Aiello, l’ex avvocato del Carroccio e quel fido milionario da Sparkasse

La Banca Sparkasse di Bolzano ha concesso un fido da un milione di euro all’ex avvocato della Lega Domenico Aiello, mentre quest’ultimo presiedeva l’organismo di vigilanza della banca stessa. Un mutuo fondiario ventennale per l’acquisto di “un immobile a La Villa (località montana della Valbadia, sulle Dolomiti, ndr)”, “con un piano di ammortamento” che prevedeva “il rimborso solo a scadenza della metà dell’importo erogato”. A scriverlo è il perito della Procura di Bolzano Maurizio Silvi, alto funzionario della Banca d’Italia, incaricato dai pm di rilevare anomalie nella gestione della cassa di risparmio altoatesina. L’esperto fa notare che la pratica non è stata indicata come erogazione a “soggetto collegato”, dunque con potenziali conflitti d’interesse, “nonostante Aiello ricoprisse il ruolo di capo dell’Organismo di vigilanza”, e nonostante fino a pochi mesi prima fosse stato “socio dello studio legale di Gerhard Brandstätter, presidente di Sparkasse”. Più nel dettaglio, quest’ultimo ha lasciato la società con Aiello nel marzo del 2014, mentre la pratica del mutuo concesso al suo ex socio è stata avviata a novembre e conclusa a dicembre dello stesso anno.

Il passaggio fa parte delle informazioni che la Procura altoatesina ha scambiato con i colleghi di Genova, impegnati a cercare le tracce dei 49 milioni di euro spariti dalle casse del partito. La cifra, come noto, è il provento della maxi-truffa operata durante la gestione dell’ex tesoriere Francesco Belsito. Quando, infatti, la Guardia di Finanza si presenta per acquisire le somme nei depositi del Carroccio trova solo pochi spiccioli. Secondo gli investigatori, coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Pinto, parte del tesoro leghista potrebbe essere stato convogliato in un investimento da 10 milioni di euro, partito da un conto deposito Sparkasse, e destinato ad alcune società in Lussemburgo. Da qui, nel 2018, in prossimità delle elezioni politiche, 3 milioni di euro sarebbero rientrati in Italia. Una concomitanza temporale che ha portato uno degli operatori coinvolti a segnalare il movimento come sospetto all’ufficio antiriciclaggio di Bankitalia. La Lega, nel 2013, aveva depositato in Sparkasse una decina di milioni di euro, un conto esaurito in pochi mesi: anche questa è un’ulteriore coincidenza che ha acceso i riflettori sull’operazione. L’ipotesi degli inquirenti è di riciclaggio. Quell’investimento, replica l’istituto di credito, “è stato effettuato con fondi propri della banca e non ha nulla a che vedere con la Lega”.

A Genova sono state trasmesse anche alcune intercettazioni di Bolzano, riguardanti alcuni ex manager Sparkasse, Sergio Lovecchio e Dario Bogni. Quest’ultimo ha avuto un ruolo diretto nell’operazione finanziaria nel Granducato. È il 18 settembre 2018, sono in corso alcune perquisizioni in Lussemburgo legate proprio all’investimento da 10 milioni e i due commentano con preoccupazione le indagini liguri: “Il problema – dice Bogni – è questo… è uno… il collegamento… il collegamento è questo Brandstätter”. Il riferimento ancora una volta è al sodalizio professionale del presidente della banca con l’ex socio Aiello. Tra il 2012 e il 2014, proprio quando la Lega apriva il conto corrente presso Sparkasse, lo studio legale Aiello-Brandstätter era stato incaricato della difesa del partito dall’allora segretario federale Roberto Maroni. Il nome di Aiello era emerso in un’altra indagine, condotta dalla Procura di Reggio Calabria, i cui atti, anche in questo caso, sono confluiti nel fascicolo di Genova. In quelle intercettazioni, è il 2013, Aiello sembra fare riferimento, per la prima volta, a un “trust” per mettere al riparo le finanze della Lega da “azioni esecutive”.

Sulla vicenda Banca Sparkasse comunica: “Il mutuo è stato concesso e, come accade in questi casi, è stato scrupolosamente seguito l’iter previsto dalla normativa sulle parti correlate. Come specifica tale normativa, il mutuo è stato concesso alle condizioni di mercato allora vigenti”. Aiello, contattato dal Fatto, ha preferito non specificare le condizioni: “Queste notizie ledono la mia privacy, per il resto non me ne importa niente della Lega né di altre circostanze delle finanze investite all’estero dal partito”.

Bergamo, ucciso davanti casa ex capo provinciale della Lega

Il corpo senza vita nel cortile, con il cranio sfondato. E l’abitazione a soqquadro. Sono i due elementi certi dai quali gli inquirenti stanno tentando di ricostruire l’omicidio di Franco Colleoni, 68 anni, leghista della prima ora. È stato ucciso ieri all’esterno della corte dove viveva e lavorava, a Dalmine, nella Bergamasca. Casa-bottega tra l’abitazione e il ristorante, “Il Carroccio”, in nome della storica militanza padana, aperto 20 anni fa e gestito insieme ai figli. L’attività era chiusa come da dpcm di Natale e per questo chi indaga ritiene poco credibile l’ipotesi di una rapina degenerata. “Indagine a 360 gradi. Valutiamo tutto, dalla situazione economica, sentimentale, ai rapporti di lavoro ed extra”, dice il procuratore capo di Bergamo, Antonio Chiappani, fuori sede ma in stretto contatto con il sostituto procuratore Fabrizio Gaverini, titolare dell’inchiesta. Sono stati sentiti i familiari di Colleoni, dalla ex moglie ai figli che abitano nella stessa corte teatro dell’omicidio. I carabinieri hanno messo sotto sequestro l’intero stabile e repertato tutti i possibili oggetti usati per colpire in testa Colleoni, sorpreso alle spalle. Non si esclude l’ipotesi che chi lo ha ucciso, entrando dal retro della corte, cercasse qualcosa di preciso in casa e sapesse bene chi era il proprietario.

