Renzi elogia l’education: più manager in università

Come sa chi ne segue le gesta, se c’è un binomio più catastrofico di quello Renzi-sport (nel quale pure il leader si applica con pervicacia invidiabile pensando di rifulgere) questo è il binomio Renzi-cultura. Così tra i 62 punti spiritosamente rinominati Ciao sbattuti in faccia al ministro dell’Economia (in sostanza, una lista della spesa ruotante attorno alle solite ossessioni crescitomani, costruttomani e cementofile, delle quali è metonimia ormai comica il Ponte sullo Stretto) si evidenziano qui per chi non ha tempo da perdere il numero 39, dedicato alla Scuola, e il 42, dedicato a Università e Ricerca.

Sapete quanto Renzi adori Scuola e Università. Ricorderete: più “cultura umanista” (sic), “education, education, education” (plagio di Blair), le visite alle scuole ogni mercoledì, i 1.000 asili in 1.000 giorni, la scuola madre di tutte le battaglie, l’euro in cultura per ogni euro investito in sicurezza… e intanto denigrava i “professoroni”, i “professionisti della cultura che fanno a pugni con l’innovazione”, i “presunti scienziati”, tutta gente che aveva il torto di prenderlo poco sul serio. Purtroppo anche il mondo della scuola non gradì: in migliaia scesero in piazza e il Pd perse milioni di voti di insegnanti, studenti, genitori e forse pure bidelli. Potevano mancare Scuola e Università nel mondo nuovo annaffiato coi 209 miliardi del Recovery Plan, che poi potrebbero essere, a occhio, la vera ragione dell’agitazione epilettoide del popolare leader da 2,8%? Così al capitolo Scuola si parla finalmente di “skills mismatch” (non abbiamo nemmeno la voglia di andare a cercare cosa significhi), “Teach First” and “Now Teach (Teach Last)”, come si dice “in Uk”, ma anche di “Fraunhofer dell’istruzione”, come dicono in Deutschland (del resto basta sentir parlare Renzi in inglese per capire che è praticamente madrelingua).

Ma è il punto 42 quello in cui emerge meglio il modello (non) culturale di Renzi. Così sta scritto: “Occorre decidere quale sia il livello della nostra ambizione su questo punto. Vogliamo togliere l’Università dal diritto amministrativo? Vogliamo far scegliere il rettore al Cda e non farlo eleggere (il sapere non è democratico, ma meritocratico)?”. Sono domande-provocazioni, nel consueto stile retorico di Renzi, in cui lui interpreta sia il soggetto-vulcano d’idee sia l’interlocutore grullo che le smonta (“Eh ma Matteo questo non basta”). Cosa significa far scegliere il Rettore di un’università dal suo Consiglio d’amministrazione? Oggi il Rettore è eletto democraticamente: da professori di ruolo e fuori ruolo, ricercatori, dottorandi, rappresentanti del personale tecnico-amministrativo, studenti negli Organi Accademici. Democraticamente: perché deve avere una connotazione di indipendenza e rappresentare la coscienza di una comunità. Ma Renzi e il suo drappello di seguaci preferiscono il metodo meritocratico. Quindi che sia il Cda a “scegliere” il Rettore.

Ma da chi è composto il Cda? Da interni all’ateneo, nominati dal Senato, e da esterni, nominati dal Rettore, che comprendono rappresentanti degli enti locali, imprenditori locali, manager. Ecco la parolina magica. Rettori che nominano manager che nominano Rettori. Come a Harvard, dove il Presidente è selezionato dalla Harvard Corporation, potentissima lobby dove abbondano i business men. Solo che i manager che piacciono a Renzi sono del calibro di Davide Serra, di cui basta leggere la padronanza dell’italiano nei tweet per farsi un’idea. “Promuovo la conoscenza, non le conoscenze”, certo, come no.

Da anni Renzi tenta di esportare il modello manageriale alla Scuola e all’Università. Dal preside-talent scout della Buona scuola, che sceglieva a chiamata diretta la sua “squadra” di docenti, alle cosiddette “cattedre Natta”, con cui 25 commissioni presiedute da docenti nominati direttamente dal presidente del Consiglio (lui stesso) avrebbero dovuto selezionare ogni anno “500 cervelli italiani e stranieri” o “superprofessori” (idea bocciata dal Consiglio di Stato a fine 2016), senza dimenticare l’obbligo fatto agli studenti degli ultimi tre anni delle superiori di sottrarre ore allo studio per dedicarle a lavori non retribuiti, la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”. Il merito, che è un criterio classista e razzista, a loro piace. La cosa buffa è che stiamo palando di gente che non ha nemmeno fatto studi regolari: l’elogio del merito dei renziani lo scolpì in una Leopolda la Bellanova, ministra-bomba a orologeria in questo governo: “Chi ce l’ha fatta, ce l’ha fatta per merito, e il merito è di sinistra!”, e al di là dell’aporia che col 2,8% loro pensano di essere quelli che ce l’hanno fatta, pazienza se è proprio grazie al fatto che il merito non è l’unico parametro di misura che una donna col diploma di terza media e un passato da bracciante, come recita la mitografia a lei ascrivibile, siede al governo della nazione.

