Addio Formentini, avversario leale, apolide moderato della Lega di Bossi

Ci scontrammo aspramente durante la campagna per l’elezione a sindaco di Milano. Era la primavera del 1993. Le prime elezioni dirette: non c’erano precedenti da cui imparare, in una città arroventata dalle polemiche su Tangentopoli. La durezza dello scontro era più congeniale alla violenza verbale della Lega. Che nella metropoli, non nelle valli, giunse da sola al 42 per cento. Sostituire in corsa la candidatura di Bossi con quella di Marco Formentini fu una scelta azzeccata per rassicurare l’elettorato moderato. Ma di moderato in quella campagna ci fu ben poco. Certo non lo fu, se posso ricordarlo, quel “Nando dalla Cosa Nostra” brandito a ripetizione da Umberto Bossi senza che alcun benpensante se ne scandalizzasse.

Una volta sindaco, Formentini fu però effettivamente più moderato. E voglio dargli atto di avere avuto rispetto del consiglio comunale, presenziando quasi sempre alle sue sedute. Ricordo che una sera lo accusai di assenteismo perché era a San Siro con la regina d’Olanda, non immaginando l’andazzo che avrebbero poi preso in tutta Italia i rapporti tra sindaci e consigli. Né ostacolò in alcun modo la mia elezione a presidente della commissione di inchiesta sulla corruzione nel commercio.

Nei primi anni Duemila lasciò la Lega. Gli andavano stretti, nel Parlamento europeo, sia l’estremismo di Bossi sia l’egemonia berlusconiana; così passò nel centrosinistra scegliendone la componente ritenuta più moderata, la Margherita, di cui ero senatore. Parlammo più volte di quella esperienza elettorale e amministrativa, una sera anche a cena sui Navigli, tra avventori comprensibilmente meravigliati di vederci entrare insieme. Più volte ironizzammo. Diversamente da me, non prese la tessera del Partito democratico, restando un osservatore dall’animo disincantato e moderato. Lo saluto con rispetto sincero.

Mail box

 

“Pancho” Pardi ci scrive sulla legge elettorale

Tutti riconoscono al presidente Mattarella doti di saggezza politica, equilibrio, sobrietà. Nello strano mondo della politica italiana Mattarella spicca per serietà, comprensione, equilibrio. Siamo stati fortunati ad avere un presidente così. Non sarebbe ora il momento in cui i partiti in Parlamento prendessero atto in modo costruttivo di questa opinione largamente diffusa tra i cittadini?

C’è un modo semplice e assai utile alla democrazia: adottare una legge elettorale capace di garantire la rappresentanza politica. Cancellare l’orrenda legge detta Rosatellum (non dimentichiamolo, voluta da Renzi, che con quella ha riempito il Parlamento di suoi fedeli) e restaurare l’ultima delle leggi con cui gli italiani hanno esercitato il diritto di voto senza essere truffati. È la legge elettorale che il professor Sartori chiamò, per criticarla, Mattarellum, perché il suo artefice principale fu allora Sergio Mattarella. Quella legge era criticabile, ma andava così bene che il centrodestra di Berlusconi volle cancellarla e sostituirla con l’orrendo Porcellum, così chiamato dal suo artefice Calderoli. Da allora gli italiani sono stati schiavi di leggi elettorali repellenti. Perché non riconoscere il suo merito al presidente Mattarella dando agli italiani la possibilità di votare in coscienza e serietà con la sua legge elettorale?

Senatore Francesco Pardi

 

Un duro anniversario commentato da Moravia

Caro direttore, il 3 gennaio ricorre l’anniversario (1925) del discorso di Mussolini alla Camera in cui rivendicò la responsabilità politica, morale e storica dell’assassinio di Matteotti che fu l’inizio della dittatura. Moravia commentò quell’anniversario sull’Espresso l’11 febbraio 1962 con il seguente articolo: “Alcuni oggi si domandano come mai un uomo che alleava un eccezionale ma volgarissimo temperamento di demagogo a tante e così gravi deficienze morali e intellettuali riuscì a farsi adorare in ginocchio da un popolo intero? Rispondiamo che questi fatti sono soltanto in parte politici: per comprenderli meglio bisognerebbe ricorrere alla psicanalisi. In altri termini ci fu nel mondo, al principio di questo secolo quella che gli storici chiamano un’ondata rivoluzionaria dovuta all’affacciarsi per la prima volta delle masse popolari sulla ribalta politica. Questa ondata rivoluzionaria era probabilmente un empito di torbida, generica vitalità paragonabile a quella che travolge gli uomini nell’età della pubertà: si sa quello che avviene nell’individuo: alla prima occasione, buona o cattiva, la vitalità si accende, ciecamente, irrazionalmente. Mussolini fu la cattiva occasione della nazione italiana. Altri popoli furono più fortunati del nostro”.

