Aspi, nuova accusa: omissione d’atti d’ufficio. Nel mirino dei pm i controllori dei Trasporti

C’è una nuova accusa nell’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi: la Procura indaga manager e tecnici di Autostrade per l’Italia e delle società controllate per omissione d’atti d’ufficio. Una contestazione che, a questo punto, si allarga anche ai dirigenti del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti coinvolti nelle indagini e investe la responsabilità di chi avrebbe dovuto controllare e non lo ha fatto. “L’ipotesi di reato si riferisce al ruolo di pubblici ufficiali che avevano sia i responsabili della concessionaria che gli indagati che dipendevano direttamente dallo Stato – spiega il procuratore capo Francesco Cozzi – come nel caso dei viadotti, c’erano compiti specifici di monitoraggio, controllo e manutenzione che erano previsti per legge e invece non sono stati fatti”.

La svolta è arrivata dopo il deposito della perizia sulle cause del crollo, depositata prima di Natale dai periti del giudici. Le conclusioni degli esperti sono durissime: dal 1993 sul viadotto “non sono stati eseguiti interventi che protessero arrestare il processo di degrado in atto o di riparazione dei difetti presenti”, “particolarmente gravi” proprio sull’estremità della pila numero 9, ovvero il punto che avrebbe ceduto per primo.

Aspi in molti frangenti avrebbe nascosto e manipolato dati inviati al ministero. A sostenerlo sono sia il giudice per le indagini preliminari Angela Nutini sia il Tribunale del Riesame. Nonostante questo, fra i 71 indagati dell’inchiesta sulla strage del viadotto Polcevera sono coinvolti anche molti funzionari del Mit. Una parte di essi appartengono al Provveditorato alle opere pubbliche ligure e all’organo centrale romano che avevano il compito di approvare il progetto di “retrofitting” che avrebbe portato alla ristrutturazione della pila numero 9 e dei suoi stralli: le altre due erano già state oggetto dell’intervento del 1993. I lavori preventivati erano di oltre venti milioni di euro e dovevano essere avviati nel settembre del 2018, cioè poche settimane dopo il crollo del 14 agosto. Altri tecnici del ministero sono stati coinvolti proprio per aver partecipato alla ristrutturazione degli anni Novanta, che rimise a posto solo due delle tre strutture rette dai tiranti. La chiamata in causa anche del Mit, oltre che della concessionaria, potrebbe avere effetti importanti sulla partita dei risarcimenti. Al momento sono solo due i soggetti indagati per responsabilità amministrativa: Aspi e la controllata Spea Engineering.

Boschi minaccia cause a Travaglio e Daniela Ranieri

Maria Elena Boschi minaccia tre cause al Fatto: una per l’articolo di Marco Travaglio dell’altroieri (“I veri transfughi”) e due per due vecchi pezzi di Daniela Ranieri, risalenti al 5 e al 9 gennaio 2016. Per questi ultimi due i legali dell’ex ministro delle Riforme hanno utilizzato la cosiddetta ‘messa in mora’, che fa ripartire da capo la lancetta dei 5 anni entro cui esercitare un’azione civile di risarcimento e pare un escamotage per trascinare alle calende greche la minaccia di causa. La pec con cui l’avv. prof. Vincenzo Zeno Zencovich ci informa che l’onorevole “intende agire per tutti i danni arrecati dalla pubblicazione dei seguenti articoli” fa riferimento a due pezzi di cinque anni fa. Oggi per il primo sarebbero scaduti i termini. E, se ci vuole fantasia per ipotizzare la diffamazione in un articolo di satira sulla pagina web dell’allora ministra, per il secondo siamo ai confini dell’assurdo: il nome ‘Boschi’ compare una volta, in un editoriale dedicato a Renzi. La mossa dell’esponente Iv ha seminato il terrore in redazione: “Brrrr, che paura”, il commento del direttore.

