“Ministre Iv, ora liberatevi da Matteo”

“Ministre Bellanova e Bonetti, date prova della vostra indipendenza e non seguite Renzi nella crisi”. L’appello della professoressa Luisa Muraro, tra le più illustri pensatrici del femminismo italiano (fino ad averne inaugurato un filone autonomo, quello della cosiddetta “seconda ondata”) è insieme politico e simbolico.

In una lettera pubblicata sul sito de “La Libreria delle Donne di Milano”, Muraro si è rivolta alle due ministre renziane chiedendo di dissociarsi dal loro leader e “non farsi strumentalizzare” dalle sue manovre contro il governo, non solo per “il bene comune”, ma anche per un gesto di “libertà femminile”.

Professoressa Muraro, perché leggere la posizione di Bellanova e Bonetti in chiave femminista?

Io intendo il femminismo non come uguaglianza tra uomo e donna, ma come ricerca femminile della libertà. Un gesto forte delle ministre darebbe forza a questa libertà, sarebbe una prova di non subordinazione. Mi auguro diano prova di indipendenza, nel rispetto della Costituzione, aiutando questo governo a fare meglio.

C’è qualcosa che non va nei rapporti tra le ministre e Renzi?

Renzi è un uomo egocentrato, non ne faccio un discorso di incapacità politica. Pongo attenzione sulla arroganza con cui parla delle ministre Bellanova e Bonetti, senza neanche nominarle e minacciando di ritirarle come fossero pedine a sua disposizione. Per questo mi sono rivolta a loro chiedendo non mettersi a disposizione delle sue manovre, dando prova di indipendenza.

Oltre a un discorso di libertà femminile, lei cita il ‘bene comune’. Che cosa intende?

Questo contesto di pandemia rende irresponsabili manovre destabilizzanti. Veniamo da anni di difficoltà economiche e l’Europa ci ha dato un credito enorme, nonostante in passato non avessimo dimostrato buone capacità di gestione. Eppure l’Unione, per altro guidata da diverse donne in ruoli di potere, ci ha dato un aiuto che non possiamo far naufragare nelle difficoltà e nelle beghe interne, tipicamente italiane. Una risposta positiva dell’Italia darebbe più forza a tutta l’Ue.

Crede che le ministre di Italia Viva seguiranno il suo consiglio?

Ho voluto dare voce a una opinione che mi pare molto diffusa e su cui, pur con grande misura, ha pronunciato parole importanti anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non ho motivo per non stimare le ministre Bellanova e Bonetti, ma ho voluto far sentire loro questa voce e renderle partecipi delle mie aspettative. Indipendentemente da come andrà, mi piace provare a dare un contributo e sono contenta quando posso farmi sentire, anche perché sono convinta che il femminismo abbia sempre dato un grande impulso alla politica.

Big Pharma, Ponte e Tav: Renzi accarezza le lobby

Matteo Renzi continua a ripetere che la sua è una “battaglia di idee” e non di “poltrone”. Anzi, ha detto ieri orgoglioso in un’intervista al Messaggero, “abbiamo la schiena dritta, se le nostre idee danno fastidio andiamo all’opposizione”. Come se, nella sua testa, fossero lui e Italia Viva ad essere sotto ricatto di Giuseppe Conte, Pd e M5S e non il contrario. Ma tant’è: anche dando all’ex premier il beneficio del dubbio – cioè provando a credere che dietro l’apertura della crisi ci siano le sue proposte e non la voglia di pesare di più nell’esecutivo – guardando alle “idee” del piano “C.I.A.O” per spendere i soldi del Recovery viene il dubbio che dietro ad esse ci sia la volontà dell’ex premier di tornare ad aiutare quelle lobby che con il governo Conte hanno perso un po’ di centralità. Vediamo quali.