Nicola Ferri

 

Per me, uno come Vespa andrebbe cacciato

A Porta a Porta ho assistito a un attacco vergognoso senza contraddittorio di Vespa, Salvini, Sallusti e compari al governo. Possibile che nessuno faccia un’interpellanza parlamentare per cacciare Vespa dalla Rai o almeno per una trasmissione riparatrice?

Aurelio Scuppa


Caro Aurelio, è sempre meglio non cacciare nessuno, onde evitare falsi martirii: basta fare come lei, protestare e magari cambiare canale.
M. Trav.

 

Come viene gestita la rubrica delle lettere?

Vorrei capire come funzionano i rapporti tra giornale e lettori. L’11 giugno dell’anno scorso ho mandato una lettera per sostenere l’idea di un lettore di costituire un fondo per sostenere il giornale nelle spese legali per le querele che fioccavano allora come oggi. Non è stata pubblicata. Avevo chiesto il perché e non ho avuto risposta.

Pierluigi Sabatti

Caro Pierluigi, non c’è alcuna censura: siamo semplicemente invasi dall’affetto dei lettori e lo spazio è tiranno. Grazie di cuore per la sua vicinanza.
M. Trav.

 

Il vostro sostegno al “Fatto” è incredibile

Mi associo all’idea lanciata settimana scorsa da un lettore per una raccolta fondi per le spese legali. Vi leggo da più di 5 anni. Grazie di esistere!

Vincenzo Ciullo

 

Mi impegno fin d’ora per la somma di 100 euro a sostegno degli oneri derivanti dalle pretestuose cause civili intentate al Fatto. Esorto gli altri lettori a fare altrettanto in proporzione al loro reddito.

Questo è l’unico quotidiano italiano che non ha padroni, aiutiamolo ad andare avanti senza timore: è nell’interesse di noi lettori.

Carlo de Lisio

Grazie alle centinaia di lettori che si dicono pronti a sostenerci nelle cause intimidatorie. Per ora, contiamo di vincerle tutte, avendo scritto soltanto fatti veri. Ma in ogni caso sappiamo di poter contare su un piccolo esercito di amici. Grazie di cuore a tutti!

M. Trav.

“SanPa” fa luce sui reali anni 80 e 90

“A un certo punto San Patrignano ha pensato che la sua immagine pubblica fosse più importante della libertà interiore, ma se chiudi la porta alla verità la chiudi alla vita perché smetti di evolverti”.
Fabio Cantelli, ex ospite poi chiamato a dirigere l’ufficio stampa della Comunità.
“SANPA”, serie Netflix

Dobbiamo dire grazie agli autori delle cinque puntate su San Patrignano perché con un eccellente lavoro giornalistico (da premio Pulitzer) ci hanno raccontato una vicenda di straordinario impatto storico, sociale ed emotivo. Perché hanno ricordato ai cantori del bel tempo antico quanto quell’Italia degli anni 80 e 90 fosse brutta, sporca, cattiva. E, forse, proprio per questo capace di far nascere un fiore dal letame, come cantava Fabrizio De Andrè. Era il Paese quello del terrorismo rosso e delle bombe nere. Del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro. Delle mafie padrone a sud della Capitale, e anche a nord. Della politica impestata dal piduismo e dalla corruzione. Delle imprese sottomesse al sistema di Tangentopoli. Un’Italia dove una generazione di ragazzi sentendosi tradita nei propri ideali aveva tradito se stessa aprendo le vene all’eroina. Gettando le famiglie in una disperazione assoluta, folle, senza via d’uscita. Ancora oggi ci si domanda se Vincenzo Muccioli fosse un salvatore o un padre padrone. Probabilmente entrambe le cose, e molto altro ancora. Sicuramente “SanPa” e il suo creatore hanno rappresentato il più gigantesco degli alibi per uno Stato sfasciato e totalmente assente sul fronte delle tossicodipendenze. Un formidabile scudo politico, mediatico e sanitario per delle istituzioni capaci di reagire in due modi soltanto. Pronte ad accodarsi ipocritamente a Muccioli negli anni della vittoria. E a scaricarlo con la stessa velocità nel momento della sconfitta e delle polemiche sui metodi coercitivi usati per trattenere i drogati. Sino al compimento della parabola dell’uomo e del mito, fiaccato dalle indagini e dai processi: tra veleni, intrighi, suicidi, omicidi e un mulinare di denaro. È un racconto incalzante, il più possibile oggettivo nell’alternarsi delle testimonianze, tutte, anche quelle più sfavorevoli abbagliate dalla eccezionalità del personaggio e che, come è giusto, lasciano intatto il mistero della persona. “Non ho mai sopportato quelli per cui San Patrignano era o tutto bene o tutto male”, dice a un certo punto un ex ragazzo che è diventato un uomo dentro la complessità di quell’esperienza. È il giusto fastidio per chi giudica senza avere vissuto sulla propria pelle la differenza che esiste tra la morte e la vita. Resta l’immagine di quelle madri, di quei padri imploranti in attesa per giorni all’ingresso della Comunità, aggrappati alla speranza e alla riconoscenza. Resta una domanda: se non ci fosse stato Muccioli, con i suoi metodi, i suoi eccessi, i suoi errori, quei ragazzi si sarebbero salvati lo stesso?

