Muccioli, signore sul trono nel regno di San Patrignano

“SanPa” è il migliore racconto televisivo mai fatto su quella scheggia di mondo nato quarant’anni fa, sulle colline sopra Rimini, dove hanno vissuto (e ancora vivono) migliaia di disarmati guerrieri, che negli anni di fuoco dell’eroina e degli inferni artificiali, si sono inventati il modo di resistere al vuoto della droga, di fermarsi finalmente e di creare la più grande comunità di recupero d’Europa, San Patrignano.

E raccontandola al passato – compresi gli errori, i furori, il sangue versato – spiega le buone ragioni del suo presente, grazie a una rivelazione che le cinque puntate del documentario svelano un po’ alla volta, faccia dopo faccia. E solo alla fine del labirinto.

San Patrignano è cresciuta dritta sulle colline sopra Rimini, dall’anno 1978 in poi, e qualche volta storta nella cronaca. Sempre intrecciata alla storia e anche ai misteri del suo fondatore, Vincenzo Muccioli, un metro e novanta, 130 chili di eloquio torrenziale, esperto di sedute spiritiche e di reincarnazioni, che si considerava venuto al mondo per salvare quelli che non voleva più nessuno, i tossici, le scorie dell’eroina di strada, i sopravvissuti, che però volevano sopravvivere.

Lui li accoglieva con gli abbracci del cuore e le serrature della disciplina. Offriva lavoro, studio, socialità, una mappa abitabile della nuova vita. Chiedeva, a chi oltrepassava la sbarra d’entrata, di non piegarsi mai più alla sconfitta del buco che buca l’anima. Di camminare dritti. Di non essere più soli. Di reagire tutti insieme alla paura dei giorni a venire. Offriva la sua strada in salita e nessuna scorciatoia: salvava e puniva. Era la luce e il buio. Era la legge. L’amico e il nemico di tutti, anche di se stesso.

Vennero cento ragazzi, all’inizio. Poi cinquecento. Poi duemila. San Patrignano divenne un caso nazionale. Un caso politico, e anche giudiziario, difeso dai socialisti di Craxi e dalla destra proibizionista, per le ragioni sbagliate. Osteggiato dalla sinistra ufficiale che non si fidava delle sua intraprendenza, fumo negli occhi per quella libertaria, per ragioni così tanto ideali da risultare inservibili.

Muccioli autoritario piaceva all’opinione pubblica, alle famiglie sfinite dalla guerriglia dei figli tossici: basta buonismo, i drogati vanno messi in riga, anche con gli schiaffi. Piaceva anche quando la cronaca raccontava di gabbie di contenzione, catene alle caviglie, botte pesanti nei reparti, ai disobbedienti, agli indisciplinati.

E quando saltò fuori il corpo massacrato di Roberto Maranzano, ucciso a pugni nel reparto macelleria, poi trasportato nottetempo fino a una discarica vicino a Napoli, divenne “lo scandalo di SanPa”, che divise in due l’Italia.

La prima volta che sono arrivato a San Patrignano, l’omicidio era appena stato scoperto, anno 1993. In Comunità c’erano polizia e telecamere. Muccioli, circondato da avvocati, era seduto di fronte alla baraonda dei riflettori e dei cronisti: rispondeva, improvvisava, mentiva. Diceva che quel ragazzo morto era un fulmine a ciel sereno, non capiva, non sapeva.

Si scoprì il contrario. Per settimane saltarono fuori altri testimoni, altre prove, persino cassette registrate compromettenti. Fino a quando Muccioli ammise, sapeva tutto da quella notte di sangue e depistaggio, coprì “solo per difendere la Comunità” da un reparto andato fuori controllo.

Dopo un mese di colpi di scena, Muccioli restava imperturbabile. Un giorno, a metà della strada principale, scese dalla sua Land Rover, mi disse che non gli piaceva il tono dei miei articoli e pensava di querelarmi. Poi rise, disse: seguimi. Entrai con lui in quella cattedrale che era la mensa, dove stavano mangiando i 2 mila ospiti, un mare di teste chine. Attraversammo in lungo i cento metri della sala, camminando al centro, nel silenzio generale. In fondo c’era il suo tavolo e una sedia immensa, sproporzionata, grande tre volte le altre: un trono di legno e aria. Lui regnava da lì. Ed era quello che voleva farmi vedere. Il simbolo del suo dominio. Che coincideva con la sua vita e con quella dalla sua comunità. E guardando quel mare di teste che avevamo di fronte, ascoltando quel silenzio, gli credetti. Sbagliando.

Era uno strano mondo quello di San Patrignano. Intenso di facce e di storie. Ragazzi e ragazze che venivano dal Veneto ricco e dalla Sicilia agricola, dall’alta borghesia e dai ghetti. Una ragazza mi disse che aveva vissuto dieci anni in strada, un’altra che aveva rischiato di morire tre volte. Ex studenti mi raccontavano le notti in carcere o nei reparti psichiatrici. Ascoltavo storie di prostituzione, furti, Aids. Rinascite e ricadute. Per tutti, Muccioli era la roccia dopo il naufragio.

Quello era il tempo, in Italia, in cui l’eroina faceva morti e feriti. I preti di strada benedivano i corpi infagottati tra le sterpaglie dei giardini pubblici, all’alba. Le madri li piangevano. Lo Stato versava gocce di metadone nell’abisso. I politici offrivano legge e ordine, tranne i radicali di Pannella e i movimenti della sinistra giovanile che inauguravano le battaglie antiproibizioniste fatte di enormi quantità di parole in cima a altre parole.