industria farmaceutica. Al punto 55 del piano Renzi propone di “investire quattro miliardi per creare posti di lavoro di qualità e ricerca avanzata nel mondo farmaceutico” perché l’Italia “è uno dei Paesi all’avanguardia mondiale in questo settore e ha distretti di eccellenza assoluta”. Ma non si capisce il motivo per cui l’ex premier voglia destinare ulteriori fondi – il 3% dei prestiti totali che arriveranno dall’Ue – a un settore, quello farmaceutico, che è stato uno dei pochi a resistere nel 2020 della pandemia. Secondo il Rapporto dei settori industriali di Intesa Sanpaolo del 28 ottobre, quello farmaceutico è uno dei pochissimi settori in crescita del 2020 facendo registrare un +3,9%. A Renzi il settore sta a cuore. Certo non solo per il legame antico con la famiglia Aleotti, che possiede il colosso farmaceutico Menarini. Memorabile la visita nel marzo 2015, alla vigilia del primo bilaterale con Angela Merkel a Berlino, nella sede tedesca della Menarini per la gioia di Lucia Aleotti. Poi gli Aleotti – come persone fisiche e non la società – sono stati anche tra i principali finanziatori della fondazione renziana Open per un totale di 300mila euro. Senza essere indagati, furono perquisiti nel 2019 dalla Procura di Firenze, ma la Cassazione a settembre ha annullato i sequestri di cellulari e documenti, definiti “onnivori e invasivi”.

Ponte sullo Stretto e tav. Al punto 32 del piano “Ciao” Renzi torna ancora a perorare la causa del Ponte sullo Stretto di Messina sapendo che non è finanziabile con i soldi del Recovery (ha un arco temporale più lungo del 2027) ma, scrive l’ex premier, “i soldi che arriveranno sulle infrastrutture rendono il ponte irrinunciabile logicamente e più facile da realizzarsi”. Renzi, prima di arrivare a Palazzo Chigi, era contrario all’opera (“Quegli 8 miliardi li dessero alle scuole” diceva), ma poi è diventato tra i suoi principali sostenitori. Almeno da quando, nel settembre 2016, partecipò alla festa dei 110 anni del gruppo Salini Impregilo, oggi We Build, dicendo all’amico Pietro Salini: “Sul ponte noi siamo pronti, se voi ci siete noi sblocchiamo”. Peccato che già allora lo Stato, rappresentato dal premier, avesse un contenzioso aperto proprio con il consorzio Eurolink (guidato dalla Salini Impregilo) che nel 2013 aveva fatto causa per 800 milioni contro la decisione del governo Monti di stoppare l’opera. Il Tribunale Civile di Roma nel 2018 ha respinto la causa e, dopo il ricorso, si attende l’appello. Ma Renzi continua a sponsorizzare l’opera, insieme all’Alta Velocità da Nord a Sud. Anche se non c’è nel piano, Iv da giorni sta portando avanti la battaglia del Tav Torino-Lione. E chi c’è nel raggruppamento di imprese del cantiere in val Susa? Salini Impregilo, ovvio.

Prescrizione. Dopo aver fatto tremare il governo, Renzi torna ad attaccare anche sulla prescrizione che resta “un nodo tutt’altro che risolto”. Considerando i processi in cui è coinvolto il padre Tiziano, l’ex premier dovrebbe tenersi lontano anni luce dal tema prescrizione ma i suoi parlamentari chiedono una commissione ad hoc in cui dovrebbe entrare il presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza. Che però nel frattempo è anche avvocato dello stesso Renzi nell’inchiesta dei pm di Firenze sulla fondazione Open.

 

La sfida Gualtieri-Iv sui prestiti Ue cela lo spettro della futura austerità

Nella querelle, una delle tante di queste settimane, che vede opposti gli spendaccioni renziani all’austero ministro dell’Economia Roberto Gualtieri – pur dando per scontate le piccole furbizie d’occasione e lo spessore non eccelso dei protagonisti – riverberano enormi questioni, una soprattutto: quali regole, e cioè quale futuro, vorrà darsi l’Europa.