 

2020 anno record per il caldo, la neve non è buon segno

In Italia – La perturbazione atlantica di lunedì 28 dicembre, giunta dopo l’irruzione artica di Natale (temperatura minima di -20,4 °C ad Asiago il 27, accade in media ogni tre anni), ha prodotto una nevicata d’altri tempi al Nord: 17 cm di neve fresca a Milano, 29 a Piacenza, 40 a Tolmezzo, 50 a Trento. Episodi ordinari fino a trent’anni fa, oggi rari in tempi di riscaldamento globale. Altrove, gagliardi venti meridionali, piogge intense (fin oltre 100 mm in alta Toscana), mareggiata con gravi danni nei lungomare di Napoli, acqua alta a Venezia e Trieste. A fine anno ancora libeccio, piogge e inconsueta frequenza di temporali sulle regioni tirreniche, quasi all’asciutto invece quelle adriatiche, e al Settentrione le schiarite sul suolo innevato hanno fatto scendere le temperature notturne a -9 °C a Piacenza, -11 °C nel Vercellese e ben -19 °C a Terlano (a 2 km da Bolzano) in chiusura di un dicembre tra i più grigi da un ventennio. Tiepido invece al Sud. La nuova perturbazione di Capodanno ha rincarato la dose con ulteriori copiose nevicate sulle Alpi, anche a fondovalle (Aosta, Trento, Bolzano), ma soprattutto sull’Appennino Tosco-Emiliano dove lo spessore del manto nevoso è straordinario, quasi un metro a quota 1000 m e da un metro e mezzo a due a 1500 m. Ciò grazie alla fugace combinazione locale di temperature invernali e precipitazioni abbondanti (380 mm all’Abetone dalla Vigilia di Natale), mentre il momentaneo calo di emissioni di CO2 per i lockdown Covid – tirato in ballo da molti – non c’entra niente, e il 2020 è stato un altro anno tra i più caldi in due secoli al Nord Italia. Oltre ai problemi climatici, tra i vari segni di degrado del territorio c’è la presenza di pesticidi, rintracciata nel 77 per cento dei campioni prelevati da fiumi e laghi come indica l’Ispra nel Rapporto nazionale pesticidi nelle acque: responsabile è un’agricoltura ancora insostenibile che impiega ogni anno 114.000 tonnellate di prodotti fitosanitari, poco meno di 2 kg per ogni italiano.

Nel mondo – Continua il freddo in Asia orientale, a fine dicembre inconsuete nevicate a 1000 m sui monti di Taiwan, glaciali punte di -47 °C in Mongolia e -44 °C nell’estremo Nord della Cina, ma anche -15,9 °C a Pyongyang e -12,8 °C a Pechino, valori però distanti dai record. Gelo più straordinario nell’isola di Hokkaido, -26 °C, ai minimi da un quarantennio. In Europa, nonostante l’episodio gelido di fine dicembre che ha portato temperature fino a -41 °C in Lapponia finlandese (valore decembrino più basso da 25 anni nel Paese), il 2020 è stato l’anno più caldo nelle serie secolari in tutta la Scandinavia, Estonia, Belgio, Francia e Svizzera. Il 27-28, caldo da primato per dicembre sulle coste della Groenlandia occidentale (13,0 °C a Nuuk), nell’isola subantartica della Georgia del Sud (26,4 °C) e alle Falkland (25,3 °C). Diluvi natalizi, alluvioni e frane in Ecuador e nell’isola portoghese di Madera, danni da vento, black-out e inondazioni anche in Inghilterra al passaggio della tempesta “Bella”, la stessa che ha causato le nevicate del 28 dicembre al Nord Italia. Il 2021 vuole proporsi come l’anno dell’ambizione climatica: i governi britannico e italiano dialogheranno in vista della Conferenza delle Parti “Cop-26” di Glasgow (1-12 novembre) rimandata lo scorso autunno a causa dell’emergenza Covid, e degli eventi preparatori Pre-Cop e “Cop dei Giovani” di Milano (28 settembre-2 ottobre); inoltre al G7 e G20 clima e ambiente avranno un ruolo centrale, e il concorso di iniziative “All4Climate-Italy2021” lanciato dal nostro ministero dell’Ambiente mira a un confronto collettivo sul tema più scottante del futuro. Speriamo in risultati concreti, perché di tempo davvero non ne resta.