Imane Fadil, i pm chiederanno nuova perizia sulla morte

Una nuova perizia medico-legale sulla morte di Imane Fadil, la modella testimone del processo Ruby 3 morta all’ospedale Humanitas di Rozzano (Milano) il 1 marzo 2019. È quanto prefigurava l’ordinanza del giudice delle indagini preliminari Alessandra Cecchelli, che ha respinto la richiesta d’archiviazione del caso, accogliendo le richieste dei legali della famiglia di Imane, Mirko Mazzali e Nicola Quatrano. Ed è quanto si stanno preparando a disporre i pm di Milano, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il sostituto Luca Gaglio. Indicheranno dei consulenti che dovranno valutare se vi è stata “colpa medica”, ritardo nella diagnosi (aplasia midollare) ed errori nelle cure. La consulenza sarà affidata in contradditorio con le parti, ossia con la possibilità per gli indagati di far partecipare agli accertamenti i propri consulenti. In alternativa, la Procura potrebbe chiedere al gip di disporre una perizia medico legale con la formula dell’incidente probatorio per “cristallizzare” gli esiti in vista di un eventuale processo.

Viminale, “rubati” 30mila euro nella sede della Polizia criminale. Indaga la Procura

Il furto, se non altro per il contesto in cui è avvenuto, ha dell’incredibile e imbarazza non poco il Viminale: un finanziere in servizio al Ced (il Centro elaborazione dati interforze) ha denunciato di essere stato derubato di 30mila euro. I soldi sarebbero spariti da un armadietto personale chiuso a chiave. E le telecamere, dai primi accertamenti, non sarebbero state funzionanti quella notte. Non solo. Nell’esposto c’è un altro dettaglio non secondario: la notte in cui sarebbe sparito il denaro, l’11 settembre scorso, è emersa una difformità tra i due diversi sistemi che registrano le presenze; in un caso risultano le firme di due persone, nell’altro una sola. In altre parole, non è chiaro chi lavorasse e l’anomalia, se non venisse chiarita, potrebbe aprire anche un’ipotesi di falso. Sul caso hanno aperto un fascicolo, per ora senza indagati, la Procura di Roma e la squadra mobile.

Per capire la delicatezza dell’indagine occorre partire dal luogo del presunto delitto: non si tratta di un ufficio qualunque, ma di uno degli edifici più protetti d’Italia. Il Ced è la banca dati che raccoglie e incrocia tutti i precedenti di giudiziari e di polizia in mano alle forze dell’ordine italiane. Un centro nevralgico che custodisce dati riservati e sensibili, dunque ultraprotetto. È ospitato presso la sede della Direzione centrale della polizia criminale, sulla Tuscolana, a Roma, a pochi passi dal quartier generale della Direzione investigativa antimafia. Ecco spiegato il riserbo tenuto su un’inchiesta che presenta non poche ombre. A cominciare da quel tesoretto in contanti: che provenienza aveva? A questa domanda il militare ha presentato una spiegazione, e un elenco di documenti bancari per dimostrarne la tracciabilità. L’uomo ha raccontato di aver occupato una casa popolare in un momento di difficoltà. Per questo ha in corso un contenzioso con il Comune di Roma, che vanta nei suoi confronti un credito di 32mila euro. Questo sarebbe il motivo che lo avrebbe spinto, nell’ultimo anno, a svuotare progressivamente il conto per evitare pignoramenti. Quel segreto, dice, lo aveva confidato a un solo collega poliziotto (uno dei due in servizio la notte della sparizione), in caso gli fosse successo qualcosa. Alla stanza, secondo chi indaga, ha accesso anche personale esterno. Ma le presenze effettive nell’ufficio sono uno dei misteri che la polizia cercherà di chiarire.

