“Si è calmato?”. Il terrore corre nelle chat dei renziani

“Che fa oggi Matteo?”. “Si è tranquillizzato?”. Bastano le mezze richieste – tutte a “scopo informativo”, ci mancherebbe – nelle chat e telefonate tra i parlamentari di Italia Viva per capire il terrore che incombe dentro il partito renziano. Il timore è sempre il solito: che Matteo strappi, vada fino in fondo, anche solo per vedere l’effetto che fa. Ché, come dicono dalle parti del senatore di Scandicci, “ormai Matteo non può più vedere Conte e a volte agisce d’impulso, senza sapere cosa succederà dopo”. Insomma, se la macchina si mette in moto senza un pilota, è difficile fermarla. Che, tradotto, significa: elezioni e Renzi e Italia Viva che scompaiono dal Parlamento. Ma soprattutto 48 deputati e senatori che non vengono rieletti. E allora, basta lo spauracchio, basta pronunciare quella parola (“elezioni”), che i peones renziani, i soldatini della prima ora sempre fedelissimi al verbo di Rignano, iniziano a irrigidirsi con il capo e a smussare gli angoli con i colleghi di maggioranza, soprattutto del Pd ma anche del M5S.

Se qualcuno di loro fa sapere che “Matteo alla fine accetterà un rimpasto e la delega ai servizi”, altri iniziano a muoversi, in due direzioni. In primis, con Renzi stesso: “Matteo pensaci bene”, “Matteo riflettici” si è sentito dire più volte l’ex premier nelle ultime settimane. Ma quando deputati e senatori si sono accorti che il capo andava a dritto senza ascoltare nessuno le richieste dei più arditi sono diventate più esplicite: “Tutelaci”. Come dire: ricordati di noi che, in caso di crisi al buio, non saremmo rieletti. E allora qualcuno ha iniziato anche a tastare il terreno anche con gli ex amici del Pd per capire se ci fossero spazi di manovra per rientrare nel partito e riconquistarsi la candidatura al prossimo giro. I nomi che girano sono sempre i soliti, dall’ex segretario Pd in Sardegna Giuseppe Cucca all’ex sindaco di Cernusco sul Naviglio Eugenio Comincini, fino al fiorentino Riccardo Nencini che ha il potere di vita o di morte del gruppo di Iv in Senato visto che, senza il marchio del Psi, non sarebbe mai nato. I diretti interessati smentiscono ma Renzi sa che, in caso di sfida parlamentare con Conte, qualche pezzo potrebbe perderlo. Tant’è che, per ricompattare le truppe, nelle sue molteplici interviste l’ex premier non parla mai della compattezza dei suoi parlamentari, ma manda sempre lo stesso messaggio ai suoi: “Tutti sanno che non si andrà a votare” ha ribadito ieri al Corriere. Come dire: state tranquilli, non perderete la poltrona.

Epperò restano i sospetti, le chat sotterranee (Renzi con alcuni di loro ha interrotto le comunicazioni), le gelosie verso i fedelissimi unici ad andare in tv – vedi alla voce Faraone, Rosato, Nobili e Bellanova – fino ai pensieri più maligni, tipo che l’ex premier punti solo a una “vittoria mediatica” contro Conte e si voglia disfare appena possibile del suo partito che ormai “vede come una bad company” da usare solo per arrivare alla Nato o chissà dove.

E così, anche tra i renziani si vive alla giornata. Gli sbalzi di umore sono evidenti: un giorno il redde rationem con Conte è più vicino (e allora ricominciano le intemerate contro Renzi e gli avvicinamenti ai colleghi Pd), un altro l’accordo con il premier sembra cosa fatta (e allora “siamo tutti uniti con Matteo”). La trattativa per un Conte-ter o un rimpastino ieri faceva tornare il sereno. Ma poi, in serata, la solita, puntuale domanda: “Matteo con chi fa il matto domani?”.

Conte va a vedere, Renzi ispara sempre più alto

Stanno davvero trattando. “Su tutto”, come assicura una fonte di governo: dal Recovery fund al rimpasto, fino alla spina forse più arroventata, i Servizi segreti. E sul tavolo della trattativa ci sono anche le dimissioni del premier, per arrivare a un Conte-ter. Giuseppe Conte e Matteo Renzi stanno discutendo tramite intermediari su tutti i nodi che tengono in bilico il governo giallorosa. Fino a pochi giorni fa, pronto a sfidare in Parlamento Renzi, invitandolo alla conta. Ma ora la soluzione dello scontro aperto è “congelata”, come sussurra un ministro. “Non ci possiamo permettere una crisi al buio, non così e non in tempi di pandemia” continua l’esponente di governo.

Così ieri è andata in scena la trattativa. A tutto campo. “Ci sono segnali positivi”, spiegavano ieri sera ambienti di Palazzo Chigi. Stessa considerazione trapelava dal capo delegazione dem, Dario Franceschini. Di certo Conte ha fatto più di un passo. Aprendo anche, ed è il segnale più rilevante, alla cessione della delega sui Servizi. Un imperativo per Renzi, nonché una scelta che avrebbe il plauso anche di Pd e grillini. Fonti qualificate dicono che il premier avrebbe proposto di affidarla al fedelissimo Roberto Chieppa, segretario generale a Palazzo Chigi.

Poi c’è il tema rimpasto. Su cui Conte peraltro non era mai stato così tetragono. “Se me lo chiederanno affronteremo la questione”, ha ripetuto per settimane. Ora se ne discute. Ma qui si pone una questione centrale. Perché un rimpasto ampio passerebbe necessariamente dalle dimissioni di Conte, e da un nuovo voto di fiducia in aula, insomma da un Conte-ter. “Però sarebbe un rischio”, dicono fonti sia dem che del Movimento. Perché il timore è che nelle brevissime consultazioni Renzi possa giocarsi un altro nome (magari Mario Draghi).

