Il 2021 è l’anno delle trivelle? Almeno 90 richieste in attesa

La transizione verde dell’Italia potrebbe dover aspettare ancora, nonostante i buoni propositi di cui sono pieni i progetti per il Recovery Fund: mettendo per un attimo da parte le intenzioni e analizzando lo stato delle cose in questo momento ad agosto potrebbero essere almeno 90 i permessi per la ricerca di idrocarburi che potranno riprendere il loro cammino verso l’approvazione dopo due anni di stop. Molte sono nell’Adriatico, tra Marche e Abruzzo, altre in Sicilia magari vicinissime a Pantelleria e Favignana. Poi in Calabria, in Salento e fino a Santa Maria di Leuca. Più di cinquanta sono quelli per la terraferma. Nonostante il tentativo appoggiato da due ministri (Sviluppo Economico e Ambiente) di inserire nel prossimo Milleproroghe una moratoria totale sulle trivelle, la bocciatura arrivata a provare l’assenza di un accordo politico (Italia Viva e il centrodestra i principali oppositori) non fa presagire una svolta rapida. Nei giorni scorsi il ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, ha però rassicurato: se l’Italia sposa davvero il cambiamento, non ci saranno nuove trivelle. L’idea è infilare la moratoria in una norma a gennaio.

L’origine della moratoria. Nel 2018, il decreto semplificazioni aveva introdotto la sospensione dell’iter per i permessi di ricerca e di prospezione per 18 mesi (inclusi quelli di valutazione di impatto ambientale) in attesa della stesura del Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (PiTESAI), ovvero una mappatura dell’Italia che tenendo conto del territorio stabilisse dove e se fosse possibile trivellare. Il via libera sarebbe stato rilasciato solo se le istanze fossero ricadute in quei territori. Dopo due anni, però, il piano manca, i lavori sono ancora nelle primissime fasi, complice anche la speranza che l’Italia della transizione energetica non ne avesse davvero più bisogno.

La mappa dei permessi in attesa non risparmia nessun angolo della penisola. Le richieste pendenti in mare sono per lo più concentrate tra l’Adriatico e il Canale di Sicilia: basta consultare le mappe del Mise per avere chiara la situazione. C’è l’inglese Northern Petroleum con circa 300 km quadrati di fronte a Gela. Accanto Pantelleria è la società piemontese Audax Energy Aad a chiedere di svolgere ricerche in un area di circa 350 km quadrati. Tra Puglia (adriatica), Calabria e Basilicata (Ionio) sono almeno otto le richieste di rircerca in mare: Aleanna Italia, Eni, Global Petroleum e la Northern Petroleum vogliono perforare per non meno di 740 chilometri a testa per ogni richiesta.

La situazione non migliora risalendo l’adriatico, anzi: coste abruzzesi, marchigiane e romagnole sono al centro delle richieste. Così come sulla terraferma: Rockhopper e altre vogliono trivellare tra Isernia, Campobasso e Chieti; l’Eni a Potenza; Aleanna Italia nel bolognese, la Delta Energy tra Sannio e Irpinia. E si potrebbe proseguire ancora a lungo.

Abbiamo chiesto al Mise come sia cambiato l’assetto della presenza dei petrolieri in Italia nell’ultimo anno, ma al momento non abbiamo ancora ricevuto risposta. Quello che si sa è che a dicembre dello scorso anno – seppur con qualche mese di ritardo – è scattato l’aumento dei canoni concessori, sia per la coltivazione che per lo stoccaggio. Una delle maggiori conseguenze è stata la riduzione dell’estensione delle aree di ricerca e coltivazione. Il decreto di febbraio prevedeva infatti che per queste zone le aziende dovessero corrispondere 1.481 euro per chilometro quadrato per la concessione di coltivazione (prima era di 59 euro), 2.221 per chilometro quadrato per la concessione di coltivazione in proroga (invece di 88 euro) con maggiori entrate per il bilancio dello stato previste “nell’ordine di circa 16 milioni di euro per l’anno 2019 e 28 milioni per ciascuno degli anni successivi” secondo la relazione tecnica che identificava in queste maggiori entrate, la fonte di risarcimento per tutte le eventuali cause e richieste di risarcimento qualora aree già produttive dovessero rientrare in quelle indicate dal piano come non idonee alla coltivazione di idrocarburi. Soldi che sarebbero fondamentali se si dovesse procedere davvero con uno stop totale ma di cui non si conosce l’entità. Sono invece stati almeno 45, a inizio dell’anno, i decreti di riduzione delle aree di concessione di coltivazione di idrocarburi sia onshore, sia offshore.

Gli interessi petroliferi nel Mediterraneo sono alti. Le attività, secondo la Confindustria Energia, nel 2018 ha generato un valore aggiunto di oltre 3 miliardi di €euro impiegando circa 30 mila addetti. E nei prossimi quindici anni, prima che mutasse lo scenario a causa del Covid e degli impegni legati ai fondi che dovranno arrivare, erano previsti investimenti di almeno 10 miliardi che, come raccontiamo nell’articolo accanto, potrebbero star cambiando volto.

