Un inno alla gioia per celebrare la pace: così è nato il concerto di Capodanno di Vienna

Quando il Concerto di Capodanno nacque, nel 1939, a opera del grande Clemens Krauss, era già qualcosa di assolutamente anacronistico. Si pensi al cupo anno d’inizio. Esso era una celebrazione della gioia: della gioia insita nella musica di Johann Strauss e dei suoi parenti, a cominciare dal padre. Musica di gioia, ma, per uno di quei miracoli estetici che avvengono rarissime volte, musica di eccelsa qualità; com’è eccelso compositore Johann Strauss.

Ma quale gioia? Quella di un mondo che, dopo la guerra del 1870, pareva aver riconquistato la pace. Gli anni trascorrevano tra guerre locali e coloniali, ma l’Europa viveva, al suo interno, in pace: in una vita brillante nella quale i ricevimenti e le feste erano scanditi dai Valzer e dalle Polke di Johann Strauss. Persino la vigilia della Prima Guerra Mondiale pareva vivere in questo clima; ed essa esplose per una generale follia suicida, onde Ernst Nolte la definì “la prima guerra civile europea”, considerando la Seconda la sua logica conseguenza. Al primo Concerto di Capodanno non vi si era ancora entrati, ma con l’annessione dell’Austria alla Germania era come se vi fossimo già dentro. Dunque, questo primo Concerto era già una disperata rievocazione.

Dopo il 1945 non vi sono state più guerre mondiali. La pace è sopravvissuta fortunosamente, pur se conflitti hanno un po’ dappertutto coinvolto le grandi potenze. Ma lo stato di pace, almeno nel mondo occidentale, reinstaurava in qualche modo l’aspetto gioioso del Concerto di Capodanno. Dopo la morte di Clemens Krauss, per lunghi anni, i più lunghi, esso è stato diretto da Willi Boskovsky. Musicista viennese e già grande violinista, nessun altro è riuscito a dirigere i brani quasi codificati con altrettanto classica eleganza, sovente imbracciando il violino e con questo guidando i Filarmonici di Vienna, proprio come faceva Johann Strauss. Dopo di lui, si sono succeduti sul podio direttori grandi e meno grandi, più o meno fedeli alla tradizione viennese.

Quello del 2021 è stato diretto da Riccardo Muti, per la sesta volta. La tradizione viennese egli l’ha fatta propria, e con i Filarmonici di Vienna ha un rapporto cinquantennale. Nessuno tra i direttori viventi avrebbe potuto interpretare il concerto meglio di lui, e nemmeno come lui: tanto magistrale è la sua linea, tanto particolare la sua concezione del ritmo, che, con i suoi ritardando e rubato, si adegua originalmente alla tradizione esecutiva; a non dire della smagliante bellezza del suono. Speriamo che, di Concerti di Capodanno, ne diriga ancora molti.

Intanto il mondo, non minacciato da guerre, lo è da un misterioso morbo che ne genera le stesse conseguenze. Effettuare il Concerto quest’anno è stato un atto di coraggio. Ma esso è fatto anche di un rapporto strettissimo tra interpreti e pubblico. Esso, per ragioni sanitarie, non c’era. L’orchestra e il direttore erano, sul palco del Musikverein, soli. In un’atmosfera spettrale.

 

Miles, che con la tromba addomesticò la rivoluzione

Miles tornò a trovarla in Rue d’Alésia, la strada del 14esimo arrondissement dove le acacie facevano le sentinelle per l’appuntamento. Era l’estate del ‘91, lui sarebbe morto il 28 settembre (e questo 2021 sarà l’anno della rilettura dell’opera del genio, fra riedizioni di dischi e libri). A casa di Juliette, quel pomeriggio, fiorirono i ricordi di un amore inevitabile, scoppiato nel 49 quando Davis, non ancora famoso, era a Parigi per il Festival Internazionale del jazz alla Salle Pleiel. Dall’Italia era arrivato Armando Trovajoli. Entrò questa magnetica brunetta, Miles ne restò ipnotizzato. La musa degli esistenzialisti e l’incendiario trombettista che metteva a soqquadro le stanze dell’isterico be-bop per trasformarlo nel sensuale, elegante cool-jazz. La Gréco e Davis, divisi solo dal colore della pelle. A loro non importava, agli altri sì. Li guardavano male durante le passeggiate sul Lungosenna, li giudicavano perché lui aveva già una compagna e un figlio. Nel 54 Miles invitò Juliette a New York per una cena romantica al Waldorf Astoria. I camerieri li umiliarono tirando i piatti sul tavolo. Miles decise di salvarla. “Non tornare più: nessuno deve considerarti la puttana del negro!”. A Parigi erano stati presentati dalla moglie di Boris Vian, frequentavano Picasso. Sartre aveva chiesto a Davis perché non sposasse Juliette. Miles rispose: “Non voglio renderla infelice”. Si lasciarono, infilandosi in tre matrimoni a testa (lei, tra gli altri, con Michel Piccoli), ma restarono in sintonia per la vita. Dovunque suonasse, Miles le scriveva biglietti: “Eri anche qui, stasera”. In Rue D’Alésia rievocarono tutto, con tenerezza. Finché Miles vide Juliette alzarsi e le rise dietro: “Potrei andare in ogni angolo del mondo, ma ogni volta che vedrò questo culo saprò che sei tu!”. La Gréco gli aveva fatto sentire che si potevano amare le persone, oltre alla musica. La seconda moglie di Miles, Betty Mabry, era una cantante funk e soul che era stata legata a un altro trombettista, Hugh Masekela, e frequentava gli dei del black rock, Jimi Hendrix e Sly Stone. Era la fine dei 60, Davis era nauseato dal radicalismo free-jazz di Ornette Coleman o Archie Shepp, che coniugavano improvvisazione, libertà espressiva e istanze rivoluzionarie dei neri. Miles amava invece esplorare le strutture compositive, senza muoversi a caso. Detestava il free e i critici bianchi che lo osannavano: per lui era un trucco per portare il jazz in un vicolo cieco. Così, dopo il cool e il filone “modale”, era il tempo di trovare l’incrocio con quel rock spaziale. Betty gli presentò Hendrix: Miles ne era geloso, maltrattava la donna. Ma si annusò con Jimi in jam session sperimentali, e scoprì che il prodigioso chitarrista non sapeva leggere gli spartiti. Malgrado ciò, si accordarono per registrare un album: Hendrix mandò un telegramma a Paul McCartney proponendogli di suonare il basso nel disco. Che non fu mai inciso, perché Davis pretese 50 mila dollari prima di iniziare, e altrettanto chiedeva il batterista Tony Williams. Non fu la sola occasione persa: al Festival di Wight 70 Miles e Jimi decisero di vedersi a Londra per discutere un nuovo accordo. Davis arrivò tardi per il traffico, Hendrix era ripartito. Stabilirono di ritrovarsi a New York, Jimi aveva già il biglietto ma morì il giorno prima. Però intanto, complice la mediazione di Betty, era nata la fusion, dischi di incommensurabile bellezza (In a silent way, Bitches brew) che definirono la svolta elettrica del jazz. Mezzo secolo dopo e a 30 anni dalla morte di Davis, non si spegne l’eco della tromba che ripudiava gli sterili virtuosismi per cercare la “nota perfetta”. Tra i libri da sfogliare Miles Davis, il quintetto perduto e altre rivoluzioni: Bob Gluck vi traccia la storia del formidabile Lost Quintet (con Wayne Shorter, Chick Corea, Jack DeJohnette e Dave Holland) che non si ritrovò mai in studio (esistono solo registrazioni live) e analizza le imprese davisiane di fine 60 con un occhio alla scena free. Quella dei guerrieri jazz senza catene, lontani dal rigore architettonico del colosso Miles.