Ergo, un “rimpastino”, con le dimissioni di un pugno di ministri e la loro sostituzione sarebbe più indolore. E del resto, raccontano che anche il Quirinale tema il passaggio delle dimissioni come rischioso, pur sapendo che Iv le pretende. Dalle parti di Palazzo Chigi non si sbilanciano. Mentre fonti 5Stelle assicurano che il lavoro di ricerca di eventuali responsabili in Senato, come rete di sicurezza per Conte, non si è fermato. E anche nel Pd li vogliono, come argine a Renzi. Luigi Di Maio ieri ha fatto trapelare il suo sostegno a Conte: “Attaccarlo ora e portare il Paese a una crisi è follia”. Neanche lui ha voglia di urne. Il punto resta la determinazione di Renzi, che ieri continuava a raccontare comeConte sulle dimissioni avrebbe già ceduto. Di certo, tratta per ottenere il più possibile. Avrebbe voluto per sé gli Esteri o la Difesa, per consolidare la propria candidatura a Segretario generale della Nato. Quanto mai difficile. Dunque punta al ministero dei Trasporti, o comunque “a ministeri di spesa, sparando alto” secondo ambienti di governo. Non per sé, ma per Maria Elena Boschi o Ettore Rosato. Comunque vada non smetterà di bombardare l’esecutivo, e stare fuori lo aiuterà. Intanto il Pd procede diviso. E se Nicola Zingaretti inon supporta l’idea delle dimissioni del premier), altri puntano a una crisi pilotata, che darebbe più garanzie sul futuro.

Intanto Roberto Gualtieri (Mef) e Enzo Amendola (Affari europei) hanno lavorato a una nuova bozza di Recovery Plan, che tiene conto delle richieste dei partiti. Tra le questioni “sensibili” ci sarebbero l’aumento delle spese sanitarie (di circa 2 miliardi) e lo stralcio del Centro di ricerca sulla Cybersicurezza. Entrambe battaglie soprattutto dei renziani, che però sulla richiesta di nuovi investimenti non ricevono aperture: un ulteriore indebitamento non è possibile. La bozza dovrebbe approdare a Palazzo Chigi oggi. Il Cdm previsto in un primo momento per l’Epifania, non è in agenda. Prima, serve un’intesa. E la renziana Bellanova ancora avverte: “Le nostre dimissioni sono sempre sul tavolo”.

Nessuno tocchi Gallera

Siccome corre voce che la Lega voglia privarci di Giulio Gallera, lo diciamo chiaro e forte: non ci provate. In tempi così cupi, manca solo che ci venga a mancare la nostra prima fonte di buonumore. E perché, poi? Perché – dicono i leghisti – “le sue dichiarazioni non sono state condivise e non rappresentano il pensiero del governo della Lombardia”. Ma scherziamo? Avete mai visto un comico che concorda battute, gag e sketch con un partito? Non contenti di avergli chiuso i teatri, ora vorrebbero pure imbrigliare la sua creatività artistica. E poi come sarebbe che le sue dichiarazioni non rappresentano il pensiero della giunta? E chi lo decide, il pensiero: Fontana dalle Bahamas o da un caveau svizzero? Gallera è il miglior rappresentante del pensiero (si fa per dire) del governo (si fa sempre per dire) lombardo. E non si vede cos’abbia detto di strano rispetto ai suoi standard. Ha solo raccontato alla Stampa che “abbiamo medici e infermieri con 50 giorni di ferie arretrate. Non li faccio rientrare per un vaccino nei giorni di festa” e ovviamente non è vero. Ma perché: le cazzate che han detto lui e Fontana nell’ultimo anno erano forse vere e concordate con la Lega? Poi ha rivelato che “abbiamo preparato un’agenda” e lì ha scoperto che “il 31 era l’ultimo giorno dell’anno”. Fatto vero, fra l’altro, anche se l’ha notato solo lui: infatti altre Regioni hanno seguitato a vaccinare pure il 31, decuplicando le dosi iniettate dal famoso modello Lombardia.

E lui giustamente se l’è presa con quelle che han fatto meglio (tutte, salvo Molise, Calabria e Sardegna): “Agghiacciante. Han fatto la corsa per dimostrare di essere più brave di chissà chi”. Cioè di lui. Anche qui ha ragione da vendere: ma come, invece di stare tutti fermi in attesa che la Lombardia tornasse dalle ferie, si mettono a vaccinare medici, infermieri e anziani pure il 31 per farla sfigurare? Ma si fa così? Non è sportivo. Si chiama recidiva: certe Regioni hanno persino comprato i vaccini antinfluenzali solo per sputtanare la Lombardia che invece, furba lei, aveva evitato. Basta, c’è un limite a tutto. Noi siamo con lui. E lanciamo una petizione a nome di tutto il mondo dell’avanspettacolo: “Giù le mani da Gallera”. A meno che non si trovi un altro assessore alla Sanità che non conosce la legge 833/ 1978 “Istituzione del Servizio Sanitario nazionale”. O chiama “ospedale” il baraccone di Bertolaso in Fiera. O impone le mascherine all’aperto, ma precisa che vanno bene pure “sciarpe e foulard”. O, sull’indice R0 a 0,5, spiega che “ora bisogna trovare due persone infette allo stesso momento per infettare me”. O vanta, tra le referenze, quella di “Cavaliere del Bollito Misto”. Un altro cabarettista così deve ancora nascere. Guai a chi ce lo tocca.

