Gli incubi di Agnese, le stregonerie di B. e la cura di Zangrillo

Riassunto della puntata precedente: dopo aver visto Renzi da Vespa e “Rosemary’s Baby” nella stessa serata, faccio un sogno in cui i coniugi Renzi diventano amici di una satanica coppia di vicini: Silvio e Marta. Una notte, Agnese ha un incubo: un essere mostruoso la possiede dopo che Matteo e i Berlusconi gliel’hanno consegnata.

Il mattino seguente, Agnese s’accorge di avere dei graffi sulla schiena. Matteo, con un sorriso enigmatico, dà la colpa alle sue unghie. Un mese dopo, il ginecologo comunica ad Agnese che è rimasta incinta. Matteo, colmo di felicità, corre subito a dirlo ai Berlusconi, che esultano. Marta consiglia ad Agnese di cambiare ginecologo, e di rivolgersi al miglior primario della zona, il professor Zangrillo, amico personale di Silvio. Agnese accetta. I primi mesi di gravidanza sono difficili: Agnese ha un calo di peso e prova forti dolori al ventre. Un altro fatto aggrava la situazione: Marco Carrai va a trovarli, e nota che Agnese è molto deperita. Qualche giorno dopo, Carrai non si presenta a una cena. Agnese scopre che Carrai è in coma, e comprende che non si tratta di una coincidenza: qualcuno che ha un enorme potere sta tramando su di lei e sul suo bambino. Agnese intuisce che la ragione del proprio malessere sono i Berlusconi. Al funerale di Carrai, una sua amica consegna ad Agnese il libro che lui le avrebbe voluto dare quella sera a cena. Parla di stregoneria, e racconta la storia di Rosa Bossi, la madre di Silvio, una nota satanista del secolo scorso. Agnese lo legge avidamente e poi racconta tutto a Matteo, che però minimizza, e il giorno dopo, senza dirglielo, butta via il volume. Agnese decide di saperne di più e legge altri libri di stregoneria, da cui apprende cosa sono le congreghe, e quali metodi usano. Ormai convinta di essere vittima di una congiura, decide di andarsene dal palazzo, ma prima passa dal ginecologo. In sala d’attesa, vede che anche la segretaria porta indosso il ciondolo con l’odore sgradevole che le ha regalato Marta. Spaventata, corre via in cerca d’aiuto. Matteo la fa ricoverare per qualche giorno nella clinica del professor Zangrillo, dove potrà riposare. Tornata a casa, Agnese ha le doglie. Zangrillo la fa partorire. Poche ore dopo, Zangrillo e Matteo le comunicano che purtroppo il piccolo non è sopravvissuto. Poi Matteo le annuncia che la sua carriera politica sta avendo un grande successo, e le promette che presto si trasferiranno a Roma, dove avranno altri figli. Agnese rimane a letto alcuni giorni in convalescenza. Non crede più al marito: è convinta che suo figlio sia vivo e in mano alla congrega. Si ricorda che la vecchia proprietaria dell’appartamento aveva sbarrato una porta con un armadio. Decide di andare a vedere cosa c’è dall’altra parte. Per precauzione prende con sé un coltellaccio da cucina. Scopre un passaggio verso l’appartamento dei Berlusconi e lo varca. In salotto trova tutti gli anziani condòmini, più altre persone, che stanno amabilmente conversando tra loro. C’è anche Carrai. Vedono Agnese col coltellaccio, ma non si scompongono. In un angolo, Agnese nota una culla nera. Si avvicina. Guarda e nota un particolare che la sconvolge: il neonato ha la faccia di Draghi. In quel momento, Silvio le rivela compiaciuto che il bambino “ha gli occhi di suo padre”, cioè la Troika, a cui Matteo l’ha donato in cambio del successo. Matteo rassicura Agnese: ha chiesto e ottenuto dalla congrega che a lei non venisse fatto del male. Disgustata, lei gli sputa in faccia. Intanto il neonato ha cominciato a piangere: Agnese, incoraggiata da Silvio, torna alla culla e la dondola dolcemente.

 

Poltrone, valigie e alti ideali

Pure ieri le ministre di Italia Viva, Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, hanno comunicato al Paese di avere “le valigie pronte”, a conferma dell’estrema gravità di una decisione che è politica e non certamente legata alle “poltrone”. Esse infatti si dicono pronte a “lasciare” a un segnale del loro leader e mentore, Matteo Renzi. Tra le suppellettili più o meno figurate del potere, le valigie e le poltrone ricorrono spesso, quasi sempre in simbiosi poiché come nel caso in esame si fanno le valigie quando si lasciano le poltrone, o viceversa. E nel lasciare le poltrone – se animati da quello spirito di servizio che certamente ispira la ministra dell’Agricoltura e quella per le Politiche della famiglia – non si esita, non si indugia, non si rimugina, non si ritarda neppure di un minuto, tanto è vero che le valigie sono là belle che pronte, presumibilmente accanto alle poltrone.