La cosa, all’ingrosso, sta messa così: Next Generation Eu si divide in trasferimenti (circa 82 miliardi per l’Italia) e prestiti (circa 127 miliardi); questi ultimi – come già certificato da Eurostat – impattano immediatamente sui conti pubblici in termini di deficit e debito, i primi invece solo quanto alla quota del rimborso e tra qualche anno (quando si inizierà a pagare). A partire da questo fatto, il Tesoro ha deciso di non usare tutta la componente “prestiti” del Recovery Fund per progetti aggiuntivi, ma solo una parte: 40 miliardi nelle prime bozze, poi saliti a oltre 50, su 127 miliardi; quel che manca sarà speso su progetti già esistenti e dunque già a bilancio. Nell’idea di Gualtieri e soci è un modo, in sostanza, per non fare troppo deficit e debito aggiuntivo nei prossimi anni: ovviamente questa scelta limita l’effetto espansivo del Recovery Plan.

E ora veniamo alla richiesta di Matteo Renzi: Italia Viva vorrebbe, tra le altre cose, usare tutti i fondi europei per progetti aggiuntivi; gli investimenti già decisi saranno finanziati dallo Stato (per opere in cronico ritardo come l’alta velocità ferroviaria, stante il rigido cronoprogramma richiesto dai fondi Ue, probabilmente finirà comunque così). L’ex premier, d’altra parte, non è nuovo a proposte di politica macroeconomica espansive: da Palazzo Chigi propose di fare deficit al 3% per cinque anni, ma poi si accontentò di qualche “zero virgola” di flessibilità al primo sopracciglio alzato a Bruxelles.

Come che sia, si tratta di due posizioni legittime, ma quella di Gualtieri rivela un retropensiero preoccupante. Sui giornali di ieri la posizione del ministro si è letta in maniera chiara: dal 2022 tornerà il Patto di Stabilità più o meno come lo conosciamo (vincoli su deficit e debito) e finirà l’azione straordinaria della Bce sul mercato, meglio portarsi avanti col lavoro e tornare in un paio d’anni a fare politiche di consolidamento fiscale, diciamo di “austerità gentile”. Problema: se il Fiscal Compact, semplificando, torna in vigore a breve come pensa Gualtieri, l’Italia finirà comunque in un mare di guai. Troppo il debito accumulato quest’anno, molto quello ancora sotto il tappeto delle garanzie statali sui crediti bancari e dell’ondata di licenziamenti che ci aspetta in primavera (meno entrate, più sussidi). Predisporsi fin d’ora a seguire regole penalizzanti – e che tutti giudicano ormai insensate – significa non affrontare una battaglia vitale con la dovuta determinazione mentre si è nelle migliori condizioni possibili, cioè ora.

Certo, per gli inguaribili ottimisti c’è la speranza di una crescita del Pil talmente spettacolosa – dopo una più che spettacolosa recessione di cui non vediamo la fine – che è assai difficile attendersi sulla base dell’attuale fondo europeo per la ripresa: d’altro canto se la crescita non si fa per decreto, il che non è neanche così vero, di sicuro in questi decenni di avanzi primari abbiamo visto spesso che un decreto può affossarla.

Senato, numeri a rischio. I partiti temono la conta

Dice Matteo Renzi, quasi a rilanciare la provocazione, che “se il premier vuole la conta accettiamo la sfida”. Traduce, parlando al Messaggero, quel timore che ormai puoi toccare un po’ dappertutto, tra governo e Parlamento: il premier gioca d’azzardo e i numeri, alla fine, non è affatto detto che ci siano. Lo prevede il Pd, lo intuiscono i 5 Stelle: quella di Conte è una scommessa che forse il suo secondo esecutivo non si può permettere. Perché i “responsabili” con cui il presidente del Consiglio sogna di sostituire la pattuglia renziana sono una stampella fragile e probabilmente numericamente insufficiente a tenere accesa la fiammella giallorosa.