Il futuro prossimo. Intanto, si mira ad ottenere almeno una proroga. La scorsa settimana un deputato del Movimento 5 Stelle in commissione Ambiente, Giovanni Vianello, ha annunciato un emendamento per prorogare il PiTESAI e per bloccare in maniera definitiva tutte le nuove trivelle e gli air gun. Potrebbe essere la battaglia finale del Movimento e di certo nel corso del 2021 tornerà ad essere un tema politico centrale: “Così – ha spiegato Vianello – il ministero dell’Ambiente avrà la possibilità di completare la VAS e la Conferenza unificata avrà il tempo utile per siglare l’intesa, e inoltre predisporremo lo stop a tutte le nuove trivelle e air gun”. La battaglia è solo all’inizio.

Arte è mistero. Una canzone emoziona senza dire il perché, ma Lucio Dalla fa girare la testa

Ballerina! Non come una professione o tanto meno un’identità. Per me ė davvero una condizione emotiva. Ore di sudore alla sbarra, cura maniacale della forma e del peso perfetto. Ma soprattutto divertimento smisurato, perché ballare è anche una gioia che si scatena prepotente.

Il mio giradischi lo sa, è testimone del mio passatempo preferito: danzo ogni volta che posso nel salotto di casa. La musica è sempre diversa, come i movimenti che improvviso. Basta poggiare un disco, alzare l’asticella e sentire i fruscii che la puntina produce al passaggio nei solchi del vinile. Un suono particolare, reale, vero. Perché ogni disco è scavato in modo diverso. Ogni singolo granello di polvere influisce sulla musica. La verità che si muove nell’aria.

Ma oggi non basta sentire, ho voglia di ascoltare. In silenzio, da ferma, rannicchiata nel plaid a quadrettoni. “Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’…”. Ci sono canzoni che ti costringono al pensiero, hanno una forza suggestiva che ti suona dentro.

Oggi è cosi con Lucio Dalla. Il più bravo. Imprevedibile. La sua voce mi smuove un sentimento che non so definire, in bilico tra euforia e torpore, maschio e femmina e tutte le contraddizioni del cuore che mi vengono in mente. “Balla balla ballerino, tutta la notte e al mattino, non fermarti… l’anno che sta arrivando tra un anno passerà, io mi sto preparando, è questa la novità”. In questo ascolto c’è una percezione nuova, come se fossero pensieri miei. Una canzone non ti spiega il perché delle emozioni, te le fa sentire “… e se è una femmina si chiamerà Futura”.

La bellezza di queste canzoni mi fa girare la testa, sono confusa, come dopo una serie di pirouettes che mi schiantano sul tappeto. Non è la testa a girare, è l’anima, anche lei, soprattutto lei, ballerina!

 

L’ironia del virus. Giornali a e tv a reti unificate: l’ufficio stampa di una pandemia poco originale

Astuto e mutevole, il virus Corona ha commesso un errore. Si è lasciato intrappolare in un libretto lieve e attraente di Siegmund Ginzberg, Racconti contagiosi (Feltrinelli) che sono, che io sappia, l’unico luogo in cui è il lettore a ridere del virus e non il contrario. Intendiamoci, non è un libro da ridere. Ma è da ridere (diciamo: da sorridere) il modo in cui viene affrontato, dalla disgrazia alla negazione: un modo confuso dove il virus sembra vincere più per la resa incondizionata delle vittime che per l’inefficacia (temporanea) delle cure.

Ginzberg è uno scrittore che, come i grandi cuochi (e lui lo è) sanno aggiungere qualcosa di inaspettato, in dosi giuste, al piatto tradizionale. Si può aggiungere umorismo a un libro sul virus e il suo colossale ufficio stampa che sono giornali, tv e Internet? Ginzberg lo fa ed è necessario andare a verificare il risultato. Un bravo cuoco non sbaglia e neanche uno scrittore che viene dalla tradizione narrativa ebraica, passata per l’Oriente (è nato a Istanbul) ma con qualche traccia di Yiddish (il sorriso inevitabile che si spegne subito).

Qui si fa largo un vasto spazio culturale (da Lucrezio a Camus) e una cascata di citazioni. “Perché”, si domanda Ginzberg, “gli scrittori che vedono nel contagio inarrestabile la fine del mondo, la raccontano? E poi chi la leggerà?”. Andando per i secoli, l’autore si accorge che l’ossessiva insistenza, effetto della ripetizione delle stesse notizie, eventi e persone, riproduce in modo quasi inedito ciò che è stato scritto sulle pestilenze nei secoli, da Lucrezio a Marsilio Ficino, da Ovidio a Machiavelli, da Giustiniano a Montaigne. C’è già stato chi ha battuto le mani alla finestra, se non altro nella forma dei consigli lieti, tipo curarsi con buone letture, divertenti o di viaggio.