 

Genitori e figli. Anche la famiglia di Gesù visse i traumi della crescita

Nella Bibbia troviamo un solo racconto su Gesù da ragazzo, lo riporta il Vangelo di Luca (2,41-52): quando compie 12 anni, i genitori lo portano con loro a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Finiti i sette giorni della festa, i pellegrini provenienti dalla Galilea tornano a casa. Nella confusione di queste carovane non è strano che, fra parenti e conoscenti, si perda di vista un ragazzo per una giornata intera. La sera i genitori cercano invano Gesù, con l’angoscia nel cuore fanno la strada a ritroso, fino a Gerusalemme. Lo ritrovano solo tre giorni dopo, nel Tempio, seduto come un discepolo in mezzo ai maestri: “Li ascoltava e faceva loro delle domande; e tutti quelli che l’udivano, si stupivano del suo senno e delle sue risposte. Quando i suoi genitori lo videro, rimasero stupiti; e sua madre gli disse: ‘Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena’. Ed egli disse loro: ‘Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?’” (vv.46-49).

Nei racconti evangelici, è la prima volta che Gesù parla, ed è anche l’unica parola che ci riferisce il Nuovo Testamento prima di quelle che pronuncerà ormai da adulto, e questa parola anticipa ciò che diventerà il centro del suo messaggio: Dio è “suo” Padre (ma anche “nostro”) e questo comporta delle scelte, delle priorità. Il Vangelo di Luca annota che i genitori di Gesù “non capirono le parole che egli aveva dette loro. Poi discese con loro, andò a Nazaret, e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia davanti a Dio e agli uomini”. (vv.50-52). Luca e gli altri vangeli trattano con discrezione, ma non nascondono, le difficoltà della famiglia di Gesù – e dei suoi genitori in particolare – a comprendere subito e fino in fondo la particolare identità di questo Figlio che vive una doppia genitorialità – quella celeste e quella terrena – e che deve risponde a una vocazione unica e irripetibile. A modo loro, cioè con le parole suggestive della narrazione, i vangeli esprimono quella realtà di Gesù di essere “vero Dio e vero uomo”, come confessa la fede cristiana, e che rende Gesù così “vicino” da poterci identificare in lui ma anche così “lontano” da permettergli di appellarsi autorevolmente alle nostre coscienze e scuoterle.

In questo episodio si rispecchiano le dinamiche di una famiglia “normale” che cerca di rispondere alla propria vocazione “particolare”: l’ansia nella ricerca del figlio, il sollievo nel ritrovarlo, il rimprovero per averli fatti spaventare, ma anche la reazione di Gesù che, come ogni ragazzo all’inizio dell’adolescenza, cerca la propria autonomia e identità, anche in modo un po’ incosciente, e allarga la cerchia di chi può rispondere alla propria sete di conoscenza dall’ambito familiare e dei maestri del proprio villaggio ai grandi maestri del santuario centrale di Gerusalemme. Proprio come accade nel percorso di vita di ogni famiglia. Una conflittualità sana, di crescita, di rispetto reciproco, in cui c’è il tempo per parlare e quello per tacere, il tempo in cui chiedere subito conto di ciò che accade e il tempo di attenderne gli sviluppi (“Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore”, v.51). Un tempo per accompagnare il figlio verso i propri doveri, anche religiosi, e un tempo in cui il figlio aiuta i genitori a comprendere che essi non lo “possiedono” e che ci sono lealtà e paternità “altre e più alte” a cui è necessario rispondere. Tutto questo vale particolarmente per Gesù ma vale anche per chi voglia essere suo discepolo.

 

Mattarella era da solo perché in politica è solo

Il presidente della Repubblica parla da solo agli italiani, l’ultima sera di dicembre, dal Quirinale deserto. Lui (o qualcuno intorno a lui) ha calcolato che si trattava di attraversare un punto pericoloso in cui le parole avevano perso senso oppure ascolto. Ma aveva capito una cosa in più. Non è il popolo che ha smesso di ascoltare, non si è interrotto il rapporto popolo-Stato. Ma si è verificato un disturbo di comunicazione, che impedisce di ricevere e capire ciò che il presidente vorrebbe dire, nel suo modo cauto e rasserenante, per rendere possibile la continuazione insieme dei lavori in corso.