Una simbologia che denota un deciso e lodevole distacco dagli orpelli del comando, dalle tentazioni terrene – oh vanitas vanitatum

–, ma che tuttavia possono lasciare irrisolte alcune domande sulle modalità del drammatico abbandono. Curiosità niente affatto banali considerata l’eccezionalità del duplice e coordinato gesto all’interno di un costume politico generalmente poltronista e arraffone. Per esempio, poiché è da almeno un paio di settimane che le ministre hanno fatto sapere che “le valigie sono pronte”, ci auguriamo che nel frattempo abbiano avuto un cambio di abiti a portata di mano. Anche perché, su certi principi, Matteo non transige: quando uno annuncia lascio la poltrona la lascia e basta. Non è che dice che se perde il referendum si ritira dalla politica, e poi non si fa niente (forse perché non aveva preparato il trolley).

Poi c’è lo straordinario caso di Ivan Scalfarotto, sottosegretario agli Esteri di Iv, che afferma: “Io le dimissioni le ho già date a febbraio, ma Renzi mi ha detto di aspettare”, ed è la pura verità. Dunque è quasi un anno che, a causa di una disposizione contraddittoria, costui ha lasciato la poltrona, ma non ancora la stanza dove si presume sosti restando in piedi (ogni tanto forse una corsetta per sgranchirsi le gambe) con accanto un nécessaire

con il rasoio e lo spazzolino. Potete immaginare perciò la disperazione del poveretto quando il capo ha dichiarato a Conte “non vogliamo strapuntini”, che un riposino se lo sarebbe pure meritato. Questa, per sommi capi, è la vita aspra di chi ha giurato fedeltà a un ideale.

Il sito ospiterà anche i rifiuti radioattivi della Difesa

“Per noi tecnici non esistono considerazioni di natura politica: quando una procedura è completa bisogna assumersi la responsabilità di firmare gli atti. E così abbiamo fatto”. Laura D’Aprile è il direttore generale del ministero dell’Ambiente che insieme alla sua collega del Mise, Maria Rosaria Romano (storica dirigente del ministero dello Sviluppo dall’epoca del ministro Pierluigi Bersani) ha firmato il nullaosta alla pubblicazione della mappa delle aree idonee a ospitare il deposito nucleare italiano. Per lei il procedimento andava chiuso a tutti i costi “anche perché ci è costata una procedura di infrazione”. Il dossier che è passato per le sue mani ha avuto vita travagliata, per usare un eufemismo. La mappa era già pronta 5 anni fa, salvo rimanere chiusa a chiave nella cassaforte del ministero di via Molise coperta da segreto assoluto. Lo rivela lo stesso nulla osta firmato il 30 dicembre scorso con cui ne è stata autorizzata la pubblicazione, in cui viene evidenziato come la Sogin, la società del Tesoro che sarà incaricata di realizzare il deposito con annesso parco tecnologico, aveva trasmesso la Carta agli organismi competenti già il 2 gennaio 2015. Salvo poi finire di nuovo sottochiave, nonostante le promesse del ministro Carlo Calenda che nel 2018 si era impegnato a pubblicarla. Poi però non se ne era fatto nulla.

Il documento è stato riaperto nel 2019 con la richiesta del ministro Luigi Di Maio di tener conto della classificazione sismica definita dalla Regioni. Il 12 luglio l’Ispettorato per la sicurezza nucleare ha comunicato gli esiti delle valutazioni condotte, ma segnalando la necessità di altre verifiche. Si arriva così al 5 marzo 2020, data di validazione dell’ultima bozza del documento. Che però ha subito un altro stop: nel frattempo infatti il governo ha varato una norma per consentire anche alle scorie del settore della Difesa di essere ospitate nel futuro deposito. Il 10 dicembre sono stati forniti i dati e le stime dei quantitativi dei rifiuti radioattivi militari risultati “ampiamente gestibili all’interno degli spazi dedicati all’interno del Deposito nazionale”. Conclusa la procedura senza la richiesta di ulteriori aggiornamenti è arrivato infine il nullaosta alla pubblicazione.