“Mio padre Turi: una vita per il palco tra Strehler, Pirandello e Sciascia”

Il primo “sipario” è incerto. “Papà ufficialmente è nato il 10 gennaio del 1921, in realtà è di dicembre”.

100 anni di Turi Ferro, attore teatrale gigantesco, un po’ come la sua interpretazione ne I giganti della montagna, con Giorgio Strehler alla regia, esperienza rimasta negli archivi della storia del palco; poi ancora in scena con Pirandello, Sciascia, Brancati, l’essenza della Sicilia più vera, più articolata, più alta, “lontana da ogni aspetto macchiettistico. Lui fuggiva, detestava i luoghi comuni; viveva di teatro, e ogni volta diventava i personaggi che interpretava, anche dentro casa”.

Enza Ferro è la primogenita, e quando chiude gli occhi ancora sente il profumo di mastice e cerone sempre presente nel camerino del padre. “Eppure dei tre figli sono l’unica a non aver scelto il teatro”.

Come mai?

Non mi interessava, e a livello inconscio devo averlo un po’ odiato: già mi portava via entrambi i genitori e per periodi molto lunghi.

Le tournée duravano mesi.

Anche due anni, ed era inevitabile sentirsi abbandonati; (sorride) da grande, quando potevano, mi portavano con loro, ma solo se ero in vacanza dalla scuola o in pausa con gli esami universitari. E allora ho iniziato ad amare il teatro.

A casa con chi restavate?

Una zia o qualche governante o baby sitter, e poi i miei due fratelli sono molto più piccoli: Guglielmo ha quindici anni meno di me, mentre Francesca ha l’età di mia figlia.

I fratelli li ha cresciuti lei.

Mi sento un po’ loro madre.

Suo padre è nato ufficialmente il 10 gennaio, ma era di dicembre.

Infatti non festeggiava mai il compleanno, e sulla data di nascita ci marciava: in realtà era di dicembre, ma a dicembre rifiutava gli auguri in quanto sul certificato c’era scritto “gennaio”; poi a gennaio rispondeva “sono di dicembre”. Una volta si poteva denunciare dopo la nascita, e forse è stato un escamotage per saltare di un anno il servizio militare; (ci pensa) alla fine è andato in guerra che aveva vent’anni.

Ne parlava?

Spesso, e ci coinvolgeva con ricordi drammatici e intensi: ricordo ancora la storia di Breda, una staffetta partigiana conosciuta a Lubiana, e poi ritrovata morta, seduta su una panchina alla stazione. Era stata uccisa.

Come è arrivato al palco?

La famiglia di mio padre era tutta di avvocati, solo nonno era un appassionato filodrammatico, tanto da scontentare i genitori; mentre in casa di mamma si viveva teatro da generazioni, con mia nonna attrice.

Andava a vederli?

Sì, e il camerino era un luogo magico, delle meraviglie; era come un’altra stanza di casa: ci stavo così spesso da avere un angolo dove studiare, disegnare o giocare, e l’odore di mastice e cerone era quasi una droga; (ci pensa) però, ribadisco, ero combattuta.

In che senso?

Quell’odore, quel clima, quella realtà ti inebriava, ti avvolgeva, ti portava già in scena; secondo me molti figli di attori hanno proseguito sulla strada dei genitori solo per quella “droga”.

Lei, mai?

Una volta, nel 1971, li ho seguiti in Unione Sovietica e a Mosca ho sostituito un’attrice; lì il teatro era vissuto in maniera differente, noi eravamo abituati alle signore impellicciate, presenti in platea più per mostrarsi che per assistere; mentre lì abbiamo trovato operai, impiegati, appassionati veri.

E suo padre?

Affascinato; a Mosca, all’inizio dello spettacolo, i presenti si sono tolti le cuffie per la traduzione: già conoscevano il testo di Pirandello.

Era interessato alla politica?

La seguiva e ripeteva sempre: ‘Ho degli amici impegnati in politica ma non ho amicizie politiche’; ogni tanto qualcuno gli chiedeva un appoggio, e ha sempre rifiutato, secondo lui un artista non doveva schierarsi per non perdere la libertà.

Passo indietro sul camerino…

Era grande, con dentro una chaise longue un po’ disastrata, imbottita male e con le molle; poi gli specchi, le fotografie attaccate, e soprattutto gli abiti che sembravano avere la forma del suo corpo anche quando non li indossava.

Il teatro per lui.

Un’esigenza e una passione: partito da filodrammatico, era arrivato a condividere untratto di strada con Strehler: secondo lui papà è stato uno degli attori più epici.