Muccioli si occupava dei feriti. Li raccoglieva e li rimetteva in piedi. Diceva ai politici: voi chiacchierate, io faccio. Voi li tenete alla larga, io li salvo.

Aveva cominciato da solo: il suo podere, i primi capannoni, le prime roulotte. Ma i soldi veri erano arrivati dalla famiglia Moratti, quella del petrolio, più le donazioni di certi cantanti e attori che risarcivano il loro senso di colpa per i figli perduti. In dieci anni si era ingrandito di dieci volte. Allevava cani e cavalli di razza. Produceva vino, tessuti, mobili, più tutto quello che serviva: il cibo, i corsi, i laboratori. Gli scandali e i processi, avevamo moltiplicato la sua visibilità e anche il suo potere. Furoreggiava in tv. Sembrava destinato a regnare anche sulla politica: un profeta carismatico che conosceva il fine ultimo dell’esistenza, il disordine del mondo, i suoi rimedi.

Uscì ridimensionato dal processo Maranzano. Poi fu la malattia, anno 1995, a interrompere la sua parabola durata 17 anni. Ne sono passati altri 25. Ed è questa la rivelazione di “SanPa”, attraverso i molti che raccontano gli errori della Comunità, la sua crescita, la sua evoluzione, dopo quel trono vuoto. Perché è da quel trono vuoto che le migliaia di ragazzi venuti dopo, si sono rimessi in cammino per fare di San Patrignano il loro rendiconto e la loro repubblica.

 

“Esiste una copia dell’agenda rossa: ce l’ha Graviano”

Il filo nero che lega la strage di Bologna a quella di Capaci ha il volto di Paolo Bellini, killer vicino ai Servizi e arriva sino ai fratelli Graviano, che potrebbero essere stati affittuari nell’estate del ’93 di una villa in Sardegna a poco più di un chilometro in linea d’aria da quella di Berlusconi, alla vigilia della sua “discesa in campo”. Colmando un ritardo di oltre 20 anni dell’informazione italiana, la Rai offre per la prima volta in prima serata con Report il cuore nero dell’Italia stragista tracciato nel 1997 dall’inchiesta “Sistemi Criminali” dei pm Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato, mostrando gli intrecci ancora irrisolti tra eversione nera, Servizi, Cosa Nostra, P2 e capitali mafiosi che hanno condotto il Paese nel tunnel del “doppio Stato”, segnato da una trattativa sancita da una sentenza di primo grado e da patti e ricatti sotterranei di una lunga stagione politico istituzionale. Al centro dei quali, ancora una volta, i misteri dell’agenda rossa, oggi, rivela Salvatore Baiardo, un gelataio piemontese di origini siciliane che all’inizio degli anni 90 curò la latitanza dei fratelli Graviano, in mano a “più persone, tra cui Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, e non solo”.

Davanti alle telecamere di Report Baiardo conferma e anzi rilancia gli incontri tra Graviano e Silvio Berlusconi (“Sono stati più di tre, io li ho visti”) e consegna anche i nomi delle altre persone in possesso dell’agenda (“C’è stato un grosso incontro a Orta”). Si tratta di rivelazioni tutte da verificare.

Berlusconi e Dell’Utri negano da decenni quanto affermato da Baiardo che in passato fu ritenuto non attendibile dal pm di Firenze Giuseppe Nicolosi. Però (in linea generale e non sul punto specifico) in trasmissione la sua attendibilità su alcune cose dette allora viene asserita dal dirigente nel Nucleo anticrimine della Polizia Francesco Messina, autore nel ’97 di una informativa sui contatti e sui movimenti dei Graviano nel ’93 che non ebbe alcun seguito giudiziario. Allora, infatti, le indagini si bloccarono sulla soglia dell’accertamento del rapporto Graviano-Berlusconi (comunque poi negato nella sentenza definitiva del processo Dell’Utri). Perché? “A questa domanda non so dare una risposta – dice il dirigente –. L’informativa sulle stragi del ’93 fu depositata e non è mai pervenuta una delega”.

E se sullo sfondo di ricatti sotterranei Baiardo si spinge a decifrare le parole di Graviano (“Sta buttando lo zuccherino”), che ha chiamato in causa Berlusconi, sostenendo di ritenere “non impossibile” una speranza di scarcerazione per il boss di Brancaccio, è Ranucci a sottolineare il rilievo double face delle parole del favoreggiatore del boss: “Baiardo è come se ci dicesse: guardate che l’agenda rossa c’è e potrebbe saltare fuori. Tu Stato, hai le spalle talmente grandi da reggere le verità che là sopra sono scritte? Ma potrebbe esserci anche un’altra lettura: ‘Tu, Stato deviato, che temi che possa essere pubblicata, sei disposto a consentire un po’ di libertà?’”. Poi Report intervista uno dei collaboratori più stretti di Paolo Borsellino. Nel maggio del ’92, prima della strage di Capaci, Borsellino entra nella stanza del collaboratore Giovanni Paparcuri e gli chiede: “Giovanni, ma c’hai qualcosa su Berlusconi?”. “Io francamente cado dalle nuvole perché questo Berlusconi io, fino a quel momento, non l’ho mai sentito”, dice Paparcuri, convinto che quella curiosità gliel’aveva fatta venire Falcone, che aveva appuntato su un foglietto, poi ritrovato dallo stesso Paparcuri, le rivelazioni di Marino Mannoia sui finanziamenti di Berlusconi ai mafiosi.