Viaggio tra i libri antichi, su ali di piume d’oca

Questo viaggio si compie in silenzio. A guidarci è l’ininterrotto correre, frusciante e stropicciato, della penna d’oca sulla pergamena. E se per partire verso Hogwarts Harry Potter deve attraversare il muro del binario 9 e ¾ della King’s Cross Station, a noi invece basta accettare il regalo che il Complesso della Pilotta di Parma lo scorso dicembre ci ha fatto – uno dei tesori della Biblioteca Palatina, i 35 manoscritti greci realizzati tra il X e il XVIII secolo, sono stati digitalizzati e messi online su Internet Culturale – per precipitare dentro agli scriptoria medievali. Divisi tra fondo Parmense (risalente agli illuminati bibliotecari del 700 Paolo Maria Paciaudi e Giovanni Bernardo De Rossi) e fondo Palatino (dei duchi Borbone di Parma), costituiscono una capsula del tempo per penetrare i segreti della proto-editoria. Anche la realizzazione del libro medievale era un lavoro di squadra.

Prima di tutto il luogo. Ne Il nome della Rosa, Umberto Eco ci fa immaginare squadre di monaci in stanzoni con grandi vetrate. Ciascuno (antiquari, librarii, rubricatori, alluminatori) con il proprio ruolo. In seconda battuta, gli strumenti. Dato uno scrittoio con piano d’appoggio inclinato, occorrevano: pergamena o vello che venivano raschiati con un coltello e poi essiccati e tagliati, oppure carta (che si imporrà a partire dal XV secolo); l’inchiostro, realizzato con una mistura di nerofumo e gomma, oppure a base di noce di galla e solfato di ferro; infine la punta d’oca, che doveva provenire dall’ala sinistra per avere una naturale curva sulla destra. Come vediamo in Ilias copia (Ms. Parm 1130), l’antiquarium Demetrio Xantonthopoulos ha vergato in inchiostro bruno una copia cartacea non miniata de l’Iliade, aggiungendovi in seconda lettura le glosse e i titoli, mentre i marginalia (i commenti a margine scritti in rosso) sono affidati ad altri due copisti. Il rosso, per esempio, poteva essere a base di cinabro, solfato di mercurio, estratto sul Monte Amiata (Siena).

Molto più articolati erano i testi sacri: nel corpus palatino, vi è un codice membranaceo (su pergamena) risalente al 940-960 d. C., un pregiatissimo Tetravangelo su cui oltre al copista hanno messo mano un miniatore per le iniziali zoomorfe e floreali di ciascun vangelo dal verde al blu, un rubricatore per i capolettera rossi, e un alluminatore per le campiture oro. L’imitatio dell’antico era dunque lo strumento dello scriptorium per serbare la memoria non solo del sacro, ma anche del mondo classico in generale. Senza la loro opera, poco sarebbe giunto fino a noi. Sfogliando i codici, scoviamo miscellanee di geografia e medicina, ma anche di astronomia e astrologia, a testimonianza del fatto che le domande sullo Spazio e su un mondo trascendentale non religioso sono una costante dell’uomo. Soprattutto, si scopre un vero caposaldo della cultura occidentale: l’Erotemata di Manuele Crisolora.

Si tratta della prima grammatica di greco pubblicata nell’Europa occidentale da colui che fu il pioniere dell’insegnamento (ebbe nel XIII secolo a Firenze la prima cattedra di greco) e della diffusione della letteratura greca. Una Stele di Rosetta che fu un best-seller del tempo, tanto che lo abbiamo in versione hard-cover – in cui un antiquarium verga le parti in greco, un librarium quelle in latino, e ancora altre mani si occupano dei marginalia – e in versione tascabile, integralmente realizzato da un solo copista.

Non è, infatti, una forzatura parlare di proto-editoria, se pensiamo che oltre alla Bibbia e a classici come Tucidide e Sofocle, i copisti seguivano anche le mode del tempo. Lo dimostra il codice dei Discorsi sulla regalità di Dione Crisostormo: è uno Speculum principis (letteralmente specchio del principe), cioè un manuale di virtù ad uso dei reggitori, genere letterario di grande diffusione nel mondo antico e tornato molto in auge nel Medioevo come oggi da noi pullulano i manuali per vivere healty e sistemare il guardaroba. Copiato dall’amanuense Iacobo Diassorino, essendo un testo per le classi agiate è finemente ornato da fregi arabescati e fitormorfi, capolettera miniate in oro e una particolare sfumatura di rosso, il “sangue di drago”.

Per introdurre la preziosa figura dei revisori che controllavano il lavoro dei copisti, sfogliamo invece un codice rarissimo del XIII secolo: l’Etimologico di Simeone grammatico, vergato da un solo copista con un ductus corsivo ma irregolare. Tale irregolarità, unite allo scoloramento dell’inchiostro, ha portato due mani posteriori a integrare le lacune, come per esempio l’invocazione iniziale “Kurie” (Signore). E che sia importante avere più occhi a rileggere un testo lo spiega bene la mela del paradiso terrestre – venuta fuori dal fatto che in latino il termine che indica il male e la mela è lo stesso, “malus”/ “malum” – che in realtà era un fico.

