“Infermieri e operatori tra i lavori usuranti”

Sono gli altri eroi, un po’ dimenticati, della pandemia, che continuano a faticare per far riconoscere la propria professione come usurante: sono 371mila infermieri e 330mila operatori socio-sanitari (Oss), ora appesi alla speranza che un disegno di legge incardinato in Senato gli consenta di andare in pensione un po’ prima. La disgrazia di Sara Viva Sorge, l’infermiera pugliese morta in un incidente stradale provocato dalla stanchezza per i turni lunghissimi e faticosi, ha riacceso i riflettori sul caso. “Fino a oggi – spiega Barbara Guidolin, senatrice M5S, prima firmataria del ddl – la professione infermieristica è riconosciuta solo tra i lavori gravosi. Ma siamo perfettamente consapevoli dell’enorme lavoro che infermieri e Oss portano avanti ogni giorno, con turni spesso massacranti. Li abbiamo chiamati eroi per tutto ciò che fanno e per l’enorme lavoro portato avanti durante la pandemia. La politica deve dare risposte”.

Il lavoro dell’operatore socio-sanitario e dell’infermiere non è, infatti, riconosciuto come gravoso e, di conseguenza, i lavoratori non possono accedere al prepensionamento nonostante svolgano un’attività caratterizzata da un grado di fatica fisica e stress psicologico elevato (e non solo per il lavoro notturno, ma anche per la costante presenza di fatica fisica e psicologica connessa alla loro attività). Elementi che difficilmente consentono di arrivare all’età pensionabile attuale, 64 anni, senza rischi di burn-out.

Il “campo largo” Pd-destra è contro il salario minimo

La missione è chiara: fare fuori con il mortaio ogni riferimento alla cifra di 9 euro all’ora dalla legge sul salario minimo. Per questo, ora che la proposta firmata dall’ex ministra Nunzia Catalfo è approdata in commissione Lavoro al Senato, è partita una raffica di emendamenti da parte di Forza Italia e della Lega – e fin qui tutto scontato – ma anche da parte del Partito democratico. Tutti mirano a far sì che dalla norma venga rimossa l’indicazione della soglia minima oraria, cioè a svuotare la legge. Ecco perché ieri sull’argomento è intervenuto direttamente il leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte: “Invece di appoggiare la nostra proposta sul salario minimo per appoggiare gli stipendi – ha scritto in un post – alcuni partiti provano a sabotarla, danneggiando i cittadini. È inaccettabile”. Anche il fondatore Beppe Grillo ha pubblicato ieri un tweet di sostegno alla legge, rilanciando un’intervista del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico.

Il testo presentato da Catalfo ha lo scopo di introdurre in primis criteri chiari per misurare la rappresentatività effettiva dei sindacati e delle associazioni di imprese, al fine di estendere a tutti i lavoratori l’applicazione dei contratti firmati dalle organizzazioni certificate. Parallelamente, suggerisce i nove euro come salario minimo che a quel punto fungerebbe da parametro sia per la stessa contrattazione collettiva sia, a maggior ragione, per i lavoratori non coperti dagli accordi nazionali.

Fissare a 9 euro lordi il salario minimo, ha fatto notare un mese fa il gruppo di esperti nominati dall’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando, significa che il 29,7% dei lavoratori dovrà avere un aumento e se consideriamo i soli lavoratori domestici, praticamente gli aumenti scatterebbero per nove addetti – o meglio nove addette – su dieci. Insomma, la portata sarebbe rivoluzionaria perché imporrebbe ai datori di alzare (finalmente) le buste paga per quasi un terzo dei loro dipendenti. È proprio quello che ha fatto notare ieri Tridico nella sua intervista, ricordando che le retribuzioni di 4,5 milioni di lavoratori sono sotto i 9 euro lordi all’ora.