E suo padre cosa diceva di Strehler?

Incontro irripetibile, si sono amati e stimati, e insieme hanno portato in scena I giganti della montagna. Dopo basta. (cambia tono) Papà era complicato, in perenne stato di ricerca, secondo mio fratello destrutturava i personaggi per poi ricostruirli.

Tradotto?

(Sorride) Il suo era un processo di ricerca, in pratica vivevamo con i suoi personaggi, li portava a tavola, pranzo o cena, ovunque con noi. Poi si chiudeva in camera e proseguiva con lo studio; era come un bambino alle prese con le costruzioni: aveva la stessa curiosità.

Qual era il suo personaggio preferito?

Il mio? A teatro Ciampa (da Il berretto a sonagli); da genitore lo identificavo in Cotrone (ne I giganti della montagna).

Perché?

Come Cotrone anche lui era un mago in grado di evocare fantasmi e sogni; comunque si è cimentato con tantissimi ruoli, ha rifiutato solo l’Enrico IV, credo per rispetto a Salvo Randone; (riflette) lui amava anche Liolà di Pirandello, un ruolo che lo ha accompagnato dal 1958.

Liolà il poeta contadino.

La sua ultima replica è andata in scena a Parigi, aveva circa cinquantuno anni e già da un po’ si poneva il problema di essere troppo vecchio per la parte. Quella sera ha salutato il personaggio con malinconia, e per questo sulla sua tomba ci sono i versi del ‘poeta contadino’.

Si spaventava delle sue metamorfosi?

No, ero solo gelosa.

Per strada lo fermavano?

Specialmente in Sicilia; (ride) una volta eravamo a Reggio Emilia, un gruppo di persone gli va incontro, e gli chiede: ‘Ma lei è…’; non finiscono la frase che papà già annuiva come a dire, ‘Sì, sono io’. Peccato che l’avevano scambiato per Curd Jürgens (attore tedesco). Scoppiammo tutti in una gran risata.

L’8 gennaio sono i 100 anni dalla nascita di Sciascia.

E tra loro c’è stato un rapporto importante, entrambi convinti di non cadere nella banalità degli stereotipi sulla Sicilia e i siciliani; poi Sciascia ogni tanto veniva in casa ed è stata la persona più affascinante tra quelle conosciute.

Gli amici di suo padre?

Legato a Mastroianni e Giannini, poi amava Carmelo Bene. Giannini ricorda sempre papà perché gli ha insegnato il siciliano.

Il rapporto tra i suoi genitori.

Coppia meravigliosa, con le classiche crisi di due che stanno insieme per 50 anni, però ogni tanto papà rimproverava mamma: ‘Non sei solo una madre, sei un’attrice’.

Recitavano insieme.

È capitato, pure nei momenti di depressione di mia madre, con papà che la coinvolgeva in alcuni lavori; (cambia tono) una sera le venne una crisi di panico durante la recita, e implorò mio padre: ‘Per favore accorcia, mi sto sentendo male’.

Per il teatro si rinuncia a tutto.

C’era Paola Borbone che sosteneva: ‘L’attore non deve avere famiglia’.

Come venivate trattati a Catania?

Vivevo quasi in incognito, sono diventata figlia di mio padre dopo la sua morte; il giorno del matrimonio, io e mio marito siamo passati in secondo piano, da comprimari, perché c’erano invitati conosciuti, come Alberto Lupo, che suscitavano maggiore clamore.

I suoi fratelli sono rimasti nel teatro.

Francesca è attrice e regista, Guglielmo regista (molto legato al Quirino di Roma). Per loro è stata dura, e papà era preoccupato.

Per il cinema è celebre il ruolo in Malizia.

Dopo quell’esperienza, bella, è partito un filone, chiamiamolo erotico, che non gli piaceva; ricordo una conversazione con un amico: ‘Mi propongono una pellicola dove mi buttano addosso Eleonora Giorgi nuda, e secondo loro solo per questo dovrei accettare’. E dietro c’erano molti soldi, ma rifiutò, un po’ come la proposta della pubblicità della Lavazza: doveva interpretare San Pietro.

Mamma d’accordo?

Spinta dal senso pratico ha tentato più e più volte di convincerlo: ‘Turi, non c’è niente di male, capita a tutti’. Inutile. Allora chiedeva il mio sostegno, e lui, ridendo: ‘E poi è San Pietro, fosse stato il Padreterno…’.

Torniamo cinema. Quindi in casa vi infastidivano le pellicole ‘alla Malizia‘?

Malizia andava bene, mentre i successivi non sono piaciuti a nessuno (La governante e I baroni). E per fortuna poi ha smesso.

In una recensione di Pistilli del 1974 su La governante, si stronca il film, non Turi Ferro.

Davvero? La stessa situazione si è verificata al tempo di Malizia 2000, con Maurizio Costanzo che ha attaccato la pellicola e salvato la prova di papà.

Benigni lo voleva come Geppetto nel suo Pinocchio.

È stato molto carino: papà stava male, era un po’ depresso e aveva una forma di leucemia cronica, eppure Benigni aveva deciso di aspettarlo, sperava in una finestra di maggiore salute. Invece è morto.

Prima ha parlato della depressione per suo padre.

Sembra una condanna per gli attori, ma capita spesso, non solo a Vittorio Gassman; anni fa, quando avevo il dubbio se proseguire come attrice, mi spiegò i confini: ‘Fallire in questa professione è più pesante che in altre: hai un vasto pubblico ad assistere alla tua sconfitta’.

Secondo suo padre quali erano gli attori più promettenti?

Stimava Gabriele Lavia e anni dopo Massimo Popolizio, poi era legato a Pino Caruso, Leo Gullotta e lo divertiva Nino Frassica.

Di Catania è Pippo Baudo.

Pippo lo conosco da quando era giovanissimo e io avevo appena cinque anni; lui ha amato tantissimo mio padre…

Qui c’è un ‘ma’.

In lui c’è qualcosa di irrisolto, in fondo credo che all’inizio volesse intraprendere la strada dell’attore, mentre papà lo dissuase; poi Pippo, una volta diventato presidente dello Stabile di Catania, lo volle in cartellone, ed è stata la sua ultima stagione.