Iraq-Siria. L’Isis non ha più il suo Stato, ma uccide ancora

Lo Stato islamico sta rivendicando la responsabilità di decine di attacchi avvenuti lo scorso mese di dicembre tra Iraq e Siria che dimostrano come l’idra islamista non sia affatto decapitata. Un attacco missilistico alla raffineria di petrolio di Siniya, nella provincia nord irachena di Salahuddin, l’uccisione di soldati, poliziotti, funzionari locali e altri nella vicina Anbar. Attacchi avvenuti pochi giorni dopo la riapertura di un valico di frontiera con l’Arabia Saudita dopo 30 anni di chiusura. Sebbene lontano dal detenere alcun territorio importante, l’Isis – di cui l’Iraq ha annunciato la sconfitta entro i suoi confini tre anni fa – continua ad agire in aree che gli insorti hanno utilizzato come nascondigli per decenni, come le montagne di Hamrin e le aree desertiche. Alcune figure importanti sembrano essere in grado di eludere la cattura per periodi significativi. Recenti arresti nelle più grandi città irachene hanno incluso quello del “capo amministrativo” dell’Isis – un uomo noto come Abu Naba – che, secondo quanto riferito, trovava finanziamenti per il gruppo e trasmetteva messaggi tra i membri. Naba è stato arrestato all’aeroporto di Baghdad in ottobre. Inoltre, è stata smantellata una rete islamista a Mosul, città strappata all’IS nel luglio 2017. Un’altra decina di terroristi è stata uccisa in scontri con gli agenti del Cts, i commando antiterrorismo iracheni. La coalizione internazionale ha diminuito in modo significativo le sue forze – specie gli Usa – e ha ripetutamente affermato che il motivo è la ridotta necessità della sua presenza nel Paese. Il portavoce militare ufficiale della coalizione internazionale, il colonnello Wayne Marotto, sostiene che la coalizione “non ha osservato alcun segno di una rinascita. Daesh è stato sconfitto territorialmente, la loro leadership, rete e risorse notevolmente degradate. Daesh non è più in grado di occupare in modo sostenibile alcun territorio in Iraq e Siria”. Eppure il 24 novembre, sempre Marotto ha citato la cifra di 10.000 come quella più realistica dei membri dell’Isis rimasti in Siria e Iraq. Quasi un esercito, nel territorio che il Papa visiterà in marzo.

 

La Cina vuole conquistare l’Africa a colpi di mostre d’arte

“La sciabola che vi consegnamo oggi risplende alla luce del sole, è la luce della conoscenza e dell’amicizia che lega i nostri popoli”, aveva detto, in presenza del presidente senegalese Macky Sall, l’ex primo ministro francese Édouard Philippe, il 17 novembre 2019, in visita a Dakar. Interveniva in occasione della restituzione della Francia al Senegal della sciabola di El Hadji Omar Tall, condottiero che si oppose alla dominazione francese in Africa occidentale. Philippe, accompagnato da un’importante delegazione ministeriale, aveva ricordato le circostanze di questa restituzione: “Come sapete, il presidente Macron ha sottolineato più volte il suo desiderio di valorizzare il patrimonio africano in Africa. È quello che farà il Museo delle civiltà nere con il sostegno dei musei francesi”. Il gesto simbolico si è concretizzato un anno dopo l’inaugurazione del nuovo museo di Dakar, che porta il marchio anche di un altro attore internazionale importante, la Cina. Da molti anni Pechino sta sviluppando infatti una “diplomazia del patrimonio culturale”, al cui centro c’è proprio l’Africa e il dibattito sulla restituzione delle opere d’arte africane da parte degli ex colonizzatori.

Progettato dal Beijing Institute of Architectural Design, uno studio di architettura di cui è proprietario lo stato cinese, il Museo delle civiltà nere (MCN) di Dakar è un dono di 30,5 milioni di euro della Repubblica popolare cinese al Senegal. “Siamo pronti a cercare delle soluzioni con la Francia. Se ci fossero 10.000 opere senegalesi in Francia, saremmo pronti ad accoglierle tutte e 10.000”, aveva detto il ministro senegalese della Cultura il giorno dell’inaugurazione del museo, il 6 dicembre 2018. Quel giorno, oltre alla numerosa delegazione cinese guidata dal ministro della Cultura e del Turismo Luo Shugang, erano presenti anche due rappresentanti del Quai Branly, il museo parigino delle arti primarie, che conserva gran parte delle opere al centro del dibattito sulle restituzioni. Emmanuel Kasarhérou, all’epoca responsabile delle collezioni del museo francese (ora presidente), aveva affermato: “Abbiamo potuto constatare che la Cina sta portando avanti, e da molto tempo, la sua strategia senza chiedere nulla come contropartita immediata”. Il paese non solo si è impegnato a finanziare il MCN, ma ha anche partecipato alla sua museografia per un costo di 4,5 milioni di euro e collabora all’allestimento di mostre. “Avevo sentito un certo nervosismo da parte dei colleghi senegalesi, e in particolare di Hamady Bocoum, direttore del MCN – confida Kasarhérou -. Ho avuto l’impressione che i partner cinesi abbiano fatto delle proposte che lui, e i senegalesi in generale, hanno rifiutato”. Le autorità cinesi stanno cercando di imporre le loro competenze in campo culturale, affermando non solo di poter sviluppare degli spazi espositivi conformi alle norme internazionali, ma anche di poter mettere a disposizione le loro competenze. “Hanno un livello che permette loro di formare il personale dei paesi in via di sviluppo”, sottolinea Matthieu Berton, responsabile della cooperazione tecnica presso l’ambasciata di Francia a Pechino. Essere presente sul campo culturale permette dunque alla Cina di legittimare i suoi esperti, ancora spesso associati a un lavoro di scarsa qualità. Dal 2017 la Cina partecipa anche all’ALIPH, il programma per la salvaguardia del patrimonio nelle zone di conflitto armato.