Un contesto stragista che parte da Bologna, e dal ruolo di Paolo Bellini, presente sia il 2 agosto alla stazione sia alla fine del ’91 a Enna, nel territorio in cui Cosa Nostra e i suoi alleati occulti progettavano di “farsi Stato” a suon di bombe. Bellini era stato infiltrato in Cosa Nostra dal Ros del generale Mori eppure “non fu fatta un’attività molto seria su Paolo Bellini di monitoraggio, di pedinamento, di controllo, di un Gps sotto la macchina con cui andava in Sicilia – dice il numero uno del Dap Roberto Tartaglia –. Ecco, un’operazione del genere portava direttamente da un lato a Salvatore Riina e dall’altro a Matteo Messina Denaro’’.

A procurare in quel periodo i cellulari ai mafiosi stragisti è Giorgio Graziani, un rivenditore romano legato ai Servizi. “Ho acquisito i tabulati – dice l’ex funzionario della Polizia Gioacchino Genchi – ho chiesto alla Sip, all’epoca, di fornirmi gli intestatari. La Sip mi risponde: questi numeri non esistono, non sono mai stati attivati. Eppure avevo i tabulati. Da accertamenti abbiamo visto che quei numeri erano stati attivati in una sede particolare della Sip di Roma, Roma Nord, all’interno della quale c’era un insediamento dei servizi di sicurezza’’.

Uranio al 20%, Teheran vuole l’Atomica a tutti i costi

Teheran lo ha annunciato ieri e l’Aiea, Agenzia internazionale per l’energia atomica, lo ha confermato: l’Iran comincia il processo di arricchimento dell’uranio al 20%. Preoccupazioni della Commissione europea, minacce di Netanyahu: il premier ha già ribadito che “Israele non permetterà all’Iran di produrre armi atomiche”. Accade esattamente un anno dopo l’assassinio del generale Qasem Soleimani da parte degli Stati Uniti, che hanno rafforzato in questi anni le sanzioni contro il regime degli ayatollah. La nuova Washington di Joe Biden si è già detta invece disposta a riaprire il dialogo con la Repubblica islamica. Grazie a sei centrifughe dell’impianto nucleare di Fordo, a duecento chilometri da Teheran e poco lontano dalla città di Qom, l’uranio verrà introdotto nei bunker già bersaglio di raid israeliani susseguitisi prima del 2015, anno del “Piano d’azione congiunto globale”, ovvero l’accordo sul nucleare siglato da Teheran con i partner occidentali in cambio della fine delle sanzioni.

Come riferito dal portavoce del governo Ali Rabiei, l’ordine d’avvio alle operazioni è arrivato dal presidente Hassan Rouhani, contrario all’iniziativa ma obbligato a procedere dopo l’approvazione della “legge per il rafforzamento dell’attività nucleare”, emendamento sostenuto lo scorso dicembre dai suoi avversari più radicali in Parlamento. La norma impedisce, tra l’altro, future visite degli ispettori dell’Aiea su suolo iraniano. Esegue “come un soldato che obbedisce agli ordini del comando” anche Ali Akbar Salehi, a capo dell’agenzia atomica iraniana, ponendo però un interrogativo sulle mille centrifughe di ultima generazione da costruire: “Dove prenderemo i soldi?”.

Intanto i pasdaran bloccano una nave sudcoreana nello Stretto di Hormuz. La Guardia rivoluzionaria ha dirottato un cargo partito dal porto saudita di al Jubail con destinazione Emirati arabi; è stato sequestrato per procedure di controllo dettate da rischio di “inquinamento ambientale”: a bordo ci sarebbero 7.000 tonnellate di etanolo.

Assange, no a estradizione negli Usa: “Rischia la vita”

Nessuno se l’aspettava. La sentenza del giudice inglese Vanessa Baraitser di non accogliere la richiesta del governo degli Stati Uniti di estradare Julian Assange ha sorpreso tutti. Quando ieri mattina Baraitser ha iniziato a leggere la sua sentenza, il caso era apparso a tutti disperato: ha rigettato uno per uno gli argomenti della difesa di Assange, in particolare ha sentenziato che le attività di pubblicazione dei documenti da parte di WikiLeaks non sono protette in modo illimitato dalla libertà di stampa e di espressione.

Ma poi la sorpresa. Tremendamente dimagrito, completo blu scuro, mascherina, atteggiamento stoico tradito solo dalle mani, che si tormentava durante l’udienza, Julian Assange ha infine sentito il giudice pronunciare le parole che nessuno si aspettava: “Io ritengo che le condizioni mentali di Mr. Assange siano tali che sarebbe oppressivo estradarlo negli Stati Uniti”.