Per il deposito di scorie nucleari sono in pole Lazio e Piemonte

C’è chi si dice pronto a scendere in piazza per difendere i propri territori e chi per ora tace attirandosi i sospetti di collaborazionismo col governo. La pubblicazione delle aree idonee a ospitare il deposito nazionale dei rifiuti nucleari, per anni rinviata per paura delle proteste, viene accolta come previsto, ovvero le minacce di barricate dei Comuni interessati e le polemiche interessate di Matteo Salvini anche se, fosse per lui, l’Italia produrrebbe ancora energia nucleare: “Il governo in piena crisi politica si prende la responsabilità di discutere del deposito senza consultare Regioni e sindaci. Ennesimo atto di arroganza, ennesima dimostrazione di incapacità, ennesima provocazione”. I due ministri competenti, Sergio Costa (Ambiente) e Stefano Patuanelli (Sviluppo) provano a gettare acqua sul fuoco: “Basta polemiche. Era un atto atteso da sei anni. Serve per la sicurezza dei cittadini. La fase della consultazione inizia ora”.

La mappa delle aree idonee, però, provoca un mezzo terremoto anche dalle parti di maggioranza e governo. I parlamentari giallorosa eletti nelle regioni finite in lista, temendo il linciaggio, si dissociano. Il ministro della Salute Roberto Speranza rassicura che le scorie italiane (circa 95 mila metri cubi tra rifiuti a bassa, media e alta attività) non finiranno certo nella sua Basilicata. Dove peraltro nel 2003 successe un finimondo dopo l’annuncio di Silvio Berlusconi che il cimitero delle scorie sarebbe stato realizzato in un deposito di salgemma a Scanzano Jonico.

Ma quali aree sono state incluse nella Carta nazionale (Cnapi) appena pubblicata? 67 aree distribuite in sette regioni, tutte pienamente idonee a ospitare il deposito nazionale dei rifiuti nucleari italiani. Alcune però più di altre. Tutte le aree hanno caratteristiche che rispondono in pari misura agli standard di sicurezza, ma hanno un ordine di idoneità che sarà utile per la fase successiva: quella della consultazione pubblica in cui non si esclude che arrivino delle autocandidature per ospitare la struttura da costruire entro il 2025.

Fatto sta che in pole position ci sono le 12 aree incluse nella classe A1, catalogate come “molto buone”: in Piemonte (i comuni interessati sono Caluso, Mazzè, Rondissone, Carmagnola, Alessandria, Castelletto Monferrato, Quargnento, Fubine, Oviglio, Frugarolo, Novi Ligure e Bosco Marengo, il quale peraltro ospita già un ex impianto nucleare) e nell’alto Lazio (Canino, Corchiano, Vignanello e soprattutto Montalto di Castro, sede della centrale nucleare mai entrata in funzione, causa referendum). Poi ci sono 11 aree “buone” in classe A2 ricomprese tra i Comuni di Castelnuovo Bormida (Alessandria), Pienza (Siena), Campagnatico (Grosseto), Tarquinia e Canino (Viterbo), Gravina (Bari), Matera e altre aree a cavallo tra Puglia e Basilicata nelle aree tra Matera, Altamura (Bari) e Laterza (Taranto).

Nella classe B sono invece incluse tutte le aree idonee individuate in Sardegna (tra le province di Oristano e Sud Sardegna) e una nel nisseno in Sicilia. L’insularità – come si legge nella relazione che accompagna la mappa – comporta ai fini del conferimento delle scorie al deposito una “complessità logistica aggiuntiva dovuta alla realizzazione o adeguamento di idonee aree di stoccaggio dei rifiuti nelle aree portuali d’imbarco e di sbarco e alla predisposizione di una banchina dedicata e fornita di adeguate attrezzature di movimentazione dei contenitori, a norma di sicurezza nucleare”. Ma anche per “la necessità di navi adatte al trasporto dei materiali, oneri autorizzativi aggiuntivi”. Insomma una organizzazione logistica e di controllo aggravata e difficilmente si pescherà da lì. E meno che mai tra le 29 aree, idonee ma in zona sismica 2, inserite in fondo alla classifica di idoneità: vi si trovano tre siti siciliani (uno in provincia di Palermo, due di Trapani) insieme a 15 siti del viterbese nel Lazio, e altri 11 localizzati in Basilicata, tra le province di Matera e Potenza.

I presidenti delle Regioni, comunque, sono tutti o quasi sul piede di guerra e non solo quelli eletti col centrodestra come Vito Bardi (Basilicata) o Christian Solinas (Sardegna). Mettono le mani avanti anche i dem Michele Emiliano (Puglia) e Eugenio Giani (Toscana). Una fonte di governo spiega il perché di una scelta tanto scomoda proprio in un momento già difficile per altri motivi: il deposito e annesso parco tecnologico potrebbero ambire ai fondi del Recovery. Ma poi si lascia sfuggire pure qualcos’altro: “Lazio e Piemonte sono più papabili. Il Piemonte più del Lazio”. Nel caso della Regione governata da Nicola Zingaretti la posizione centrale renderebbe più agevole il trasferimento di tutte le scorie oggi sparse nei vari depositi di fortuna allestiti sul territorio italiano. Nel caso di quella di Alberto Cirio per la prossimità con la Francia (da cui dovranno rientrare i rifiuti radioattivi mandati Oltralpe per essere inertizzati) oltre che per la presenza della pesante eredità nucleare, rappresentata dall’ex centrale di Caorso e dagli impianti di Saluggia e Bosco Marengo.

