“La sciabola che vi consegnamo oggi risplende alla luce del sole, è la luce della conoscenza e dell’amicizia che lega i nostri popoli”, aveva detto, in presenza del presidente senegalese Macky Sall, l’ex primo ministro francese Édouard Philippe, il 17 novembre 2019, in visita a Dakar. Interveniva in occasione della restituzione della Francia al Senegal della sciabola di El Hadji Omar Tall, condottiero che si oppose alla dominazione francese in Africa occidentale. Philippe, accompagnato da un’importante delegazione ministeriale, aveva ricordato le circostanze di questa restituzione: “Come sapete, il presidente Macron ha sottolineato più volte il suo desiderio di valorizzare il patrimonio africano in Africa. È quello che farà il Museo delle civiltà nere con il sostegno dei musei francesi”. Il gesto simbolico si è concretizzato un anno dopo l’inaugurazione del nuovo museo di Dakar, che porta il marchio anche di un altro attore internazionale importante, la Cina. Da molti anni Pechino sta sviluppando infatti una “diplomazia del patrimonio culturale”, al cui centro c’è proprio l’Africa e il dibattito sulla restituzione delle opere d’arte africane da parte degli ex colonizzatori.
Progettato dal Beijing Institute of Architectural Design, uno studio di architettura di cui è proprietario lo stato cinese, il Museo delle civiltà nere (MCN) di Dakar è un dono di 30,5 milioni di euro della Repubblica popolare cinese al Senegal. “Siamo pronti a cercare delle soluzioni con la Francia. Se ci fossero 10.000 opere senegalesi in Francia, saremmo pronti ad accoglierle tutte e 10.000”, aveva detto il ministro senegalese della Cultura il giorno dell’inaugurazione del museo, il 6 dicembre 2018. Quel giorno, oltre alla numerosa delegazione cinese guidata dal ministro della Cultura e del Turismo Luo Shugang, erano presenti anche due rappresentanti del Quai Branly, il museo parigino delle arti primarie, che conserva gran parte delle opere al centro del dibattito sulle restituzioni. Emmanuel Kasarhérou, all’epoca responsabile delle collezioni del museo francese (ora presidente), aveva affermato: “Abbiamo potuto constatare che la Cina sta portando avanti, e da molto tempo, la sua strategia senza chiedere nulla come contropartita immediata”. Il paese non solo si è impegnato a finanziare il MCN, ma ha anche partecipato alla sua museografia per un costo di 4,5 milioni di euro e collabora all’allestimento di mostre. “Avevo sentito un certo nervosismo da parte dei colleghi senegalesi, e in particolare di Hamady Bocoum, direttore del MCN – confida Kasarhérou -. Ho avuto l’impressione che i partner cinesi abbiano fatto delle proposte che lui, e i senegalesi in generale, hanno rifiutato”. Le autorità cinesi stanno cercando di imporre le loro competenze in campo culturale, affermando non solo di poter sviluppare degli spazi espositivi conformi alle norme internazionali, ma anche di poter mettere a disposizione le loro competenze. “Hanno un livello che permette loro di formare il personale dei paesi in via di sviluppo”, sottolinea Matthieu Berton, responsabile della cooperazione tecnica presso l’ambasciata di Francia a Pechino. Essere presente sul campo culturale permette dunque alla Cina di legittimare i suoi esperti, ancora spesso associati a un lavoro di scarsa qualità. Dal 2017 la Cina partecipa anche all’ALIPH, il programma per la salvaguardia del patrimonio nelle zone di conflitto armato.