Milano, chiamate al 112 per crisi respiratorie: aumento del 33%

Milano

L’ultimo allarme che preoccupa i tecnici del ministero della Salute a Roma, impegnati a preparare le misure per l’Italia dopo il 7 gennaio, viene da Milano: è l’aumento degli interventi delle autoambulanze in città e in tutta la Lombardia. È un segnale di partenza della terza ondata?

A essere allarmanti sono gli ultimi dati comunicati da Areu, l’azienda regionale lombarda emergenza urgenza. I diagrammi delle chiamate in Lombardia per emergenze respiratorie e infettive (quindi presumibilmente Covid) mostrano che, dopo i picchi della prima settimana di novembre 2020 (oltre 500 interventi al giorno nell’area Metropolitana Milano-Monza), era iniziata una costante discesa, almeno a partire dal 10 novembre.

Verso la fine dell’anno il trend s’inverte. Il 28 dicembre gli interventi sono stati 153 nell’area Metropolitana (Milano, Monza), 85 nell’area Alpina (Bergamo, Brescia, Sondrio), 83 nell’area Pianura (Cremona, Lodi, Mantova, Pavia), 64 nell’area Laghi (Lecco, Como, Varese). Il 2 gennaio il nuovo picco: 207 interventi a Milano-Monza, 96 a Bergamo-Brescia-Sondrio, 87 a Lecco-Como-Varese, 86 a Cremona-Lodi-Mantova-Pavia.

Ora dobbiamo attendere i dati dei giorni seguenti, per capire se si è trattato di una variazione temporanea o se la tendenza al rialzo si consolida. Certo che quello che conta è il trend, ma questo già ci dice che nell’area Milano-Monza la crescita è allarmante: del 33 per cento il 2 gennaio rispetto ai 14 giorni precedenti.

Forse ancora più allarmante è il confronto tra prima e seconda ondata della pandemia da Covid-19. Sovrapponendo i diagrammi degli interventi d’emergenza nell’area Milano-Monza nei periodi dal 1 marzo a giugno (prima ondata) e dal 15 ottobre a oggi (seconda ondata), si vede come i due tracciati siano pressoché sovrapponibili: c’è una crescita che dura circa 28 giorni (da 100 a 500 interventi giornalieri) e poi una discesa costante, fin sotto i 100 interventi nella prima ondata. Ma non nella seconda: dopo il 78esimo giorno, a fine 2020, la curva risale e s’impenna di nuovo, come abbiamo visto, tornando sopra i 200 interventi giornalieri dei primi giorni dell’anno nuovo.

È già l’inizio della terza ondata? Oppure è solo il risultato dei giorni dello shopping pre-natalizio? Saranno i dati dei prossimi giorni a fornire la risposta. Intanto però le preoccupazioni dei tecnici aumentano. “La terza ondata è una certezza”, dice il virologo Fabrizio Pregliasco dell’Università di Milano, “l’Istituto superiore di sanità valuterà l’andamento dei contagi nella prossima settimana e il peggioramento potrà avvenire a metà mese”.

L’Italia divisa in zone e le limitazioni delle aree rosse, secondo Pregliasco, “hanno funzionato e hanno piegato la curva, ma in questi ultimi giorni c’è stato un rallentamento della discesa. Stiamo mitigando la malattia, riducendo la velocità di contagio, ma non riusciamo a controllarla”.

 

Vaccini al via, ma Gallera chiede un’altra poltrona

La giunta scricchiola, con Giulio Gallera sempre più in bilico e alla ricerca di una nuova sistemazione. Ma, se non altro, la Lombardia sembra essersi messa faticosamente in moto sui vaccini.

Alle 18 di ieri risultavano somministrate il 5 per cento delle dosi Pfizer consegnate nei giorni scorsi alla Regione, pari a 4.026 persone vaccinate. Non certo la partenza scoppiettante che il Covid manager Giacomo Lucchini aveva annunciato, ma comunque un timido inizio che ha fatto spostare i conteggi da quel misero 3 per cento che tanto aveva fatto discutere.