Quelli che erano pronti: la Toscana per esempio

Il Presidente della Regione Toscana Eugenio Giani dice sconsolato che, dopo settimane di pianificazione e duro lavoro, “era tutto pronto” per riaprire le scuole domani. Poi, il governo ha rinviato all’11 il ritorno in classe, al 50%, degli studenti delle superiori. Ma, nella cacofonia dei governatori che lunedì esprimevano la loro contrarietà alla riapertura delle scuole, la Toscana si è caratterizzata per la sua posizione controcorrente: “Dal 7 si riapre” aveva annunciato l’assessore alla Scuola, Alessandra Nardini. Ma come?

Il lavoro della Regione Toscana parte a inizio ottobre, quando la Provincia di Prato era stata la prima a sperimentare il progetto “Scuola sicura” istituendo, insieme alla Asl, un drive through (punti dove fare tamponi dalla propria auto) proprio nei pressi di tre istituti scolastici. Questo esperimento è stato ripreso e allargato con la delibera della giunta regionale con il quale, dopo un lungo lavoro di concertazione con prefetture e presidi, è stato messo in piedi un piano di riapertura delle scuole. Che si basa su tre pilastri: lo scaglionamento di ingressi e uscite, l’ampliamento del trasporto pubblico locale e un regolare sistema di tracciamento.

In primis gli alunni potranno entrare in classe fino alle 10 del mattino. Ma il cuore del piano è quello che riguarda il trasporto pubblico locale: i bus a disposizione degli studenti saranno 3.000, di cui 2.700 delle aziende del tpl più 329 di piccole aziende di bus turistici. Per dare l’idea, solo nella città Metropolitana di Firenze ci saranno 47 bus dedicati agli studenti, 46 ad Arezzo, 45 a Siena e così via. Per far rispettare la capienza del 50%ad ogni fermata ci saranno steward e “facilitatori” (volontari o dipendenti delle coop): a Firenze, per esempio, sono previsti 45 steward e 16 facilitatori. Per il tpl, l’investimento della Regione è di 4,5 milioni di euro che saranno rimborsati dal governo.

il tracciamento: accanto alle scuole più capienti di ogni provincia saranno istituiti dei gazebo (in tutto 12) per testare gli alunni che manifestano sintomi a scuola e per fare lo screening dei compagni. Inoltre, l’Ars (Agenzia Regionale Sanitaria) monitorerà la situazione dei contagi nelle province e gli studenti delle aree più colpite saranno testati a campione. Il Presidente Giani che la Toscana possa fare da modello: “Per noi la didattica in presenza è fondamentale – conclude – i nostri studenti non possono essere sempre quelli da sacrificare”.

Dove il contagio sale L’Emilia-Romagna a ruota del Veneto

Negli ultimi 14 giorni, fino al 4 gennaio, il Veneto ha registrato 904 nuovi contagi ogni 100 mila abitanti, secondo i dati trasmessi giornalmente al ministero della Salute. Sono in calo (meno 9,5%) rispetto ai 14 giorni precedenti (8-21 dicembre), ma quasi il triplo della media nazionale che si attesta a 314 contro 343 nelle due settimane precedenti. Il calo è dell’8,4% a livello nazionale, ma da allora in Italia i tamponi sono diminuiti di oltre il 30%, molto meno in Veneto. Se l’obiettivo è arrivare a 50 nuovi casi a settimana ogni 100 mila persone, come dice il ministero della Salute, non è dietro l’angolo. E non solo nel Nord-Est. Belluno è la provincia più colpita con 1.055 nuovi casi ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni, seguono Treviso (1.042), Venezia (965), Verona (936), Padova (800), Vicenza (757), al settimo posto c’è Gorizia (715), all’ottavo Rimini alla pari con Rovigo (670), poi ancora la Romagna con Forlì-Cesena (584) e Ravenna (568). Trieste è dodicesima (548), Bologna tredicesima (490) seguita da Piacenza (469) e Modena (463). Al sedicesimo posto Vibo Valentia (460), una sorpresa perché per mesi ha avuto meno casi di tutti: si deve in parte ai focolai della frazione Piscopo di Vibo e di Fabrizia, dichiarati zona rossa il 28 dicembre dalla Regione. La 17esima provincia è Pesaro-Urbino (439), seguono Foggia (424), la prima provincia lombarda che al momento è Mantova (419) e di nuovo l’Emilia con la confinante Ferrara (417). Roma è 43esima (286), Milano 59esima (223), Torino 66esima (211), Genova 72esima (197), Napoli 73esima (193). Bergamo terzultima (87), poi Grosseto (81) e Crotone (72).