 

“Agnese’s Baby”: nel cast Matteo, la signora Italia e la forfora di Verdini

La fortuna di Renzi è che i suoi avversari sembrano soffrire di una forma misteriosa di prosopagnosia per cui non decifrano mai le sue vere intenzioni, nonostante la mimica inequivocabile. Se ne ebbe una prova schiacciante quando dalla Bignardi lanciò l’hashtag “Enrico, stai sereno” con un musetto vispo che annunciava l’inculata a Enrico Letta, e Letta sbalordì all’inculata. Eppure, quando il cervello di Renzi architetta trappole (tipo il Jobs Act: rivendicato da De Benedetti e applaudito da Fmi e Bce, era incostituzionale, poiché in caso di licenziamento illegittimo sostituiva la reintegrazione nel posto di lavoro con un indennizzo economico); e la sua bocca, invece, emette fonemi che le spacciano per politiche di sinistra (come faceva Tony Blair, al cui liberismo infatti Renzi si ispira); i suoi muscoli mimici vanno in tilt, dando luogo a facce che sono chiaramente quelle di uno che ci fa.

La settimana scorsa, Renzi ha minacciato di riattivare i due agenti dormienti che piazzò nel governo di Conte per farlo fuori al momento opportuno (le ministre Bellanova e Bonetti). Una mossa prevedibilissima: bastava aver visto The Manchurian Candidate. Purtroppo per lui, tutta la girandola di pataccate con cui cerca ostinatamente di far parlare di sé (l’altro giorno, nel suo benservito a Conte, ha riesumato pure il ponte sullo Stretto; o, per dirla col suo discorso alla Leopolda 6, “Noi restiamo nel Pd!”) si è fatta, col tempo, stucchevole. Non come la storia appassionante che ho sognato in lockdown, dopo aver visto Renzi da Vespa e Rosemary’s Baby nella stessa serata.

Agnese’s Baby. A Firenze, una giovane coppia cerca casa. Lui, Matteo Renzi, è un politico a inizio carriera; lei, Agnese, è un’insegnante. Grazie a un amico, Marco Carrai, beccano un bell’appartamento in un palazzo signorile dove tutti gli inquilini sono anziani. Una sera Matteo e Agnese trovano la polizia sotto casa: Italia, una giovane donna che viveva con Silvio Berlusconi e Marta Fascina, loro vicini di appartamento, è morta buttandosi dalla finestra. Agnese le aveva parlato proprio quella mattina, mentre facevano il bucato, e Italia le aveva spiegato come Silvio le fosse stato vicino e l’avesse tolta dalla strada. Al funerale, Silvio invita la coppia a cena. Matteo accetta, ma Agnese è scettica: poiché abitano accanto a loro, teme di doverli frequentare sempre. La cena comunque avviene. Silvio regala ad Agnese una catenina da portare al collo, la stessa che portava Italia quando si sono parlate. Ha una pallina che emana uno strano odore, sgradevole; ma Silvio la rassicura: è un amuleto che contiene forfora di Verdini, e porta fortuna. La carriera politica di Matteo riceve una svolta positiva il giorno in cui gli viene assegnata la carica di presidente del Consiglio; ma Matteo non può gioire fino in fondo: gli era stato preferito un altro, Enrico Letta, che però improvvisamente è diventato cieco. Pochi giorni dopo, Matteo comunica ad Agnese che vuole avere un bambino da lei. La notte in cui la coppia deve concepire il bambino comincia con una cena a lume di candela, quando Marta Fascina bussa alla porta: ha fatto un dolce per loro. I due lo mangiano, ma ad Agnese non piace, dice che ha un sapore strano. Matteo sostiene che non è vero, e la critica. Dopo cena, Agnese ha un mancamento, e Matteo la mette a letto. Quella notte Agnese ha un incubo: si vede coinvolta in uno strano festino durante il quale un essere mostruoso la possiede dopo che Matteo e i Berlusconi gliel’hanno consegnata. La mattina dopo, Matteo le confessa di aver fatto l’amore con lei anche se era svenuta.