Così, a poche ore dal consiglio dei ministri che dovrà riscrivere le pagine del Recovery Plan che poi approderà alle Camere, la strategia del presidente del Consiglio rischia di viaggiare su binari diversi da quella dei suoi ministri e della maggioranza che lo sostiene. Non tanto perché – tolta l’ex forzista Sandra Lonardo – ieri è stato tutto un fuggi fuggi di responsabili, da Lorenzo Cesa a Giovanni Toti: ripetere che loro resteranno all’opposizione, è il ragionamento condiviso, fa parte del gioco, è una parte da recitare nella trattativa. Piuttosto, ad agitare le acque è il fatto che il premier abbia decisamente abbandonato ogni altra strategia. Il rimpasto, per esempio, che fino a un paio di settimane fa sembrava il naturale inizio del nuovo anno, oggi è “escluso” dai più autorevoli esponenti della maggioranza. Giuseppe Conte non vuole nemmeno provare a mettersi in mezzo ai veti e ai controveti dei partiti, consapevole che sarebbe una partita che si sa come inizia e non come finisce.

Ma soprattutto, ragiona il presidente del Consiglio, significherebbe rimanere ostaggio continuo di Italia Viva, da sempre spina nel fianco dell’esecutivo. L’occasione per sbarazzarsene, insistono, è ora o mai più.

Chi sta lavorando alla nascita dei responsabili, d’altronde, rassicura il premier che la strada che ha deciso di intraprendere sia quella giusta: “Ci sono diversi renziani che non seguiranno il suicidio del loro leader – spiegano – e tanti berlusconiani che non si riconoscono nella destra di Matteo Salvini e Giorgia Meloni: i numeri per l’operazione ci sono, vedrete”.

Non è proprio quello che si potrebbe dedurre dalle dichiarazioni di ieri. A parte la Lonardo, dicevamo, “pronta a raccogliere l’appello” di Conte, il resto della pattuglia centrista prende le distanze dal progetto: “Non siamo utili idioti né servi sciocchi”, dice l’Udc Antonio Saccone. “Il nostro Paese merita altro”, aggiunge Giovanni Toti, mentre Gaetano Quagliariello subito ribattezza il gruppo in “responsabili a nostra insaputa”.

Ma al di là delle dichiarazioni che fanno sempre in tempo a cambiare toni, il tema vero riguarda la stabilità dell’operazione nel suo complesso. Ragiona una fonte Cinque Stelle: “Noi per primi stiamo spingendo per tirare dentro questa pattuglia, ma ci rendiamo conto con chi dovremo trattare poi? Per il governo Conte questo diventa l’inizio della fine”. Il succo è chiaro: il piano di Conte per liberarsi di Renzi rischia di farli ritrovare in casa con un nemico peggiore, perché almeno “con Iv avevi un interlocutore unico, questi sono cani sciolti, per di più con nomi e cognomi indigeribili per noi”.

Nessuno si spreca in previsioni, da qui al 7 gennaio tutto può cambiare. Finora Conte non ha convocato vertici di maggioranza, ma è chiaro che sono tutti mobilitati. E sperano che il premier, in testa, abbia qualcosa in più del replay del discorso al Senato dell’estate scorsa, quando sfidò (e vinse) Matteo Salvini: “Quella volta – riflettono ancora nel Movimento – fu una tecnica che spiazzò l’avversario, che tra l’altro era di tutt’altra pasta politica: stavolta il nemico conosce lo schema, difficile che non abbia pronta qualche pallottola da sparare”.

Una, gliela offriva già ieri sera la berlusconiana Micaela Biancofiore: “La mossa del cavallo di Renzi, questa volta non può che essere l’offrire la guida dell’esecutivo al centrodestra diventando perno dell’espansione di un’ampia area liberal-democratica di stabilizzazione che può, o forse deve, arrivare a comprendere l’ala dimaiana dei 5 stelle”. Se non c’è Conte, c’è posto per tutti.