C’è già stato chi s’è incattivito narrando dettagli paurosi e negando che ogni guarigione fosse possibile. Ginzberg raccoglie una testimonianza di Luciano che spiega almeno (è un’aggiunta mia) il comportamento del Parlamento italiano. Dice (testimonia) Luciano che la malattia, nella città di Abdera, si trasforma in un impulso a recitare. Tutti diventano attori e assumono un ruolo, non importa quanto insensato, e non c’è modo di farli smettere. Un capitolo è in difesa del pipistrello, un essere riservato che non si occupa degli altri (uccelli o non uccelli, lui uccello non è), campa a lungo e, per quanto lo riguarda, non si ammala mai. Dunque il pipistrello è chiamato in causa senza ragione.

Il negazionismo invece è cominciato presto, con la stessa insensata fermezza e la breve capacità consolatoria di persuadere che la malattia non esiste. Girolamo Mercuriale ha un’idea più semplice, meno contorta di quella del don Ferrante di Manzoni secondo cui le cose possono essere solo sostanza o accidente, la peste non c’è perché non è né l’uno né l’altro. Ma – dice Mercuriale nel libro tragico e lieto di Ginzberg – “qualunque malattia può essere la peste”.

 

Racconti contagiosi – Siegmund Ginzberg, Pagine: 336, Prezzo: 18, Editore: Feltrinelli

Una guida per leggere gli ultimi 10 anni senza restare ostaggio di austerità e deflazione

Le questioni economiche hanno un ruolo sempre più importante e intrusivo nelle nostre vite. Accanto alla vecchia “casta” di grandi imprenditori e politici ne è emersa una nuova: quella degli economisti. In realtà, in questi anni la gente comune è venuta a contatto solo con una economia, non con l’economia. Nonostante sia stata squalificata dalle crisi che non ha saputo né prevedere né gestire, all’economia mainstream sono rimaste saldamente in mano le redini del dibattito. Anzi, i suoi bramini hanno rafforzato la presa sull’opinione pubblica.

Con la crisi da Covid, però, qualcosa è iniziato a cambiare. Una guida per orientarsi nelle trasformazioni in corso è l’ultimo libro della professoressa Antonella Stirati, ordinario di Economia Politica a Roma Tre. Lavoro e salari (L’Asino d’Oro) offre un punto di vista alternativo sulla lunga crisi italiana e lo fa con un linguaggio accessibile anche ai non specialisti.

A differenza di altri libri in voga, che pretendono di spiegarci in chiave moralistica i “peccati capitali” dell’economia italiana, il volume della Stirati ha un approccio critico e realista. È diviso in tre parti, autonome fra di loro, con un diverso grado di approfondimento teorico. Sì, perché la professoressa sottolinea che la teoria è la chiave di volta. Certo, le misure di austerità e indebolimento dei lavoratori sono emerse da concreti rapporti di forza, ma sono state giustificate da teorie radicate nell’accademia e nell’opinione pubblica. Teorie, però, che non sono le uniche esistenti, né le migliori.

In cosa consistono queste teorie dominanti? Riassumendo all’osso: se i prezzi (inclusi i salari) sono flessibili, l’economia di mercato tende spontaneamente al pieno utilizzo di lavoro e capitale. Lasciamo funzionare il mercato e raggiungeremo l’equilibrio ottimale. Da qui la spinta per abbassare i salari e aumentare la flessibilità del lavoro al fine di ridurre la disoccupazione. Se vi ricorda Renzi, avete colto nel segno. Ma le “riforme” non hanno funzionato: qualcosa che invece le teorie “critiche” avevano previsto.

Per queste diverse teorie, infatti, le rigidità del mercato del lavoro possono essere positive per la crescita. In quest’ottica si ribalta anche il problema della produttività, non più dovuta al fatto che “è difficile licenziare”, ma a una scarsità della domanda, sia dei consumatori sia dello Stato. Uno Stato che spende (al netto degli interessi) troppo poco dall’inizio degli anni Novanta, anche per paura del debito pubblico, il cui annoso problema sembra ora risolto dall’intervento della Bce. Un intervento che economisti come la Stirati invocavano, inascoltati, da dieci anni.

Quindi, se “non ci sono i soldi” non è perché siamo stati “cattivi”, ma perché l’Eurozona è stata progettata male, tanto che la banca centrale ci ha messo 20 anni a capire cosa fare. Bisogna quindi accompagnare all’analisi di politica economica una critica profonda. Ma la Stirati ci mette in guardia: l’avversario è potente e ben armato. Occorrono dunque studio e osservazione della realtà, in un ambiente pluralista e aperto al confronto.

