motivi di scontro sono anche altri. Ieri ha convocato la direzione di FdI e ha avvertito gli (ex) alleati spiegando che “senza FdI il centrodestra perde” e che vuole sapere “le regole d’ingaggio della coalizione”: no al proporzionale e no alle larghe intese. Poi ha lanciato una manifestazione nazionale dal 29 aprile all’1 maggio per scrivere “il programma di governo”.

“Parlamento debole e umiliato: il premier vada di più in aula”

Ieri costituzionalisti di tante università italiane hanno presentato una proposta “minima” di riforma della legge elettorale, con l’unico scopo di ridare centralità al Parlamento. “È semplicemente un tentativo di ridurre il danno”, spiega Gaetano Azzariti, costituzionalista della Sapienza, tra i sostenitori delle modifiche.

Professore, che cosa proponete?

Nel gruppo che ha redatto questa proposta ci sono idee molto diverse. Ma siamo d’accordo su due questioni: vanno eliminate le liste bloccate e le pluricandidature. Le liste bloccate perché sono, se così posso dire, “il male assoluto”, le pluricandidature perché sono una presa in giro della rappresentanza. Ci sarebbero scelte più ambiziose da fare, per quanto mi riguarda, ad esempio, bisognerebbe andare verso un sistema proporzionale, meglio se con l’uninominale, sul modello della legge per l’elezione del Senato del 1948. Ma poiché queste scelte più radicali non sono da tutti condivise neppure tra i costituzionalisti, l’intervento minimale ora proposto vuole essere un inizio per riuscire ad affrontare il vero problema: la delegittimazione delle forze politiche e quindi la debolezza del Parlamento.

Il presidente della Repubblica, nel secondo discorso d’insediamento, ha ricordato la necessità per il Parlamento di riaffermare il proprio ruolo. È stato applauditissimo, ma sembra che le sue parole siano cadute nel vuoto…

La sottovalutazione da parte del sistema dei partiti della crisi parlamentare è gravissima. Il Parlamento è l’organo che negli ultimi decenni è stato maggiormente mortificato. Nel 2000 l’allora presidente della Camera, Luciano Violante, promosse la modifica dei regolamenti d’aula, in nome della “democrazia decidente”: dai tempi contingentati si è passati ai maxi-emendamenti e poi via via, tagliole, canguri, supercanguri. L’idea di fondo era che il Parlamento, oltre a discutere, dovesse decidere: una cosa ovvia, ma che si è tradotta negli anni con l’azzeramento del confronto politico. Con questo governo la discussione degli emendamenti avviene fuori dal Parlamento, quando capigruppo o segretari di partito vanno a confrontarsi con i ministri nelle loro sedi: vedo un’accelerazione ulteriore dello spostamento di competenze e poteri dal Parlamento al governo.

Mario Draghi ha “strigliato” la maggioranza, dopo che il governo è andato sotto quattro volte, in commissione alla Camera, durante l’esame del Milleproroghe. Come la mettiamo?

Il presidente del Consiglio ha detto più volte di rispettare il Parlamento. Ecco, sarebbe ora opportuno passare dalle parole ai fatti, dal riconoscimento formale all’individuazione di meccanismi istituzionali seri. Buona cosa sarebbe se anziché incontrare capigruppo e leader politici a Palazzo Chigi, andasse di più in Parlamento. Non bastano le informative o atti formali. È venuto il momento di coinvolgere davvero le Camere. Per esempio rafforzando i poteri di interlocuzione del ministro per i Rapporti con il Parlamento e coinvolgere più spesso le Commissioni e l’aula. Anziché parlare con Salvini e Letta, dovrebbe confrontarsi con i rappresentanti della nazione (i parlamentari): questo sarebbe un modo felice per rafforzare il governo, garantendo maggiore stabilità, nel segno di un rinnovato rispetto per la forma di governo parlamentare.

Anche l’elezione bis del presidente della Repubblica ha dimostrato l’inettitudine del Parlamento.

L’elezione di Mattarella è stata per molti, tra cui me, rassicurante: il suo discorso è stato profondamente centrato sui valori della Costituzione. Ma come siamo arrivati a quest’elezione? Con un Parlamento che ha mostrato difficoltà a individuare un indirizzo politico maggioritario e si è dovuto rifugiare nel governo di unità nazionale; che non riesce a legiferare visto che ormai la decretazione d’urgenza ha assorbito la sua capacità autonoma di fare leggi; che non è più in grado di controllare il governo, da cui è invece controllato. Alla fine si è dimostrato anche incapace di individuare un nuovo presidente della Repubblica, ripiegando su una possibilità non vietata dalla Costituzione che dovrebbe essere l’eccezione. Ma ora l’eccezione sta diventando regola.

Draghi costretto a calmarsi “Rivedremo il confronto”

Quando finisce il giro di tavolo e ogni ministro ha finito di illustrare il proprio provvedimento, il premier Mario Draghi si concede un intermezzo prima delle domande dei giornalisti: “Avete visto che bravi ministri che ho?! – sogghigna – ho un bellissimo governo”. La butta sul ridere, in conferenza stampa, per stemperare la tensione dopo ore difficili.

Ieri mattina, quando i capidelegazione si sono presentati a Palazzo Chigi per la cabina di regia sui decreti bollette e Superbonus avevano ancora nella testa la furiosa lite del giorno prima: Draghi che minaccia di andarsene dopo l’incidente parlamentare sul Milleproroghe (“così non si va avanti, se volete trovatevi un altro”) e loro che gli chiedono di “cambiare metodo” a partire dai testi dei provvedimenti che non possono più essere consegnati all’ultimo minuto. E così ieri è andato tutto liscio: nessun diverbio in cabina di regia e decreti approvati all’unanimità in Cdm con la corsa, di Matteo Salvini ed Enrico Letta, a rivendicare i 7 miliardi sulle bollette. Chi c’era racconta di un clima “disteso”, addirittura “buonissimo”. Per Palazzo Chigi è l’effetto della “strigliata” di giovedì, per due ministri il fatto che il premier abbia “imparato la lezione”: “Ci ha informato per tempo e condiviso i testi” spiega una fonte di governo. Come che sia, il premier in conferenza stampa qualche concessione ai partiti la deve fare. Almeno sul metodo: annuncia che vedrà più spesso i leader, che il suo era solo un promemoria per ricordare loro “il mandato di questo governo creato dal Presidente della Repubblica” dicendosi convinto che l’esecutivo “raggiungerà i risultati” e che, oltre al “rispetto per il Parlamento”, se necessario rivedrà “le modalità di confronto con i partiti”. Anche Giancarlo Giorgetti, incalzato sul bombardamento esterno di Matteo Salvini, è gandhiano: “La politica è l’arte di rendere possibile ciò che è desiderabile. Il mio segretario esprime un desiderio e io cerco di interpretarlo e renderlo possibile nel governo”.

E le prime prove arriveranno già nei prossimi giorni. Perché, nonostante le rassicurazioni di Draghi, il campo della maggioranza è disseminato di mine pronte ad esplodere. A partire dal green pass: la Lega ha presentato un emendamento per abolirlo dal 31 marzo. Poi c’è la giustizia con i partiti all’assalto della riforma del Csm: FI chiede la separazione delle funzioni, il Pd di modificare la norma sulle porte girevoli e la Lega la responsabilità diretta dei pm. Il Carroccio riempirà di emendamenti anche la norma sui balneari e fa muro sulla riforma del catasto.