“Qui nell’82 esplose la prima autobomba contro un giudice”

Aveva visto e scritto vent’anni fa quello che la politica e l’informazione locale non volevano vedere. Roberto Mancini, dopo due decenni di ostracismo ed emarginazione, ora ha avuto il riconoscimento di essere chiamato come esperto in audizione dalla Commissione parlamentare antimafia. La considera, finalmente, “una medaglia professionale”.

Che cosa è andato a raccontare?

Il 14 ottobre 2020 sono stato sentito dall’Antimafia in seduta plenaria, sulla criminalità organizzata in Valle d’Aosta. Ho presentato una relazione che inizia dagli anni Settanta. Ho ricordato, per esempio, che qui è esplosa la prima autobomba contro un magistrato: era il 1982, un anno prima dell’attentato in Sicilia a Rocco Chinnici, quando ad Aosta si salvò per miracolo il pretore Giovanni Selis, che indagava sul casinò di Saint Vincent.

Nella sua relazione lei fa un lungo elenco di ‘cold cases’, di casi irrisolti.

Da decenni, qui ci sono morti e attentati senza spiegazione e senza giustizia. Il negazionismo fino a oggi è stato fortissimo: per la politica dominata dall’Union Valdôtaine e per l’informazione locale (controllata dalla politica) questa è la valle di Heidi, dove la mafia non esiste.

Ora invece le sentenze le danno ragione.

La presenza della ’ndrangheta in Valle è stata sancita negli ultimi mesi da due sentenze, quella dell’inchiesta ‘Geenna’ della Procura di Torino e quella del processo ‘Altanum’ di Reggio Calabria. Dicono che sono addirittura due le cosche calabresi insediate in Valle.

Lei aveva già scritto tutto.

Ho scritto 15 puntate di ‘Storia della ’ndrangheta in Valle D’Aosta’, pubblicate a partire dal maggio 2014 su Nuova Società, la rivista di Diego Novelli. Proprio ora, curiosamente, sono state tolte dal sito della rivista.

La sua è una storia professionale complessa.

Ho fatto l’operaio metalmeccanico alla Cogne per 30 anni. Poi ho fatto il giornalista. All’inizio il giornalista sportivo: ho seguito, per il Manifesto, anche i campionati mondiali di rugby del 1995 in Sudafrica. Sono un rugbista e sto scrivendo la storia del rugby valdostano. Poi mi sono occupato di politica e ho collaborato con Nuova Società. Per un anno ho fatto perfino il commentatore politico dall’Italia per The Guardian online.

Sempre guardato con sospetto dai colleghi e sempre molto critico verso il potere politico valdostano.

Ho raccontato la corruzione e la mafia, nell’ostracismo generale. Ora vorrei che fosse superata l’anomalia istituzionale che affligge la Valle d’Aosta: il presidente della Regione, per effetto dello statuto d’autonomia del 1946, è anche prefetto. Il controllato è anche il controllore, ha di fatto autorità sulle forze di polizia. Oggi ben tre presidenti-prefetti sono indagati per mafia. È ora di farla finita con questa anomalia.

Valle d’Aosta: da valle incantata a terra di ’ndrangheta e malaffare

Si racconta ai visitatori come una valle incantata, tutta turismo, pascoli, vacanze e autonomia. È la Valle d’Aosta, lo scenario montano dove t’immagini d’incontrare Heidi, sebbene in versione patois, un po’ francese e un po’ provenzale. La realtà è però più cruda: una corruzione politica pervasiva s’incrocia con una presenza mafiosa consolidata. Un tempo il re della valle era Augusto Rollandin, assessore dal 1978, poi presidente della Regione (1984-1990 e 2008-2017), nonché padre-padrone del partito-Stato, anzi, partito-Regione: l’Union Valdôtaine. Ormai il maestro è stato superato dai discepoli: ben tre dei suoi successori alla guida della Regione, Antonio Fosson, Laurent Viérin, Renzo Testolin, sono oggi indagati per reati che hanno a che fare con la mafia. Tutti e tre vengono dall’Union Valdôtaine, a tutti e tre i magistrati contestano rapporti con le cosche: o il concorso esterno in associazione mafiosa o lo scambio elettorale politico-mafioso. In loro compagnia sono indagati anche un paio d’assessori regionali, Luca Bianchi e Stefano Borrello.