Baudo da ragazzino.

Uguale a oggi.

Suo padre come veniva percepito dalla compagnia?

Come un uomo severo, molti ne avevano timore, poi scendeva dal palcoscenico e diventava un’altra persona.

Eduardo De Filippo proibiva le relazioni tra attori…

Non entrava nella vita privata, a lui interessava solo l’interpretazione; poi più li stimava e più gli stava sul collo, poteva perseguitare: una sera venne da me un attore, disperato, che mi raccontava i continui rimproveri, compreso per l’ultimo spettacolo della stagione.

Insegnava.

Sì, ma solo con l’esempio, sul palco, perché non aveva l’abilità di Gigi Proietti di trasmettere verbalmente la teoria.

Sua madre era gelosa?

Lo era, ma è stata intelligente a non creare problemi; (sorride) dopo le recite di Liolà veniva attorniato in camerino dalle ammiratrici, e ogni volta si toglieva il parrucchino col rispetto, e la grazia, di chi si toglieva il cappello davanti alle signore: la finzione era finita, e lui per onestà lo doveva dichiarare, senza preoccuparsi di deluderle un po’.

Lui chi era?

Un mago. Quello che tutto sommato vorrebbe ogni figlia.

 

 

Gli ultras del Gop e il ‘no’ a Biden

Tra Donald Trump e Joe Biden, è una sfida senza fine: domani, i due si daranno battaglia a distanza in Georgia, tenendo comizi la vigilia dei ballottaggi che il 5 decideranno la maggioranza in Senato. Il magnate presidente sarà a Dalton per i senatori uscenti Kelly Loeffler e David Perdue – costretto alla quarantena –; Biden ad Atlanta per i loro rivali Jon Ossoff e Raphael Warnock. E Trump mette le mani avanti, definendo a priori i ballottaggi “truccati” e “illegali”. Ma il presidente il cui mandato sta per scadere, più che ai ballottaggi del 5 in Georgia, guarda alla sessione plenaria del Congresso che il 6 dovrà ratificare la vittoria di Biden nelle presidenziali. Esaurite le istanze legali, resta la via d’un colpo di mano politico. Un giudice federale del Texas ha respinto l’azione avviata dal deputato Louie Gohmert e da altri suoi colleghi repubblicani perché il vice-presidente Mike Pence rovesci l’esito del voto, quando, mercoledì, presiederà la plenaria. Lo stesso Pence si era opposto all’istanza. La Cnn conta 11 senatori su 52– uno, Josh Hawley, è già uscito allo scoperto – e circa 140 deputati intenzionati a contestare l’esito delle presidenziali. I senatori chiedono che il Congresso “nomini immediatamente una Commissione Elettorale, dotata di piena autorità investigativa e di accertamento dei fatti, per condurre una revisione di emergenza di 10 giorni dei risultati elettorali negli Stati contesi”. Dopo questo accertamento “i singoli Stati valuterebbero le conclusioni della Commissione e potrebbero convocare una sessione legislativa speciale per certificare una modifica del loro voto, se necessario”. Ma il partito del presidente è diviso. Il leader dei senatori Mitch McConnell scoraggia i colleghi dal contestare l’esito delle urne. Rientrato in anticipo dalla Florida il 31/12, Trump assicura che “un’enorme quantità di prove sarà presentata il 6 gennaio” sulle presunte frodi. Il presidente continua a promuovere per quel giorno una manifestazione di protesta con lo slogan “Stop the steal!”. Nel giorno di Capodanno, il Congresso ha inflitto un’umiliazione senza precedenti a Trump annullando per la prima volta un suo veto, quello sulla legge da 741 miliardi di dollari per la difesa. Dopo la Camera, anche il Senato ha ri-approvato il provvedimento con oltre due terzi dei voti: quindi, ora il testo è legge.

Con un’altra mossa non gradita al presidente, McConnell ha, almeno per ora, accantonato un voto sull’aumento da 600 a 2000 dollari del sussidio ‘ex pandemia’ previsto per i cittadini al di sotto di un certo reddito.

Soleimani rimane un mito ma la guerra resta lontana

Aun anno dalla disintegrazione con razzi americani di Kassem Soleimani, il potentissimo generale a capo di Al-Quds, ala militare per gli affari esteri dei pasdaran, le tensioni tra Stati Uniti e Iran sono tornare a crescere in maniera preoccupante. Soleimani, braccio destro della Guida Suprema Ali Khamenei era da tempo nel mirino degli Stati Uniti, di Israele, e di molti paesi sunniti per l’aggressività della sua agenda estera. Essendo l’uomo più protetto dell’Iran assieme a Khamenei, Soleimani è stato ucciso dalle armi inviate dal Pentagono a Baghdad, capitale dell’Iraq, dove era più facile per gli americani infiltrare l’apparato di sicurezza messo a punto per proteggere il generale. A dodici mesi di distanza dall’operazione più azzardata dell’amministrazione Trump e con la difficile transizione in atto in seguito alla sconfitta del magnate newyorkese alle elezioni, tra Washington e Teheran potrebbe addirittura scoppiare un conflitto, secondo alcuni analisti. Un fatto ritenuto però improbabile da altri osservatori perché in questo periodo sia gli Stati Uniti sia l’Iran sono impegnati a combattere il Covid essendo tra i Paesi più colpiti dalla pandemia. Intanto Teheran, che ha nascosto a lungo il reale numero delle vittime da Coronavirus, prosegue con l’arricchimento dell’uranio.