Evidentemente le vacanze dei sanitari sono finite, tanto che le vaccinazioni hanno preso il via sia nelle strutture pubbliche (Niguarda ha assicurato che presto arriverà a 500 vaccini/giorno) che in quelle private, Gruppo San Donato (ieri 200 i vaccinati), l’Auxologico e Humanitas. Nonostante i risultati non certo stellari anche del primo giorno ufficiale, Lucchini ha promesso che a breve la campagna decollerà: “Potremo somministrare 10 mila dosi di vaccino al giorno – è la sua versione a Sky tg24 – e, in prospettiva, con anche le Rsa e gli altri punti, potremo arrivare a picchi di 20 mila. Quando abbiamo chiesto alle strutture di preparare i piani, hanno considerato tutte le variabili, dalle consegne ai turni, all’arrivo di materiali”.

In realtà sulla programmazione resta più di un dubbio: il Pirellone ha concepito una distribuzione dei vaccini piramidale: le dosi arrivano negli ospedali hub, dove vengono stoccate. Nelle prime tre settimane è previsto che si vaccinino tutti i sanitari e, una volta coperto il proprio personale, gli hub dovranno fornire vaccini e assistenza a ospedali, Ats o Rsa nelle loro vicinanze, i cosiddetti punti “spoke”. Tuttavia a ieri gli hub ancora ignoravano quali fossero gli spoke da loro dipendenti.

A complicare le cose, poi, c’è un contesto politico ormai ingestibile. Ieri molti si attendevano il passo indietro dell’assessore al Welfare Gallera, ormai dato per scontato dopo la sparata sui ritardi della campagna vaccinale dovuti “alle vacanze dei medici” e dopo che la Lega ha scaricato pubblicamente l’alleato. Per il rimpasto, però, servirà ancora qualche giorno, come confermato ieri da Matteo Salvini: “Lo vedrete nei prossimi giorni, quando le cose saranno fatte”. D’altra parte le trattative non sono semplici, con Forza Italia che non vuole cedere caselle in giunta. L’autostima di Gallera, poi, non aiuta: durante i colloqui per il rimpasto, l’assessore ha chiesto di poter ricevere un’altra delega in cambio della rinuncia a quella della Sanità. Finendo magari in un altro degli assessorati in bilico, come quello ai Trasporti guidato da Claudia Maria Terzi o quello allo Sport ora gestito da Martina Cambiaghi: l’approdo ideale per chi, durante la zona rossa, si vantava per una maratona fuori comune con gli amici.

Stretta sugli spostamenti e week-end in arancione

Saranno prolungate le restrizioni che scadono domani, 6 gennaio. Un nuovo decreto legge, di cui il governo ha discusso ieri sera, dovrebbe prorogare fino al 15 gennaio il divieto di spostamento tra le Regioni, che da giovedì 7 saranno tutte “gialle” (anche l’Abruzzo). Il weekend del 9-10 gennaio (e probabilmente quello del 16-17 gennaio) sarà però “arancione”. Oggi e domani, come già previsto, restano “rossi”.

Cambiano alcune regole. Dalla prossima settimana sarà più facile, per il ministro Roberto Speranza, disporre i regimi più restrittivi per le Regioni in base a Rt, l’indice di riproduzione del virus che misura quante persone in media vengono contagiate da ciascun infetto, e agli altri parametri. Per l’“arancione”, in presenza di un’incidenza superiore a 50 casi (oggi la media italiana è superiore a 150 e di una valutazione di rischio tra moderato e alto) basterà che Rt superi 1 (adesso ci vuole 1,25); per il “rosso” sarà sufficiente 1,25 (ora il limite è 1,5). La novità non ha convinto tutti i professori del Comitato tecnico scientifico, che nel verbale di ieri sera definisce solo “ragionevole” l’indicazione di Speranza. Il ministro per le Autonomie regionali Francesco Boccia ha sottolineato che “l’inasprimento delle soglie” è stato “condiviso con le Regioni”. Sulla zona “bianca” senza restrizioni dopo il 15 c’è ancora da attendere.