A livello regionale, dopo il Veneto, a una certa distanza, c’è l’Emilia-Romagna con 475 nuovi casi negli ultimi 14 giorni in aumento sulle due settimane precedenti (446). Poi il Friuli-Venezia Giulia (462 ma in calo da 739) e le Marche (passate invece da 303 a 365). Appena sotto la media nazionale (314) il Lazio (da 291 a 302) e la Puglia (da 377 a 300). Aumentano i nuovi casi in Sicilia (da 234 a 238), Umbria (da 220 a 238), Basilicata (da 170 a 183) e Calabria (da 124 a 172). La Toscana ne ha avuti meno di tutti: 149 per 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni contro 183 tra l’8 e il 21 dicembre. “Se però guardiamo alla percentuale di positivi sui casi testati per la prima volta, che ha avuto il suo picco il 2 gennaio al 39% – spiega il matematico Giovanni Sebastiani del Cnr – tutti aumentano, tranne Bolzano, la Campania e la Valle d’Aosta”. Sebastiani ha analizzato anche i nuovi ingressi giornalieri nelle terapie intensive, che ieri sono stati 202 (lunedì 136): “Da sette-otto giorni aumentano in Abruzzo, Bolzano, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Sicilia, Umbria e Veneto”. I posti letto occupati nelle rianimazioni sono scesi ieri di 10 unità, ma non diminuiscono più al ritmo delle prime tre settimane di dicembre. “Purtroppo – dice Sebastiani – aumenteranno anche i decessi: abbiamo imparato a curare meglio la malattia, non i casi più gravi. Ieri sono stati registrati 649 morti, la media sale a 471,4 negli ultimi 7 giorni contro i 455,3 dei 7 precedenti. Sono 15.378 i nuovi casi notificati con 135.196 tamponi, per un indice di positività dell’11,38% (lunedì era 13,5%) che sale al 28,2% sulle persone testate per la prima volta (54.512). Con le nuove regole, sollecitate dal ministro Roberto Speranza, sarà possibile disporre la zona “arancione” per le Regioni che hanno Rt (l’indice di riproduzione del virus che si calcola solo sui sintomatici e non su tutti i contagi rilevati proprio per evitare l’effetto-tamponi) pari o superiore a 1 (e la “rossa” a 1,25). Ora le Regioni sono tutte “gialle”, con il monitoraggio di venerdì alcune cambieranno colore. In Basilicata, Calabria, Liguria, Lombardia, Puglia e Veneto, Rt ha già raggiunto o superato 1 all’ultima rilevazione; Emilia-Romagna, Marche e Friuli-Venezia Giulia erano appena sotto.

 

La rissa in Cdm: il Pd di traverso e la scuola riapre (forse) più tardi

Di scuola non si sarebbe dovuto parlare e invece è stato l’argomento che ha tenuto banco per ore nel Consiglio dei ministri notturno tra lunedì e martedì. Ad aprire l’argomento è stato Dario Franceschini, capo delegazione del Pd, mettendo sul tavolo un problema “politico”, ovvero l’intenzione del segretario dem e governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, di far slittare ancora una volta la riapertura delle scuole superiori. I toni sono stati accesi, la minaccia praticamente esplicita che se il governo non si fosse adeguato alle richieste, anche il Lazio avrebbe comunque emesso un’ordinanza per posticipare le aperture in Regione. Con lui avrebbero fatto lo stesso tutte le altre amministrazioni Pd, Emilia Romagna in testa: non una citazione a caso perché, secondo alcune fonti, sarebbe stato proprio Bonaccini a pressare Zingaretti per il rinvio del ritorno sui banchi.

Chiunque si sia mosso prima, il messaggio del Pd è chiaro: la scuola va considerata come bar, ristoranti e palestre e, alla bisogna, potrebbe anche rimanere chiusa fino alla fine dell’emergenza. Così, in poche ore, sono stati annullati giorni di rassicurazioni, a partire da quelle del ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia che lunedì ancora invitava alla riflessione i governatori più interessati alla riapertura delle strutture sciistiche che a quella delle scuole. Esito: slittamento della riapertura delle superiori (al 50%) l’11 gennaio come compromesso di fronte alla richiesta di ripartire venerdì 15, che in realtà era l’anticamera del rinvio a oltranza.