Ecco spiegato perché in Parlamento le forze politiche solitamente più sensibili alle esigenze imprenditoriali hanno alzato le barricate. Ne è venuto fuori un bizzarro “campo largo”, per usare l’espressione di Enrico Letta, che va dal Partito democratico fino alla Lega. Proprio i dem hanno indicato un modo alternativo per individuare il salario minimo: la soglia non andrebbe prevista per legge, ma stabilita di volta in volta da una commissione guidata dal presidente del Cnel e partecipata da dieci rappresentanti dei sindacati e altri dieci delle associazioni datoriali, oltre a un nucleo di esperti tecnici. A parte la ritrovata passione per il ruolo del Cnel da parte di chi meno di sei anni fa proponeva di abolirlo per via referendaria, questa ipotesi farebbe sì che a stabilire il salario minimo sia un braccio di ferro tra chi rappresenta le imprese e chi i lavoratori: il risultato, abbastanza scontato, sarebbe un deciso ribasso rispetto ai 9 euro proposti dalla legge. Accanto alla lotta per far fuori la soglia, Forza Italia cerca addirittura di far entrare nella legge i soliti incentivi alle assunzioni (anche a termine) per le imprese.

Il contrasto al lavoro povero non ottiene grandi risultati neanche all’Europarlamento: mercoledì è stato bocciato un emendamento che invitava la Commissione e gli Stati membri a vietare i tirocini gratuiti “in modo effettivo e applicabile”. Proposto dai gruppi di sinistra, è stato appoggiato da Pd e Movimento 5 Stelle. Contro, oltre al centrodestra, anche Italia Viva. Dopo le polemiche, l’eurodeputato renziano Nicola Danti si è difeso sostenendo che “la competenza del lavoro è nazionale, i contratti di apprendistato sono retribuiti ed esistono i tirocini curriculari che non possono essere retribuiti perché parte integrante del piano di studi”.

A dire il vero in Parlamento esistono proposte per introdurre forme di indennità anche per gli stage curricolari e anche a firma di deputati di Italia Viva. “Su un tema di giustizia sociale – ha risposto Mario Furore, vice capodelegazione M5S al Parlamento europeo – Italia Viva ha votato con la destra sovranista e iperliberista”.

Superbonus, tre cessioni in tutto e truffe punite con il carcere

Lo scontro tra Palazzo Chigi e i partiti di maggioranza sulla vicenda dei crediti fiscali edilizi, in particolare il Superbonus, si è concluso con la tecnica del bastone e della carota. Nel decreto approvato in Consiglio dei ministri sono state previste multe e carcere per i furbetti del bonus. Ma c’è anche il dietrofront sullo stop della cessione dei crediti che, di fatto, ha generato un blocco totale.

Prima di tutto per evitare le truffe ogni credito fiscale sarà tracciabile: gli verrà attribuito un codice identificativo univoco per agevolare i controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate che potrà sempre monitorare il credito lungo le sue eventuali cessioni che, oltre alla prima del richiedente, potrà essere ceduta altre due volte solo se effettuate a favore di banche e intermediari finanziari iscritti all’albo. A rischiare il carcere, dai 2 ai 5 anni, e la multa, da 50.000 a 100.000 euro, sarà il tecnico abilitato che fornisce informazioni false che hanno generato le truffe miliardarie, che però c’entrano ben poco con il Superbonus 110% (ammontano al 3%, contro il 46% del bonus facciate, o il 34% dell’ecobonus).

Nel decreto ha trovato posto anche anche una norma per la sicurezza sul lavoro nel settore dell’edilizia – richiesta dai sindacati (Feneal Uil, Filca Cisl e Fillea Cgil) e condivisa dal ministro del Lavoro Andrea Orlando – che obbliga le imprese che volessero accedere ai bonus di applicare ai lavoratori il contratto nazionale di settore.