Tra il 7 e l’8 gennaio la cabina di regia del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità si riunirà per il nuovo report settimanale. Alcune Regioni potrebbero subito cambiare colore. Sono in particolare il Veneto, la Liguria e la Calabria, dove è Rt era già di poco sopra 1 nell’ultima rilevazione, ma anche Lombardia e Puglia mentre Emilia-Romagna e Marche sono al limite. Come sappiamo, dopo una discesa a partire dal valore elevatissimo di 1,72 registrato a novembre, da tre settimane la media nazionale di Rt ha ripreso pian piano a salire. L’ultima rilevazione, il 31 dicembre, lo indicava a 0,93 in base ai dati di dieci giorni prima. Secondo i calcoli del fisico Roberto Battiston, dell’università di Trento, è già a 0,99. Gli esperti mostrano preoccupazione. Fabrizio Pregliasco, virologo della Statale di Milano, ieri mattina diceva che “la terza ondata è una certezza” e che “il peggioramento potrà avvenire a metà mese”, quando si vedranno i contagi del periodo natalizio. Agostino Miozzo, coordinatore del Cts, è più ottimista: “Verso la metà di gennaio verificheremo se la curva ha beneficiato delle restrizioni dolorose che sono state imposte” durante le feste.

I numeri, per quanto lontani da quelli di novembre, non lasciano tranquilli. Ieri sono stati notificati dalle Regioni 10.800 nuovi casi a fronte di un numero esiguo di tamponi, 77.993 contro gli oltre 200 mila che si facevano a novembre, per un indice di positività che resta al 13,5 per cento (domenica 13,8 per cento). Calcolandolo sulle persone testate (35.417), cioè senza i tamponi di controllo, sale al 30. Negli ospedali, da almeno una settimana, l’occupazione dei posti letto è stabile, non cala più come prima: ieri sono aumentati di 242 unità i pazienti ricoverati nei reparti ordinari (in totale sono 23.317,quasi un terzo in meno rispetto al picco del 23 novembre); meno 4 nelle terapie intensive, ma con 136 nuovi ingressi anche ieri (totale: 2.579, il picco era stato il 25 novembre a 3.848 ma nella prima ondata eravamo arrivati a 4.068). Anche i decessi dicono che la seconda ondata non è finita: ieri 348 e domenica 347 per una media di 472,8 nell’ultima settimana, più 4,9 per cento sui sette giorni precedenti.

Accelerano, almeno un po’, le vaccinazioni. Alle 21 di ieri, secondo il sito del Commissario straordinario, erano state somministrate 150.245 dosi, pari al 31,3 per cento delle 479.700 distribuite alle Regioni. Il Lazio è al 61,4 per cento, la Toscana al 56 e il Veneto al 55,5, mentre la Lombardia arranca al 7,9 per cento e Calabria, Molise, Val d’Aosta e Sardegna vanno ancora peggio. Ma per il momento sono limitate agli operatori sanitari e alle Residenze per anziani: se non arriveranno altri prodotti oltre a quello di Moderna (che domani dovrebbe avere l’ok dell’agenzia europea Ema), prima di marzo non sarà vaccinato nessuno al di sotto degli 80 anni.

L’Iss: “In classe solo il 2% dei focolai del Paese”

Le scuole sono ambienti “relativamente sicuri” e hanno un ruolo limitato nell’accelerazione della diffusione dell’epidemia. A patto che si adottino le ormai consuete precauzioni, dall’uso della mascherina al lavaggio frequente delle mani. È l’Iss, Istituto superiore di sanità, a ridimensionare l’impatto sulla trasmissione dei contagi della riapertura delle scuole, dalle materne alle superiori, con una indagine che ha preso in esame il periodo compreso tra la fine di agosto e la fine di dicembre. In particolare, come si legge nel report, “quando sono in atto e ampiamente seguite misure di mitigazione sia a scuola che a livello di comunità, le riaperture scolastiche pur contribuendo ad aumentare l’incidenza di Covid-19 causano incrementi contenuti che non provocano una crescita epidemica diffusa”.