Dopo l’uscitadegli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano nel 2015, la repubblica islamica sciita ne avrebbe approfittato per riprendere in segreto a realizzare armi atomiche. Tre giorni fa l’ambasciatore russo presso l’Associazione internazionale per l’energia atomica ha annunciato che l’Iran aumenterà il suo arricchimento di uranio nella base di Fordo del 20%, cioè ai livelli raggiunti prima dell’accordo nucleare del 2015. Giovedì scorso l’Iran ha fatto appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché impedisca agli Stati Uniti di condurre quello che viene definito “avventurismo militare” intensificatosi nel Golfo e nel Mare di Oman, incluso l’invio di bombardieri nucleari. Il nuovo generale di Al- Quds, Esmail Ghaani, ha adombrato che la rappresaglia per i crimini statunitensi potrebbe provenire da “persone della tua stessa casa”, riferendosi a Trump. Il presidente ha risposto con il solito tweet: “Riterrò l’Iran responsabile se un solo americano dovesse essere ucciso”. Washington ha subito dopo accusato le milizie irachene sostenute dall’Iran di essere “quasi certamente” colpevoli per il recente attacco missilistico vicino all’ambasciata americana a Baghdad. La terza scuola di pensiero a proposito di ciò che potrebbe accadere a partire da oggi, ipotizza che Trump inneschi un conflitto con l’Iran per distrarre l’opinione pubblica dai suoi tentativi fallimentari e infondati di ribaltare la perdita elettorale e complicare i piani del suo successore per la regione. “Stai attento alla trappola” israeliana, è l’invito lanciato ieri a Donald Trump dal ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, secondo il quale Israele vuole creare “un casus belli” in Iraq per spingere il presidente americano a muovere guerra a Teheran.

Secondo Sam Vinograd, ex consulente del collegio di Difesa Nazionale, l’Iran calibrerà qualsiasi attacco associato a questo anniversario perché non vuole inimicarsi Biden e ha necessità di ottenere al più presto la revoca delle sanzioni economiche. Le misure internazionali di 2 anni fa hanno contribuito a soffocare ciò che rimaneva dell’economia iraniana e fatto emergere la corruzione delle autorità scatenando proteste di massa nel 2017 e nel 2019 represse nel sangue con migliaia di morti e centinaia di arresti. Molti di questi prigionieri politici sono stati in seguito giustiziati con l’impiccagione, tra gli ultimi il giornalista Zam Ruhollah. Nel 2020 il clero sciita ha mandato sulla forca 273 persone, tra cui 106 donne.

“Se estradano Assange negli Usa sarà la morte della libertà di stampa”

Èun caso che deciderà il futuro del giornalismo. Domani, un giudice inglese stabilirà se il fondatore di WikiLeaks dovrà essere estradato negli Stati Uniti, dove rischia una pena di 175 anni. Il Fatto Quotidiano ha chiesto un’analisi al reporter islandese, Kristinn Hrafnsson, direttore dell’organizzazione.

Lei ha lavorato per WikiLeaks fin dal 2010: andò a Baghdad a rintracciare i due bambini iracheni feriti in modo gravissimo dall’elicottero americano Apache che si vede nel video Collateral Murder. È proprio per aver rivelato i documenti segreti del governo Usa sulle guerre in Afghanistan, in Iraq, i cablo della diplomazia e i file di Guantanamo che Julian Assange rischia 175 anni di carcere. Le ha mai detto: ‘voglio smettere, perché il rischio è troppo alto’?

No. E avrei capito se l’avesse detto a un certo punto, soprattutto dopo anni in cui è rimasto confinato nell’ambasciata a Londra. Era una battaglia troppo importante per lui.

I documenti sulla guerra in Iraq hanno permesso di rivelare 15mila vittime civili mai emerse prima, mentre i cablo hanno consentito a innocenti come Khaled el-Masri – rapito dalla Cia con un’extraordinary rendition per un errore di persona, torturato e stuprato – di appellarsi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Eppure, dopo averli pubblicati Julian Assange non ha più conosciuto la libertà. È accettabile?

È una vergogna. Alcuni hanno preso posizione in modo fermo contro l’estradizione, ma anche nei media mainstream c’è stata una mancanza di volontà di capire la gravità della situazione, in parte a causa della campagna di delegittimazione contro Julian Assange. Fortunatamente, vedo un cambiamento, iniziato l’anno scorso dopo l’arresto e l’incriminazione. Ovviamente, è dettato da ragioni di interesse, non di principio: se viene estradato e condannato, è la fine del giornalismo che indaga sulla sicurezza nazionale. Nessun giornalista al mondo sarà al sicuro, se vorrà praticarlo.

L’inviato speciale Onu contro la tortura, Nils Melzer, ha dichiarato che ‘è stato intenzionalmente torturato psicologicamente da Svezia, Inghilterra, Ecuador e Stati Uniti’. Come l’ha trovato in carcere?

Sono riuscito a fargli visita poche volte, poi a causa del Covid tutte le visite sono state bandite. Gli causa un gravissimo stress e la sua salute è minata. Sono scioccato dal vedere quanto peso ha perso, come a volte fosse giù e quanto fosse invecchiato. Quando ci siamo incontrati era dieci anni più giovane di me, un uomo dall’aspetto di un ragazzo, dieci anni dopo ha perso molto più di dieci anni in salute e tutto il resto. Ovviamente, Nils Melzer ha ragione: è stata usata tortura psicologica, guerriglia legale e intimidazioni. Quello che lo mantiene in vita è il fatto di sapere di aver fatto la cosa giusta e nell’interesse di tutti. È una persona con grande resilienza. Se questa situazione si risolverà presto, riuscirà a recuperare e a riprendere il giusto posto nella società con la sua fidanzata e i suoi figli e anche come persona che può contribuire molto al dibattito pubblico.

In questi dieci anni la sua compagna e i suoi figli non lo hanno mai incontrato da uomo libero, mentre i torturatori della Cia non hanno mai passato un giorno in prigione…

È un’ingiustizia così brutale che è scioccante come l’opinione pubblica non sia più indignata. A chi ha commesso tutti i crimini rivelati da Julian Assange e WikiLeaks è stata garantita l’impunità. L’unico che ha pagato è chi ha rivelato quei crimini. Assurdo.

E nessuno delle decine di giornalisti che hanno pubblicato le stesse rivelazioni, incluso chi scrive, è mai stato messo in prigione, non è allucinante che lui sia l’unico?

È allucinante: fanno a pezzi Julian Assange per farne un esempio e mandare un segnale agli altri giornalisti e dire che loro saranno i prossimi. Credo che questo segnale abbia già avuto un effetto intimidatorio: i giornalisti che erano media partner sono rimasti in silenzio, solo ora hanno iniziato a parlare.