Ma nel campo del patrimonio culturale, la Cina si trova di fronte a paesi, come la Francia, che già da tempo godono di una certa reputazione. Diversi progetti di cooperazione franco-cinese sono stati avviati dal 2014 facendo della cultura un “settore prioritario di cooperazione”. Un documento firmato nel 2018 da Emmanuel Macron in visita a Pechino ha suggellato la cooperazione dei due paesi nella formazione del personale dei musei e sul piano del know-how tecnico. Ma questa nuova cooperazione implica dei compromessi: la consegna di vestigia archeologiche, da tempo richieste dalla Cina, al momento della visita del maggio 2015 di Laurent Fabius, all’epoca ministro degli Esteri, ha contribuito a riscaldare le relazioni bilaterali. Recuperare le opere d’arte sottratte dai paesi occidentali nell’800 è fondamentale per la Cina, che vuole riaffermarsi come grande potenza. Oltre a questo interesse nazionale, la Cina desidera anche costituire le proprie collezioni d’arte non cinese perché i suoi musei possano essere considerati alla pari dei grandi musei europei. In questo contesto, l’evoluzione della posizione francese sulla questione della restituzione delle opere d’arte portate via durante la colonizzazione interessa dunque molto Pechino. Nel novembre 2018, dopo la presentazione del rapporto Sarr-Savoy sulla restituzione del patrimonio culturale africano, l’ambasciata di Francia in Cina aveva ricevuto una nota in cui le autorità cinesi proponevano di firmare un accordo comune sulla lotta contro il traffico illecito di beni culturali. Un documento che aveva sollevato le proteste dell’amministrazione francese poiché includeva una lunga lista di oggetti d’arte che appartengono alle collezioni asiatiche dei grandi musei francesi, tra cui gli oggetti del salone cinese del castello di Fontainebleau, creato dall’imperatrice Eugenia dopo il saccheggio del Palazzo d’Estate di Pechino nel 1860. I negoziati si erano poi conclusi con la firma di una “dichiarazione di intenti”, non vincolante, durante la visita del presidente Xi Jinping in Francia nel marzo 2019. Il governo cinese, cosciente che questo è un argomento molto sensibile per la Francia, sembra per il momento disposto a pazientare. Oltre a voler lavare l’affronto delle umiliazioni passate, la Cina ambisce a costituire delle collezioni d’arte tradizionale straniera, con un interesse particolare per quella africana. Nell’ultimo decennio ha partecipato a numerose mostre in collaborazione con i principali musei etnografici europei, come il Quai Branly. La mostra “Fleuve Congo”, allo Shanghai Museum nel 2013 era stato il primo evento dedicato all’arte africana da un museo nazionale cinese. Ne sono seguiti molti altri. Più di recente il nuovo museo d’arte di Pudong ha firmato un accordo con la Tate di Londra per la sua mostra inaugurale e ha appena affidato il suo programma del 2022 al parigino Quai Branly, che include il progetto “Africa Reborn”, curato dal critico d’arte Philippe Dagen, sull’influenza del “primitivismo” sull’arte moderna. Bisogna tuttavia relativizzare la portata della strategia culturale cinese.

Le più importanti collezioni cinesi d’arte africana oggi infatti appartengono a collezionisti privati, come Guo Dong, uno dei più noti collezionisti che ha prestato parte delle sue opere al museo del primo istituto cinese di studi africani della Zhejiang University di Jinhua. A sua volta, il ricco collezionista Xie Yanshen, che vive in Togo da trent’anni, ha intrapreso nel 2011 la costruzione del Museo internazionale d’arte africana di Lomé, dove sono esposte migliaia di sculture provenienti dalla sua collezione. La diplomazia culturale degli attori pubblici e privati cinesi riguarda dunque più di recente anche alcuni paesi emergenti e le arti cosiddette “primarie”, soprattutto africane, interessano sempre di più il pubblico e i collezionisti cinesi. A questo stadio è tuttavia difficile stabilire quali saranno le implicazioni di una simile strategia sulle relazioni sino-africane, sebbene futuri accordi di cooperazione nel settore sembrano probabili. I governi africani al momento si mostrano cauti. Per l’inaugurazione del museo di Dakar, erano in programma due mostre straniere: una proposta dal Quai Branly sulle culture dell’Oceania, l’altra dedicata alle maschere cinesi del teatro Dixi prestate dal museo etnografico provinciale di Guizhou, una provincia nel sud-ovest della Cina. Le autorità senegalesi avevano deciso di allestire gli oggetti d’arte africana negli spazi centrali del museo, e di presentare invece le maschere cinesi negli spazi più periferici, meno in vista.

 

Bollette luce-gas. Nuovi rincari. Ma si paga meno di un anno fa

La notizia è di quelle che ti fanno subito pensare che anche il 2021 inizierà sotto i peggiori auspici per i bilanci familiari. L’Arera, l’Autorità di regolazione del mercato dell’energia, ha annunciato che dal primo gennaio al 30 marzo le bollette elettriche saranno più care del 4,5%, mentre quelle del gas del 5,3%. È il secondo trimestre consecutivo di aumenti: per gli ultimi tre mesi del 2020 l’Arera aveva alzato del 2,6% il prezzo dell’elettricità e del 3,9% quello del gas. Ma guardando bene i numeri, emerge che, a causa del crollo mondiale dei consumi provocato dalla pandemia, tra aprile 2020 e marzo 2021, la famiglia tipo beneficerà di un risparmio di 146 euro all’anno rispetto ai 12 mesi precedenti: la spesa per la luce, spiega l’Arera, scende del 10,2%, a 488 euro, quella per il gas dell’8,8%, a 950 euro. In altre parole, per i primi 6 mesi dell’anno si sono pagate bollette molto basse e, fisiologicamente, con la ripresa dei consumi sono tornate a crescere anche le tariffe ma non così tanto da vanificare i risparmi accumulati. Questa novità riguarda solo 16 milioni di utenti che si trovano nel regime tutelato, il 45% del totale. Il restante 55% dei consumatori (di cui il 70% sono piccole imprese) è già nel mercato libero. In questo contesto, i contratti firmati con i gestori restano perlopiù blindati per 24 mesi. Alla scadenza, gli importi se non vengono ridiscussi tendono a salire velocemente. Questa una delle principali critiche da sempre rivolta al mercato concorrenziale, insieme allo stalking telefonico con cui si spingono ignari e inconsapevoli clienti a cambiare gestore. Ma ormai è rimasto solo un anno di tempo al mercato tutelato. Dal 2021 ci sarà il superamento per le imprese, mentre dal 2022 toccherà alle famiglie. Una data che ha subito diversi slittamenti (l’iter per lo stop definitivo è iniziato nel 2015) a causa della difficoltà di attuazione e per il timore di non consentire ai clienti di fare scelte vantaggiose. La scadenza del 2022 continua però a sollevare perplessità. Il grillino Davide Crippa, tra i fautori dell’ultimo rinvio, ha chiesto di mantenere per le famiglie in regime tutelato un’ulteriore fase cuscinetto per informarsi al meglio. Intanto a fare da banco di prova c’è l’obbligatorietà del passaggio delle imprese.