Baraitser ha, dunque, negato l’estradizione solo ed esclusivamente sulla base delle sue condizioni fisiche e mentali, ritenendo che “ci sia un rischio reale che Assange venga mandato in prigione presso la ADX Florence” – la prigione più estrema degli Usa, dove è rinchiuso il narcotrafficante El Chapo – e giudicando “sostanziale” il rischio che commetta un suicidio, perché “ha la determinazione, la capacità di pianificazione e l’intelligenza per farlo”, tanto che ha messo a punto dei piani per la sua morte “inclusa la richiesta di assoluzione a un prete cattolico assegnato alla prigione”. Il Dipartimento della Giustizia Usa si è subito dichiarato “estremamente deluso”. L’appello è in arrivo come confermato dal portavoce Marc Raimondi: “Siamo lieti che gli Stati Uniti abbiano prevalso su ogni questione di diritto sollevata. In particolare, la Corte ha respinto tutti gli argomenti del signor Assange riguardanti la motivazione politica, il reato politico, il giusto processo e la libertà di parola. Continueremo a chiedere l’estradizione”. Tanto che la compagna di Julian Assange, Stella Morris, ha dichiarato: “Siamo molto preoccupati”. Il Messico ha già offerto asilo.

“Noi diamo il benvenuto a questa sentenza che riconosce che Julian Assange sarebbe a rischio se mandato in prigione negli Usa – dichiara al Fatto Quotidiano Julia Hall di Amnesty International – tuttavia l’incriminazione di Assange, che ha natura politica, non avrebbe mai dovuto iniziare. Gli Usa hanno messo sotto processo la libertà di stampa e il Regno Unito è stato volontariamente complice”. L’avvocata esperta di diritti umani, Jennifer Robinson, che rappresenta il fondatore di WikiLeaks fin dal 2010, è sulla stessa linea: “Non estradarlo è la decisione giusta, ma questa sentenza non è una vittoria del giornalismo”.

Un giudizio questo che Rebecca Vincent di Reporters Sans Frontières sottolinea: “Continuiamo a credere che questo caso sia politicamente motivato, avremmo voluto vedere una forte posizione della corte a favore della protezione giornalistica e della libertà di stampa. Non è quello che è avvenuto”. Infine la decisione del giudice, sebbene accolta “con tutto il cuore” dall’inviato speciale dell’Onu contro la tortura, Nils Melzer, attira anche le sue critiche: “Purtroppo la sentenza si spinge molto lontano nell’accogliere l’incriminazione di Assange da parte degli Stati Uniti, che criminalizza il giornalismo sulla sicurezza nazionale. Mentre questo giudizio potrebbe porre fine alla persecuzione di Assange come individuo, fallisce nel riconoscere, fare giustizia e risarcire l’enorme danno fatto da Stati Uniti, Svezia ed Ecuador a Julian Assange e lascia completamente intatto l’effetto intimidatorio contro giornalisti e whistleblower”.

Dem, altro che volti nuovi: Pelosi resta incollata alla poltrona

Ha sempre tenuto aggiornate le liste degli amici e dei nemici, dei favori fatti e di quelli ricevuti: liste ormai lunghissime, perché Nancy Pelosi nata D’Alessandro, italo-americana, cinque figli, è ininterrottamente deputata della California dal 1987. Quell’anno, vinse un’elezione suppletiva; e, poi, è stata rieletta 16 volte, spesso con oltre il 70% dei voti. Il suo distretto, che nel tempo ha mutato numero e confini, comprende il centro di San Francisco: è tra quelli più saldamente democratici di tutta l’Unione, mai repubblicano dal 1949.

Originaria di Baltimora, Nancy, italo-americana, non ha mai dovuto confrontarsi con un candidato repubblicano temibile: la sfida più difficile fu la prima, quando superò di misura il supervisore di San Francisco Harry Britt, un democratico. Dopo, tutto è sempre filato liscio come l’olio. Ormai 80 anni compiuti, la Pelosi è stata rieletta domenica speaker, cioè presidente della Camera: 216 voti a favore, 208 contro, democratici contro repubblicani. Più difficile, le era stato ottenere la nomination del suo partito: è la leader dei democratici alla Camera dal gennaio del 2003; ed è stata già a tre riprese presidente della Camera, le prime due dal 2007 al 2011 e la terza dal 2019 a oggi, cioè quando i democratici erano maggioranza. Fino all’elezione a vicepresidente di Kamala Harris, era la donna di più alto rango nelle Istituzioni Usa.

L’inaugurazione del Congresso s’è svolta senza pompa causa pandemia: oltre 50 congressmen sono già risultati positivi e un giovane deputato repubblicano della Louisiana, Luke Letlow, 41 anni, ne è morto poco dopo essere stato eletto e prima di riuscire a giurare. Fra i deputati democratici della 117ª legislatura della Camera Usa, specie fra quelli di sinistra, c’era voglia di nuovo, non a caso Ocasio Cortez poche settimane fa aveva dichiarato: “Il Partito democratico ha bisogno di una nuova leadership: è tempo che la speaker della Camera Nancy Pelosi e il leader dei democratici in Senato Chuck Schumer facciano un passo indietro e lascino”. Alla fine, però, l’ha ancora spuntata lei, probabilmente per l’ultima volta. Forse, nel darle luce verde, i suoi potenziali rivali si sono fatti qualche calcolo: nelle elezioni di ‘midterm’, la tradizione è che il partito del presidente perda il controllo della Camera e un nuovo leader avrebbe rischiato di bruciarsi fra due anni. Acerrima avversaria di Donald Trump, la Pelosi non ha azzeccato tutte le mosse negli ultimi anni: la sua ostinazione nel mettere sotto impeachment il presidente per il Kievgate, dopo averlo lasciato uscire ‘pulito’ dal Russiagate, avrebbe probabilmente regalato la riconferma al magnate, se non fosse arrivata la pandemia a seminare la morte nell’Unione e ad azzoppare l’economia.