In Italia si estrarrà più gas fino al 2031: il regalo per Eni

Alla fine, nell’ormai tradizionale decreto bollette, arrivò anche il grande piano del ministro Roberto Cingolani per aumentare la produzione di gas nazionale, piano che potremmo definire un regalo a Eni, che ha il 90% della capacità estrattiva italiana e potrà incrementarla assai per i prossimi dieci anni con contratti garantiti che prevederanno “un’equa retribuzione”, questo mentre il prezzo del gas, guerre permettendo, pare aver iniziato la sua discesa (giovedì Il Sole 24 Ore parlava di “emergenza finita”, anche se certo non si tornerà ai minimi del 2020).

Andiamo con ordine. La bozza di decreto visionata dal Fatto contiene un articolo intitolato “Misure per fronteggiare l’emergenza caro energia attraverso il rafforzamento della sicurezza di approvvigionamento di gas naturale a prezzi equi”. È il regalo a Eni di cui parlavamo: si tratta di contratti pluriennali a prezzi concordati col governo in cambio dell’aumento della produzione di gas in Italia (su cui, peraltro, si pagano royalties irrisorie) che servirà a poco sui prezzi e a molto per il Cane a sei zampe. Basti dire che tutte le riserve conosciute in Italia, comprese quelle di impianti chiusi, coprono il fabbisogno di un solo anno.

Funzionerà così. Appena pubblicato il decreto, il Gse (gestore dei servizi energetici) inviterà gli interessati, soprattutto uno, a farsi avanti “comunicando i programmi delle produzioni di gas naturale delle concessioni in essere, per gli anni dal 2022 al 2031, nonché un elenco di possibili sviluppi, incrementi o ripristini delle produzioni di gas naturale per lo stesso periodo nelle concessioni di cui sono titolari, delle tempistiche massime di entrata in erogazione, del profilo atteso di produzione e dei relativi investimenti necessari”. Insomma, si potrà estrarre più gas negli impianti esistenti o in quelli in via di implementazione come pure riaprire impianti chiusi o sospesi. E si potrà pure aggirare la mappa delle “aree idonee” pubblicata dallo stesso ministero della Transizione ecologica il 28 dicembre: basta infatti che le concessioni ricadano “in tutto o in parte” in quelle aree.

L’unica cosa che conta è che si sia pronti a produrre entro sei mesi: le autorizzazioni ambientali le garantirà a passo di carica la commissione tecnica Pnrr-Pniec. Quanto ai soldi, “il sistema dei prezzi garantisce la copertura dei costi totali effettivi delle singole produzioni, inclusi gli oneri fiscali e un’equa remunerazione” (bell’impegno, se si intende riaprire impianti chiusi per motivi economici). L’obiettivo, dice Cingolani, è portare la produzione a circa 5 miliardi di metri cubi dagli attuali 3,2 (i consumi nazionali sono 70 miliardi totali), un bel +35% circa. Messa così, è un bancomat per la partecipata del Tesoro che vale quasi 1,5 miliardi di metri cubi l’anno, che partirà quando il prezzo del gas sarà ormai stabilizzato a livelli sensati e durerà un decennio, dopo il quale peraltro il ricorso al gas dovrà calare comunque, per gli impegni presi nell’ambito della lotta al cambiamento climatico. Per il momento Eni si gode l’impennata dei prezzi degli ultimi mesi: dopo un rosso da 760 milioni nel 2020, ha chiuso il 2021 con un utile netto da 4,7 miliardi (2 dei quali solo nell’ultimo trimestre).

Sistemato il gas, il governo – anche in questo decreto – prova ad affrontare il vero problema della transizione energetica italiana: il conflitto tra necessità di solare ed eolico e tutele ambientali e paesaggistica (che è anche il conflitto tra Mite e ministero della Cultura). Arrivano nuove semplificazioni per gli impianti di rinnovabili, a partire da quelli “off shore” (recentemente, ad esempio, si è di nuovo incagliato il grande progetto “Med Wind” in Sicilia). Per rispettare gli impegni presi in sede Ue, l’Italia dovrebbe installare 80 GW di rinnovabili entro il 2030, cioè 8 GW l’anno in tutto il decennio: il 2021, però, si è concluso con solo 1 GW installato. Per capirci sul collo di bottiglia a cui siamo davanti, secondo Legambiente le richieste di installazione di rinnovabili giacenti in Italia ammontano a 150 GW: le prime tre tornate di semplificazioni dell’ultimo anno non sembrano aver cambiato le cose.