(1. Continua)

 

Il vaccino cinese: noto, ma ignorato

Come ogni anno, abbiamo visto più volte scorrere le immagini del Capodanno nelle varie parti del mondo. Piazze deserte, silenzi, scene mai viste. Tutto ciò ovunque, tranne che in Cina. Come se le scene arrivassero da un altro pianeta, ecco migliaia di persone in strada a festeggiare come accadeva nell’era pre-Covid. Meno di un anno fa dalla Cina ci arrivavano scene di morte e oggi, mentre il resto del mondo continua faticosamente a lottare contro un virus che appare indebellabile, ci arrivano immagini di balli, feste, maree di gente che brinda felice. Unico legame con il passato, la mascherina. È lecito chiedersi come sia potuto avvenire. Certamente il lockdown cinese, imitato male dal resto del mondo, con l’illusione che avrebbe portato agli stessi risultati, senza tener conto della diversa cultura, è stato determinante, ma non possiamo pensare che sia stato l’unico mezzo che abbia fatto raggiungere questi risultati. Con la solita “parsimonia” di notizie che arrivano dal Sol Levante, apprendiamo che da qualche mese è in atto una imponente campagna vaccinale. I dati sono discordanti, alcuni riportano solo migliaia di persone vaccinate, altre fonti parlano di milioni. Il fenomeno non è trascurabile, i cinesi emigrati stanno facendo ritorno in patria per vaccinarsi. Il vaccino utilizzato è il Sinovac.

Benché nel dashboard dell’Oms appaia in fase 3, in Europa non se ne è mai sentito parlare. Eppure, teoricamente, dovrebbe essere sicuro, almeno per quanto riguarda la vecchia tecnica utilizzata, consolidata da quasi un secolo (virus attenuato). Oggi apprendiamo, come era da aspettarsi, che i vaccini Pfizer non potranno essere sufficienti a soddisfare la richiesta. Una riflessione è lecita. Visto che nessuno dei vaccini proposti è totalmente sperimentato, non sarebbe più utile procedere utilizzando vaccini diversi? Il rischio di insuccesso sarebbe inferiore, come si fa con gli investimenti finanziari per i quali è regola consolidata differenziare. E questa volta l’investimento è davvero cospicuo, visto che sul successo della vaccinazione si fonda il bene più prezioso: la nostra salute.

 

Contano solo i soldi, il resto è tutta fuffa

“È tutta una questione di soldi, il resto è conversazione”, sorride nel film Wall Street l’immortale Gordon Gekko-Michael Douglas, e in fondo, se osserviamo il gigantesco casino scoppiato intorno alla sopravvivenza del governo Conte, può essere una spiegazione. Ci sono 209 miliardi da spendere e bisogna decidere come si spendono, dove si spendono e soprattutto chi li spende. Il resto è conversazione (e pure intrattenimento). Follow the money, segui i soldi dicono gli americani (lo diceva anche Giovanni Falcone, a proposito di certe coppole), ma nel caso del Recovery Fund al momento sappiamo soltanto chi li ha portati in Italia tutti quei benedetti money. Spiace dirlo, ma è stato l’inadeguato, inaffidabile, inetto presidente del Consiglio. Naaah, merito della Merkel sibila qualcuno. Come volete, è stata la cancelliera in combutta con Soros, Bezos e i Brutos, ma restiamo sul punto: in quali mani (e in quali tasche) è destinato a finire quel ben di dio? Torniamo alle linee guida: modernizzazione, green, inclusione sociale parità di genere. Vabbè, ma i soldi a chi vanno?

Tra ministri, esperti e strutture parallele potremmo continuare a macinare acqua nel mortaio finché scopriamo che un contributo concreto al dibattito giunge, spiace dirlo, da Matteo Renzi. Secondo il quale (ieri al Corriere della Sera) “abbiamo una spesa pro capite per la sanità che è la metà di quella tedesca”, e quindi “non capisco come Di Maio possa dire di no al Mes” (altri 36 miliardi). Ok Matteo, ma “sanità” non è un tantino generico? Dillo con parole tue, quei soldi, concretamente, a chi dovrebbero andare? Mistero, se non fosse che sul Fattodi domenica, sotto il titolo “Big Pharma, Ponte e Tav: Renzi accarezza le lobby”, leggo nel pezzo di Giacomo Salvini che “al punto 55” del famoso piano Ciao “Renzi propone di investire 4 miliardi per creare posti di lavoro di qualità e ricerca avanzata nel mondo farmaceutico”, eccetera. Si tratta “del 3% dei prestiti totali” a favore “di uno dei pochissimi settori in crescita del 2020 facendo registrare un +3,9%”. Proviamo a unire i puntini? C’entra qualcosa l’affettuosa amicizia con la famiglia Aleotti, proprietari del colosso farmaceutico Menarini e finanziatori della fondazione renziana Open? Ma cosa andate a pensare? Come dice Gekko, “il denaro semplicemente si trasferisce da un’intuizione a un’altra, magicamente”. Ciao Ciao.