Novità per le famiglie in stato di bisogno: da gennaio, i bonus di sconto sulla bolletta saranno gradualmente riconosciuti in modo automatico, senza presentare domanda.

 

La lezione danese all’Italia: un futuro senza idrocarburi

La Danimarca ha annunciato a dicembre il blocco definitivo ad ogni nuova licenza esplorativa per gas e petrolio nel Mare del Nord. Ciò contribuirà a tagliare le emissioni di gas serra danesi del 70% nel 2030, ad azzerarle nel 2050. Gli idrocarburi in Danimarca hanno un passato, ma non un futuro: la produzione calerà fino ad azzerarsi nel 2050. La scelta danese segue quella francese del 2017, ma è ben più importante perché compiuta da un importante Paese produttore. Dimostra che una seria politica ambientale, in Danimarca così come in Italia, ha bisogno di incidere non solo dal lato dei consumi di energia da fonte fossile, ma anche da quello della produzione.

La Danimarca, dopo gli esordi nel 1972, è diventata il terzo maggior produttore di petrolio e gas naturale dell’Europa occidentale, dopo Norvegia e Gran Bretagna. Dopo la Brexit, la Danimarca è rimasta il maggior produttore di petrolio dell’Unione europea. Nel 2004 produceva 390mila barili di petrolio al giorno (mbg), oltre 4 volte e mezzo l’attuale produzione italiana, e 9,2 miliardi di metri cubi (mm3) di gas naturale, più o meno la capacità del famigerato Tap. Fino al 2017 la Danimarca è stata un esportatore netto di petrolio. Con una tassazione complessiva degli idrocarburi che arrivava al 77%, la rendita petrolifera ha rappresentato un architrave del generoso welfare del Paese scandinavo: nel 2017, anni dopo il picco produttivo del 2004, questa rendita garantiva ancora allo Stato danese lo 0,5 per cento del totale delle sue entrate.

Il ministro del Clima Dan Joergensen ha considerato che la più radicale scelta di bloccare la produzione dei giacimenti operativi avrebbe implicato costi troppo alti. Il progressivo declino della produzione avrebbe invece consentito di gestire al meglio la trasformazione dell’industria petrolifera e la riqualificazione della manodopera.

Dopo la grande rinuncia danese, l’Italia si ritroverà, a sua volta, ad essere il maggior produttore di petrolio dell’Unione europea. Nel 2019 l’Italia produceva circa 85mila bpg ma, secondo Nomisma, grazie all’avvio della produzione a Tempa Rossa in Basilicata da parte di Total (a regime arriverebbe a produrre 50mila bpg), la produzione nazionale di dovrebbe attestarsi sui 110mila bpg. Mentre in Danimarca l’industria petrolifera si avvia all’eutanasia, l’Italia si prepara addirittura ad aumentare la produzione del 25%.

Il settore estrattivo occupa direttamente pochissimi addetti (gli occupati sono prevalentemente nella raffinazione) e ha un impatto poco più che irrilevante sulle entrate fiscali italiane, visto che nel 2019 vi contribuiva direttamente per meno dello 0,04%. In compenso la nostra produzione di idrocarburi presenta problemi macroscopici. In primo luogo ci sono quelli ambientali. Clamoroso è il caso del giacimento Eni in Val d’Agri in Basilicata dal quale 400 tonnellate di greggio sono state “sversate” non lontano dalla diga del Pertusillo, il principale bacino idrico del Mezzogiorno d’Italia. Le royalties pagate in Italia sull’estrazione di idrocarburi restano tra le più basse al mondo: le imprese petrolifere ereditano indegnamente una rendita risalente all’Eni statale di Enrico Mattei che garantisce loro profitti stellari (l’informatissimo Davide Tabarelli di Nomisma ha scritto che in soli tre mesi di mancata produzione in Val d’Agri nel 2017, Eni avrebbe perso 250 milioni di euro). Nonostante questo, l’industria estrattiva italiana non diminuisce la nostra assoluta dipendenza, per quasi l’80% del fabbisogno energetico, dalle importazioni.