 

Lavoro e salari – Antonella Stirati, Pagine: 279, Prezzo: 18, Editore: L’asino d’oro

Regole. Metti una sera una partita col Covid Metodo Italy e metodo England a confronto

Mi sono chiesto: da titolare di rubrica settimanale sul Fatto, quale modo migliore di cominciare l’anno nuovo dando un prezioso consiglio agli addetti ai lavori del pallone italico, un consiglio che permetta a tutti di risparmiare in futuro tempo, denaro e salute? Ho così ho iniziato a lambiccarmi il cervello attorno al tema del momento: che fare quando un’importante partita viene minacciata dalla positività al Covid dei giocatori? E ho isolato due metodi: il “Metodo Italia” e il “Metodo Inghilterra”. Vediamoli insieme.

Metodo Italia. Mancano pochi giorni alla partita tra Pinco e Palla e un paio di giocatori di Pinco risultano positivi al Coronavirus. Il presidente di Pinco telefona al presidente di Palla e gli chiede se si può rinviare la partita ma il presidente di Palla dice che no, c’è un protocollo e lui vuole giocare. Alla vigilia del match la Asl di Pinco avvisa il club: non potete partire, i giocatori devono andare in isolamento fiduciario anche per salvaguardare la salute dei giocatori di Palla. In ossequio alle disposizioni della Asl la squadra di Pinco non parte, ma la sera della partita la squadra di Palla si presenta in campo, con tanto di arbitro e tifosi sugli spalti, per avere partita vinta 3-0 a tavolino. La tv che detiene i diritti offre la telecronaca della non-partita e pure il dopo non-partita nel corso del quale il presidente di Palla dice che il suo club rispetta i regolamenti, era pronto a giocare la partita e ora attende le decisioni degli organi preposti.

Scoppiano le polemiche, il giudice sportivo dispone nuovi approfondimenti al termine dei quali decide di dare vinta 3-0 la partita a Palla e di penalizzare Pinco di 1 punto. Il club di Pinco annuncia ricorso e va in appello; e mentre la polemica si trasforma in bufera e il Paese si spacca in due, Nord contro Sud, roba che nemmeno Bonolis a Ciao Darwin, la Corte d’Appello conferma le sanzioni del giudice sportivo appesantendo le motivazioni e quasi offendendo non solo il club di Pinco ma tutta la città di Pinco, dipinta come una risma di furbastri pronti a tutto pur di ciurlare nel manico.

La bufera ora diventa tsunami, non è più solo questione di pallone, siamo alla discriminazione territoriale e ci si scontra attorno concetti cardine come etica, moralità, giustizia. Il presidente di Pinco intanto non si dà per vinto e ricorre al tribunale di terzo grado, sorta di Cassazione dello Sport; e un bel giorno, a distanza di 80 giorni (due mesi e mezzo) dalla non-partita Pinco vs. Palla, il terzo e ultimo giudice demolisce in toto le decisioni prese in primo e in secondo grado e dispone che la partita venga giocata ordinando così la cancellazione del 3-0 a tavolino e del -1 inflitto a Pinco.

Dopo lo shock e lo sbigottimento di metà Italia per le sentenze pro-Palla, ecco lo shock e lo sbigottimento dell’altra metà d’Italia per la sentenza (definitiva) pro-Pinco. A questo punto occorre decidere (e non sarà facile) la data del recupero della partita: magari allertando i Caschi Blu dell’Onu, visto il clima ormai irrimediabilmente degenerato.

Metodo Inghilterra. Mancano poche ore alla partita tra So e And-So e cinque giocatori di So risultano positivi al Coronavirus. L’allenatore di So telefona all’allenatore di And-So e gli chiede se si può rinviare la partita. Certo, gli risponde il collega, nessun problema. Fine. Anzi: the end.

 

Pandemie. Solidarietà, chi era costei? C’è un altro virus da combattere: il razzismo

Raffaele Pisani è un signore quieto, gentile e colto con uno struggente ma sereno mal di Napoli, la sua città natia. Ottantenne, torna spesso a un’infanzia di privazioni, quelle della guerra, ma solo per trarne ragioni di malinconia e tracce di felicità. Oggi abita a Catania con la moglie Francesca, di cui parla come di una fidanzatina appena conosciuta tra i banchi di scuola. Si diletta di poesia e letteratura napoletana. E scrive. Ha tradotto ad esempio in versi napoletani I promessi sposi e il I° Canto dell’Inferno di Dante. Insomma, ce n’è quanto basterebbe per una deliziosa oleografia.