La ministra Catalfo: “prorogati almeno a fine 2021”

Arriva direttamente dalle parole della ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, un nuovo spiraglio per una (breve) proroga dei 2.700 navigator. Gli assistenti dei Centri per l’Impiego assunti a settembre 2019, con il compito di aiutare i percettori del Reddito di Cittadinanza nella ricerca del lavoro, hanno i contratti in scadenza ad aprile, quindi l’idea è estenderne la durata almeno fino a dicembre. Tra meno di quattro mesi, altrimenti, rischiano di diventare loro stessi disoccupati. Oltre a questo problema, pur prevedibile, ce ne sarebbe un altro più generale: il previsto piano di rinforzo dei Centri per l’impiego non è ancora stato realizzato. Come ha detto la stessa ministra, cinque regioni non hanno ancora pubblicato i bandi per le assunzioni. L’arruolamento dei navigator da parte di Anpal Servizi, inquadrati come (co.co.co.), nei piani del Movimento 5 Stelle doveva infatti servire solo a coprire la fase di avvio dello strumento anti-povertà, in cui bisognava prendere in carico la prima infornata di percettori (1,2 milioni). A regime, però, il progetto prevede di inserire nei Centri per l’impiego regionali ben 11.600 nuovi operatori a tempo indeterminato. La speranza è che almeno buona parte dei 2.700 co.co.co riesca a rientrare attraverso questi concorsi. Come detto, però, i concorsi sono in ritardo e in primavera la macchina delle “prese in carico” dei disoccupati percettori del RdC, già finora non velocissima, rischia di contare su ancora meno risorse. Il primo a proporre la proroga era stato il presidente Anpal, Mimmo Parisi, poi alcuni deputati avevano presentato emendamenti alla legge di Bilancio: nulla di fatto, ma ora Catalfo rilancia, anche perché in questi mesi il ministero del Lavoro preparerà la riforma degli ammortizzatori sociali, che dovranno finalmente diventare universali e saranno agganciati al potenziamento delle politiche attive, non più riservate solo ai beneficiari del Reddito di cittadinanza.

“Niente scrivanie né pc: così le Regioni vanificano il lavoro”

“Inavigator non hanno né scrivanie né computer, non possono aiutare i beneficiari a redarre un curriculum o candidarsi per delle posizioni, iscriversi all’obbligatoria piattaforma Myanpal, inserire le competenze e contattare aziende ‘scouting della domanda’”. È questa la descrizione che arriva da un navigator della situazione in cui si lavora in un centro per l’impiego di Roma. Un racconto selezionato tra le tante testimonianze raccolte nella ricerca, e che può valere per molte altre realtà. “Si siedono accanto al beneficiario alla scrivania di un operatore regionale, che non li accoglie vicino a sé per non consentire loro di osservare le registrazioni e le informazioni che appaiono sul terminale – continua il lavoratore –. Eppure essi hanno acquisito professionalità, riescono ad aiutare, orientare, cercare da soli o in gruppo le informazioni necessarie, aiutano l’inserimento del profilo Myanpal utilizzando il telefonino del beneficiario (se connesso a Internet), segmentano il bacino di utenza manualmente per fornire dati statistici aggiornati, sanno usare le piattaforme anche se le hanno viste per la prima volta, progettano attività che spesso vengono bocciate e non avranno mai luogo, hanno ricevuto dei tablet privi di connessione wi-fi e dei telefonini che non possono usare. La regione non vuole concedere i dati sensibili malgrado i numerosi corsi e attestati su privacy e anticorruzione”.

L’ipocrisia politica che stritola i navigator

“Gli italiani – diceva Longanesi – sposano un’idea e subito la lasciano con la scusa che non ha fatto figli”. Questo, in sintesi, è capitato al Reddito di Cittadinanza e ora sta capitando ai navigator: entrambi voluti dal Movimento 5 Stelle e poi abbandonati a se stessi.

Nella sua intervista di ieri a Repubblica, la ministra Catalfo ha annunciato una serie di riforme che, per passare dal verbo alla carne, avrebbero bisogno di una rete imponente di Centri per l’Impiego invece di quella ragnatela gracilissima che l’Italia si ritrova. Per rimpolparla, la prima soluzione che viene in mente consiste nell’immediata assunzione a tempo indeterminato dei 2.700 navigator, già selezionati con un severo concorso, formati con un ottimo corso e impratichiti con un proficuo lavoro sul campo. Invece, proprio dopo avere affermato che “questo sarà l’anno dell’Anpal per le politiche attive”, la ministra si limita a una sentenza deprimente per i navigator, che maternamente chiama “nostri ragazzi”, ma poi condanna al precariato perpetuo: “Spero di prorogarne il contratto, dalla scadenza di aprile, per tutto il 2021”.

Vale dunque la pena di ripercorrere questa vicenda tutta italiana dei navigator. Partiamo dal rapporto tra povertà e disoccupazione. Vi sono poveri che non hanno lavoro e che lo cercano (quando fu introdotto il RdC erano circa un milione); vi sono poveri che hanno un lavoro retribuito in misura talmente minima da restare poveri (circa un altro milione); in fine vi sono poveri – minori, vecchi, invalidi, pensionati – che non sono in grado di lavorare (circa 3 milioni). Ai primi bisogna dare un sussidio, un orientamento e un addestramento fin quando non trovano lavoro; ai secondi un salario aggiuntivo. Ai terzi un sussidio.