Basta chiedere: soldi per Stellantis e multa con sconto per Exor

Una simile alluvione di denaro pubblico non si era mai vista. “Abbiamo stanziato 1 miliardo all’anno per otto anni per accompagnare nel processo di transizione un settore importante come quello dell’automotive, sia per la produzione diretta che per l’indotto”: ieri Mario Draghi ha lasciato a Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, il piacere di annunziare – a Stellantis e, in misura minore, ai concorrenti – la lieta novella decisa in Consiglio dei ministri. A queste cifre vanno poi affiancati i 370 milioni che saranno garantiti dallo Stato nell’ambito dell’accordo sempre con Stellantis per la realizzazione a Termoli della terza gigafactory per le batterie del gruppo in Europa, a fronte di un investimento di circa due miliardi e mezzo del gruppo. Alla famiglia Agnelli – Elkann non resta che ringraziare e passare all’incasso, dopo aver lasciato l’argent de poche di un miliardo all’Agenzia delle Entrate per chiudere le vertenze fiscali sul trasferimento delle sedi di Fca e delle sue società controllanti dall’Italia all’Olanda e al Regno Unito. Spiccioli, rispetto ai 3 miliardi di dividendi incassati in 13 mesi.

Nei piani del governo c’è il sostegno al settore: “L’intervento pubblico è importante nell’automotive ma l’iniziativa privata lo è di più, serve infatti a convincere tutti i soggetti della filiera a investire sul settore”, ha commentato Giorgetti, annunciando “a breve” un decreto “sul lato della domanda” da varare insieme al ministro Cingolani. “Farà seguito l’incentivo per l’acquisto di auto compatibili, non solo elettriche ma anche le ibride”. Saranno finanziabili anche le auto a motore endotermico, secondo i desiderata di Stellantis, che in Italia è in forte ritardo sulla transizione all’elettrico. Il rischio di altri incentivi per l’acquisto di nuove vetture, invece che alla riconversione tecnologica, è però quello di finire per drogare le immatricolazioni ma di non sostenere a sufficienza la filiera automotive. Nel 2020 le 2.203 imprese italiane della componentistica hanno generato un fatturato stimato a 44,8 miliardi di euro e impiegato 161.465 addetti che, secondo la Fiom Cgil, salgono a 280mila con gli addetti alla produzione.

Lo Stato non aveva stanziato cifre simili nemmeno ai tempi dell’investimento pubblico per la costruzione degli impianti dell’allora Fiat a Melfi e Pratola Serra (1990-1995), costati all’Erario quasi 1,28 miliardi. Nemmeno gli incentivi statali per la rottamazione dei vecchi modelli inquinanti – che dall’ormai lontano 7 gennaio 1997 sostengono le immatricolazioni – sono mai costati tanto. In 25 anni, i bonus ecologici più volte rifinanziati (per 13 volte sino a fine 2021) hanno visto aiuti di Stato complessivi per circa 1,65 miliardi, senza contare gli interventi delle Regioni. Certo, a gennaio le vendite di auto nella Ue sono calate del 6% su base annua e del 33% rispetto allo stesso mese del 2019 ad appena 682.596 unità, nuovo minimo storico. L’Italia è in fondo alla classifica con -19,7% (il peggiore gennaio degli ultimi 38 anni), seguita dalla Francia con -18,6%. Stellantis, che ha segnato un calo del 12,4% delle immatricolazioni, mercoledì prossimo pubblicherà i conti 2021 e il primo marzo presenterà il piano strategico. Prima della fusione con Psa, la Fca degli Agnelli-Elkann il 29 gennaio 2021 aveva distribuito agli azionisti 2,9 miliardi di dividendo straordinario, oltre alla sua quota di 150 milioni di quello ordinario di Stellantis ad aprile.