Ma nel campo del patrimonio culturale, la Cina si trova di fronte a paesi, come la Francia, che già da tempo godono di una certa reputazione. Diversi progetti di cooperazione franco-cinese sono stati avviati dal 2014 facendo della cultura un “settore prioritario di cooperazione”. Un documento firmato nel 2018 da Emmanuel Macron in visita a Pechino ha suggellato la cooperazione dei due paesi nella formazione del personale dei musei e sul piano del know-how tecnico. Ma questa nuova cooperazione implica dei compromessi: la consegna di vestigia archeologiche, da tempo richieste dalla Cina, al momento della visita del maggio 2015 di Laurent Fabius, all’epoca ministro degli Esteri, ha contribuito a riscaldare le relazioni bilaterali. Recuperare le opere d’arte sottratte dai paesi occidentali nell’800 è fondamentale per la Cina, che vuole riaffermarsi come grande potenza. Oltre a questo interesse nazionale, la Cina desidera anche costituire le proprie collezioni d’arte non cinese perché i suoi musei possano essere considerati alla pari dei grandi musei europei. In questo contesto, l’evoluzione della posizione francese sulla questione della restituzione delle opere d’arte portate via durante la colonizzazione interessa dunque molto Pechino. Nel novembre 2018, dopo la presentazione del rapporto Sarr-Savoy sulla restituzione del patrimonio culturale africano, l’ambasciata di Francia in Cina aveva ricevuto una nota in cui le autorità cinesi proponevano di firmare un accordo comune sulla lotta contro il traffico illecito di beni culturali. Un documento che aveva sollevato le proteste dell’amministrazione francese poiché includeva una lunga lista di oggetti d’arte che appartengono alle collezioni asiatiche dei grandi musei francesi, tra cui gli oggetti del salone cinese del castello di Fontainebleau, creato dall’imperatrice Eugenia dopo il saccheggio del Palazzo d’Estate di Pechino nel 1860. I negoziati si erano poi conclusi con la firma di una “dichiarazione di intenti”, non vincolante, durante la visita del presidente Xi Jinping in Francia nel marzo 2019. Il governo cinese, cosciente che questo è un argomento molto sensibile per la Francia, sembra per il momento disposto a pazientare. Oltre a voler lavare l’affronto delle umiliazioni passate, la Cina ambisce a costituire delle collezioni d’arte tradizionale straniera, con un interesse particolare per quella africana. Nell’ultimo decennio ha partecipato a numerose mostre in collaborazione con i principali musei etnografici europei, come il Quai Branly. La mostra “Fleuve Congo”, allo Shanghai Museum nel 2013 era stato il primo evento dedicato all’arte africana da un museo nazionale cinese. Ne sono seguiti molti altri. Più di recente il nuovo museo d’arte di Pudong ha firmato un accordo con la Tate di Londra per la sua mostra inaugurale e ha appena affidato il suo programma del 2022 al parigino Quai Branly, che include il progetto “Africa Reborn”, curato dal critico d’arte Philippe Dagen, sull’influenza del “primitivismo” sull’arte moderna. Bisogna tuttavia relativizzare la portata della strategia culturale cinese.
Le più importanti collezioni cinesi d’arte africana oggi infatti appartengono a collezionisti privati, come Guo Dong, uno dei più noti collezionisti che ha prestato parte delle sue opere al museo del primo istituto cinese di studi africani della Zhejiang University di Jinhua. A sua volta, il ricco collezionista Xie Yanshen, che vive in Togo da trent’anni, ha intrapreso nel 2011 la costruzione del Museo internazionale d’arte africana di Lomé, dove sono esposte migliaia di sculture provenienti dalla sua collezione. La diplomazia culturale degli attori pubblici e privati cinesi riguarda dunque più di recente anche alcuni paesi emergenti e le arti cosiddette “primarie”, soprattutto africane, interessano sempre di più il pubblico e i collezionisti cinesi. A questo stadio è tuttavia difficile stabilire quali saranno le implicazioni di una simile strategia sulle relazioni sino-africane, sebbene futuri accordi di cooperazione nel settore sembrano probabili. I governi africani al momento si mostrano cauti. Per l’inaugurazione del museo di Dakar, erano in programma due mostre straniere: una proposta dal Quai Branly sulle culture dell’Oceania, l’altra dedicata alle maschere cinesi del teatro Dixi prestate dal museo etnografico provinciale di Guizhou, una provincia nel sud-ovest della Cina. Le autorità senegalesi avevano deciso di allestire gli oggetti d’arte africana negli spazi centrali del museo, e di presentare invece le maschere cinesi negli spazi più periferici, meno in vista.