Per definire la categoria di appartenenza di ciascun richiedente e per aiutarlo nel modo più adatto alla sua specifica condizione, sarebbero necessari Centri per l’Impiego dotati di uomini e mezzi adeguati. Questi centri sono diventati indispensabili nell’attuale società post-industriale dove i beni e i servizi sono prodotti prevalentemente dalle macchine e la durata di un posto di lavoro dipende dai salti del progresso tecnologico. Oggigiorno, a ogni nuovo computer che entra in azienda, alcuni lavoratori perdono il posto e, per trovarne un altro, debbono riciclarsi professionalmente e cercare un nuovo datore di lavoro. Ormai può avvenire una, due, molte volte nell’arco di una vita professionale e quasi tutti i lavoratori prima o poi ci incappano.

Di qui l’esigenza di una rete fitta ed efficiente di Centri per l’Impiego, capaci di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, promuovere interventi di politica attiva, accompagnare i lavoratori nelle alterne fasi di occupazione e disoccupazione, orientarli, sovrintendere al loro addestramento, indicare loro con tempestività le eventuali occasioni di reimpiego, metterli in contatto con i potenziali datori di lavoro, svolgere attività amministrative, come l’iscrizione alle liste di mobilità e agli elenchi delle categorie protette, le cessazioni dei rapporti di lavoro e il rilascio del certificato di disoccupazione. Ciò richiede banche dati ricche e aggiornate, tecnologie informatiche di adeguata potenza, personale specializzato non solo in economia e diritto del lavoro, ma anche in psicologia e sociologia.

La Germania, con un tasso di disoccupazione inferiore al 4%, ha Centri per l’Impiego attrezzati di tutto punto, gestiti da 110.000 addetti e finanziati con 11 miliardi di euro l’anno. Prima che si introducesse il RdC in Italia la disoccupazione si aggirava intorno al 10%, i Centri per l’Impiego erano 556, attrezzati in modo approssimativo; gli addetti erano 8.000; il costo dell’organizzazione complessiva si aggirava intorno ai 750 milioni. Il rapporto tra addetti ai Centri e disoccupati era di 1 a 300, mentre in Francia era di 1 a 65, nel Regno Unito di 1 a 30, in Germania di 1 a 24. Il 48% dei disoccupati europei cercava lavoro nei Centri per l’Impiego mentre in Italia la percentuale arrivava appena al 28% perché da noi il processo di ricerca del lavoro è lasciato troppo spesso nelle mani delle agenzie private in base a criteri di welfare sospettabili di clientelismo.

Con l’avvento del Reddito di Cittadinanza il carico di lavoro dei CpI si sarebbe ulteriormente aggravato per cui i 5Stelle proposero di contrattualizzare almeno 6.000 professionisti per fornire ai Centri l’assistenza tecnica necessaria alla convocazione dei percettori di reddito occupabili, all’analisi degli esoneri e delle esclusioni, alla sottoscrizione del patto per il lavoro, alla mappatura delle offerte formative, alla stesura dei piani personalizzati di accompagnamento al lavoro e al vero e proprio accompagnamento al lavoro. Inoltre, per il potenziamento di tutte queste operazioni, proposero di investire 480 milioni nel 2019 e 420 milioni nel 2020. Invece, nella conferenza Stato-Regioni, queste, in vena di autolesionismo, chiesero e ottennero che si dimezzassero le assunzioni.

Al concorso si sono presentati 19.582 candidati e i vincitori sono stati 2.978, con un’età media di 35 anni, per il 73% donne, tutti provvisti di laurea magistrale con un voto non inferiore a 107/100 e accertata conoscenza dell’inglese. Essendo pensati per risolvere il problema del precariato, dopo un tira e molla con le Regioni (puntualmente comica ed eroica la resistenza di De Luca in Campania) i vincitori furono assunti come precari, con un contratto a termine di 1.700 euro mensili, che scade il 30 aprile 2021. Come se non bastasse, gli fu dato un nome ridicolo, ovviamente americano, e in America si andò a rintracciare (su consiglio di Casalino, a quanto pare) un comandante degno della nave. Dal Mississippi fu chiamato Mimmo Parisi e, come la monaca di Monza, lo sventurato rispose.

Nell’ottobre del 2019 i navigator hanno cominciato a navigare. E siccome il RdC era partito sei mesi prima, si sono ritrovati a smaltire tutto il lavoro pregresso senza avere a disposizione i dati nazionali e senza nessun contatto consolidato con le aziende. Il personale dei Centri per l’Impiego – spesso istruito, professionalizzato e pagato meno dei navigator – li ha accolti come nemici invadenti più che come rinforzi competenti sicché molti se ne sono già andati e ne sono rimasti 2.700. I superstiti, nonostante tutte le condizioni avverse e la necessità di improvvisarsi smartworker durante il lockdown, in un anno sono riusciti a convocare un milione e mezzo di disoccupati: entro il 31 ottobre 1.370.000 hanno sottoscritto il patto per il lavoro, 352.000 hanno ricevuto un contratto e 193.000 continuano a mantenerlo. Si tenga conto che 193.000 è un numero che supera quello di tutti i dipendenti della Fiat, dell’Ilva, dell’Eni, della Telecom e della Barilla messi assieme. E si tenga pure conto che la platea disoccupata di cui stiamo parlando è composta in gran parte da persone difficilmente ricollocabili, in gravi difficoltà economiche e psicologiche, spesso semi-analfabete, che magari per molti anni sono vissuti in povertà assoluta senza aiuto e senza speranza. In un Centro della Lombardia, ad esempio, su 200 adulti avviati al lavoro solo 5 avevano la patente.

