“Gli italiani – diceva Longanesi – sposano un’idea e subito la lasciano con la scusa che non ha fatto figli”. Questo, in sintesi, è capitato al Reddito di Cittadinanza e ora sta capitando ai navigator: entrambi voluti dal Movimento 5 Stelle e poi abbandonati a se stessi.
Nella sua intervista di ieri a Repubblica, la ministra Catalfo ha annunciato una serie di riforme che, per passare dal verbo alla carne, avrebbero bisogno di una rete imponente di Centri per l’Impiego invece di quella ragnatela gracilissima che l’Italia si ritrova. Per rimpolparla, la prima soluzione che viene in mente consiste nell’immediata assunzione a tempo indeterminato dei 2.700 navigator, già selezionati con un severo concorso, formati con un ottimo corso e impratichiti con un proficuo lavoro sul campo. Invece, proprio dopo avere affermato che “questo sarà l’anno dell’Anpal per le politiche attive”, la ministra si limita a una sentenza deprimente per i navigator, che maternamente chiama “nostri ragazzi”, ma poi condanna al precariato perpetuo: “Spero di prorogarne il contratto, dalla scadenza di aprile, per tutto il 2021”.
Vale dunque la pena di ripercorrere questa vicenda tutta italiana dei navigator. Partiamo dal rapporto tra povertà e disoccupazione. Vi sono poveri che non hanno lavoro e che lo cercano (quando fu introdotto il RdC erano circa un milione); vi sono poveri che hanno un lavoro retribuito in misura talmente minima da restare poveri (circa un altro milione); in fine vi sono poveri – minori, vecchi, invalidi, pensionati – che non sono in grado di lavorare (circa 3 milioni). Ai primi bisogna dare un sussidio, un orientamento e un addestramento fin quando non trovano lavoro; ai secondi un salario aggiuntivo. Ai terzi un sussidio.
Per definire la categoria di appartenenza di ciascun richiedente e per aiutarlo nel modo più adatto alla sua specifica condizione, sarebbero necessari Centri per l’Impiego dotati di uomini e mezzi adeguati. Questi centri sono diventati indispensabili nell’attuale società post-industriale dove i beni e i servizi sono prodotti prevalentemente dalle macchine e la durata di un posto di lavoro dipende dai salti del progresso tecnologico. Oggigiorno, a ogni nuovo computer che entra in azienda, alcuni lavoratori perdono il posto e, per trovarne un altro, debbono riciclarsi professionalmente e cercare un nuovo datore di lavoro. Ormai può avvenire una, due, molte volte nell’arco di una vita professionale e quasi tutti i lavoratori prima o poi ci incappano.
Di qui l’esigenza di una rete fitta ed efficiente di Centri per l’Impiego, capaci di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, promuovere interventi di politica attiva, accompagnare i lavoratori nelle alterne fasi di occupazione e disoccupazione, orientarli, sovrintendere al loro addestramento, indicare loro con tempestività le eventuali occasioni di reimpiego, metterli in contatto con i potenziali datori di lavoro, svolgere attività amministrative, come l’iscrizione alle liste di mobilità e agli elenchi delle categorie protette, le cessazioni dei rapporti di lavoro e il rilascio del certificato di disoccupazione. Ciò richiede banche dati ricche e aggiornate, tecnologie informatiche di adeguata potenza, personale specializzato non solo in economia e diritto del lavoro, ma anche in psicologia e sociologia.
La Germania, con un tasso di disoccupazione inferiore al 4%, ha Centri per l’Impiego attrezzati di tutto punto, gestiti da 110.000 addetti e finanziati con 11 miliardi di euro l’anno. Prima che si introducesse il RdC in Italia la disoccupazione si aggirava intorno al 10%, i Centri per l’Impiego erano 556, attrezzati in modo approssimativo; gli addetti erano 8.000; il costo dell’organizzazione complessiva si aggirava intorno ai 750 milioni. Il rapporto tra addetti ai Centri e disoccupati era di 1 a 300, mentre in Francia era di 1 a 65, nel Regno Unito di 1 a 30, in Germania di 1 a 24. Il 48% dei disoccupati europei cercava lavoro nei Centri per l’Impiego mentre in Italia la percentuale arrivava appena al 28% perché da noi il processo di ricerca del lavoro è lasciato troppo spesso nelle mani delle agenzie private in base a criteri di welfare sospettabili di clientelismo.
Con l’avvento del Reddito di Cittadinanza il carico di lavoro dei CpI si sarebbe ulteriormente aggravato per cui i 5Stelle proposero di contrattualizzare almeno 6.000 professionisti per fornire ai Centri l’assistenza tecnica necessaria alla convocazione dei percettori di reddito occupabili, all’analisi degli esoneri e delle esclusioni, alla sottoscrizione del patto per il lavoro, alla mappatura delle offerte formative, alla stesura dei piani personalizzati di accompagnamento al lavoro e al vero e proprio accompagnamento al lavoro. Inoltre, per il potenziamento di tutte queste operazioni, proposero di investire 480 milioni nel 2019 e 420 milioni nel 2020. Invece, nella conferenza Stato-Regioni, queste, in vena di autolesionismo, chiesero e ottennero che si dimezzassero le assunzioni.