Venerdì 8 gennaio, in base al nuovo monitoraggio sulla situazione dei contagi, si saprà come cambieranno i colori delle regioni. Il rischio, dice chi ha premuto per rimandare la campanella delle scuole superiori, era che alcune scuole riaprissero solo per un paio di giorni. Ipotesi che non spaventava il ministero dell’Istruzione, dove si è (era) certi che da un lato si stessero mettendo in campo tutte le misure necessarie a evitare che si tornasse alle zone rosse e che dall’altro fosse un rischio che valesse la pena di correre, anche considerando che riaprire le superiori per due giorni al 50% non avrebbe certo causato un picco di contagi.

Tanto più che – almeno a parole – tutto è pronto per far tornare due milioni di studenti sui banchi (cinque milioni delle elementari e delle medie ci stanno ormai già da mesi). Proprio il Lazio di Zingaretti, per dire, ieri ha dato prova orale di grande organizzazione attraverso un fitto rullo di annunci: “Il piano dei trasporti del Lazio è pronto”, “ci saranno mille nuove corse al giorno”, “a Roma piano anti assembramento alle fermate”, “prorogata l’ordinanza sulle aperture delle attività commerciali” e finanche “scuola Sicura, tampone gratuito per i ragazzi tra i 14 e i 18 anni”. Qual è dunque il problema di questa Regione, che oltretutto non è neanche tra quelle più a rischio per andamento dei contagi?

Le decisioni di queste ore sulla scuola non sono del tutto – eufemizzando – basate sulle evidenze scientifiche. Le Regioni, così come per le chiusure, hanno infatti autonomia anche sulle aperture: dunque, se davvero a preoccupare fosse la situazione “locale” dei contagi e l’impreparazione di alcuni enti territoriali, ognuna avrebbe potuto scegliere autonomamente di rimandare, come peraltro fanno da mesi Campania e Puglia.

Il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta, ad esempio, hanno deciso di aprire comunque le superiori il 7 gennaio. “Se si hanno contagi altissimi – ha detto ieri la ministra Azzolina – posso anche capire, ma allora se si chiude la scuola si deve chiudere tutto il resto, anzi la scuola dovrebbe essere l’ultima. Se invece i contagi non sono alti, e ne abbiamo territori così, la scuola deve restare aperta”. Tanto più che anche il piano trasporti, rassicurano dal ministero competente (a guida Pd), è pronto.

Secondo alcune fonti di governo, la questione scuola si mischia con la crisi politica. Detto in soldoni: lo stop alla riapertura sarebbe la spia delle ambizioni dem sulla poltrona di Lucia Azzolina in caso di rimpasto. Il ministero dell’Istruzione, superata la fase Covid, dovrà peraltro occuparsi di concorsi, contratti e aumenti per i docenti: temi su cui le posizioni dei 5 Stelle e del Pd spesso non sono allineate.

Aspi, la guerra interna tra i dirigenti “Cacciali tutti o addio concessione”

Le inchieste incalzano, la concessione è appesa a un filo e ai vertici del gruppo Atlantia, che controlla Autostrade per l’Italia (Aspi), si scatena una guerra senza esclusione di colpi. È il 24 gennaio 2020 quando la Guardia di Finanza intercetta una conversazione fra Alessandro Benetton, figlio di Luciano, e Gianni Mion, storico manager di famiglia, richiamato al timone di Edizione (che controlla Atlantia) dopo il crollo del Ponte Morandi.

Toni e giudizi sono durissimi, anche nei confronti di manager apicali come Carlo Bertazzo (da dieci giorni ad di Atlantia) e Fabio Cerchiai (presidente di Atlantia): “Anche lui conosceva… – dice Benetton – Non dico che fosse direttamente coinvolto, ma complementare, contiguo al sistema. Era presidente delle due società”. Per entrambi, inoltre, l’accusa è di essere troppo morbidi con l’entourage ancora legato all’ex Ad Giovanni Castellucci, gente che “racconta in giro che i Benetton sapevano sempre tutto, che hanno approvato sempre tutto e che Castellucci ha fatto sempre quello che gli dicevano i Benetton”, si sfoga Mion. “È pazzesco”, replica Benetton. Dai colloqui emerge spesso la paura più grande: la perdita della concessione. “C’è tutto un movimento che va verso la stessa parte, Cassa depositi e prestiti, di cui loro sono tutti, come si può dire, tra ex…”. E ancora: “Non c’è dubbio che è stata la Cassa depositi e prestiti che ha insufflato tutti ’sti 5Stelle per un anno e mezzo… per cacciarci a calci nel culo – dice ancora Mion il 28 gennaio – così però si è anche visto che mentre pensavano che bastasse parlare del Ponte e dei Benetton si aumentavano i voti del 15%… non mi sembra che abbiano avuto più voti. La gente ha capito che è tutta una stronzata…”. “Bisogna tenere la barra – risponde Benetton – i livelli e le posizioni”. “Esatto! – conclude Mion – Dobbiamo riportare le aziende in galleggiamento come stavano prima, dopodiché se c’è qualcuno che dice: ‘I Benetton devono andare a casa’, vediamo quali sono i termini”.