Praticamente tutto questo è avvenuto senza che nessuno – tantomeno il presidente dell’Anpal o la ministra del Lavoro – rendesse pubblico tanto lavoro e tanti risultati dei navigator, mentre i media sferravano un attacco pregiudiziale e concentrico contro di loro. Essi stessi, con imperdonabile ingenuità, hanno reagito troppo a lungo con il silenzio. Solo l’on. Claudio Cominardi, ex vicesegretario del ministero del Lavoro, sul suo blog del 7 luglio scorso, tacciava di falsità, dati alla mano, chiunque – compresa la Corte dei Conti – li accusava di inerzia o di inefficienza. Dopo di che, con un emendamento da inserire nella Manovra 2021, chiedeva il rifinanziamento dei navigator.

Di fronte a un futuro sempre più paradossale, finalmente i 2.700 superstiti si sono dati una mossa creando la loro Associazione Nazionale (Anna) e, quando l’emendamento di Cominardi è stato respinto, hanno scritto alla ministra Catalfo una lettera in cui chiedono di essere riscattati dal purgatorio in cui la stessa ministra li tiene ad arrosolare. “Oggi – essi scrivono – in Italia i navigator sono tra i pochi veri esperti di politiche attive del servizio pubblico, formati dal pubblico con risorse pubbliche e capaci di assistere i meno occupabili”.

Nei prossimi mesi, quando cesserà il blocco dei licenziamenti e l’occupazione precipiterà, un intervento robusto dei Centri per l’Impiego diventerà indispensabile e solo i navigator saranno in grado di non farli collassare, fornendo il loro aiuto irrinunciabile. Invece proprio allora, ricchi di illusioni, esperienza e competenza, saranno espulsi come fannulloni incapaci. E sarà difficile pensare che la loro espulsione non sia dovuta alla subdola volontà politica di avvantaggiare le agenzie del lavoro e gli enti di formazione privati.

Mentre la ministra si limita a sperare in una misera proroga del contratto per qualche mese, i navigator hanno tutte le carte in regola per pretendere a buon diritto tre cose: il loro immediato incardinamento in blocco dentro i CpI, senza alcun bisogno di ulteriore concorso, con contratto a tempo indeterminato e posizione contrattuale corrispondente alle loro già accertate capacità; una leadership sicura e competente; una degna dotazione finanziaria e tecnologica.

Per quanto svalutati dal dileggio concentrico di tutti i media e delle opposizioni, per quanto abbandonati da quelle stesse forze politiche che li hanno creati, per quanto co.co.co ignorati dai sindacati, per quanto inoffensivi nella loro troppo educata protesta da “colletti bianchi”, questi 2.700 navigator, una volta abbandonati al loro destino, si trasformeranno in altrettanti boomerang soprattutto per i 5Stelle, Catalfo in testa.

Quarto gruppo al mondo: vale l’8,6% del mercato e capitalizza 44 miliardi

A oltre due anni dalle trattative segrete avviate il 21 dicembre 2018 e a 14 mesi dall’ufficializzazione del 31 ottobre 2019, ieri gli azionisti di Fiat Chrysler Automobiles con il 99,15% dei voti e quelli della francese Psa (Peugeot Citroën) con il 99,85% hanno approvato la fusione in Stellantis. Nonostante il crollo delle immatricolazioni per la pandemia, in base ai dati del primo semestre 2020 il gruppo è quarto tra i costruttori mondiali con 2,79 milioni di auto vendute (l’8,6% del mercato globale), dietro Toyota (12,4%), Volkswagen (11,3%) e Renault Nissan (10,4%). Ferrari resta fuori dalla fusione. La sede della nuova società sarà in Olanda.

Stellantis, che conta 400mila dipendenti, secondo i dati proforma delle semestrali 2020 ha ricavi per 51,7 miliardi. Nel 2019 ha generato il 46% del fatturato in Europa, Medio Oriente, Africa e Asia e il 44% dal Nord America. Le sinergie industriali previste dall’integrazione supereranno i 5 miliardi l’anno: i tre quarti deriveranno da convergenza di tecnologia e piattaforma e da risparmi sui fornitori, il 7% da tagli alle spese. Tra i rischi c’è la dipendenza della redditività di Fca dai Suv venduti in Nord America, che hanno rappresentato il 72% delle vendite e la maggior parte degli utili Fca nel 2019, e agli aiuti pubblici in Brasile, estesi fino al 2025. Quanto a Psa, il mercato europeo vale la maggior parte dei profitti e il 77% dei ricavi. I due gruppi durante la pandemia si sono assicurati liquidità anche grazie a garanzie pubbliche, come quella di Sace sui 6,3 miliardi prestati da Intesa Sanpaolo a Fca.