Un Paese che si vuole all’avanguardia della sfida ambientale non può consentire un aumento della produzione di idrocarburi. Nel grande schema mondiale della riduzione delle emissioni di gas serra non basteranno incentivi alla mobilità elettrica e investimenti nelle rinnovabili; bisognerà agire sul lato della diminuzione coordinata della produzione di idrocarburi. A stringere la cinghia per primi dovranno essere i Paesi più industrializzati, meno dipendenti dalla rendita petrolifera e con giacimenti meno produttivi. Se la questione è assai delicata per un grande Paese esportatore come la Norvegia, in cui il settore rappresenta il 12% del Pil, per Italia l’uscita progressiva presenta meno problemi. Bisogna bloccare ogni nuova esplorazione di idrocarburi e mettere in conto una diminuzione progressiva della produzione. Se questo processo sarà accompagnato da un aumento della fiscalità, così da allinearla agli standard internazionali, si potranno garantire le risorse per una transizione che sia giusta socialmente, riqualificando il lavoro, e che non abbandoni i territori che hanno sofferto di più per l’impatto dell’estrazione di idrocarburi.

Ilva, creare l’acciaio da idrogeno “verde” per ora è un’illusione

A25 anni dalla privatizzazione e dopo una lunga trattativa con ArcelorMittal, dal 10 dicembre lo Stato attraverso Invitalia ha rimesso piede nell’Ilva di Taranto, acquisendone il 50%. L’acciaieria più grande d’Europa, nata nel 1961, oggi produce appena un terzo della sua capacità di 10 milioni di tonnellate l’anno con 10mila dipendenti e una lunga storia di terribili impatti ambientali. Per il rilancio “pulito” ora punta sull’idrogeno: “Sono in corso stesure di accordi con importanti aziende pubbliche italiane di questo settore. Siamo convinti che l’idrogeno è la nostra destinazione finale, ma non lo sarà nell’arco di 4 o 5 anni”, ha confermato la presidente di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli, nell’audizione del 16 dicembre alla Camera.

Secondo un rapporto dell’11 dicembre dell’Ufficio studi del Parlamento europeo, la siderurgia dipende ancora troppo dal carbone e per questo è responsabile del 4% di tutte le emissioni umane di CO2 nella Ue e del 9% a livello mondiale. Molti sognano un acciaio prodotto sostituendo i combustibili fossili con l’idrogeno “verde”, ottenuto dall’elettrolisi dell’acqua con energia prodotta da fonti rinnovabili.

Una strada oggi non ancora percorribile a causa dei costi. Una tonnellata di acciaio attualmente costa circa 400 euro, 50 dei quali per il carbone usato nei forni. La sua sostituzione con l’idrogeno richiederebbe circa 180 euro di idrogeno ai migliori prezzi attuali (3,6 euro al chilo). Ciò farebbe rincarare di un terzo il prezzo finale dell’acciaio. Ma se entro il 2030 la produzione del gas avverrà su larga scala, il prezzo dell’idrogeno “verde” potrebbe dimezzarsi a 1,8 euro al chilo: la differenza di prezzo tra l’acciaio ad alta impronta di carbonio e quello “pulito” scenderebbe al 10% circa.

È uno degli obiettivi della Strategia Ue sull’idrogeno, pubblicata l’8 luglio dalla Commissione europea nell’ambito dei progetti di Next Generation Eu per favorire entro il 2050 l’incremento dell’offerta e della domanda di gas come combustibile per un’Europa climaticamente neutra. In questa prospettiva l’idrogeno “pulito” e la sua filiera, con l’industria e la mobilità quali mercati di punta, sono centrali nei piani post-Covid di Bruxelles.

Tra gli obiettivi c’è l’installazione di elettrolizzatori di idrogeno da fonti rinnovabili per una potenza di almeno 6 gigawatt (GW, un miliardo di watt) entro il 2024 e 40 GW entro il 2030: una goccia nel mare dei consumi. Attualmente l’Europa utilizza 339 terawattora (TWh) di idrogeno all’anno e il 95% della produzione di idrogeno europeo è “grigia”, cioé di fonte fossile, perché deriva da processi industriali ad alta intensità di carbonio come quelli di scissione del metano. La maggior parte del restante 5% è gas “blu”, un sottoprodotto di processi cloro-alcalini dell’industria chimica. La quota di idrogeno “verde” disponibile è ancora quasi nulla.

Intanto diversi Stati membri, come Francia, Paesi Bassi, Germania, Portogallo e Spagna, hanno già sviluppato una strategia nazionale sull’idrogeno. Anche l’Italia ci sta lavorando: il 21 dicembre si è chiusa la consultazione pubblica sulle linee guida, mentre a ottobre il ministero della Ricerca ha prodotto quelle della Strategia italiana ricerca idrogeno (Siri).

Se la produzione su larga scala di idrogeno “pulito” resta dunque ancora tutta da realizzare, i progetti per usare il gas – presentato come soluzione per la decarbonizzazione – corrono. A ottobre Snam e FS hanno stretto un accordo per promuovere l’idrogeno nel trasporto ferroviario come sostituto del diesel usato ogni giorno in Italia da 1.250 convogli. A novembre Snam ha sottoscritto una partnership commerciale e societaria con gli inglesi di Itm Power, tra i principali produttori di elettrolizzatori. A dicembre Ferrovie Nord Milano, A2a e Snam hanno firmato un memorandum per sviluppare la mobilità a idrogeno “verde” in Lombardia e alimentare i nuovi treni della linea Brescia-Iseo-Edolo, trasformando la Valcamonica nella prima “hydrogen valley” italiana. Con la legge di bilancio 2021, sono stati destinati al trasporto pubblico locale “pulito” 6,95 miliardi: una quota di questi fondi consentirà entro il 2026 di acquistare 358 bus e 21 treni a idrogeno.

Ma perché Italia e Ue puntano sull’idrogeno, anche se oggi è ancora “sporco”? Come Il Fatto ha già scritto, un recente rapporto di Re:Common e altre Ong che hanno analizzato 200 documenti rivela che dietro questa spinta ci sono le pressioni di una potente lobby, Hydrogen Europe, che ha incontrato alcuni commissari europei e per cui lavorano ex alti funzionari della direzione Energia della Commissione. Le vie del greenwashing, il rifacimento di una “verginità” ambientale a scopo di comunicazione, sono infinite quanto la disponibilità in natura dell’idrogeno.