Anche le elezioni non sono andate benissimo: i democratici hanno conservato la maggioranza, ma hanno perso una dozzina di seggi alla Camera.

Con il presidente eletto Joe Biden, 78 anni, e il leader dei senatori democratici Chuck Schumer, 70, la Pelosi rappresenta una ‘vecchia guardia’ democratica, centrista e moderata, che non si fa da parte perché non ha ricambi, ma che al contempo non ha ricambi perché non s’è mai voluta fare da parte. Un discorso che vale anche per la sinistra progressista del partito, i cui leader, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, hanno rispettivamente 79 e 71 anni: a dare loro il cambio potrebbero essere Alexandria Ocasio-Cortez e le sue sodali di The Squad.

Quello di Biden è il team dei vice promossi, dell’usato sicuro, della vecchia guardia. Pete Buttigieg, l’ex sindaco di South Bend nell’Indiana, ed ex aspirante alla nomination democratica, scelto come segretario ai Trasporti, è l’unico under 40, con i suoi 38 anni; gli altri sono tutti gente matura: più gli over 60 – undici – che gli under 50 – cinque. Nel 2009, Biden, allora 66 anni, era il più anziano membro della prima Amministrazione Obama. Dodici anni dopo, Biden, nel frattempo 78 anni, è sempre il più anziano, ma ben cinque elementi della sua squadra sono più anziani di quanto lui fosse nel 2008: Janet Yellen, 74 anni, la segretaria al Tesoro, prima donna in quel ruolo, è la senior del team. Certo, l’età è solo un fattore, ma diventa significativo se si tratta di far entrare il partito democratico in una nuova era. In campagna, Biden s’è presentato come un “candidato di transizione”, il politico e l’uomo di Stato sperimentato e fidato che avrebbe dato modo e tempo ai nuovi talenti di sbocciare. Ma la sua Amministrazione non è un ponte fra le generazioni.

Gli ‘under 50’ scelti, oltre a Buttigieg, sono Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale, Katherine Tai, la ‘trade representative’, Miguel Cardona all’Istruzione e Michael Reagan all’Epa, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente. Buttigieg a parte, nessuno ha il profilo e l’ambizione del leader. E, fra gli aspiranti alla nomination sconfitti da Biden, la generazione di mezzo non è stata brillante: Beto O’Rourke, Cory Booker, Amy Klobuchar non sono mai stati protagonisti.

L’assurda guerra di Renzi al governo

Da cittadini, assistiamo attoniti alla guerra scatenatasi all’interno del governo in carica, per mano di una delle sue componenti determinata, a quanto pare, a ottenere maggiore potere.

Da cittadini, viviamo al contempo una condizione di estrema incertezza, di timore e, per molti, di lutto. Siamo chiusi in casa, subiamo gravi limitazioni rispetto alla nostra vita precedente, molti di noi hanno perso il lavoro o temono di perderlo nei prossimi mesi, i nostri figli non vanno a scuola o all’università, sappiamo che le prospettive dei giovani che si affacceranno a breve al mondo del lavoro sono pessime, che la povertà dilaga. Abbiamo constatato con angoscia che il sistema sanitario si è dimostrato in questi mesi inadeguato al compito. (…)

Da cittadini ci chiediamo: è nel nostro interesse questo dispiegamento di tattica mirata a consegnare maggiore potere a una piccola formazione politica? La crociata contro il governo in carica ha l’obiettivo di proporre soluzioni migliori, di mettere a disposizione competenze più elevate, di offrire uomini migliori alla guida del paese?

La desolante risposta che emerge dallo spettacolo al quale siamo costretti ad assistere è negativa: l’attacco al governo lanciato da Italia Viva ha tutti i tratti dell’incursione piratesca, che si avvale non dei propri argomenti bensì della propria capacità di nuocere grazie ai risicati numeri in Parlamento. Un’iniziativa solipsistica, indifferente ed estranea alle difficoltà e ai bisogni dei cittadini, rivolta unicamente a soddisfare smanie di potere personale, e come tale particolarmente odiosa e inaccettabile.

Da cittadini e da soci di Libertà e Giustizia ci appelliamo ai nostri rappresentanti in Parlamento affinché antepongano gli interessi della nostra comunità nazionale agli interessi di bottega di alcuni e agiscano coerentemente per fronteggiare, e non per aggravare, le plurime crisi che ci hanno investito.