Questo disturbo di comunicazione, ostinato e sempre più forte, è messo in atto dalla politica che, presa dalla febbre di combattere se stessa, volta le spalle sia ai cittadini sia al presidente e scambia aggressioni, imboscate, colpi duri che impediscono qualunque rapporto e rendono impossibile qualunque armistizio. Non si tratta di un brutto gioco di governo e opposizione. L’opposizione se mai si aggrega a chi combatte il governo. Nel governo una scheggia dura colpisce e cerca di umiliare e fermare ciò che tenta di fare il governo. Ma la scheggia è parte del governo. C’è un discorso “dentro” e un discorso “fuori”, quando alcuni che governano, tornano, prima e dopo i loro attacchi furiosi, ai loro posti ministeriali da cui ottengono potere, visibilità e capacità di creare un immenso disordine. C’è una ministra dell’Agricoltura che ha l’incedere imperioso di una proprietaria che si è data, e mantiene, un atteggiamento costantemente minaccioso, e sembra trarre una personale soddisfazione dalla durezza dei suoi attacchi al governo. Se lavorasse davvero a quel ministero, data la sua esperienza e competenza che sono note, il suo ruolo sarebbe importante. Ma lei appare sempre in filmati di guerra in cui avanza verso di noi con cappottoni imponenti, parte di un gruppo minaccioso che non promette scampo. È sempre accanto al suo capo, un senatore nemico giurato del governo, ma intanto lei, presumibilmente, sta tornando dall’altro suo capo, il governo, per cui lavora e con cui ha giurato. Chiunque direbbe: andiamo a cercare un punto di equilibrio in Parlamento. Dopo tutto siamo una Repubblica parlamentare. Sarebbe un pensiero giusto ma anche un errore. Il distacco tra governo e anti-governo da un lato, e il Parlamento dall’altro sembra diventato un problema destinato a durare. Il governo è teatro minore di molte fratture che sono insanabili persino se sono irrilevanti. La parte che un tempo avremmo chiamato la sinistra è irta di punte avvelenate verso l’unico governo vagamente assimilabile alla sinistra che si è formato per caso e resta insieme in un modo perennemente provvisorio, e in cui sembra impossibile avere piani e progetti comuni. La parte del Parlamento che è certamente di destra continua a usare parole del passato. Usano la parola patriottismo per esaltare i sacri confini della patria, in cerca di un nemico che è già in casa e si colloca al confine delle regioni, ciascuna cercando di escludere o sminuire l’altra privandola di qualcosa che la mia regione deve avere per diritto, merito e tradizioni maturati nella storia. Cerca alleati, la destra, e li trova in Paesi liberticidi al loro interno, che sono fieramente anti italiani nella politica europea, e mai sostengono l’Italia. L’assurdo raggiunge il suo massimo quando la nostra destra dedica onori e attenzione ai Paesi che non vogliono in nessun caso stranieri, ammira quei Paesi virili, e vuole imitarli. Ma quei Paesi, oltre a essere fascisti e disumani, non hanno coste e porti dovunque come l’Italia. Chiuderli, come voleva Salvini, vuol dire produrre danni più della pandemia. In questo modo il fascismo europeo alleato al fascismo italiano, lascia l’Italia sola. L’Italia di destra non vede la trappola in cui è caduta, e l’immagine di Paese debole e giocabile come ci dimostrano la Libia e l’Egitto. Il pubblico non capisce e si astiene. C’è persino il funzionario che non accetta una promozione direttiva perché la moglie non vuole il trasferimento.

Il Presidente della Repubblica ci ha pensato, e per il discorso di fine anno è apparso da solo in un palazzo vuoto. In questo modo non doveva cercare parole che chiarissero la confusione senza toccare il nodo indistricabile di questa politica. Ha usato un linguaggio efficace, usando solo tre punti che non si prestano alla discussione. Il primo: più di così non posso. Io sono solo e lo vedete da queste immagini, senza abat-jour e senza tavolini tirati a lucido. Il secondo: fra un anno dovrete cercare qualcuno per questo lavoro. Come vedete, non è facile. Terzo: io mi vaccino. Chi vuole informazioni false su medicine e pandemia, non conti su di me e su quel che resta di una buona politica italiana.

 

La moglie del mercante, il sacerdote bello e ricco e la cameriera complice

Dalle Novelle apocrife di Luigi da Porto. All’epoca della nostra storia, vivevano a Verona quattro persone (cinque, contando il marito), i cui destini finirono per intrecciarsi in un interessante, doppio intrigo. Innanzitutto c’era Caterina: moglie del ricco mercante Zeno Baladoro, era indiscutibilmente la donna più bella in quella città di donne bellissime. Era anche, in apparenza, la moglie più virtuosa e più pia entro le mura cittadine. Non aborriva i complimenti dei galanti che l’avvicinavano: semplicemente li ignorava. Eppure, e questo era il suo segreto, si sentiva infiammare quando prendeva la comunione da don Brando Alcineri Bernardi, uno dei sacerdoti più desiderati di tutto il clero locale. Di famiglia nobile, era giovane, ben fatto, e ricco oltre ogni giusta provvidenza. Poi c’era la cameriera di Caterina, Michela, una ragazza graziosa e sveglia, gli occhi da gatta, che faceva più da confidente che da serva. Infine, c’era Leandro Scarabello, un giovane gentiluomo che bruciava di desiderio per Michela. Zeno Baladoro, uomo orgoglioso e arido, considerava sua moglie solo uno splendido ornamento. Una mattina montò a cavallo e si diresse a Venezia per affari, e così uscì dalla nostra storia.