I focolai rilevati nelle scuole, tra il 31 agosto e il 27 dicembre, sono stati 3.173. In valori assoluti numeri allarmanti. Ma rappresentano solo il 2% dei totale di quelli segnalati a livello nazionale, con un andamento altalenante: una impennata nelle settimane dal 5 al 25 ottobre, un successivo decremento, un nuovo aumento e una progressiva stabilizzazione dal 14 dicembre. Il picco dei casi giornalieri diagnosticati tra i bambini e ragazzi di età compresa tra i 3 e i 18 anni (picco raggiunto dal 3 al 6 novembre, con oltre 4 mila casi) ha toccato la quota di 43 positivi ogni 100mila abitanti. Un dato decisamente inferiore a quello rilevato nelle altre classi di età oltre i 18 anni, pari a 60 ogni 100 mila abitanti. Certo, dalla riapertura delle scuole, tra il 14 e il 24 settembre, i casi di positività tra alunni e studenti, sono aumentati. Per poi decrescere, però, progressivamente. Alla fine, nel periodo preso in esame, sono stati oltre 203 mila gli alunni a cui è stata diagnosticata l’infezione, con un tasso di ospedalizzazione dello 0,7% contro l’8,5% degli adulti.

“Dopo la riapertura delle scuole – spiega l’Iss – l’andamento dei casi di Covid-19 nella popolazione in età scolastica ha seguito quello della popolazione adulta, rendendo difficile identificare l’effetto sull’epidemia del ritorno all’attività didattica in presenza. Quello che si può notare è che pur con le scuole del primo ciclo sempre in presenza, salvo che su alcuni territori regionali, la curva epidemica mostra a partire da metà novembre un decremento evidenziando un impatto sicuramente limitato dell’apertura delle scuole del primo ciclo sull’andamento dei contagi”.

È giunto alle stesse conclusioni anche uno studio condotto da un gruppo di medici, biostatistici e biologi guidato dall’epidemiologa biostatistica Sonia Gandini, direttrice dell’area ricerca dell’Istituto europeo di Oncologia e docente all’Università statale di Milano. Studio che si è anche soffermato sul caso Campania, esaminando l’andamento dei contagi dopo la decisione del governatore Vincenzo De Luca di chiudere le scuole dal 16 ottobre all’8 novembre. “La curva – spiega Gandini – ha continuato a crescere vertiginosamente”.

Non solo. La percentuale di casi in rapporto ai tamponi effettuati nei bimbi e nei ragazzi è stata, dal 14 settembre al 7 dicembre, solo dell’1%.

Ed è emerso che la trasmissione del virus avviene soprattutto tra gli adulti: dal 23 al 28 novembre la percentuale di alunni positivi era complessivamente pari allo 0,32%, mentre tra gli insegnanti è arrivata all’1,52.

Otto Regioni contro Azzolina: “Le scuole noi le teniamo chiuse”

Anche sulla riapertura della scuola, alla fine, diverse Regioni faranno a modo proprio. Il governo ha dato la linea, confermata ieri dalla ministra Lucia Azzolina sul Fatto e ribadita in serata nel Consiglio dei ministri: dal 7 gennaio gli studenti delle superiori possono tornare alla didattica in presenza fino al 50 per cento. Una posizione contestata però sia da parte del Comitato tecnico scientifico sia da alcuni governatori, pronti a ritardare il rientro come minimo a fine gennaio con ordinanze locali.