appena prima dell’annuncio degli aiuti di Stato, ieri la famiglia Agnelli – Elkann ha fatto il bel gesto di definire le sue pendenze fiscali versando un miliardo all’Agenzia delle Entrate. Exor, la holding che controlla il 14,4% di Stellantis, ha chiuso “una complessa contestazione in materia fiscale, con riferimento all’exit tax”, relativa al trasferimento della sede legale in Olanda e di quella fiscale a Londra nel 2014. L’accordo, che chiude una contestazione plurimiliardaria, comporta il pagamento di 746 milioni, di cui 104 milioni di interessi. La firma dell’intesa, per l’azienda, però “non comporta né può essere interpretata come un’accettazione – né tantomeno una condivisione, neppure parziale – delle tesi sostenute a posteriori dall’Agenzia delle Entrate”. Anche la controllante di famiglia, l’accomandita olandese Giovanni Agnelli Bv, ha chiuso un analogo accordo col Fisco da 203 milioni (28 di interessi). La questione era nell’aria da un mese: il 20 gennaio, avevano spiegato al Fatto fonti ben informate, un preoccupatissimo John Elkann, presidente di Exor e Stellantis, ne aveva discusso a Palazzo Chigi con Mario Draghi.

Il nuovo “decreto bollette”: copre un terzo dell’aumento

In deficit no, per carità, che l’Europa ci guarda e poi abbiamo anche avuto tutta questa crescita imprevista nel 2021. E quindi di lima e di cesello, senza dimenticare un po’ di fantasia, arriva il decreto “energia e molto altro” coi suoi 8 miliardi e mezzo di euro. Tra le fonti di copertura non c’è un nuovo intervento sugli extraprofitti delle compagnie energetiche, ben rappresentati dai 2 miliardi di utile netto (su 4,7 totali nel 2021) fatti registrare da Eni negli ultimi tre mesi dell’anno scorso: “Ci aspettiamo che i grandi produttori di energia condividano con il resto della popolazione il peso dei rincari dell’energia, sul come ci stiamo riflettendo”, ha spiegato Mario Draghi ieri in conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri che ha approvato il nuovo decreto.

In attesa che la riflessione del premier e dei suoi ministri sia finita, va registrato che la maggior parte degli 8 miliardi, almeno 5,5, saranno impiegati per arginare – assai parzialmente – l’impatto dei prezzi energetici sulle bollette di luce e gas di famiglie e imprese (rispettivamente una botta da + 131% e +94% su base annuale). I soldi per il periodo aprile-giugno sono così divisi. Poco meno di 3,4 miliardi (che si aggiungono agli 1,2 miliardi stanziati a luglio, ai 3,5 di ottobre e ai 3,8 inseriti nella legge di Bilancio) andranno a famiglie e piccole imprese. Le leve azionate sono le solite: la riduzione degli oneri di sistema (1,8 miliardi), il taglio dell’Iva al 5% sul gas (592 milioni), fondi per le famiglie più povere (500 milioni), a cui vanno aggiunti altri 480 milioni per tagliare gli oneri generali nel settore del gas. A questi si sommano 400 milioni per Regioni ed enti locali, anche loro alle prese con l’aumento delle bollette (specie per ospedali e strutture sanitarie) e altri 2,3 miliardi di euro destinati alle imprese più grandi ed “energivore” (tra riduzione degli oneri di sistema e crediti d’imposta), che già a fine gennaio erano state destinatarie di 1,7 miliardi per far fronte, però, a una bolletta energetica che nel 2022 sarà superiore ai 30 miliardi.