E i colossi lasciano ai “piccoli” arrembanti: ecco il caso Energean

Accadono strane cose nel Mediterraneo. A parole tutti dipingono le trivelle come un settore vitale. Eppure i big lo considerano morente o dannoso per l’immagine e lasciano il campo a nuove società arrembanti. È il caso di Edison: il colosso francese, tra i maggiori produttori offshore della penisola, ha deciso di vendere i suoi titoli minerari italiani a una società inglese che qui vuole fare buoni affari. Gran parte delle concessioni sono però in scadenza e serviranno ingenti costi di bonifica dei siti, mentre il settore è in bilico. E infatti, attraverso il Sole 24 Ore, l’acquirente, Energean – che per fare l’operazione ha costituito una società cipriota – ha subito chiesto garanzie al governo: non ha fatto un’operazione da 284 milioni per nulla, il sottotesto, e per questo garantisce l’occupazione “almeno per 18 mesi”, poi si vedrà.

Tutti i soggetti rassicurano sulla bontà dell’operazione, ma ci sono nodi critici. Il primo a identificarli è il ministero dello Sviluppo Economico, stando ai documenti consultati dal Fatto. “Il portafoglio titoli di Edison E&P presenta un numero considerevole di titoli maturi, con prospettive significative di esborsi per dismissione e ripristino a terra e a mare – spiegava a marzo il dg della Direzione Attività minerarie (Unmig), dando l’ok condizionato all’acquisizione -. Sia la società sia la controllante si impegnano a portare a termine queste attività almeno per il periodo 2020-2024”. La cessione, quindi, viene autorizzata ma col vincolo di garantire le dismissioni ed evitare azioni che riducano la capacità aziendale. Energean, infatti, già “presenta capacità tecnica significativamente inferiore a quella di Edison E&P”. Il suo maggior asset è “il campo di Karish (offshore di gas in Israele da 68 miliardi di metri cubi) i cui cronoprogrammi consegnati prevedono una produzione con first gas nel primo quadrimestre del 2021”. Tra le prescrizioni del Mise c’è quella di comunicare subito eventuali ritardi. Che, peraltro, sembrano essersi verificati. Al Fatto Energean spiega che la produzione partirà nell’ultimo trimestre 2021: “Siamo sulla buona strada per portare Karish in funzione entro tale data. Tuttavia, qualsiasi ritardo può essere risolto senza impatto rilevante sull’attività”.

L’operazione si è chiusa nei giorni scorsi. Le concessioni italiane sono 53, concentrate soprattutto tra Abruzzo, Marche e Sicilia. Di queste, solo tre sono al 100% di Edison, le altre in condivisione. Il diamante è la piattaforma Vega, a largo di Scicli, di cui Edison ha il 60%, il resto è di Eni. È qui che si punta a fare più ricavi: “Se Eni non vuole continuare, Energean è qui per discutere con loro sul futuro delle licenze”, spiegano dal gruppo, che vuole raddoppiare il giacimento, anche se poche settimane fa il Comune di Scicli su Vega ha chiesto il pagamento di 89 milioni di Imu e Tasi arretrate. L’operazione ha ottenuto anche l’ok dei sindacati: “Siamo in fase di transizione energetica – ci spiega un sindacalista – Per noi è importante ottenere le massime tutele per i lavoratori”. Chi è nel settore ci spiega che le grosse oil company stanno diversificando e che nel mondo ci sono molte aziende che “mettono insieme quattro-cinque investimenti, soprattutto su società che sono in crisi di liquidità, per spremerle e spremerne le riserve. Poi passano oltre. Il rischio è che si lascino dietro relitti che toccherà poi ad altri bonificare”.

Energean si sta espandendo, ha fatturato nel 2019 79 milioni di dollari e, spiegano dal Mise, ha licenze in Israele e Grecia occidentale e per sfatare ogni sospetto ha dichiarato di voler utilizzare le strutture italiane di Edison come centro di gestione e sviluppo di tutte le altre attività nel Mediterraneo. L’azienda, quotata alle Borse di Londra e Tel Aviv, spiega al Fatto che intende investire in questi asset per “migliorarne l’efficienza” e “prolungarne la vita produttiva” e assicura di avere gli strumenti finanziari per assolvere ai doveri di dismissione. Non è chiaro, però, perché ha costituito una controllata di diritto cipriota per rilevare Edison E&P. Intanto, ha dovuto rinunciare agli asset algerini e norvegesi di Edison perchè “l’autorizzazione normativa sarebbe stata protratta”.

L’operazione, comunque, non deve essere stata facile. Tanto che Edison a maggio ha assoldato come consulente Franco Terlizzese, l’ex dg della direzione Unmig del ministero che aveva espresso parere favorevole (è in pensione da fine 2018). Il contratto – 60 mila euro l’anno, esclusi benefit e rimborsi, più 20 mila di “success fee” – prevedeva, tra le altre cose, assistenza tecnico legale per predisporre i documenti necessari a ottenere il via libera del Mise a trasferire i titoli minerari alla controllata Edison E&P. Abbiamo chiesto spiegazioni al Mise, che risponde di aver “accertato che il contratto… su iniziativa dello stesso Terlizzese è stato risolto consensualmente il 6 luglio 2020 con effetto retroattivo dalla data di decorrenza, e quindi esso è nullo e privo di effetti”. In ogni caso, il Mise “ha segnalato tale fatto all’Autorità anticorruzione”.