Ciascuna azione ordinaria Psa sarà convertita in 1,742 ordinarie Fca poi i titoli, rinominati Stellantis, saranno quotati a Parigi, Milano e New York. Nel nuovo gruppo, che capitalizza 44 miliardi, gli azionisti di rilievo sono Exor della famiglia Agnelli-Elkann (14,4%), la famiglia Peugeot (7,2%), lo Stato francese attraverso BpiFrance (6,2%) e la cinese Dongfeng (5,6%). Prima della fusione gli azionisti di Fca e Psa si sono staccati maxi-dividendi: Fca uno straordinario in contanti per 2,9 miliardi. Fca e Psa ora valuteranno la distribuzione di 1 miliardo in contanti agli azionisti. In Stellantis John Elkann di Fca sarà il presidente operativo, Carlos Tavares di Psa (pagato 8,55 milioni nel 2019) l’amministratore delegato. Secondo Elkann, Stellantis vuole “avere un ruolo di primo piano del prossimo decennio”, specie sul fronte della mobilità sostenibile, con una forte proiezione verso la Cina. Nonostante sia presentata come una “fusione tra pari”, nel cda di Stellantis Fca nomina solo 5 degli 11 consiglieri. L’operazione è stata una manna per i consulenti: Fca ha pagato a Goldman Sachs commissioni per 35 milioni di dollari e a d’Angelin & Co. 6,5 milioni di euro, Psa 9,17 milioni di euro a Perella Weinberg Uk.

Il Governo di Parigi ha imposto la presenza produttiva in Francia: se il gruppo delocalizzasse perderebbe gli aiuti fiscali. Invece da Roma non è arrivato alcun segnale, motivo di timore per i sindacati che chiedono garanzie. Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil e Michele De Palma, segretario nazionale e responsabile automotive, hanno dichiarato che “la nascita di Stellantis è un cambiamento storico. La Fiom” è pronta a “dare il proprio contributo per un nuovo accordo” se vi sarà “un piano di investimenti fondato sull’occupazione in Italia”.

Fca-Psa, la fusione ìmpari: Stellantis parlerà francese

È la Storia, quella del Novecento e quella soprattutto dell’automobile, la più scomodata per celebrare Stellantis, la fusione tra Peugeot e Fiat Chrysler (Fca). Pensata nell’ottobre 2019 prima del Covid e scivolata poi nella grande crisi mondiale per l’emergenza sanitaria. Così, se il “patron” della francese Psa e futuro amministratore unico del nuovo supergruppo, Carlos Tavares, parla di “momento storico”, il presidente di Fca, John Elkann (avrà quel ruolo anche in Stellantis) scomoda addirittura il “pionierismo” degli inizi del “secolo breve” e indica un futuro di successi nell’era delle nuove energie e dell’auto elettrica. Sottolineando, da nipote dell’Avvocato, anche il ruolo rinnovato e coraggioso del capitalismo familiare dei Peugeot e degli Agnelli.

I numeri, soprattutto quelli in divenire, sembrano dargli ragione: è nato ieri, ha spiegato Tavares, il “terzo gruppo mondiale per fatturato e il quarto in volume”, garantendo “cospicui investimenti” e sinergie che valgono 5 miliardi di euro. Quanto ai soldi, a fare la parte dei padroni dell’operazione sono soprattutto gli Agnelli: Gli azionisti Fca (Exor in testa) incassano un dividendo straordinario di 2,9 miliardi di euro; meno degli oltre 5 miliardi concordati nell’ottobre 2019, ma comunque la “ricompensa” per quella governance sbilanciata che affida ai francesi la maggioranza nel cda e il ruolo strategico all’ad “di casa”.

Tutto sarà certificato con il closing del 16 gennaio, ma come in tutte le nomenclature multinazionali la sostanza è implacabile: chi detiene maggioranza e leader è il vero “padrone”, dividendi straordinari a parte. Con un corollario non da poco, un po’ trascurato nei trionfalismi sulla rigenerazione del “capitalismo familiare”: dentro Peugeot e dunque dentro Stellantis, c’è una considerevole partecipazione dello Stato francese che addirittura, secondo alcuni analisti, avrebbe avuto un ruolo per far rientrare la precedente incursione transalpina di Elkann verso Renault.