Da qualche giorno, Michela si comportava in modo strano, e Leandro se ne accorse subito: ogni volta che la ragazza si imbatteva in don Brando, diventava tutta moine, camminava sculettando, conversava facendo allusioni, scoppiava in risate argentine. Leandro non poteva sapere che Michela stava eseguendo i comandi della sua padrona, la quale, poiché la fedeltà non costituisce un ostacolo all’inganno, partito il marito aveva avuto un’idea. Di conseguenza, Leandro si struggeva senza posa, e una sera, dopo il tramonto, si recò a villa Baladoro. Come vide Michela a una finestra, la chiamò con un bisbiglio. La ragazza si affacciò. “Chi è?” “Il tuo innamorato, che sospira a ogni tuo sguardo”, disse Leandro. “Non ho innamorati, sfacciato mascalzone che non sei altro. Vattene, prima che avverta le guardie!” disse Michela. Leandro improvvisò: lui era don Brando, disse, era innamorato di lei e desiderava donarle il proprio cuore. Fu quasi convincente. “Non riesco a vederti, nel buio”, disse la cameriera. “Domani pomeriggio, alle tre, passa davanti al cancello e soffiati il naso con questo fazzoletto.” Gliene lanciò uno di seta bordò. “Se sei davvero chi dici di essere, ti aspetterò presso la fontana del giardino a mezzanotte.” Chiusa la finestra, corse a raccontare tutto alla padrona, che esultò di gioia alla notizia, e la ringraziò dei suoi servigi con un soldo d’argento. Il pomeriggio seguente, Leandro convinse don Brando, di cui era buon amico, a fare una passeggiata con lui, e al cancello di villa Baladoro, luccicante di ottoni sotto un cielo inverosimilmente turchino, gli disse: “Hai un cappero del naso. Tieni, usa pure il mio fazzoletto.” Quella notte, al buio, Leandro incontrò Michela: era così eccitato che subito la strinse fra le braccia per baciarla. “No, non qui!” disse lei, divincolandosi. “Vieni.” In una stanza al pianterreno, dove la penombra faceva più alto il silenzio, era pronto un letto dalle coltri sontuose. Gli disse di spogliarsi, e si ritirò nel boudoir, da cui, poco dopo, apparve Caterina, con indosso solo alcune gocce di profumo. Leandro la prese con l’irruenza focosa che una donna della servitù potrebbe aspettarsi. Caterina ebbe un singulto: aveva trovato l’uomo dai colpi possenti e licenziosi che aveva immaginato sotto la sacra sottana del giovane prete. E a Leandro piacque la grazia, colma di timidezza, che i modi sboccati della cameriera gli avevano celato. La società sarebbe migliore, se tutte le donne fossero sposate, e tutti gli uomini scapoli!

 

Scalfari, Moro e la memoria dispettosa

Grossa confusione sotto il cielo di Repubblica. Il direttore Maurizio Molinari intervista il venerabile fondatore Eugenio Scalfari, una chiacchierata di ampissimo respiro, evocativamente titolata “Il riformismo e i miei gioielli”. Insomma: un viaggio onirico nei ricordi di Scalfari, chedue o tre cose sulla storia d’Italia le può raccontare. Il problema è che ogni tanto la memoria è dispettosa e sarebbe d’aiuto un intervistatore pronto a dargli una mano a ritrovare le coordinate. Stavolta non succede. Scalfari ricorda il caso Moro in modo bizzarro: “Poco prima del giorno in cui fu rapito, Moro mi aveva invitato nel suo studio spiegandomi il programma del nuovo governo che stava per nascere con il voto anche della sinistra (…). Berlinguer era morto e Moro non voleva il Pci al governo ma nella maggioranza parlamentare”. Come tutti sanno, Berlinguer invece era vivo e vegeto: sarebbe morto nel 1984, sei anni dopo l’omicidio Moro del ‘78. Scalfari dimentica un’altra circostanza significativa: la mattina in cui Moro fu rapito, la sua Repubblica aveva in prima pagina un titolo che lo accusava – sulla base di una testimonianza che si scoprirà priva di fondamento – di essere l’uomo chiave dello scandalo Lockheed: “Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro presidente della DC”. Il fondatore di Repubblica ha diritto ai suoi vuoti di memoria, ma il direttore che l’ha intervistato cosa ci sta a fare?

E ora lavoratori e vip scoprono il lato oscuro

“Questo è un messaggio per Mark Zuckerberg e i suoi dirigenti… Sono una moderatrice di contenuti, una delle migliaia in tutto il mondo. Non abbiamo mai la possibilità di parlare con voi. Eppure siamo la parte più importante, più segreta di Facebook”. La chiameremo Jane. A fine ottobre ha rivolto un lungo appello alla leadership di quello che, oltre che un social network, è da tempo uno dei più potenti motori di disinformazione e propaganda della storia. Con altri 30mila, Jane guarda ogni giorno nelle viscere di Facebook: è addetta a filtrare i post che, per violenza, razzismo, falsità, istigazione all’odio, vanno eliminati dal social. Ruolo cruciale: eppure hanno condizioni di lavoro ai limiti dello schiavismo, sono impiegati da società terze e denunciano un sistema di supervisione e policies farraginoso ed inefficace. “Crediamo nel nostro lavoro, ma il lavoro deve cambiare” conclude.