Se finirà estradato e in prigione a vita, sarà la prima volta nella storia degli Stati Uniti che un giornalista va in galera per aver pubblicato informazioni vere e nel pubblico interesse. Non è la fine della libertà di stampa?

Sarà il più grande attacco alla libertà di stampa dei nostri tempi, una sorta di ferita che ci riporterà in tempi oscuri, perché non avremo alcuna garanzia di poter operare secondo i nobili valori della stampa e svolgere il nostro lavoro. Un colpo devastante.

San Patrignano è “SanPa” malgrado e grazie a Muccioli

Il valore di un documentario sta nella domanda che ti poni non prima di vederlo, ma dopo averlo visto. E dopo aver visto SanPa, la complessa storia della comunità di San Patrignano fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978 a Coriano, gli interrogativi restano molti. C’è la droga, certo, ma c’è soprattutto la discontinua personalità di Muccioli e quell’idea di salvezza che si risolve nell’amore finché, come dice uno dei narratori e testimoni, non viene smarrita la verità interiore.

Vincenzo Muccioli fonda San Patrignano nel 1978 per accogliere i tanti tossicodipendenti da eroina di cui il Paese non sa che fare. Sono ragazzi considerati feccia dalla società, scomodi per la politica, uno stigma per i genitori frastornati, incapaci di comprendere e di aiutare. Vincenzo Muccioli ne accoglierà a decine, poi a centinaia e migliaia come un gigantesco padre di famiglia che non giudica, ma cura.

C’è qualcosa di ipnotico e di inquietante nella sua figura: occhi piccoli e brillanti, baffi col taglio del dittatore, la stazza imponente che tenderà ad allargarsi negli anni dell’opulenza e del successo, per poi restringersi e assottigliarsi in quelli del declino, fino alla sua morte prematura.

I narratori principali nel documentario sono il figlio, Andrea Muccioli, il suo ex autista tuttofare e ospite della comunità Walter Delogu, e Fabio Cantelli, responsabile delle relazioni pubbliche di San Patrignano che forse restituisce la fotografia più nitida di Muccioli, perché ne racconta con coraggio e spessore l’opacità.

Delogu sembra il narratore più generoso, ma in fondo, quando si arriva all’epilogo, la sua versione lascia una strana sensazione. Come se tanto, troppo, fosse rimasto tra lui e Muccioli e abbia scelto di raccontare quello che può. O vuole. Oggi, Delogu lavora per il 118 e guida le ambulanze, in una specie di evoluzione simbolica in cui trasporta chi deve essere salvato e non chi promette salvezza.

Red Ronnie è il protagonista di un documento incredibile, quasi un reality ante litteram: lui che insegue Muccioli con le telecamere, mentre il grande padre di San Patrignano va a recuperare una tossicodipendente scappata dalla comunità. Ci sono le parole del padre misericordioso, le grandi mani che cingono la ragazza con le lacrime e i sensi di colpa per essere ripiombata nel Maligno, l’uscita di scena dei due, mentre tornano in comunità, per riabbracciare insieme il Bene.

Il figlio Andrea racconta il padre con passione, difendendolo dalle accuse più dure, ma paradossalmente con minore venerazione dei figli “adottivi”.

E poi c’è Antonella, col suo racconto cristallino, una delle pochissime donne ad apparire nel documentario, perché questa è, soprattutto, una storia di uomini.

È la storia di una comunità dall’impronta fortemente patriarcale: c’è il grande padre e poi una serie di prescelti, tutti maschi, in una gerarchia che segue logiche astute (Cantelli è il “tossico da vetrina” colto e sensibile perfetto come ufficio stampa, Delogu è simpatico e scaltro, perfetto come suo fidato factotum) e logiche oscure (quella dei responsabili della Manutenzione e del Macello), che fanno deragliare la storia in una direzione cupa, sinistra.

C’è il Muccioli idolatrato dalla stampa, al culmine della sua popolarità, ospite dei Biagi e dei Maurizio Costanzo dell’epoca, protagonista di accesi dibattiti tv sulle droghe con Marco Pannella che gli urla “Tu sei quello che cura i feriti, non che vince la guerra”, difeso da Montanelli, corteggiato dalla politica che lo vuole fare ministro, foraggiato dai Moratti, che si sono innamorati della sua missione. E poi c’è il Muccioli che si svela nel tempo, quello delle catene con cui faceva legare i ragazzi perché non scappassero, che li fa rinchiudere nelle piccionaie, che tollera l’uso della violenza e che finisce per rimanere invischiato in un omicidio avvenuto nella comunità con una condanna per favoreggiamento, che risponde a chi gli chiede se è vero che alcune ragazze subiscano violenze lì dentro: “Vede questa matita? Se io provo infilarla nell’anello e lei sposta l’anello… io non riesco a infilare la matita”.

Ci sono le ombre su San Patrignano, quelle lunghe dei due suicidi, dei processi, delle manie di grandezza di Muccioli che, mentre la comunità cresceva e diventava un’immensa cooperativa sociale in cui si producevano vino, pellami e prodotti di tutti i tipi, girava per l’Europa per acquistare cavalli, che stava sempre meno in comunità, che aveva lasciato che i suoi metodi venissero applicati da altri, con deviazioni crudeli, che non poteva ignorare.

Alla fine di questo lungo, controverso racconto, la sensazione è che quel bene che Muccioli ha fatto – quello di salvare migliaia di ragazzi da una morte certa – trovi una sua grandezza purché non lo si ammanti di idealismo. Muccioli era un megalomane, un narcisista magnetico e seducente che nella sua opera salvifica aveva individuato lo strumento perfetto per dissetare l’idea grandiosa di sé. Un’idea grandiosa che si ritrova nei suoi esordi prima ancora di San Patrignano, quando era dedito a sedute spiritiche, era a capo di una comunità chiamata il Cenacolo e diceva di avere le stigmate.

Alla fine, quella di Muccioli è la storia di un uomo che aspirava a diventare Gesù e si è ritrovato nel mezzo di un momento storico popolato di “ultimi”, di tante Maria Maddalena che si vendevano per una dose, di reietti da trasformare in discepoli. La vera domanda che ci si pone, alla fine di SanPa, non è solo “Fino a che punto si può arrivare per fare del bene?”, ma “Per chi lo faceva? Quei metodi coercitivi servivano a salvare i ragazzi o la comunità stessa, la gloria del suo fondatore?”.