Quello che segue è il conto più generale del ministero dell’Economia, Daniele Franco: nell’ultimo trimestre del 2021, a fronte di rincari per famiglie e imprese di circa 21 miliardi, “ne abbiamo fiscalizzati circa un sesto, 3,5 miliardi”; le stime dell’Arera indicano rincari sempre per 21 miliardi per il primo trimestre 2022 e “noi siamo intervenuti per circa 5,5, quindi per un quarto”. Il prossimo aumento della bolletta è stimato in 14-15 miliardi, ha aggiunto il ministro, “noi interverremo per circa 5,5 miliardi”, pari a oltre un terzo.

Le risorse, come si vede, arginano solo molto parzialmente l’impatto degli aumenti sui bilanci di famiglie e piccole imprese, ma il governo com’è noto non vuole ricorrere a nuovo deficit (i soldi arrivano soprattutto da risparmi precedenti e dai proventi delle aste della CO2) e spera che la buriana sia passata. Ucraina permettendo, certo: “Siamo ancora in un rallentamento della crescita in Europa, ma secondo le previsioni riprenderà spedita dal secondo trimestre di questo anno: bisogna essere cauti perché i rischi geopolitici potranno incidere sulla crescita”, ha detto Draghi. Anche scongiurando l’ipotesi di una guerra vera e propria, pure nuove sanzioni alla Russia – di cui si discute – possono mettere in difficoltà il nostro Paese: “Le sanzioni – ha detto Draghi – devono essere concentrate in settori che non comprendano l’energia e che siano proporzionate rispetto all’attacco e non preventive. L’Italia ha solo il gas, non ha il nucleare e il carbone e sarebbe la più esposta”.

È dall’Est che al momento arrivano le più grosse preoccupazioni per il premier. È vero che “Vladimir Putin ha accennato alla possibilità di continuare a garantire le fornitura di gas all’Italia e di aumentarla se necessario”, ma questo non si può fare se non all’interno “degli impegni e delle relazioni con gli alleati e degli effetti delle sanzioni”, tanto è vero che “si sta anche studiando come l’Italia possa continuare a essere approvvigionata da altre fonti se dovessero venire meno quelle dalla Russia”.

Il governo di nessuno

Come volevasi dimostrare, e com’era chiaro fin dall’inizio a tutti fuorché a Mattarella e a Draghi, il “governo di tutti” non esiste. Presto o tardi gli cade la maschera e si rivela per quello che è: il “governo di nessuno”. Mattarella, che un anno fa lo escogitò con la ridicola formula del “governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”, tarda ad accorgersene. Invece il fu SuperMario, liofilizzato dalla débâcle quirinalizia a MiniMario, inizia a capirlo. I giornaloni traboccano dell’“ira di Draghi” che è “furibondo” e “furioso con i partiti” e li “avverte”, anzi li “striglia” con “altolà”, “aut-aut”, “ultimatum” e “linea dura”, dopo le quattro bocciature parlamentari del suo decreto Milleproroghe. E non vuole più “perder tempo”, essendo in partenza per la campagna di Russia, dove gli eserciti di mezzo mondo sono in surplace da un mesetto in attesa di sue notizie. A noi spiace vederlo così nervosetto, ma temiamo non abbia ancora colto la differenza fra una banca e il Consiglio dei ministri di una democrazia parlamentare. Infatti le frasi che ha fatto trapelare dalla cabina di regia dell’altroieri, se portassero un’altra firma, farebbero pensare a un golpista o a un mitomane: “Il governo decide e voi dovete garantire i voti in Parlamento”. I ministri devono essersi guardati e domandati dove stia scritto nella Costituzione che le leggi le fa il governo e il Parlamento le timbra. Ma nella Costituzione c’è pure scritto che è il presidente della Repubblica che nomina il presidente del Consiglio e lui un mese fa tentava di invertire l’ordine dei fattori.