Dopo le sentenze dell’operazione “Geenna” del 17 luglio 2020 a Torino (rito abbreviato) e del 16 settembre ad Aosta (rito ordinario), nessuno può più dire che in Valle la ’ndrangheta non esiste, vista la raffica di condanne per associazione mafiosa. Anzi. Un’altra sentenza, quella del dicembre 2020 al processo “Altanum” di Reggio Calabria, sancisce che in Valle non solo era insediata la cosca Nirta-Scalzone, con radici a San Luca (Reggio Calabria), ma operava anche quella dei Facchineri. Due famiglie calabresi si confrontano e si sfidano sul territorio valdostano.

La storia va raccontata almeno dal 30 gennaio 2017, quando viene arrestato nientemeno che il primo magistrato della Valle: Pasquale Longarini, facente funzioni di procuratore ad Aosta. È accusato di aver sponsorizzato presso un albergatore, suo indagato per reati fiscali, i prodotti di un amico imprenditore, Gerardo Cuomo, massone, titolare del Caseificio Valdostano. Ma Longarini è sospettato anche di aver avvertito Cuomo di essere intercettato dalla polizia giudiziaria.

Brutto affare, perché l’imprenditore risultava in contatto con un pezzo da novanta calabrese, pluripregiudicato e indagato per narcotraffico: Giuseppe Nirta. Sarà ucciso in Spagna il 10 Giugno 2017. Suo fratello, Bruno Nirta, detto “la Belva”, è il responsabile della “locale” di Aosta. Longarini nell’aprile 2019 sarà prosciolto per le sue cattive frequentazioni, ma nel luglio 2020 sarà condannato invece, per mafia, Bruno Nirta. Non da solo: la “Belva” è condannato in primo grado in compagnia dei suoi compari, ma anche di alcuni insospettabili: Nicola Prettico, ex consigliere comunale dell’Union Valdôtaine al Comune di Aosta incassa 11 anni di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, come Alessandro Giachino, croupier del casinò di Saint Vincent.

Dieci anni invece, per concorso esterno, a Marco Sorbara, consigliere regionale ed ex assessore dell’Union Valdôtaine al Comune di Aosta. Stessa pena anche per Monica Carcea, assessore dell’Union Valdôtaine al Comune di Saint-Pierre, sciolto per infiltrazioni mafiose.

Mafia e politica alla valdostana. È ancora in corso l’indagine “Egomnia”, che contesta il reato di scambio elettorale politico-mafioso: indagati un ex presidente di Regione, Antonio Fosson, e tre ex assessori regionali, Stefano Borrello, Luca Bianchi e Laurent Viérin.

Intanto è sotto indagine, e a un soffio dal fallimento, il casinò di Saint Vincent, un tempo macchina da soldi e consenso della politica locale. Oggi è in concordato preventivo, dopo che erano arrivate la Guardia di finanza, la Corte dei conti e la Procura della Repubblica a mettere il naso nei bilanci in rosso. Sotto inchiesta contabile sono finiti 21 tra consiglieri e assessori regionali della Valle d’Aosta, tra cui l’immancabile Rollandin, accusati di aver buttato negli ultimi anni 140 milioni nel casinò, senza riuscire a salvarlo. La Procura ha addirittura contestato la truffa aggravata, tra gli altri, a Ego Perron, ex assessore ed ex presidente del Consiglio regionale, e agli amministratori della casa da gioco, accusati anche di falso in bilancio.