Il primo a muoversi è il presidente del Veneto Luca Zaia, preoccupato dai numeri da maglia nera della sua Regione: “Non ci sembra prudente riaprire le scuole in una situazione epidemiologica del genere”. E allora ecco la conferma della didattica a distanza fino al 31 gennaio, proprio come nel vicino Friuli Venezia Giulia guidato dall’altro leghista Massimiliano Fedriga. La Campania di Vincenzo De Luca conferma la sua linea, già in autunno si era smarcato dal governo prevedendo chiusure anche per le scuole elementari. Adesso, la Regione punta a un rientro in aula a scaglioni: “La nostra posizione resta di estrema rigidità – è la versione dell’assessore all’Istruzione Lucia Fortini – il ritorno in presenza dovrà avvenire in maniera assolutamente graduale”. Tradotto: dall’11 gennaio ripartono dalla didattica in presenza solo gli alunni della materna e delle prime due classi della primaria; dal 18, se i dati saranno confortanti, le altri classi della primaria e poi, solo dal 25, la secondaria di primo e secondo grado. Difficile che anche la Puglia rispetti i tempi indicati dal governo: dopo aver incontrato i sindacati del comparto scolastico, il presidente Michele Emiliano ha aperto a una “ordinanza regionale più restrittiva”, magari che estenda a tutti gli studenti la possibilità di scegliere tra didattica in presenza o a distanza.

Provvedimenti severi potrebbero arrivare in Calabria, dove Nino Spirlì chiede “di garantire l’assoluta tutela della salute dei ragazzi”, e nelle Marche di Francesco Acquaroli, dove a paventare il rinvio è il vicepresidente Mirco Carloni: “Stiamo pensando che sia giusto evitare la riapertura delle scuole in presenza dal giorno 7, con il rischio di vedere i contagi aumentare”. Contro il governo – e non è una novità – c’è poi Giovanni Toti: “Di fronte all’incertezza su cosa succederà, le scuole in Liguria non apriranno. Mi auguro che il governo si prenda la responsabilità altrimenti farò un’ordinanza, come hanno fatto altri governatori”. Anche la Sardegna riapre il 15.

D’altra parte Massimo Antonelli, componente del Cts e da sempre sostenitore della didattica in presenza, sembra rassegnato: “Noi fortemente vorremmo riprendere le scuole in presenza, ma va fatto con assoluto realismo, guardando la curva epidemica, senza che si debba essere costretti a richiudere poco dopo. Sappiamo che gran parte dei contagi sono legati non ai luoghi della scuola, ma al di fuori”. Motivo per cui alcune Regioni si sono attrezzate. Ieri il Lazio, per esempio, ha annunciato “la messa in esercizio di oltre 600 bus privati” per gestire la ripartenza, pur avendo Nicola Zingaretti suggerito al governo un rinvio delle lezioni in presenza. Così pure nella Toscana di Eugenio Giani, dove circa 330 bus aggiuntivi aiuteranno a gestire gli spostamenti verso gli istituti, senza rinunciare al rientro in classe: “Sono convinto – dice Giani – che sia essenziale far riprendere la scuola in presenza. Il rapporto con gli insegnanti e con i compagni è essenziale in una fase cruciale come quella dell’adolescenza”.

E in effetti ieri anche la ministra Azzolina, nel ribadire la sua posizione, si è appellata alle Regioni affinché “riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie”, rivendicando come il governo abbia “mantenuto gli impegni” e invitando ciascuno “a fare la propria parte”.

Se non altro, anche la Sicilia conferma di voler ripartire dal 7 gennaio, per bocca dell’assessore Roberto Lagalla: “Ci prepariamo alla riapertura con le superiori al 50 per cento fino al 18 gennaio, poi, se la curva lo permetterà, la percentuale salirà al 75”.