Urge un ripassino della Carta, prima che arrivi il generalissimo Figliuolo a rimettere in riga i ministri e le Camere, armi e siringhe in pugno. Ma urge soprattutto prendere atto di una realtà imbarazzante: se il governo con la maggioranza più ampia della storia repubblicana non riesce neppure a farsi approvare il Milleproroghe, un premier degno di questo nome non minaccia di andarsene perché “posso sempre fare altro”: se ne va subito a fare altro perché ha fallito. E non per colpa dei partiti o del Parlamento, ma per colpa sua: ha umiliato gli alleati (soprattutto uno, il più grande) costringendoli a votare provvedimenti a scatola chiusa, senza neppure farglieli leggere; ha mortificato le Camere con un record di decreti, per giunta convertiti a suon di fiducie (o nemmeno votati perché superati da altri decreti); ha accettato fischiettando che la Lega non votasse misure impopolari (tanto le votavano gli altri); ha indebolito il governo e la premiership candidandosi al Quirinale e uscendone umiliato; e ora finge che il Parlamento ce l’abbia col governo, quando è chiaro che ce l’ha con lui. E lui, fra l’altro, non fa neppure capoluogo.

La lancetta delle vendite segna sempre più sul rosso

Il debito d’ossigeno dell’auto europea continua. Dopo un 2021 chiuso in rosso, anche nel nuovo anno il trend negativo sulle immatricolazioni prosegue, e anzi si inasprisce. Le vendite a gennaio nell’Ue sono calate del 6% (2,4%, considerando anche paesi Efta e Regno Unito), facendo registrare quello che l’associazione continentale dei costruttori (Acea) definisce “un nuovo minimo storico nelle vendite di auto dell’Unione Europea per il primo mese dell’anno”. L’ennesimo, tra i record negativi che si sono via via accumulati dalla pandemia in poi. Non ultimo, quello dei 3,3 milioni (circa un’auto su quattro) di veicoli persi lo scorso anno rispetto ai volumi precedenti all’emergenza sanitaria. Che, senza dubbio, è uno dei motivi di questa débâcle. Con l’aggravante della crisi nell’approvvigionamento dei microchip, non risolvibile se non (si spera) verso fine 2022, e quella della recente tendenza al rialzo dei prezzi. Un mix esplosivo, in cui le quattro ruote si stanno impantanando.

Nel nostro Paese da più parti si invoca un sostegno statale che favorisca la transizione verso l’elettrico ma incentivi anche le motorizzazioni tradizionali a basso impatto ambientale, quelle che visti i volumi potrebbero anche contribuire allo svecchiamento del parco circolante. Qualcosa si muove: secondo le dichiarazioni del ministro per lo sviluppo economico Giorgetti proprio oggi, in consiglio dei ministri, potrebbe essere approvato un fondo triennale da un miliardo di euro all’anno che puntelli sia le vendite che la riconversione industriale. Non resta che attendere.

Ora la “Grecale” si mostra senza veli

Il G-Day, ovvero il giorno in cui la Grecale sarà svelata a Milano “con un evento che coinvolgerà il mondo intero, accendendo i riflettori sulla mobilità del futuro”, come aveva promesso recentemente Maserati, è stato fissato per il 22 marzo prossimo. Il tutto dopo un paio di rinvii, l’ultimo lo scorso novembre a causa della carenza globale di semiconduttori. Anche per questo, evidentemente, qualcuno a Modena stava mordendo il freno, visto che proprio dal quartier generale del Tridente sono state diffuse foto decisamente esplicative del nuovo sport utility compatto in giro per il centro della città. Camouflage ridotto all’osso e linee che ben poco lasciano all’immaginazione, come si può vedere dalla foto, e su tutto la fiancata dove campeggia la scritta: Ciao, I’m the Maserati Grecale. I can’t tell you much more, ovvero “Ciao, sono la nuova Maserati Grecale. Non posso dirvi molto altro”. Messaggio che lascia supporre che questa sia stata l’ultima uscita semi-ufficiale, prima dell’unveiling vero e proprio che come detto avverrà nella seconda metà di marzo.