Il procedimento contabile, dopo le condanne in primo grado, aspetta la sentenza d’appello. Il processo penale, dopo le assoluzioni in primo grado ad Aosta, aspetta l’appello a Torino. E la Valle d’Aosta, massacrata anche dal Covid, aspetta tempi migliori.

Per lavorare 6 mesi al Mibact devi avere 10 anni di esperienza e un dottorato…

Tra i ministeri più colpiti dal blocco indiscriminato dei concorsi pubblici c’è quello dei Beni Culturali: già carente per migliaia di unità, dati i pensionamenti, vedrà il proprio organico scendere a 9.400 persone (su 19 mila previste) entro il 2021. La risposta ministeriale era arrivata con il decreto Agosto, nel quale erano stati stanziati 4 milioni di euro per il 2020 e 16 milioni di euro per il 2021 per attivare collaborazioni a chiamata diretta con le Soprintendenze. Non un piano di assunzioni dunque, ma un sistematico ricorso a incarichi a tempo. Il 29 dicembre è stato pubblicato l’avviso di selezione per questi incarichi, per archeologi, storici dell’arte, architetti: per una collaborazione a partita Iva di sei mesi si richiedono 15 anni di esperienza pregressa (10 se si è in possesso di dottorato) o in alternativa essere professori universitari. Criteri imposti a tutte le Soprintendenze, che lasciano perplessi gli addetti ai lavori.

“Con questo bando si cercano, di fatto, funzionari a partita Iva. I nostri uffici sono carenti nel ruolo degli amministrativi, e il bando non ne prevede nessuno – spiega una funzionaria che, per i regolamenti interni al ministero, dovrà rimanere anonima – non si conoscono i posti disponibili in ogni sede e la selezione è svolta dalla direzione generale, senza garanzie sulla discrezionalità della commissione nella scelta dei candidati”. Per Fulvio Cervini, docente universitario a Firenze e presidente uscente della Consulta universitaria per la Storia dell’arte, “il bando è opaco e ambiguo. Perché un docente universitario, solo in quanto tale, ha gli stessi requisiti di chi ha un decennio di esperienza sul campo? E che affidabilità può dare un consulente temporaneo in posizioni chiave come quello del responsabile unico del procedimento, con oneri che durano spesso anni?”. Il rischio è di avere un peggior controllo sull’esecuzione dei lavori: “È difficile trovare un senso a questo bando. Il dubbio è che possa servire come anticamera per la stabilizzazione di una manciata di collaboratori storici”.

Anche il compenso, 32 mila euro lordi Iva inclusa per un anno, a fatica può essere commisurato alla notevole esperienza richiesta. “Invece di utilizzare le collaborazioni di sei mesi per permettere a tanti di avere un reddito e inserire nuove forze nei ministeri, si impongono criteri per ridurre in modo drastico la platea dei possibili collaboratori – spiega Flavio D. Utzeri, archeologo e attivista di Mi Riconosci – così si tagliano fuori generazioni di professionisti del settore”.

Agitu in Etiopia. Raccolta fondi per il suo gregge

Un fratello ed una sorella di Agitu Gudeta sono in Italia per riportare la salma della 42enne imprenditrice agricola, uccisa a martellate da un suo collaboratore, a casa, in Etiopia, dove verrà sepolta.

Adams Suleiman, il 32enne ghanese che si occupava di accudire gli animali nella stalla della Valle dei Mocheni reo confesso per l’omicidio, si è avvalso della facoltà di non rispondere ai magistrati: il giudice ha confermato la custodia cautelare in carcere. È “disperato”, spiega il suo legale, per avere ucciso una persona che gli era stata così tanto vicina, lo aveva accolto nella sua casa e gli aveva dato un lavoro. Prosegue nel frattempo la raccolta fondi per Agitu promossa su gofundme, che ha già superato i 20 mila euro previsti come obiettivo e viaggia sopra i 20 mila: “Il suo gregge di capre non deve essere smantellato, le terre che lei aveva affittato non devono tornare ad essere abbandonate. La sua sapienza nell’arte casearia deve trovare nuovi eredi”.