Se non fosse che il protagonista, proprio a causa del suo amore per la propria città e il proprio dialetto, è stato bersaglio delle ire di un lettore friulano, imbattutosi chissà come nella sua traduzione dantesca pubblicata da Beppe Severgnini su “Italians”. Il lettore udinese, che lasceremo anonimo, ha pensato dunque di scrivergli in una schiumante intemerata le seguenti riflessioni: “Si vede che non ha altro da fare, signor Pisani. Spero che la Sua situazione economica non gravi sulle mie tasche. Direi di dare un taglio SALUTARE a quell’odiosa napolinità (testuale) che perversa (testuale) sulle reti RAI e sui media. Basta, avete rotto! Staccatevi e rifondate il Regno delle 2 Siciglie (sempre testuale) con una liberazione per tutti gli altri. Starete bene, vivrete di pummarola, non romperete più le scatole agli altri. BASTA! Possiamo avere il diritto di dirlo????”. Quarant’anni fa l’autore di una missiva così sarebbe stato considerato un gustoso soggetto da psicanalisi, e gli si sarebbe pronosticato un radioso futuro come imbrattatore dei bagni pubblici del suo paese. Poi abbiamo visto crescere e investire su questa sgangherata cultura le fortune politiche di leader definiti un dì sulle migliori testate “visionari” e portatori “dell’unico vero progetto politico chiaro e nuovo”.

Questa lettera ci racconta dunque una porzione, non maggioritaria certo, ma nemmeno infinitesimale del nostro Nord ricco e progredito. Non sappiamo l’età del lettore-scrittore. Speriamo solo che sia molto elevata. Che egli sia cioè, quanto a scrittura, frutto di una lontana epoca di analfabetismo diffuso. Perché se fosse mai passato per una scuola regolare ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Quanto a tempo libero, deve averne di paragonabile a quello (meglio speso) di Raffaele Pisani. Il quale, effettivamente avendone, gli ha pure risposto con garbo: “Mi creda, sono molto dispiaciuto di averle involontariamente procurato disagio e disgusto per la mia interpretazione del I° Canto dell’Inferno della Divina Commedia di Dante nella parlata della mia adorata terra, Napoli. Le giuro che non era nelle mie intenzioni. Per quanto riguarda la mia situazione economica le assicuro che assolutamente non gravo sulle sue tasche […]. Ho lavorato sodo e onestamente fino a qualche anno fa. Ho parecchi interessi, sono un vecchio che vuole morire da vivo e non vivere da morto. Mi emoziono ancora nel vedere la mattina il sole levarsi o un fiore sbocciare. Leggo, scrivo, rinnovo ogni giorno la mia dichiarazione d’amore a Francesca. […] Per concludere desidero ringraziarla per l’augurio che mi fa di ‘vivere di pummarola’, è l’augurio più gradito che potesse farmi, a me piacciono molto. La ‘pummarola’ è antiossidante, elimina rancori e problemi esistenziali, combatte depressione e demenza, produce anticorpi che immunizzano da ogni forma di rancore e bellicosità”. Segue “una grande stretta di mano e un sorriso che abbraccerà lei, tutta la sua bellissima città di Udine e l’intera meravigliosa Regione Friuli-Venezia Giulia”. Risultato? Nuova lettera di insulti. Mia madre mi raccontava che durante la guerra la gente era più solidale. Qui andiamo verso i 75mila morti ma gira ancora quest’odio. Il virus in circolazione non è uno solo.

 

Amore in pandemia “Ho avuto una storia gay. È finita, i miei non mi parlano e io impazzisco”

 

“Vorrei lei vicina, invece passo
il Natale sola coi sintomi Covid”

Cara Selvaggia, quando mi accingo a parlare di me, mi viene in mente sempre una frase tratta da Il piccolo principe: “È un grande dispiacere per me confidare questi ricordi. Sono già 6 anni che il mio amico se ne è andato con la sua pecora e io cerco di descriverlo per non dimenticarlo. È triste dimenticare un amico. E posso anch’io diventare come i grandi che non s’interessano più che di cifre”. La lettera di una mia coetanea che hai pubblicato qualche giorno fa sul Fatto mi ha toccata parecchio. Non so bene cosa mi stia capitando. Dentro di me ho un vortice di sensazioni così intense e brutte che ultimamente stento a respirare. Stento a vivere. Questa pandemia ha cambiato tutto a tutti, è vero. Ma per me ripercorrere questi ultimi 10 mesi, mentre cerco di condensare il tutto in questa lettera, significa sentire una fatica tale che, ti giuro, preferirei piuttosto arrivare a Milano dall’estremo sud a piedi. Il 2019 per me è stato l’anno in cui ho capito di non essermi mai veramente innamorata in vita mia. Finché per caso, su un social, pubblicai uno sfogo per un qualcosa che mi era successo, e una sconosciuta, una ragazza bellissima, ha risposto al mio post e poi mi ha scritto privatamente. Non mi dilungo: il rapporto si è rapidamente evoluto in qualcosa che nemmeno sapevo definire, mi sono sentita legata a lei in un modo che non ho potuto controllare, per la prima volta nella mia vita, dalla mia bocca sono uscite le parole “ti amo”. Ci siamo innamorate: lei è partita in quarta, mi ha detto e mi ha dimostrato cose che lì per lì, non te lo nascondo, mi hanno spaventata. Dimostrava di provare un sentimento così forte per me che quasi mi faceva paura, mi sorprendeva ogni giorno di più. Prima di incontrarla per la prima volta, non pensavo che sarebbe andata bene come poi è andata: è successo tutto con spontaneità, senza che potessi fermarmi a pensare. Ma, si sa, c’è sempre un grosso prezzo da pagare per quei pochi istanti di felicità che la vita ci riserva.