Dicevamo di estetica e linee: da quel che si può vedere, il design della nuova nata riprende ed evolve i tratti distintivi della sorella maggiore Levante, non disdegnando tuttavia anche qualche richiamo alla sportivissima MC20, specie per quanto riguarda i gruppi ottici. Ma le parentele non finiscono qui: la Grecale verrà fabbricata nello stabilimento di Cassino ed è stata sviluppata sulla base tecnica della piattaforma Giorgio (ex Fca ora Stellantis), la stessa attualmente utilizzata per l’Alfa Romeo Stelvio, il che la mette in condizione di contare su un’ampia gamma di motorizzazioni, fra cui non dovrebbero mancare quelle con alimentazione plug-in hybrid (ibrida ricaricabile) e, soprattutto, 100% elettrica. Unìarma necessaria per fronteggiare la concorrenza agguerrita dei modelli che competono nel comparto del lusso, come la Porsche Macan.

Euro 7, a Bruxelles non sanno (ancora) quali sono i parametri

Grandi incertezze per la politica e l’automotive, alle prese con una transizione energetica tutta da definire. Diversi i nodi sulla mobilità elettrica: riconversione dell’industria e filiera, adeguamento infrastrutturale, reperimento delle materie prime, manifattura delle batterie (70% vengono dall’Asia), etc. Il tutto a fronte di un mercato asfittico, che si regge sugli incentivi statali e pieno di vetture alla spina con prezzi elevati. In tale contesto, l’Europa stenta a definire le norme Euro 7 del 2025: la Commissione ha ri-posticipato, a luglio, la presentazione di una proposta definitiva. In ballo c’è il futuro dei motori termici, inclusi gli ibridi, che potrebbero diventare troppo costosi da omologare, nonché il conseguente impatto industriale (e sociale) che ne potrebbe scaturire.

Sulle difficoltà di Bruxelles pesano gli esiti, poco lusinghieri, della Cop26. Ma anche il pressing dei costruttori, che denunciano i rischi di una transizione frettolosa, e le pressioni di chi propone un approccio tecnologicamente neutro – che includa idrogeno e carburanti sintetici – al tema della decarbonizzazione. Sullo sfondo, infine, c’è lo spauracchio che la rincorsa anticipata al full-electric, oltre che tecnicamente di ardua realizzazione, lasci sul campo parecchie vittime, a cominciare dai lavoratori. Oltretutto, a fronte di vantaggi ambientali tutti da dimostrare. Temi che potrebbero rimettere in discussione anche il pensionamento dei motori tradizionali, che l’Europa vorrebbe fissare al 2035. Per il ministro della Transizione ecologica, Cingolani, “la data del 2035 è solo la base su cui iniziare la discussione europea. Dobbiamo valorizzare pure i biocarburanti, molto utili”. Per Cingolani, inoltre, serve capire come gestire le batterie esauste e creare una rete di ricarica smart.

“Molti ignorano che l’impronta di carbonio di un’auto elettrica, misurata da quando si estraggono le materie prime per fabbricarla, è tale per cui si pareggia quella di un’auto termica intorno ai 70/80 mila chilometri”, spiega il ministro. Al contrario, “un ibrido di ultima generazione può arrivare a emissioni di CO2 talmente basse da risultare estremamente competitivo”.

E per il ministro dello Sviluppo economico Giorgetti, “manca una valutazione industriale, sulla sovranità tecnologica e l’autonomia strategica dell’Europa. In tutta questa febbre per l’auto elettrica, chi fornisce le materie prime è la Cina. Siamo per il principio di emissioni zero, ma sulla base della neutralità tecnologica. L’idrogeno può diventare competitivo. E in Italia abbiamo brevetti fra i più avanzati nei biocarburanti. Con questa furia per l’elettrico rischiamo l’autogol”.