No Tav, una terza attivista in carcere per i fatti del 2012

Un’altra militante del movimento No Tav, Fabiola De Costanzo, è finita in carcere per una pena definitiva. Il 31 dicembre la donna, 50 anni, è stata portata al “Lorusso e Cutugno” di Torino. Il giorno prima il magistrato di sorveglianza aveva disposto il suo arresto per via di una recente sentenza definitiva che si è sommata ad altre condanne per un totale di circa tre anni di reclusione da scontare. Secondo quanto riferito dai siti No Tav, l’ultima sentenza riguarda la partecipazione alla manifestazione “Oggi paga Monti”.

Si tratta di un blocco al casello autostradale di Avigliana del 3 marzo 2012, un episodio all’origine della condanna e della detenzione di Nicoletta Dosio, volto tra i più noti del movimento, e della portavoce Dana Lauriola, quest’ultima tuttora in cella. De Costanzo è stata condannata in via definitiva anche per i danneggiamenti del 17 luglio 2011 ai “betafence” posti a difesa della centrale idroelettrica di Chiomonte, dove nell’estate 2011 è sorto il cantiere della Torino-Lione.

Imane Fadil, il caso non è chiuso: Gip ordina nuove indagini sulle cure ricevute a Rozzano

Il giudice non chiude il caso della morte di Imane Fadil. Ordina invece nuove indagini, per stabilire se la ragazza sia stata curata in modo appropriato, durante il suo ricovero all’ospedale Humanitas di Rozzano, alle porte di Milano. Imane era una delle testimoni chiave del processo Ruby 3, dove Silvio Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari. Aveva rotto il fronte delle ospiti alle feste di Arcore dell’estate 2010, testimoniando contro l’ex presidente del Consiglio e raccontando il “bunga-bunga” di quelle serate.

Il 1 marzo 2019 era morta all’Humanitas, dopo un ricovero improvviso e cure che non erano riuscite a salvarla. Prima di morire, aveva manifestato ad amici e medici il sospetto di essere stata avvelenata. Le lunghe e complesse indagini della Procura di Milano, affiancata da un collegio di periti medici e tossicologici, hanno escluso che la morte sia avvenuta per avvelenamento o per contaminazione da sostanze radioattive, come si era temuto in una prima fase, concludendo che il decesso è stato causato invece da una malattia rara, l’aplasia midollare.

I pm della Procura avevano chiesto al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione del caso. Ma il 31 dicembre 2020 il gip Alessandra Cecchelli ha respinto la richiesta e ordinato nuove indagini, sull’eventuale “colpa medica”, concedendo sei mesi per una nuova perizia tecnica sulla morte di Imane e sui comportamenti dei sanitari che l’hanno avuta in cura. Ha accolto così la richiesta dei legali della famiglia della giovane, Mirko Mazzali e Nicola Quatrano.

Dovrà ora essere accertato se i medici dell’Humanitas hanno responsabilità per il ritardo con cui sono arrivati alla diagnosi corretta (aplasia midollare) e se hanno sbagliato cura, eseguendo un “plasma exchange” invece che terapie immunosoppressive e trapianto di midollo, che avrebbero forse potuto salvare la ragazza.

La gip “ritiene che le conclusioni raggiunte dal pm non paiano sufficienti per accogliere allo stato la richiesta d’archiviazione”: “si ritengono, dunque, necessarie ulteriori indagini” per appurare, come chiesto dagli avvocati Quatrano e Mazzali, “se fosse possibile un accertamento più tempestivo della diagnosi della malattia” e se questa maggiore “tempestività potesse evitare il decesso, apprestando le cure del caso”.