A me non era passata mai neanche per sbaglio in testa l’idea che un giorno sarei potuta stare con una ragazza, eppure è successo, con una naturalezza tale da avermi sconvolta. Quando le nostre famiglie sono venute a sapere di questa storia, è scoppiato un putiferio: io stentavo persino a riconoscere le persone con cui, per tutta la vita, ero sempre andata d’accordo; e quando anche i suoi hanno iniziato a pressarla per dei sospetti, pian piano tutto ha iniziato a sgualcirsi, a pesare. Ci sono stati momenti di grande disperazione, specialmente perché i nostri caratteri hanno iniziato a scontrarsi alle prime gelosie, alle prime insofferenze dovute alla distanza fisica che intercorre tra noi. Inutile dire che la pandemia ha esasperato il tutto. Lei mi ha lasciata. Mi sento soffocata, in gabbia: sono sicura che, rivedendoci, la nostra storia non sarebbe mai finita così. E invece, i miei incubi si stanno avverando. Se il mio cuore desiderava che mi svegliassi la mattina di Natale con lei al mio fianco, ora sto passando questa vigilia chiusa in camera, perché a tutto il dolore e la mancanza di forze per andare avanti si è aggiunto anche lo spettro dei sintomi da covid. Ho fatto il tampone, e ora sto aspettando il risultato.

Questo non è Natale e non so se sarà mai di nuovo Natale per me. È un mese che lei è sparita totalmente dalla mia vita, dicendomi cose così orribili che, credimi, avrei preferito morire. Ci sono stati i miei e suoi problemi familiari, i limiti agli spostamenti tra regioni, e i chilometri tra noi sono davvero tanti. E ora, io che devo fare? L’assoluta strafottenza con cui ho dimenticato le convenzioni per gettarmi in una storia dal carattere ignoto, da scoprire solo vivendo, è stata la mia rovina? Credo di aver pianto più gli ultimi due anni di quanto abbia mai fatto in tutti gli altri 25 della mia vita. Avevo quanto bastava, avevo l’occorrente e non lo sapevo. Eppure lei si è comportata come se non stesse perdendo altro che un problema. Mi sento così: un rottame di cui si è voluta liberare, senza scrupoli, senza un briciolo di pietà. Ormai sento i miei genitori quasi assenti, sento che è troppo tardi e ciò mi attanaglia, perché non riesco a ristabilire un contatto con loro: non combaciamo più. So che dovrei farmi aiutare: ma come posso affidare me stessa a un estraneo che probabilmente finirebbe solo per tenere la testa china su un taccuino (cit.)? È la vigilia di Natale e mi domando con chi sia, cosa stia facendo, se e perché le faccio schifo. Il pensiero che qualcun altro possa anche solo sfiorarla mi fa sentire come se mille lame mi tagliassero ogni centimetro del mio corpo. E probabilmente, se il Covid o il dolore mi porteranno via per sempre, a lei non cambierà nulla. Vorrei poter spegnere l’interruttore dell’Amore. Hai visto “Mommy” di Xavier Dolan? La mia vita sta prendendo esattamente la scia del finale di quel film. Vorrei tanto essere nel finto finale, col sottofondo di Einaudi. Non avessi mai visto il sole, avrei sopportato l’ombra, ma la luce ha aggiunto al mio deserto una desolazione inaudita.

Arabella

 

Cara Arabella, penso a un altro film, forse uno dei film d’amore più belli mai realizzati: “Se mi lasci ti cancello”. Ecco, questa sofferenza vale tutto quello che di bello hai vissuto e provato con lei? Se sì, come credo, lasciati investire dal dolore. Passa solo così. E non cancellare niente. Diventiamo migliori, quando scriviamo sopra alle vecchie parole, anziché iniziare da una pagina bianca.

Selvaggia Lucarelli

Fede nel palloneIl papa è come un portiere di calcio: “I pericoli arrivano da ogni parte”

Il pallone di stracci, la pelota de trapo; la solitudine e la responsabilità del portiere; lo sport esperienza del popolo e delle sue passioni; la fede sportiva; Maradona uomo fragile ma poeta in campo. Quante suggestioni nella magnifica intervista di papa Francesco alla Gazzetta dello Sport, firmata da Pier Bergonzi sulla rosea di sabato scorso.