MailBox

 

Occhetto: “A proposito della mia intervista”

Ringraziando ancora per la bella ospitalità sul Fatto, mi preme rilevare che nel trascrivere la mia intervista è stato compiuto, sicuramente inavvertitamente, un capovolgimento di un punto essenziale del mio ragionamento. Io sostengo la necessità di superare l’errata idea di sostituire lo scontro e il confronto tra destra e sinistra con quello tra innovazione e conservazione. Idea fuorviante che è stata il cavallo di battaglia del blairismo e del “partito di Renzi”. Con la conseguente subalternità al neoliberismo. Si tratterebbe di avvertire che lo scontro sarà sulle diverse direzioni del “nuovo” al fine di impedire un esito catastrofico della modernità. E che è giunto il momento di battersi non solo per un Paese più moderno ma soprattutto più giusto, al cui centro collocare il valore sociale del lavoro. È da questa visione che scaturisce l’idea (nel mio libro Una forma di futuro) di aprire la fase nuova delle grandi alternative di visione, programmatiche e valoriali. Proponendo una diversa visione qualitativa della crescita, invece di occuparsi della occupazione del potere al tavolo della quantitativa distribuzione. Preoccupazione ancora dominata da rimpasti, furbesche manovre, nel chiuso mondo della politica, separato dalla società. In questo quadro ho sostenuto che al di fuori della fase emergenziale, che non richiede crisi di governo, occorre prepararsi a quella delle alternative programmatiche tra destra e sinistra. Mi colloco molto lontano dal caravanserraglio politicista che si sta appassionando al gioco furbesco delle formule o dell’uomo risolutivo.

Achille Occhetto

 

DIRITTO DI REPLICA

Negli articoli “L’audio che incastra la Lega sui 10 mln spariti” e “Aiello, l’ex avvocato del Carroccio…” vengono riferiti fatti non corrispondenti al vero e le fonti citate sono state distorte in modo strumentale. Partendo dalle intercettazioni, l’articolo si fonda su una presunta prova che la banca abbia trasferito fondi per conto della Lega in Lussemburgo, rappresentata dalla conversazione tra due ex dirigenti. Come può essere dimostrato dalla lettura integrale dell’intercettazione, la conversazione conferma che i fondi in oggetto sono della banca e non hanno a che fare con la Lega e che le altre frasi citate sono estrapolate in modo strumentale. Pertanto entrambi i titoli degli articoli del 2 gennaio (“L’audio che incastra la Lega…” e “Così Sparkasse fece da schermo…”) sono falsi, fuorvianti e danneggiano la reputazione della banca. La Banca ha già collaborato con la Procura di Genova nel fornire tutta la documentazione che dimostra la totale estraneità alle ipotesi di coinvolgimento nel trasferimento di fondi in Lussemburgo per conto della Lega. Per quanto riguarda invece i rapporti tra l’Avv. Aiello e la banca, questi rappresentano in maniera fuorviante l’operato della banca relativo alla concessione del mutuo, che ha seguito un iter rispettoso delle normative. Gli stessi articoli attribuiscono allo studio associato Aiello-Brandstatter incarichi svolti a favore della Lega, mentre l’Avv. Brandstatter non è mai stato coinvolto in dette attività, svolte invece esclusivamente dall’Avv. Aiello. L’associazione professionale tra Aiello e Brandstatter – basata su una collaborazione in relazione a clienti dello studio bolzanino in provincia di Milano – si è conclusa il 13 febbraio 2014.

Nicola Calabrò, ad Cassa di Risparmio di Bolzano

L’intercettazione in questione, disposta in un altro procedimento, viene acquisita dai pm di Genova nell’ambito di un’ipotesi accusatoria che collega quei 10 milioni di euro alla Lega. L’articolo dà conto sia delle posizioni degli inquirenti sia della difesa. Il fascicolo è tuttora aperto. Quanto al mutuo concesso all’avvocato Aiello, il “Fatto” ha riportato stralci di una perizia della Procura di Bolzano firmata da Maurizio Silvi, alto funzionario di Banca d’Italia; è il perito a sollevare sia il collegamento tra Aiello e Brandstatter (presidente di Banca Sparkasse), sia il fatto che Aiello fosse capo dell’organismo di sorveglianza di Sparkasse.

Mar. Gra. e Ste. Ve.

 

A proposito dell’articolo “Così Sparkasse fece da schermo al denaro leghista” del 2 gennaio, dove si afferma che “Weissenegger firma l’ordine con cui quei 10 milioni vengono investiti su un fondo: si chiama Pharus Sicav ed è gestito dalla finanziaria lussemburghese Pharus Management Lux Sa”, si precisa che Sparkasse di Bolzano ha investito suddetta somma di denaro nel 2016 direttamente in un comparto della Pharus Sicav, che è un fondo comune di investimento di diritto lussemburghese Ucits gestito dalla società Pharus Management Lux Sa. Ricordiamo che tale tipo di fondo è un organismo di investimento collettivo del risparmio, armonizzato alla Direttiva europea e non, come definito, un fondo fiduciario. Pharus Management Lux Sa non è una finanziaria, ma una società di gestione con licenza depositata presso la Commission de Surveillance du Secteur Financier – Cssf (la locale autorità di controllo dei mercati) ed è assoggettata alla vigilanza periodica prevista, non solo dalla legislazione lussemburghese, ma anche dalle direttive europee sul risparmio gestito.

Pharus management lux SA

Prendiamo atto della precisazione che non smentisce l’articolo, il quale riporta il contenuto della rogatoria inviata dalla Procura di Genova all’autorità giudiziaria del Lussemburgo: a definire la Pharus Management Lux Sa una “finanziaria” sono i magistrati, non noi.

Mar. Gra. e Ste. Ve.

Vaccini. Tutti parlano dell’anti-Covid, ma c’è chi aspetta quello influenzale

 

Buongiorno, non è per polemizzare ma ultimamente si parla solo del vaccino anti-Covid. Non ho più letto aggiornamenti (o mi sono sfuggiti) riguardanti il vaccino antinfluenzale. A che punto sono gli approvvigionamenti? Ho 70 anni, abito in Lombardia e a oggi non ho ancora avuto la possibilità di essere vaccinato. Da metà ottobre siamo prenotati, io e mia moglie, dal nostro medico di famiglia. Speriamo che arrivi prima il vaccino dell’influenza!