Dal governo, comunque, la linea sembra essere compatta, tanto che ieri il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, ha fatto notare la stranezza del voler tenere chiuse le scuole riaprendo invece il resto: “Se si sposta l’apertura delle scuole a fine gennaio – ha detto – e si mantiene quella dello sci il 18 gennaio c’è qualcosa che non va”. E se si dovesse richiudere dopo poco? L’idea, al momento, è che la rivalutazione delle soglie serva proprio a evitare nuove zone rosse, dunque anche ulteriori chiusure.

I Pareri

 

Calma Andare alle urne col Covid ancora vivo sarebbe una catastrofe

Andare al voto dopo una letale conta al Parlamento sarebbe un incubo, per tutti gli italiani. Per molti politici e giornali non è così, ma chi ordisce Mezzogiorni di Fuoco non sa la storia tragica che stiamo vivendo. Non è bene farsi guidare dalla paura che vinca la destra, scrivono Lerner e Monaco, ma la paura oggi è un’altra: che cada il governo mentre il Covid s’incattivisce, nel mezzo di una impervia campagna di vaccinazione, con oltre 75.000 morti. Renzi il picconatore non è la bolla sgonfiata descritta da Occhetto. È un piccolo uomo smanioso che pensa ai fatti suoi, tratta le sue ministre come birilli e in nome di qualche lobby guarda ai soldi Ue. Prodi che si conta in Parlamento non c’entra. Erano altri tempi: imparagonabili. Spero che Conte ci risparmi il voto. Non tanto perché vincerebbe la destra, ma perché il suo governo sta affrontando a testa bassa, con il consenso degli italiani, una prova mai vista.

Barbara Spinelli

 

Due strade Mandi “al mare” boschi e compagni. Ma dopo si va a votare

Cosa deve fare adesso Conte? Parto da Renzi, che è un pokerista, e si sta comportando in modo spericolato e inaccettabile. A parte i toni, offensivi per le sue ministre che vuole ritirare e per i 75mila morti, ormai è stordito dalle poltrone e sta sgomitando per aggiungersi alla tavola dei 209 miliardi. Per questo offrirei a Renzi uno stabilimento balneare in Toscana – il “Tahiti” – e invece del costume da bagno un costume da segretario della Nato con le medaglie, una cabina per Maria Elena Boschi e i suoi amici e proverei a lasciarli lì. Ma siccome è un’ipotesi improbabile penso che le due alternative poste da Lerner-Monaco e Travaglio alla fine potrebbero coincidere. Conte potrebbe cercare una nuova maggioranza in Parlamento, ma senza un grande esito e alla fine Mattarella potrebbe sciogliere le Camere: a quel punto è plausibile che il premier sia il leader di una coalizione anti-Salvini. Non penso che alla fine ci si arriverà, ma potrebbe essere una soluzione.

Pino Corrias

 

La sfida Né rimpasti né concessioni:  meglio la resa dei conti al Senato

Di fronte all’atteggiamento empio e colpevolissimo di Renzi, Conte non deve fare mezzo passo indietro. Niente rimpasti, niente concessioni. Va al Senato e scopre le carte. Se la fiducia c’è, derivante (gratis) dalla paura di tornare al voto dei cosiddetti “responsabili”, va avanti e dice “suca” a Renzi. Se non c’è la fiducia, si va tutti al voto. Dritti e senza passare dal via. Nessun altro governo in questa legislatura. Pd e M5S dovranno (dovrebbero?) essere granitici e inamovibili nel resistere alle “Draghi-sirene”. Renzi è così pazzo ed egoista da fare tutto questo casino per vedere l’effetto che fa? E allora si vota. Da una parte un’alleanza (seria, sentita, organica) tra Pd, M5S, Mdp, Sardine, società civile eccetera (ma non troppo “eccetera”). E dall’altra, purtroppo favorita, la peggiore destra d’Europa. Nel mezzo nessuno, cioè quel che resterà politicamente della Sciagurato Renzi, spazzato via una volta per tutte da se stesso e dal voto.

Andrea Scanzi