Ovviamente non si può partire che dall’infanzia calcistica dell’argentino Bergoglio, nel barrio Boedo di Buenos Aires. Il quartiere del San Lorenzo, maglia rossoblu, di cui il pontefice è tifoso con tanto di tessera. Come càpita sempre tra bambini, Francesco giocava in porta ché tra i più scarsi: “Da piccolo mi piaceva il calcio, ma non ero tra i più bravi, anzi ero quello che in Argentina chiamano un pata dura, letteralmente gamba dura. Per questo mi facevano sempre giocare in porta”. Ed è a questo punto che il papa argentino aggiorna il catalogo metaforico del portiere, delineando quasi una teologia del pipelet, del suo ruolo solingo da sentinella, per citare Umberto Saba: “Ma fare il portiere è stato per me una grande scuola di vita. Un portiere deve essere pronto a rispondere a pericoli che possono arrivare da ogni parte”.

Parole che riecheggiano il concetto che lo stesso Francesco aveva spiegato un anno fa, incontrando i calciatori ispanici del Villareal: “Il portiere deve bloccare la palla là dove viene calciata, non sa da dove arriverà. E la vita è così”. In entrambe le frasi ricorre due volte la parole vita. Appunto. Quella del portiere è una metafora esistenziale. Non solo per la sua solitudine, ma anche perché di fronte ai compagni di squadra ha la responsabilità di parare, come detto da Dino Zoff ieri alla Gazzetta dello Sport. E un gol incassato accentua la solitudine responsabile del portiere. Ancora Saba, dalla poesia Goal: “Il portiere caduto alla difesa/ ultima vana, contro terra cela/ la faccia, a non vedere l’amara luce./ Il compagno in ginocchio che l’induce,/ con parole e con la mano, a sollevarsi,/ scopre pieni di lacrime i suoi occhi”.

E a proposito di poesia. Da suo connazionale, Francesco rivela cosa ha fatto dopo aver avuto la notizia della morte di Diego Armando Maradona: “Ho pregato per lui”. E non potendo paragonare, per ovvi motivi, Diego a una divinità spiega: “In campo è stato un poeta, un grande campione che ha regalato gioia a milioni di persone, in Argentina come a Napoli”. Ma la gioia regalata comunque introduce a una dimensione di fede, che il papa tratteggia in generale per tutto lo sport, attingendo alla tradizione del populismo gesuita: “Lo sport è esperienza del popolo e delle sue passioni, segna la memoria personale e collettiva. Forse sono proprio questi elementi che ci autorizzano a parlare di ‘fede sportiva’”.

Insomma il calcio è fede e anche cristiana nel senso vero della parola, come scrisse Vladimir Dimitrijevic nel suo fondamentale La vita è un pallone rotondo: “Vi è in esso (nel calcio, ndr) un’uguaglianza che non esiterei a definire cristiana. (…). Tutti i calciatori eccezionali trasformano un palese difetto in una qualità sublime. Alcuni hanno le gambe storte, altri si muovono come dei panda, ma subito, non appena entrano in possesso della palla, attorno a loro tutto diventa fluido”.

 

Povero Giulio, dopo il padel, le vacanze

Mica poteva chiamare tutti-tutti-tutti i sanitari lombardi mentre erano in vacanza. Che in Lombardia, quando lavori, lavori, ma quando riposi, riposi, come ha spiegato alla Stampa Giulio Gallera. E poi i lumbard mica son sboroni, “come quelle altre Regioni che hanno fatto prima (nella somministrazione di vaccini, ndr) solo per dimostrare di essere più brave di chissà chi”. Che poi anche lui ha avuto un sacco da fare: il 28 dicembre c’aveva il qudrangolare di padel (il dottore ha detto che può giocare, ma solo col casco di ghisa, che l’ultima partita era finita maluccio); il 29 c’era la Marcia Longa dei Navigli (30 km in 8 comuni del Milanese, tutti da varcare in regime di lockdown duro); il 30, invece, ha dovuto spiegare ai figli il fattore Rt, e lì la giornata è volata, perché i conti non tornavano. Il 31 ha preparato il veglione e l’1 ha aiutato la moglie a mettere a posto casa. Il 2 era sabato e il 3 domenica, e che fai, inizi la “più grande campagna vaccinale della storia” nel weekend…?

Circoli chiusi, cuori spalancati: il Natale di Arci oltre il Covid

Le notti di Natale le strade di Roma sembrano una vasca gelida. Piove, fa freddo, le vie sono quasi deserte, sembra che l’inverno sia calato sulla città tutto insieme. La sera di Santo Stefano due colonie di macchine partono da via Casilina, l’arteria che taglia i quartieri a sud-est, porta d’ingresso della periferia. Le auto si spostano insieme verso l’interno della città e poi si dividono. La prima esplora l’area intorno alla stazione Termini, la seconda San Lorenzo e il Verano.

È difficile anche solo rendersi conto, se non ci si ferma a contarli, di quanti uomini e donne vivono e dormono in queste strade, in fila lungo i marciapiede, negli angoli d’ombra, come tessere di un domino. Decine e decine.