Forse, senza l’ambizione di Muccioli, San Patrignano non sarebbe mai esistita. Forse le catene alle caviglie degli ospiti a un certo punto hanno stretto anche le sue, di caviglie, in una sorta di dipendenza del grande Padre dalle sue ossessioni, dalle sue manie di grandezza. Una dipendenza che lo consumerà, assieme alla malattia dal nome mai pronunciato, mentre lui realizza di non essere Gesù. Mentre una parte del popolo che tanto lo aveva venerato, per la prima volta, grida Barabba.

E alla fine, in questo luogo torbido dove il bene e il male si sono confusi e mescolati, sopravvivono limpide le parole di Fabio Cantelli che ha conservato per Muccioli una sofferta gratitudine: “Sono quello che sono grazie a lui e nonostante lui e San Patrignano”.

Ecco, forse San Patrignano è stato questo: un luogo in cui spesso ci si salvava dalla tossicodipendenza. Ma poi, talvolta, bisognava sopravvivere a qualcos’altro.

Doppi e travestiti in scena, da Plauto a Dustin Hoffman

Continuiamo la nostra passeggiata pedagogica in compagnia dei comici greci e latini.

METABOLE DEL DESTINATARIO

AGGIUNZIONE

Il doppio. L’intrigo farsesco della commedia antica ruota spesso su un sosia che prende il posto del protagonista. Nell’Amphitruo, Plauto duplica sia il condottiero Anfitrione che il suo servo Sosia:

MERCURIO: Li riempirò di confusione. (Amph., 470)

Il sosia crea un turbamento nei protagonisti: Otto Rank esplorò questa osservazione psicologica in un celebre saggio (Il doppio, 1914). Nell’arte, il faccia a faccia col proprio sosia è sempre dominato da un’angoscia mortale, che potenzia l’effetto comico:

MERCURIO: Tu dunque osi dire di essere Sosia, che sono io? SOSIA: Sono morto. (Amph., 373-374)

SOSIA: Ah, siamo messi bene! Tu hai partorito un altro Anfitrione, io ho partorito un altro Sosia: ora se anche la coppa ha partorito un’altra coppa, ci siamo raddoppiati tutti. (Amph., 784-786)

La soluzione della vicenda vedrà la nascita di due gemelli: un doppio gioioso, vitale, che cancella quello spaventoso, temuto. Stessa angoscia nel Miles gloriosus quando a Sceledro compare la ragazza che lui crede una gemella:

PALESTRIONE: Tu sei morto, lo sai? (Mil., 398)

SCELEDRO: Ho una gran paura. PALESTRIONE: Di che? SCELEDRO: Che abbiamo smarrito noi stessi in qualche posto. (Mil., 428-429)

Palestrione allora percula Sceledro portando il concetto all’assurdo, mentre finge ironicamente di voler eliminare ogni dubbio:

PALESTRIONE: Voglio vederci chiaro, Sceledro. Noi siamo noi oppure siamo degli altri? Non vorrei che di nascosto qualcuno dei vicini ci avesse scambiato a nostra insaputa. (Mil., 430-432 )

Nell’Asinaria, due giovanotti sono innamorati della stessa prostituta e per averla in esclusiva devono rimediare venti mine prima che lo faccia l’altro. I servi del vecchio Demeneto tramano in favore di suo figlio Argirippo creando un doppio:

LIBANO: Corri al Foro dal padrone e raccontagli quello che vogliamo fare: che tu, dal Leonida che sei, vuoi trasformarti nel maestro di casa, Ramarro. (Amph., 367-368)

Nei Menecmi, cui si ispireranno Shakespeare e Goldoni, Plauto porta in scena due gemelli, creando una babele di equivoci. Nelle Bacchidi impiega due sorelle, due vecchi, due giovani amici, due servi e una doppia beffa. Nello Stico, due fratelli hanno sposato due sorelle. Plauto ricava effetti di grande virtuosismo comico quando il padre delle due, Antifone, si rivolge a uno dei due cognati, Epignomo, con un apologo in cui parla di sé e di lui come fossero altri:

ANTIFONE: C’era una volta un vecchio, vecchio all’incirca come me. Aveva due figlie, su per giù come le mie. Ed erano sposate a due fratelli, quasi come le mie sono sposate a voi. E allora il vecchio disse al giovanotto padrone della flautista, come ora io dico a te… EPIGNOMO: Sono tutt’orecchi. ANTIFONE: Io ti ho dato mia figlia con cui andare a letto per divertirti; penso perciò che sia giusto che tu mi restituisca il favore dandomi una con cui possa andare a letto io. EPIGNOMO: E chi è che dice questo? Forse quello che è lì come se fossi tu? ANTIFONE: Sì, più o meno come io che ti sto parlando ora. “Ma anzi, te ne darò due” disse quel giovanotto “se una ti pare poco.” EPIGNOMO: E scusa chi è che dice questo? Forse quell’altro che è come se fossi io? (Sti., 539-541, 545-552)

Un espediente drammaturgico molto utile all’agnizione finale è quello del doppio presunto, cui ricorre già Menandro nell’Arbitrato: il giovane che sedusse Panfile dandole un figlio prima del matrimonio è lo stesso marito, Carisio, che all’inizio della commedia, a causa di quel figlio, l’aveva abbandonata. Terenzio è un maestro della trama doppia. Troviamo questo principio compositivo nell’Andria e negli Adelphoe.