Sergio Martini

 

Gentile Sergio, ce ne siamo occupati spesso dei vaccini antinfluenzali, l’ultima volta pochi giorni fa, nell’edizione del 3 gennaio. Ciò che lei scrive non sorprende affatto, conferma quanto abbiamo sempre scritto. Le competenze sanitarie, come lei sa, sono delle Regioni. E alcune – tra queste la Lombardia, dove lei abita – si sono mosse con notevole ritardo nel varare gare pubbliche per l’approvvigionamento dei vaccini. Alla fine pagandoli (ancora una volta è il caso della Lombardia) anche più del dovuto. Questo nonostante fin dall’estate i medici di famiglia, temendo una crisi nella crisi, le avessero sollecitate a muoversi rapidamente, in vista di una possibile seconda ondata dell’epidemia di Covid-19, che puntualmente è arrivata.

La Lombardia non è riuscita nemmeno a salvaguardare le fasce più fragili e a rischio. Vale a dire gli over 60 (come lei e sua moglie), i bambini tra i sei mesi e i sei anni di età, le persone con patologie croniche: le categorie indicate dal ministero della Salute. Questo mentre strutture private, che nel frattempo si rifornivano all’estero, proponevano la vaccinazione a pagamento: fino a 80 euro, contro un prezzo a dose, in farmacia, che oscilla tra i 9,5 e i 12 euro. Peccato che anche le farmacie, per la fornitura dei vaccini alla popolazione attiva, erano (e sono) prive di scorte: le Regioni hanno assorbito tutta la produzione interna (che si è rivelata in ogni caso insufficiente). Questo nonostante il ministro Roberto Speranza abbia chiesto ai vari governatori, che complessivamente hanno acquistato 16,7 milioni di dosi, di trasferire alle farmacie una piccola quota di quanto ordinato. In tanti casi non è avvenuto o è avvenuto solo in parte. È per questo che il canale di accesso alle vaccinazioni antinfluenzali variava e varia da Regione a Regione. Ed è così che, tra i tanti rimasti a secco, si è vaccinato chi può permettersi di spendere 80 euro. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una profonda disuguaglianza.

Natascia Ronchetti

Quattro scenari (più uno) sulla crisi del leader del nulla

La Germania prolunga il lockdown per tutto gennaio. L’Austria va avanti altre tre settimane con le chiusure. Tutta Europa si appresta a un gennaio (eccetera) molto difficile. E noi che facciamo? Ci inventiamo una bella crisi di governo. Dentro una pandemia. Geniali, no? Ovviamente è tutto merito del Cazzaro Rosé, la Diversamente Lince di Rignano, la variante rignanese di Mister Bean. L’allievo ripetente, e parrebbe senza speranze, di Silvio Berlusconi. Insomma: Matteo Renzi.

Il “leader” di nulla, insomma di Italia Morta, forte del suo titanico 2% fa sul serio. Vuole la crisi e sta per ritirare le sue ministre. Perché lo fa? Perché odia Conte, perché vuole regalare un’emozione alla Fusani, perché gli piace avere i titoli di Repubblica. Chi lo sa. Ma neanche è poi così importante saperlo. Si conoscono invece benissimo gli scenari possibili. Elenchiamoli.

1. Conte concede ai renziani qualche poltrona in più, magari (magari?) un dicastero alla Boschi. E la cosa finisce lì. È la famosa ipotesi “rimpasto”. Renzi ne uscirebbe vincitore, Conte perdente (ma ancora in sella). Molti, dentro al governo, ci sperano. Tranne Conte, che è il meno convinto in merito. Giustamente.

2. Conte va alla conta (ops) al Senato, vedendo le carte di Renzi. Cade, e si va al voto (se Pd e M5S non cedono nel frattempo alle sirene di un governo diverso). Non cade, per via dell’aiuto di qualche responsabile (si fa per dire). E Renzi va a sculacciare i billi della Val di Chiana. Possibilmente col naso.

3. Ricicciano un governicchio – il terzo della legislatura – con dentro anche berlusconiani e “la parte buona della Lega” (entità mitologica inventata da Calenda, assai bravo quando crede di essere la reincarnazione politico-fantasy di Tolkien). Il Pd ci sta, perché il Pd spesso è fatto così. Salvini non è convinto, ma ci sta per amor di patria (come no). La Meloni non ci sta, ma resta a guardare perché tanto con Salvini e Berlusconi non romperà mai. E i 5Stelle? Le seconde linee, consce di non avere futuro politico alcuno, appoggiano silenti l’ennesimo Frankenstein. In qualche modo i numeri ci sono. E la stampa tutta festeggia, con la solita eccezione di qualche caso isolato. Compresi i soliti stronzi del Fatto.