I volontari scendono dalle auto, si dividono i pacchi, si fermano con tutte le persone con cui possono fermarsi. Distribuiscono un pasto caldo (primo: lasagne, secondo: riso e fagioli), una fetta di panettone, un bicchiere di tè caldo, beni di prima necessità incartati come piccoli regali natalizi, coperte e cappotti.

Esistono reti di solidarietà che nascono e operano in silenzio. Senza trasformare ogni gesto in un atto pubblico, in un momento di propaganda politica o personale. Quella di via Casilina è un’iniziativa davvero spontanea, dal basso, quasi improvvisata. È stata lanciata dal circolo Arci Pianeta Sonoro, uno spazio sociale un po’ scuola di percussioni e di danza, un po’ sala da ballo. Tutto chiuso per Covid da fine ottobre.

L’idea di usare il tempo rubato dal Coronavirus al lavoro e alla felicità per dare una mano agli altri si è allargata come un contagio: hanno aderito locali, associazioni e circoli Arci di Roma, comitati di quartiere e singoli individui. La rete sociale e culturale di Roma Est spenta dalla pandemia si è riaccesa per la beneficenza. Partecipano i circoli Arci Problem, Metrocore, Trenta Formiche, Ibidem, Shakti YogaLab, l’associazione “Le Danze di Piazza Vittorio”, il Comitato di Quartiere Certosa. Ci sono Andrea e Matteo di Dar Bazar, un emporio solidale che raccoglie e distribuisce abiti usati. C’è il giornalista Saverio Tommasi che porta con sé 30 coperte e trenta cappelli di lana lavorati all’uncinetto dai volontari del progetto Sheep Italia.

A organizzare le ultime preparazioni, il 26 dicembre, si riuniscono una trentina di persone divise tra la cucina e il magazzino, improvvisato nella sala da ballo del locale. Quasi tutti sono artisti o proprietari di circoli e associazioni. Persone che non lavorano da mesi: il Covid ha interrotto i loro progetti; chi ancora non si è arreso convive con l’incubo di doverlo fare.

Lola aveva aperto il Jelly Roll, nel rione Monti, poco più di un anno fa. In dodici mesi ha dovuto affrontare di tutto. Quando parla del suo circolo è spaccata a metà tra l’orgoglio per l’impresa avviata e la voglia di scoppiare a piangere. Ma la sera di Santo Stefano è qui, non è rimasta a casa ad accarezzare i pensieri neri, e dalla vigilia di Natale impacchetta i regali da distribuire insieme a Sara.

Davide Conte, la persona che ha fatto nascere questa rete un mese fa, condivide le sue impressioni: “Per strada incontri persone che hanno un potenziale, ma a cui manca qualsiasi strumento per uscire da quella condizione. Questo bisognerebbe fare: donare strumenti. Non dovremmo distribuire ‘pesci’ ma ‘canne da pesca’”. Lo Stato non mostra sempre il suo volto migliore con chi prova a dare una mano: “Il paradosso – dice Davide – è che le coperte che noi stasera portiamo a chi dorme al freddo, nei prossimi giorni saranno rimosse dall’Ama (l’azienda municipale della raccolta rifiuti, ndr). Nel nome del ‘decoro’, lo chiamano così. Parlano di decoro e seppelliscono l’umanità”.

A fianco del circolo Arci c’è il ristorante Scomodo. Chiuso per Covid, neanche a dirlo. Ma il personale è tornato in cucina per un giorno, aiutato dai volontari. Per tutto il pomeriggio si stende pasta sfoglia, si girano pentoloni di sugo e di besciamella, si cuoce il riso. Cento pasti per cento persone. Una goccia nel mare. Alle 19 e 30 le confezioni sono pronte, si parte.

Degli incontri in strada è difficile raccontare. Le persone sono tantissime, le loro traiettorie di vita sconosciute, se non per i brandelli di racconto scambiati in pochi minuti. Scriverne sembra ingiusto, non c’è possibilità di scappare dalla retorica e certe storie la retorica non la meritano, non la sopportano.

Ci sono esseri umani di tutti i colori, tutte le etnie. Giovani arabi che nonostante la fame vogliono essere sicuri che nelle lasagne non ci sia carne di maiale. Un vecchio clochard con un glaucoma all’occhio destro, Pasquale, che non la smette di dire “grazie” e “buon Natale”.

Il cibo finisce presto, le persone continuano ad arrivare.

L’ultima immagine prima di tornare indietro è Lola che affretta il passo verso la sua macchina per prendere l’ultima coperta rimasta, “sennò stanotte non dormo”. Torna di corsa dalla signora Maria, che dorme in piazza dei Cinquecento, vicino all’ingresso di Termini, di fronte alla rete metallica di un cantiere. Alle sue spalle c’è un pannello pubblicitario, con la fotografia di un mosaico e una frase che sembra quasi messa in scena, una cornice per la fotografia perfetta. Invece è vera, è davvero lì. Dietro ai profili delle due figure vicine, si legge: “Un legame nella distanza di questo tempo”.