Jane è solo una delle tante voci critiche della retorica e del modello di business di Big Tech emerse nel 2020. A catalizzare questo movimento di resistenza culturale e civile, non nuovo ma uscito quest’anno dalla sua nicchia, sono state le elezioni presidenziali Usa e il timore che il potere di persuasione dei social, soprattutto Facebook ma anche Instagram e Twitter, potesse condizionarne l’esito e indebolire già vulnerabili processi democratici. È l’onda lunga di due eventi: la presunta interferenza russa nelle presidenziali Usa del 2016 e, nel 2018, lo scoop della giornalista investigativa britannica Carole Cadwalladr sul ruolo di Cambridge Analytica, società di consulenza politica con investitori vicini a Donald Trump, nella manipolazione elettorale via social non solo di quelle presidenziali ma anche del referendum britannico sulla Brexit, con pratiche di targettizzazione social rodate in altre elezioni in tutto il mondo. Interferenze la cui efficacia non è mai stata provata, ma che hanno interrotto bruscamente la luna di miele fra il pubblico e l’impero di Mark Zuckerberg, pur non danneggiandone permanentemente gli affari.

Si fanno più espliciti gli ex manager di Facebook e Google pentiti di aver contribuito a quella narrazione e che quest’anno, nel documentario The Social Dilemma prodotto da Netflix, hanno raccontato di come l’utopia sia diventata distopia, di come ai loro figli non permettano l’accesso alle piattaforme che hanno contribuito a creare. Sostengono che Big Tech coltivi un culto acritico della tecnologia, indifferente al suo impatto sulla società; un modello di business tossico; il prevalere delle ragioni del profitto; la penetrazione e manipolazione di ogni aspetto della nostra vita. C’è Roger McNamee, ex investitore della Silicon Valley e mentore di Zuckerberg, che fra i primi ha capito i rischi dello strapotere delle piattaforme e ora è uno dei motori del Real Facebook Oversight Board, gruppo di accademici, giornalisti e attivisti di tutto il mondo che da un account Twitter fanno quotidianamente emergere le contraddizioni di Facebook. E c’è anche il risveglio dei grandi influencer. “Amo potermi connettere direttamente con voi tramite Instagram e Facebook, ma non posso restare in silenzio mentre queste piattaforme continuano a consentire la diffusione di odio, propaganda e disinformazione e prendono provvedimenti solo dopo che la gente viene uccisa. La disinformazione condivisa dai social media ha un serio impatto sulle nostre elezioni e mina la democrazia” con questo post su Instagram Kim Kardashian, 189 milioni di followers, aderisce a settembre al boicottaggio della pubblicità sui social di StopHateForProfit, conglomerato americano di giganti dei diritti civili che denunciano l’amplificazione social dell’odio razziale. La seguono in tanti, con la loro dote di followers, da Selena Gomez, 193 milioni, a Katy Perry, 107 milioni. Contemporaneamente, contro la concentrazione di poteri di Big Tech si muove anche la politica, con le azioni legali della Commissaria europea alla Concorrenza Margrethe Vestager contro Amazon, Google e Apple e le cause antitrust intentate dal governo Usa e da 48 fra Stati e distretti americani contro Facebook, accusato anche di aver stretto un accordo illegale con Google per spartirsi il mercato pubblicitario.

Silicon Valley, addio: tutti pronti per il Texas

“Credo che vedremo un declino del ruolo di Silicon Valley”: Elon Musk, l’uomo che ha fondato la più famosa società di auto elettriche Tesla, come sempre non usa mezzi termini e questa volta la sua profezia si abbatte sulla culla tecnologica americana per eccellenza. Lo dice e se ne va, Musk: ad Austin, in Texas, fa sorgere un impianto automobilistico Tesla, il primo oltre i confini della California negli Stati Uniti. D’altronde, nello stato ha già una base l’altro suo colosso dell’esplorazione aerospaziale, SpaceX. La notizia arriva alla fine di un anno di cambiamenti nella geografia dell’industria tecnologica. I campus delle grandi aziende si sono svuotati, i più agiati della Silicon Valley si sono ritirati nei loro rifugi dorati, chi lavora nel settore ha scelto lo smartworking e ha rinunciato ai costosi affitti di San Francisco per sedi e immobili più accessibili. Il lavoro sta cambiando, tanto più nel settore tecnologico: Google, ad esempio, sta valutando l’idea di una settimana lavorativa flessibile, magari formata da tre giorni in ufficio e due da casa.