La famiglia, insomma, vuole un repulisti ed evitare di essere travolta dalla caduta di Castellucci: “Stamattina ho fatto a pezzi Bertazzo… E, come si chiama… Cerchiai – dice Mion – c’hanno ancora quello stronzo di Delzio e tutta la sua corte…”. “E mandatelo via però”, lamenta Benetton. Francesco Delzio ha curato per dieci anni le relazioni esterne di Atlantia. Nel 2014 fu tra i fondatori di VeDrò, think tank poi chiuso dell’ex premier Enrico Letta. “Addirittura c’è una certa dottoressa Giordani, che è stata sottosegretaria alla Cultura – prosegue Mion – dice che Castellucci faceva tutto quello che dicevano i Benetton. E quindi dico, ma cazzo, non è nemmeno più spendibile alle relazioni istituzionali… mandate a casa ’sta gente”. Il riferimento è a un’altra lobbista molto nota, Simonetta Giordani, passata da Letta alla Leopolda, appena entrata nel cda di Alitalia in quota Italia Viva. Delzio e Giordani hanno lasciato Atlantia a metà 2020. Questo dietro le quinte del potere mostra lo spaesamento per la mancanza di sponde politiche, soprattutto con l’arrivo del M5S: “Ieri la ministra (De Micheli, ndr) è andata a vedere i lavori da duecento e fischia di milioni di euro che sta facendo Adr (Aeroporti di Roma), è un messaggio, no? – dice Mion – il Pd si barcamena fra questi scemi dei 5Stelle. Il fatto che sia andata lì con te è significativo, non ti ha messo lo stigma del lazzarone”.

Il momento è difficile. “Poi ci sono ’sti cazzo di Mapuche”, commenta Mion. I Benetton controllano uno tra i più grandi latifondi della Patagonia e gli indigeni reclamano la terra. Il problema, dice Benetton, “è di comunicazione”. La cattiva stampa pesa sugli utili: “Qui dividendi non ce n’è”, dice Mion. “Eh ma bisogna vendere immediatamente Cellnex”, propone Benetton. Mion alla fine verrà sostituito con Enrico Laghi. Un avvicendamento seguito alla pubblicazione di intercettazioni in cui lo stesso Mion così commenta le politiche del gruppo e il ruolo dei Benetton: “…negli anni le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo e meno facevamo, così distribuiamo più utili… e Gilberto (Benetton) e tutta la famiglia erano contenti”.

Sostegni: “1,5 milioni intestati a me in Svizzera, non lo sapevo”

“Io andavo a chiedere a Scillieri 100 euro per tornare in Toscana e poi ho saputo che avevo 1,5 milioni intestati a me in Svizzera, non sapevo che quei soldi erano su un mio conto”. Lo ha detto ieri ai cronisti che gli facevano domande all’interno del Tribunale di Milano Luca Sostegni, subito dopo aver patteggiato per il caso Lombardia Film Commission (Lfc) una condanna a 4 anni e 10 mesi, più una multa da mille euro e un risarcimento di 20mila. La dichiarazione di Sostegni rivela un particolare inedito dell’intricata vicenda per la quale sono accusati di peculato, tra gli altri, i commercialisti della Lega, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, un altro contabile legato al partito, Michele Scillieri, e l’imprenditore Francesco Barachetti. Sono tutti accusati dai magistrati Eugenio Fusco e Stefano Civardi di aver beneficiato personalmente degli 800mila euro pubblici usati dalla Lfc (ente controllato da Regione Lombardia) per acquistare un immobile in provincia di Milano. Sostegni – davanti al gip Raffaella Mascarino, ieri ha ammesso di aver fatto da prestanome per l’operazione – sarebbe quindi l’intestatario di un conto corrente in Svizzera con all’attivo 1,5 milioni. Se vera, l’informazione potrebbe permettere ai magistrati della Procura di Milano di scoprire altre novità sul giro dei commercialisti leghisti. Perché l’operazione portata a termine dalla Lombardia Film Commission valeva circa la metà rispetto a quel milione e mezzo parcheggiato in Svizzera. Segno che i soldi accumulati oltreconfine derivano da altro.