Ed è allora proprio questo il tema che, da oggi in poi, deciderà un più onesto giudizio sulla fusione sbilanciata. Quanto conteranno i francesi, pubblici e privati, per le sorti della produzione italiana, già asfittica nell’era Marchionne dopo l’americanizzazione con Chrysler, il vero “tesoro” che interessava a una Peugeot troppo europea? Le prime reazioni politiche, industriali e sindacali sono anch’esse sbilanciate: tra dichiarazioni plaudenti, e volte a scaricare sulle amministrazioni pubbliche di Torino e del Piemonte la responsabilità di non farsi sfuggire la “grande occasione”, e pochi campanelli d’allarme che, per paradosso, vedono sulla stessa scena la Fiom-Cgil (“Subito un piano industriale per l’Italia”) e – forse per ragioni elettorali – la Lega e Fratelli d’Italia.

I vecchi dubbi dell’ottobre 2019 restano ancora validi: la maggior forza di Peugeot sul fronte di auto elettrica e ricerca, il suo consolidato rapporto con i fornitori francesi, una sovrapposizione di piattaforme e modelli che non è affatto scontato si concluda con una equa spartizione. Con molti interrogativi, soprattutto, per il ruolo ormai lontano di Torino e di Mirafiori.

La città subalpina dell’industria e della politica punta sulla speranza di un centro di ricerca di Stellantis proprio sotto la Mole, dimenticando però che i transalpini ne sono già ben forniti, non solo in Francia, ma nel resto d’Europa. Entro l’estate, Tavares annuncerà il piano e indicherà chi guiderà marchi e produzioni. Allora tutto sarà chiaro: in particolare rispetto al famoso investimento italiano da 5 miliardi dei tempi di Marchionne, poi rinviato e rilanciato più volte e finito nella crisi della pandemia. Una promessa che era stata usata anche per giustificare la garanzia pubblica Sace, agli inizi del Covid, per il prestito di 6,3 miliardi di euro a Fca. I primi segnali, però, non sono incoraggianti; nelle settimane scorse, per esempio, Fiat Poland ha partecipato ai finanziamenti pubblici polacchi e ha avvertito i fornitori: ospiterà le produzioni del “segmento b”, speranza delusa per un rilancio di Mirafiori.

Il rischio più umiliante, infine, potrebbe correrlo però lo Stato italiano: forse destinato ancora una volta a guardare, con quello francese invece in presa diretta. Responsabilità che non riguardano solo il governo attuale, ma un pezzo di storia politica che può essere riportata indietro, senza alcuna discontinuità, sino all’ultimo esecutivo Berlusconi. Con una linea comune e arrendevole: divisa tra chi considerava quasi una rottura di scatole doversi occupare del destino dell’auto italiana e dei suoi lavoratori e chi, invece cercava di brillare di luce riflessa accanto a Marchionne. Sino ai balbettii di queste ore, mentre ci si dilania sul Recovery Plan e si assiste e basta, invece, davanti a una fusione mondiale che ridisegna il settore.

Con qualche primo ripensamento oggi, simboleggiato dalle parole dell’ex sindaco Pd di Torino, e poi presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino: ieri, infatti, ha auspicato che “a Torino resti una testa strategica” e non ha taciuto sugli “squilibri della governance di Stellantis”.

Gianni il rider e quell’infanzia rubata ai giovani napoletani

Credo fermamente nel fatto che nessun avvenimento possa essere riconducibile a pura semplificazione attraverso la cancellazione di tutto ciò che circonda lo stesso avvenimento. La spugna della semplificazione rischia di farci ragionare con la stessa pancia di come ragiona il colpevole o carnefice. Vengo, dunque, alla triste vicenda dell’aggressione consumata ai danni di Gianni Lanciano, il rider di 52 anni pestato e rapinato da 6 ragazzi a Calata Capodichino: da un lato, la violenza brutale dei giovani coinvolti, alcuni dei quali minorenni; dall’altro, il tentativo di filmare l’orgia violenta di alcuni scalmanati perché diventasse materia prima per gli investigatori della polizia. Resta il sospetto di una città che si “limita” ad usare il telefonino per filmare e non per denunciare l’accaduto. Ma questa è un’altra riflessione. Torno all’esemplare reazione della vittima, che ha esortato questi stessi giovani a cambiare vita e a lavorare onestamente, anche ricorrendo ad attività molto umili, senza fare del male al prossimo e commettere, in tal modo, un reato persino contro Dio. Da qualsiasi ottica si guardi quanto accaduto, siamo di fronte a una drammatica realtà: c’è una piaga gravissima a Napoli, che è quella dell’infanzia rubata. E che fa emergere pochi ma fondamentali elementi: ragazzi che si contraddistinguono per una totale assenza di affettività che allo stesso tempo potrebbe diventare una vera e propria forma di spiritualità, nel senso che orienta la vita di un giovane sempre più nel guardare la stella che ti illumina il cammino e ti porta a diventare ciò che sei e non ciò che vuoi avere ed apparire. L’episodio di Capodichino mi fa tornare alla mente l’aggressione mortale di cui rimase vittima il vigilante Della Corte, l’accoltellamento del giovane Arturo a via Foria e tanti altri episodi in cui la violenza rappresenta la peggiore rappresentazione di una noia esistenziale che interroga e ferisce le nostre coscienze.