4. Renzi esce vincitore dalla crisi, intestandosi tutti i meriti del governo di cui sopra. Un governo che potrebbe essere a trazione Draghi. Oppure Franceschini. O magari Scaramacai, noto doroteo di lungo corso. La Meli paragona Renzi a Churchill, Mario Lavia a Dio e Gaia Tortora a Sai Baba. Il Cazzaro Rosé si prende la vicepresidenza del Consiglio, la delega ai servizi segreti e il ministero della Pappagorgia. Boschi va agli Interni, Bellanova agli Esteri, Nobili allo Sport e Recalcati alla Cultura. Repubblica titola: “Il Rinascimento, finalmente”. Il Giornale: “L’Italia è guarita”. Libero: “Cazzo, pensavamo peggio!”. Il Covid si suicida da solo, il vaccino della Pfizer-Biontech si iscrive a Italia Viva e Alessandro De Angelis dichiara piangendo da Formigli: “Non ero così contento dai tempi in cui il Dixan era scontato del 60% alla Lidl”. Sarà un anno bellissimo!

P.S. In realtà, per disinnescare Renzi, basterebbe che Pd e M5S si opponessero per intero, e sul serio, a qualsiasi governo diverso da questo. A quel punto Renzi avrebbe di fronte solo lo scenario del voto anticipato. E dunque abbasserebbe parecchio la cresta, essendo certo della sua scomparsa parlamentare (totale) qualora si andasse a votare. Sarebbe facile. Ma in Italia l’unica cosa facile è tramutare la farsa in tragedia. E viceversa.

Trattativa Stato-mafia: solo il buon giornalismo ne parla

La trasmissione Report dedicata ieri alle stragi e alla trattativa Stato-mafia è una prova di grande giornalismo e “servizio pubblico”. L’inchiesta firmata da Paolo Mondani e Giorgio Mottola ha messo in fila elementi già esaminati dal Fatto, dai nostri documentari Sekret (su www.iloft.it) e nei libri La Repubblica delle stragi e Padrini fondatori, editi dalla nostra PaperFirst.

Il grande merito di Report è stato lavorare sodo su quella base di informazioni per tirar fuori un racconto inedito pieno di rivelazioni, che mette in sequenza la storia della politica italiana, della mafia, della massoneria e delle stragi.

Mondani e Mottola finalmente hanno riunito due film che finora scorrevano su schermi paralleli. C’erano le trasmissioni sulle stragi solitamente in occasione degli anniversari della morte degli eroi antimafia. E c’erano i documentari sull’evoluzione della politica italiana. Accostare le due storie era un tabù, finalmente rotto in prima serata sulla Rai. Tutti i giornalisti dovrebbero cercare risposte alle troppe domande poste dai misteri del periodo 1992-1994 e dai legami tra questi misteri e quelli del decennio precedente.

Finora invece i media mainstream hanno delegato questo compito ai magistrati di Palermo e Reggio Calabria e a pochi giornalisti ‘eretici’ come quelli del Fatto. Report, diretto da Sigfrido Ranucci, e la Rai3 diretta da Franco Di Mare, hanno avuto il merito di non ‘evitare’ gli snodi più sensibili politicamente.

La trasmissione di ieri segna un punto di non ritorno. Non si potrà più parlare delle stragi da un lato e delle indagini su Berlusconi e Dell’Utri senza spiegare perché i due fondatori di Forza Italia siano indagati per le stragi del 1993 a Firenze e Milano e per gli attentati di Roma, fatti dalla mafia. Il Fatto ha approfondito più volte i retroscena e le ragioni che hanno portato i pm a iscrivere nel registro degli indagati per le stragi del 1993 il politico che ha dominato la scena imprenditoriale e poi quella politica per decenni. Si tratta di ipotesi di accusa che fanno tremare i polsi e che vanno verificate tenendo sempre a mente la presunzione di innocenza, ma non si può ignorarle. Le grandi tv e i grandi quotidiani invece hanno sempre ignorato questi temi. Se nomi come Graviano, Bellini o Ilardo sono semisconosciuti al pubblico è merito di questa congiura del silenzio.

Sigfrido Ranucci, il conduttore e ‘capo’ di Report, ha avuto il coraggio di rompere questo tabù. Così ha una valenza simbolica la trasmissione di parte dell’intervista a Paolo Borsellino in cui il magistrato parla nel 1992 a due giornalisti francesi di Berlusconi e dei rapporti di Dell’Utri con il mafioso Vittorio Mangano. Proprio Ranucci scovò quell’intervista scomparsa e la trasmise 20 anni fa con grande difficoltà a tarda notte per pochi intimi solo su Rainews. Poi Marco Travaglio ne scrisse e ne parlò nella trasmissione Satyricon di Daniele Luttazzi, mentre Enzo Biagi osò citarla. Infine Michele Santoro la trasmise più ampiamente facendo infuriare in diretta Berlusconi.

Dopo la vittoria alle elezioni nel 2001 tutti sparirono dagli schermi: Biagi, Santoro e Luttazzi.

Ranucci proseguì la sua ricerca in un libro sull’uccisione di un confidente, Luigi Ilardo, che stava raccontando i retroscena della trattativa al colonnello del Ros Michele Riccio (Il Patto, Chiarelettere, con Nicola Biondo). Ieri nella puntata di Report, proprio Ranucci ha trasmesso quell’intervista sparita al giudice. E nello speciale c’era anche l’intervista di un ex detenuto che metteva in guardia proprio Ranucci nel 2016 perché il boss Madonia, a suo dire, voleva ucciderlo proprio per quel libro.

Chi scava nei rapporti tra mafia, apparati dello Stato e politica rischia molto. Non solo la vendetta della mafia.