Il travestimento è un espediente classico degli intrighi comici: ce ne dà un esempio Aristofane nelle Rane, dove traveste da Eracle prima Dioniso, poi Xantia, poi di nuovo Dioniso, poi ancora Xantia (Xantia ne ricava sempre trionfi, Dioniso sempre dolori); e nelle Donne al parlamento, dove traveste da uomini le donne guidate da Prassagora: poiché all’epoca le donne non recitavano, in scena dunque c’erano uomini che interpretavano donne travestite da uomini. Nel Dyskolos di Menandro, Sostrato si traveste da contadino per avvicinare Cnemone e vincerne le resistenze. La vicenda termina con un doppio matrimonio. Nel Miles gloriosus, Plauto inscena addirittura quattro travestimenti: Filocomasio si traveste per farsi passare come propria gemella; una prostituta e la sua ancella si travestono da moglie e ancella del vicino di Pirgopolinice; e il giovane innamorato si traveste da marinaio per farla in barba al soldato. Nella Casina, Calino si traveste da sposa per il gustoso tiro birbone che svergognerà Lisidamo e il suo fattore. Nell’Eunuco di Terenzio, Cherea, su suggerimento dello schiavo Parmenone, finge di essere l’eunuco donato alla prostituta Taide per stare accanto alla fanciulla che Taide protegge e di cui si è innamorato.

(37. Continua)

Whirlpool, la lotta operaia è finita su un calendario

Il calendario Sulla nostra pelle con i ritratti dei lavoratori della Whirlpool di Napoli in presidio permanente per impedire la chiusura dello stabilimento è così bello che non ha bisogno di essere pubblicizzato perché sta andando a ruba: la prima tiratura di cinquemila copie è esaurita, le richieste fioccano da tutta Italia, la ristampa è già in corso. Il suo imprevisto successo merita invece una vera e propria recensione.

A tal fine mi giunge in soccorso il saggio pubblicato nel 1978 dal grande storico inglese Eric. J. Hobsbawm, dedicato all’importanza dell’iconografia per lo studio del movimento operaio. Lo si trova in italiano nel libro Gente non comune. Storie di uomini ai margini della Storia (Rizzoli). L’autore s’interroga sul perché “in un secolo di movimento operaio, la figura femminile diventò sempre più vestita, quella maschile sempre meno, se non altro dalla cintola in su”.

Nella fabbrica di lavatrici d’alta gamma napoletana, su 350 dipendenti che resistono, le donne sono un centinaio. Due anni or sono fu una di loro, grazie anche al suo nome di battesimo, Italia Orofino, madre monoreddito con due figli a carico, la prima portavoce della lotta. A coordinare il progetto del calendario è un’altra operaia, Carmen Nappo, anche lei madre di due figli. I genitori di Carmen hanno lavorato in Whirlpool e, come loro, pure lei ha incontrato suo marito in fabbrica. Sono i legami di tutta una vita.

Cosa ci dicono le immagini scattate dalla fotografa Tamara Casula? Sono le donne, rigorosamente vestite, ad aprire e chiudere il calendario. Le vediamo in corteo, in abito da sera mentre brindano (sono al secondo Natale passato in fabbrica), in tenuta da lavoro. Ai maschi, invece, è stato richiesto di scoprire il corpo. Più precisamente, il torace. Badando bene di non cadere nell’autoironia disperata dello spogliarello alla Full Monty.

Appare evidente l’intenzione di rovesciare lo stereotipo dei calendari incentrati sul richiamo della donna-oggetto. Bene, brave, bravi. Lo storico Hobsbawm però avrebbe qualcosa da aggiungere. Egli ci ricorda che il dipinto rivoluzionario più celebre in assoluto, Libertà che guida il popolo, di Eugène Delacroix, raffigura una giovane donna a petto scoperto che si erge su una barricata impugnando il tricolore. Era il 1830, a Parigi. In lei e in numerose analoghe raffigurazioni femminili successive egli vede l’immagine dell’utopia, la dea della libertà che addita una perfetta società del futuro. Mano a mano che il movimento di rivolta millenaristico preindustriale prende la forma di movimento operaio organizzato, a imporsi sarà la rappresentazione idealizzata del corpo maschile, l’uomo prometeico, muscoli e torace.

Lungi da me voler dare consigli artistici ai lavoratori e alle lavoratrici Whirlpool, che hanno dimostrato di non averne bisogno. Volevo solo segnalare che il loro calendario si inscrive in una tradizione gloriosa. Da domani la multinazionale americana li mette in cassa integrazione, con l’intenzione di licenziarli il prossimo 31 marzo. Non lasciamoli soli.

Il sogno di folli genera “mostri”

Lo confesso. Stefano Folli è la mia stella polare politica. Da mesi, da anni, ogni volta che mi assale qualche dubbio sulla retta via da imboccare, compro La Repubblica, leggo le sue righe, soprattutto, tra le sue righe: è quella opposta alla sua.

Ieri ha superato se stesso perché, in maniera (quasi) esplicita, ha impartito al presidente della Repubblica una lezione di correttezza istituzionale. Se il senatore Renzi dovesse persistere nella sua conclamata sfiducia nei confronti del governo in carica, sarebbe Suo dovere convocare al Quirinale il presidente del consiglio Conte, non consentendogli di presentarsi al Parlamento se non, eventualmente, in virtù di un nuovo incarico. Questa sarebbe la prassi da osservare. Nemmeno Folli osa affermare che essa sia imposta dalla Costituzione che, come noto, assegna non ai partiti bensì al Parlamento il diritto di vita e di morte dei governi. Poco importa che questa sia una prassi, per buona sorte della Repubblica, più volte interrotta, che risale ai momenti peggiori della Prima Repubblica.

In compenso in tal modo si avvererebbe il sogno di Folli. Da quando esiste, egli presume, insinua, persino denuncia la debolezza dell’attuale governo, malgrado i consensi che trova nel paese e lo scetticismo, diffuso anche tra i più tiepidi, riguardo ad una crisi di governo in piena pandemia. Più accorto di altri, Folli dimostra di avere pienamente metabolizzato l’insegnamento di Craxi secondo cui i veri nemici non erano coloro che denunciavano il suo bullismo sprezzante, da uomo forte, bensì chi gli ricordava i suoi scarsi consensi numerici (comunque sei o sette volte quelli del buon Renzi). Bisogna ammettere che, quando sogna, Folli mostra una sua indiscutibile coerenza, sin dai primi vagiti emessi al fianco di Giovanni Spadolini.

Ancora una volta la mia stella polare non mi ha tradito, addirittura illuminando i miei sogni. Preferisco quello del mio amico Padellaro. Che se crisi ha da essere, che avvenga nella sede costituzionalmente propria, in quel Parlamento oggi temuto proprio da coloro che fino a ieri lo hanno strumentalmente invocato.