Arrestato a luglio mentre tentava di fuggire in Brasile, Sostegni aveva appena cercato di ottenere dai commercialisti del Carroccio 50mila euro in cambio del suo silenzio con la stampa sull’operazione Lfc. È stato in carcere per 4 mesi, durante i quali i pm lo hanno più volte interrogato, dopodiché gli sono stati concessi i domiciliari. “Ritengo di averne avute di responsabilità, ma penso di averne avute marginalmente, anche perché chi se ne è approfittato maggiormente sono stati Di Rubba e Manzoni”, sono state le sue parole ieri. Toscano, 62 anni, alle domande dei cronisti sulla possibilità che parte dei soldi della Lfc siano finiti alla Lega ha detto: “Può darsi, io non lo escludo, mi piace parlare delle cose che so, io non li ho visti quei soldi. Mi sono sentito usato in un gioco molto più grande di me, ora altri dovranno chiarire”. Barachetti, Di Rubba e Manzoni finora si sono rifiutati di rispondere alle domande dei magistrati. Scillieri è stato invece già interrogato più volte. E ha parlato fra le altre cose del sistema del 15%: quello per cui lui, come tanti altri, in cambio di nomine in enti a controllo pubblico avrebbe dovuto versare parte del suo compenso al partito. Un’accusa che va ben oltre i confini lombardi, e sulla base della quale i magistrati milanesi stanno continuando a indagare. Per il presunto peculato commesso ai danni della Lfc, invece, si avvicina il giudizio immediato. I pm Fusco e Civardi potrebbero presentare la richiesta già nelle prossime settimane.

Il Covid manager è un esterno, costo: 55mila euro

Quartultima. È la posizione raggiunta ieri dalla Lombardia nella classifica delle Regioni italiane per vaccini somministrati. Alle 17.45 di ieri, risultava somministrato il 14% delle dosi disponibili, pari a 11.302 persone. Peggio hanno fatto solo Molise (12%), Sardegna (7%) e Calabria (6%). Per la locomotiva d’Italia una partenza diesel che nemmeno gli annunci roboanti di Matteo Salvini riescono a nascondere: “Per mettere fine alle polemiche chiediamo al governo di mandare in Lombardia tutte le dosi disponibili perché noi entro la settimana esauriamo la prima scorta”, ha detto ieri il leader leghista. “Se non mandano personale promesso e siringhe giuste, la settimana prossima in Lombardia rischiamo di non sapere chi vaccinare”, aveva aggiunto. Anche se trovare i candidati a cui somministrare i vaccini sembra essere l’ultimo dei problemi.

A fare acqua appare ormai l’intera organizzazione del piano vaccinale, messo a punto dal covid manager Giacomo Lucchini. L’unico piano, in Italia, elaborato da un consulente esterno. Gli altri “responsabili campagne vaccinali”, quelli delle Regioni che stanno dimostrando performance quasi triple rispetto a quelle lombarde (come Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Campania), sono stati infatti tutti scelti tra il personale interno, tra i funzionari delle Regioni stesse. Quindi, sono tutti a “costo zero”.

La consulenza esterna di Lucchini invece è stata ben pagata: 55 mila euro. La cifra è racchiusa nella gara (“Richiesta di preventivo per l’acquisizione con la massima urgenza del servizio di assistenza tecnica a supporto delle attività di regione per piano vaccini anti-covid”) bandita dall’Agenzia di acquisti regionale Aria il 14 dicembre e chiusa il 16, due giorni dopo. Tuttavia Lucchini ha iniziato a ricoprire la carica ben prima, tanto che il 2 dicembre il manager veniva indicato ufficialmente alla struttura del Commissario Arcuri come “covid manager della Lombardia” in una lettera firmata dal direttore generale del settore Welfare, Marco Trivelli.

Per Lucchini, l’attività effettuata prima della gara del 14 dicembre, era stata svolta in base a un’altra consulenza bandita da Aria e vinta da Kpmg. Un’anomalia che sta suscitando più di un malumore. “Il M5S sta cercando di fare luce sulla nomina di Lucchini a responsabile operativo regionale del piano vaccinale anti Covid”, dice Massimo de Rosa, capogruppo alla regione. “A noi al momento non risultano atti ufficiali che ne ufficializzino il ruolo o almeno questi non sono stati resi pubblici. L’unico bando di gara che sembra essere collegabile alla mansione poi affidata al Lucchini è del 14 dicembre. Come è stato selezionato e quando rimane un mistero che intendiamo chiarire al più presto”.

Dubbi anche ne Pd, soprattutto rispetto alle eventuali responsabilità. “Tra le delibere di giunta manca quella della sua nomina ufficiale a responsabile”, attacca il consigliere Pietro Bussolati, “manca cioè il documento che definisca ruoli e responsabilità del piano”. Per Bussolati, si tratta dell’ennesima riprova della confusione che ormai domina la giunta Fontana, “che mette a rischio la salute dei cittadini lombardi”.