Tesla, infatti, non è l’unico pezzo che abbandona la leggendaria costa tech: Oracle Corp, la seconda società di software più grande del mondo nata nella Silicon Valley alla fine degli anni 70, ha annunciato lo spostamento della propria sede sempre dalla California al Texas. Una rivelazione pre-allertata: per tagliare i costi, la società aveva già trasferito 135mila lavoratori ad Austin. Ma ancora: la Hewlett Packard Enterprise, tra le società eredi dell’originale gruppo HP nato in un garage e considerato vero e proprio pioniere della Silicon Valley, ha deciso di passare da San Jose, in California, a Houston, sempre in Texas. La Palantir Technologies, invece, si è spostata in Colorado. “Mentre alcuni stati stanno allontanando le aziende con tasse elevate e regolamenti pesanti, continuiamo a vedere un’ondata di aziende come Oracle che si trasferiscono in Texas grazie al nostro clima imprenditoriale amichevole, alle tasse basse e alla migliore forza lavoro della nazione”, ha detto nelle scorse settimane il governatore del Texas, Greg Abbott.

Tra le motivazioni che potrebbero star spingendo lontano gli imprenditori, oltre alle nuove possibilità di lavoro a distanza, c’è anche l’aumento del costo della vita insieme ad alte imposte sul reddito (la riforma di Trump del 2017 ha di fatto limitato la deducibilità delle imposte statali sul reddito e delle tasse sugli immobili) che ora, con l’elezione di Biden, sono a rischio di ulteriore salita: una trappola che si auto alimenta, spiegano gli esperti americani, visto che il budget e la capacità della California di finanziare importanti iniziative pubbliche dipendono in modo sproporzionato dalla sua capacità di trattenere i residenti più ricchi. Quasi il 70% del bilancio della California arriva infatti dal reddito dei cittadini. Il Texas, invece, è uno dei sette Stati senza imposta sul reddito e la manodopera costa meno, con tasse più basse.

Il Guardian, in una recente analisi, spiega che non sono solo le aziende ad essere in movimento ma che iniziano a traslocare anche i residenti. Va però precisato che Musk&C. non vanno completamente via dalla California ma restano con importanti centri a San Francisco. Anche perché il Texas è comunque sempre stato un centro importante per l’innovazione statunitense. Negli ultimi vent’anni, le aziende tecnologiche hanno creato avamposti nello Stato del Sud per tagliare i costi e hanno aiutato città come Austin a far crescere costantemente il settore tecnologico, che è stato soprannominato “Silicon Hills”, colline del silicio, su cui sorgono anche gli uffici di altri big: da Facebook ad Apple a Google. Sarebbe quindi più che altro una “colonia”, spiegano alcuni esperti. Ma questo non esclude certo che la geografia delle grandi aziende del digitale stia mutando, insieme alla loro identità: si scoprono essere sempre più lontane dal mito dell’azienda virtuosa e all’avanguardia per avvicinarsi all’immagine di società tradizionali che seguono prima del resto soldi e profitti, anche spostandosi là dove le conviene.

Il dibattito su cosa accade alla Silicon Valley ha diviso l’opinione pubblica americana tra chi continua a difenderla e chi invece ne dà un giudizio di valore. In un recente editoriale, il New York Times ha difeso la San Francisco Bay Area sottolineando che rimane il centro innovativo dell’industria tecnologica degli Stati Uniti e che vanta ancora più startup di qualsiasi altro Stato, eclissando anche i più stretti rivali in capitale di rischio e investimenti, con un Pil di 535 miliardi di dollari e il diciannovesimo posto tra le economie mondiali. A San Francisco, secondo i dati circolati sul 2018, sono stati investiti più di 81,8 miliardi di dollari in due anni mentre Austin si è fermata a 3,6 miliardi. Ma se anche la California continua ad attirare quasi la metà di tutti i fondi di venture capital, la sua quota è in calo. Dovrà riuscire a trattenere i magnati e sfornare nuove startup per sopravvivere. Tanto più che la Cina è a un passo dall’eguagliarla. Se infatti, spiega sempre il Guardian, San Francisco e San Jose sono state classificate al primo e al secondo posto negli investimenti pro capite, secondo un’analisi del 2018 del Center for American Entrepreneurship, un ente di ricerca, lo stesso rapporto assegna a Pechino il primo posto per il potenziale di guida della crescita globale. “Il dominio un tempo incontrastato dell’America è ora messo a dura prova dalla rapida ascesa di potenti città startup in Europa, Cina, India e altrove” si legge nel rapporto. Gli Stati Uniti, si avvisa poi, stanno perdendo la loro capacità di raggiungere individui altamente qualificati che, invece, restano sempre più nei loro paesi d’origine. Oppure, si può ormai aggiungere, si trasferiscono in Texas.