La transizione verde dell’Italia potrebbe dover aspettare ancora, nonostante i buoni propositi di cui sono pieni i progetti per il Recovery Fund: mettendo per un attimo da parte le intenzioni e analizzando lo stato delle cose in questo momento ad agosto potrebbero essere almeno 90 i permessi per la ricerca di idrocarburi che potranno riprendere il loro cammino verso l’approvazione dopo due anni di stop. Molte sono nell’Adriatico, tra Marche e Abruzzo, altre in Sicilia magari vicinissime a Pantelleria e Favignana. Poi in Calabria, in Salento e fino a Santa Maria di Leuca. Più di cinquanta sono quelli per la terraferma. Nonostante il tentativo appoggiato da due ministri (Sviluppo Economico e Ambiente) di inserire nel prossimo Milleproroghe una moratoria totale sulle trivelle, la bocciatura arrivata a provare l’assenza di un accordo politico (Italia Viva e il centrodestra i principali oppositori) non fa presagire una svolta rapida. Nei giorni scorsi il ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, ha però rassicurato: se l’Italia sposa davvero il cambiamento, non ci saranno nuove trivelle. L’idea è infilare la moratoria in una norma a gennaio.
L’origine della moratoria. Nel 2018, il decreto semplificazioni aveva introdotto la sospensione dell’iter per i permessi di ricerca e di prospezione per 18 mesi (inclusi quelli di valutazione di impatto ambientale) in attesa della stesura del Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (PiTESAI), ovvero una mappatura dell’Italia che tenendo conto del territorio stabilisse dove e se fosse possibile trivellare. Il via libera sarebbe stato rilasciato solo se le istanze fossero ricadute in quei territori. Dopo due anni, però, il piano manca, i lavori sono ancora nelle primissime fasi, complice anche la speranza che l’Italia della transizione energetica non ne avesse davvero più bisogno.
La mappa dei permessi in attesa non risparmia nessun angolo della penisola. Le richieste pendenti in mare sono per lo più concentrate tra l’Adriatico e il Canale di Sicilia: basta consultare le mappe del Mise per avere chiara la situazione. C’è l’inglese Northern Petroleum con circa 300 km quadrati di fronte a Gela. Accanto Pantelleria è la società piemontese Audax Energy Aad a chiedere di svolgere ricerche in un area di circa 350 km quadrati. Tra Puglia (adriatica), Calabria e Basilicata (Ionio) sono almeno otto le richieste di rircerca in mare: Aleanna Italia, Eni, Global Petroleum e la Northern Petroleum vogliono perforare per non meno di 740 chilometri a testa per ogni richiesta.
La situazione non migliora risalendo l’adriatico, anzi: coste abruzzesi, marchigiane e romagnole sono al centro delle richieste. Così come sulla terraferma: Rockhopper e altre vogliono trivellare tra Isernia, Campobasso e Chieti; l’Eni a Potenza; Aleanna Italia nel bolognese, la Delta Energy tra Sannio e Irpinia. E si potrebbe proseguire ancora a lungo.
Abbiamo chiesto al Mise come sia cambiato l’assetto della presenza dei petrolieri in Italia nell’ultimo anno, ma al momento non abbiamo ancora ricevuto risposta. Quello che si sa è che a dicembre dello scorso anno – seppur con qualche mese di ritardo – è scattato l’aumento dei canoni concessori, sia per la coltivazione che per lo stoccaggio. Una delle maggiori conseguenze è stata la riduzione dell’estensione delle aree di ricerca e coltivazione. Il decreto di febbraio prevedeva infatti che per queste zone le aziende dovessero corrispondere 1.481 euro per chilometro quadrato per la concessione di coltivazione (prima era di 59 euro), 2.221 per chilometro quadrato per la concessione di coltivazione in proroga (invece di 88 euro) con maggiori entrate per il bilancio dello stato previste “nell’ordine di circa 16 milioni di euro per l’anno 2019 e 28 milioni per ciascuno degli anni successivi” secondo la relazione tecnica che identificava in queste maggiori entrate, la fonte di risarcimento per tutte le eventuali cause e richieste di risarcimento qualora aree già produttive dovessero rientrare in quelle indicate dal piano come non idonee alla coltivazione di idrocarburi. Soldi che sarebbero fondamentali se si dovesse procedere davvero con uno stop totale ma di cui non si conosce l’entità. Sono invece stati almeno 45, a inizio dell’anno, i decreti di riduzione delle aree di concessione di coltivazione di idrocarburi sia onshore, sia offshore.
Gli interessi petroliferi nel Mediterraneo sono alti. Le attività, secondo la Confindustria Energia, nel 2018 ha generato un valore aggiunto di oltre 3 miliardi di €euro impiegando circa 30 mila addetti. E nei prossimi quindici anni, prima che mutasse lo scenario a causa del Covid e degli impegni legati ai fondi che dovranno arrivare, erano previsti investimenti di almeno 10 miliardi che, come raccontiamo nell’articolo accanto, potrebbero star cambiando volto.
Il futuro prossimo. Intanto, si mira ad ottenere almeno una proroga. La scorsa settimana un deputato del Movimento 5 Stelle in commissione Ambiente, Giovanni Vianello, ha annunciato un emendamento per prorogare il PiTESAI e per bloccare in maniera definitiva tutte le nuove trivelle e gli air gun. Potrebbe essere la battaglia finale del Movimento e di certo nel corso del 2021 tornerà ad essere un tema politico centrale: “Così – ha spiegato Vianello – il ministero dell’Ambiente avrà la possibilità di completare la VAS e la Conferenza unificata avrà il tempo utile per siglare l’intesa, e inoltre predisporremo lo stop a tutte le nuove trivelle e air gun”. La battaglia è solo all’inizio.