Al concorso si sono presentati 19.582 candidati e i vincitori sono stati 2.978, con un’età media di 35 anni, per il 73% donne, tutti provvisti di laurea magistrale con un voto non inferiore a 107/100 e accertata conoscenza dell’inglese. Essendo pensati per risolvere il problema del precariato, dopo un tira e molla con le Regioni (puntualmente comica ed eroica la resistenza di De Luca in Campania) i vincitori furono assunti come precari, con un contratto a termine di 1.700 euro mensili, che scade il 30 aprile 2021. Come se non bastasse, gli fu dato un nome ridicolo, ovviamente americano, e in America si andò a rintracciare (su consiglio di Casalino, a quanto pare) un comandante degno della nave. Dal Mississippi fu chiamato Mimmo Parisi e, come la monaca di Monza, lo sventurato rispose.
Nell’ottobre del 2019 i navigator hanno cominciato a navigare. E siccome il RdC era partito sei mesi prima, si sono ritrovati a smaltire tutto il lavoro pregresso senza avere a disposizione i dati nazionali e senza nessun contatto consolidato con le aziende. Il personale dei Centri per l’Impiego – spesso istruito, professionalizzato e pagato meno dei navigator – li ha accolti come nemici invadenti più che come rinforzi competenti sicché molti se ne sono già andati e ne sono rimasti 2.700. I superstiti, nonostante tutte le condizioni avverse e la necessità di improvvisarsi smartworker durante il lockdown, in un anno sono riusciti a convocare un milione e mezzo di disoccupati: entro il 31 ottobre 1.370.000 hanno sottoscritto il patto per il lavoro, 352.000 hanno ricevuto un contratto e 193.000 continuano a mantenerlo. Si tenga conto che 193.000 è un numero che supera quello di tutti i dipendenti della Fiat, dell’Ilva, dell’Eni, della Telecom e della Barilla messi assieme. E si tenga pure conto che la platea disoccupata di cui stiamo parlando è composta in gran parte da persone difficilmente ricollocabili, in gravi difficoltà economiche e psicologiche, spesso semi-analfabete, che magari per molti anni sono vissuti in povertà assoluta senza aiuto e senza speranza. In un Centro della Lombardia, ad esempio, su 200 adulti avviati al lavoro solo 5 avevano la patente.
Praticamente tutto questo è avvenuto senza che nessuno – tantomeno il presidente dell’Anpal o la ministra del Lavoro – rendesse pubblico tanto lavoro e tanti risultati dei navigator, mentre i media sferravano un attacco pregiudiziale e concentrico contro di loro. Essi stessi, con imperdonabile ingenuità, hanno reagito troppo a lungo con il silenzio. Solo l’on. Claudio Cominardi, ex vicesegretario del ministero del Lavoro, sul suo blog del 7 luglio scorso, tacciava di falsità, dati alla mano, chiunque – compresa la Corte dei Conti – li accusava di inerzia o di inefficienza. Dopo di che, con un emendamento da inserire nella Manovra 2021, chiedeva il rifinanziamento dei navigator.
Di fronte a un futuro sempre più paradossale, finalmente i 2.700 superstiti si sono dati una mossa creando la loro Associazione Nazionale (Anna) e, quando l’emendamento di Cominardi è stato respinto, hanno scritto alla ministra Catalfo una lettera in cui chiedono di essere riscattati dal purgatorio in cui la stessa ministra li tiene ad arrosolare. “Oggi – essi scrivono – in Italia i navigator sono tra i pochi veri esperti di politiche attive del servizio pubblico, formati dal pubblico con risorse pubbliche e capaci di assistere i meno occupabili”.
Nei prossimi mesi, quando cesserà il blocco dei licenziamenti e l’occupazione precipiterà, un intervento robusto dei Centri per l’Impiego diventerà indispensabile e solo i navigator saranno in grado di non farli collassare, fornendo il loro aiuto irrinunciabile. Invece proprio allora, ricchi di illusioni, esperienza e competenza, saranno espulsi come fannulloni incapaci. E sarà difficile pensare che la loro espulsione non sia dovuta alla subdola volontà politica di avvantaggiare le agenzie del lavoro e gli enti di formazione privati.
Mentre la ministra si limita a sperare in una misera proroga del contratto per qualche mese, i navigator hanno tutte le carte in regola per pretendere a buon diritto tre cose: il loro immediato incardinamento in blocco dentro i CpI, senza alcun bisogno di ulteriore concorso, con contratto a tempo indeterminato e posizione contrattuale corrispondente alle loro già accertate capacità; una leadership sicura e competente; una degna dotazione finanziaria e tecnologica.
Per quanto svalutati dal dileggio concentrico di tutti i media e delle opposizioni, per quanto abbandonati da quelle stesse forze politiche che li hanno creati, per quanto co.co.co ignorati dai sindacati, per quanto inoffensivi nella loro troppo educata protesta da “colletti bianchi”, questi 2.700 navigator, una volta abbandonati al loro destino, si trasformeranno in altrettanti boomerang soprattutto per i 5Stelle, Catalfo in testa.