Iscritto alla Lega Nord nel 1990, grande amico di Umberto Bossi, Colleoni era un autonomista padano. Prima segretario della sezione di Dalmine, poi assessore provinciale all’Agricoltura a Bergamo, infine segretario provinciale del Carroccio e membro del consiglio federale, da oltre 10 anni non faceva più parte del movimento. Ne era uscito prima della caduta del Senatùr, dello scandalo dei diamanti e della laurea in Albania del Trota, ma non ha mai spiegato pienamente le ragioni del suo addio.

“L’ho sentito l’ultima volta nell’autunno scorso”, dice al Fatto Giacomo Stucchi, bergamasco come Colleoni, storico parlamentare leghista e già presidente del Copasir. Nel 2013, quando alla guida del Carroccio c’era già Roberto Maroni, in un’intervista in cui annunciava di aver votato per il Movimento 5 Stelle Colleoni disse: “Sono stato organico ad un movimento, ho conosciuto molti fatti, alcuni gravi ma che non posso dimostrare. Non mi sento tradito dagli ideali, ma dagli uomini”. L’identità dei traditori, però, non l’ha mai rivelata. “Non condivideva più le scelte del consiglio federale”, dice Stucchi, “aveva mantenuto il suo ideale autonomista, ma non faceva l’anti-leghista di professione”.

La sua immagine era stata sporcata nel 2008 da una condanna per violenza sessuale. Due anni con la condizionale per aver palpeggiato con violenza una militante leghista. Da quella storia Colleoni era uscito pulito, assicura Stucchi: “Assolto in appello, per quanto ricordo”. L’omicidio? “Escluderei il movente economico: con me non ha mai parlato di problemi finanziari. Come tutti deve aver subito le conseguenze del Covid, ma il ristorante era ben avviato e l’immobile era di sua proprietà”.

Sci, rinvio al 18. “Ma dipende dai dati”

Chi spera di tornare presto sulle piste da sci, anzi muore dalla voglia vedendole coperte di neve, potrebbe rimanere deluso. Perché è vero che il ministro Roberto Speranza ha firmato ieri l’ordinanza che fa slittare la riapertura degli impianti al pubblico dal 7 al 18 gennaio, ma dal ministero della Salute avvertono che “tutto dipenderà dai dati”: contagi, decessi, pazienti in terapia intensiva. Insomma, la data è quella sollecitata dalle Regioni, ma “da qui al 18 gennaio non sappiamo cosa potrà accadere – spiegano fonti qualificate –, ci auguriamo che tutto vada bene ma i dati, purtroppo, non sono così incoraggianti”. L’ultimo report del ministero e dell’Istituto superiore ha segnalato che per la terza settimana consecutiva il tasso di riproduzione del virus è aumentato, è ormai a 0,93 a un passo dal valore-soglia di 1 che indica un’epidemia in crescita, peraltro superato in diverse regioni a partire dal Veneto dove non mancano i comprensori sciistici. Ma quella rilevazione, spiegano gli esperti tenendo conto del tempo che passa tra emergenza dei sintomi e tamponi, si riferisce a contagi avvenuti nella prima metà di dicembre. “Bisogna aspettare qualche giorno per vedere cosa è successo durante le feste”. E poi naturalmente ci sarà il consueto confronto nel governo tra “rigoristi” e “aperturisti”.

La questione degli impianti sciistici, ora riservati ai residenti e agli atleti di interessi nazionale, sarà a breve all’esame del Comitato tecnico scientifico, che aveva bocciato le linee guida promosse dalle Regioni. Le avevano elaborate in base alle indicazioni di un settore che nel complesso vale fino a 12 miliardi di Pil in tempi normali e occupa circa 400 mila persone compreso l’indotto, dal quale dipende l’economia di aree importanti del Paese. Secondo il Cts l’affollamento di certi impianti, dei rifugi e dei punti di ristoro non è diverso da quello dei mezzi pubblici di trasporto, per i quali è stato raccomandato di non superare la capienza del 50 per cento. Per questo si richiedevano limitazioni più stringenti per l’accesso a funivie e seggiovie. Le immagini degli assembramenti sulle piste svizzere non avevano favorito il settore. A giorni lo stesso Cts dovrà riunirsi di nuovo per valutare le ulteriori iniziative richieste alle Regioni per la riapertura fissata per il 18 gennaio. Servirebbe a recuperare almeno in parte la stagione, che finisce ad aprile e già lo scorso anno ha subito perdite per effetto del lockdown disposto dall’11 marzo.

Per il momento le Regioni incassano: “Il Governo ha finalmente ascoltato le Regioni e le Province autonome: siamo soddisfatti della decisione del Ministro Speranza”, scrivono in un comunicato congiunto l’assessore allo Sport e giovani della Regione Lombardia Martina Cambiaghi e gli assessori con delega allo sci delle Regioni e Province autonome dell’arco alpino e dell’Abruzzo. “Oltre all’approvazione del protocollo – per cui aspettiamo la definitiva validazione del Cts – avevamo chiesto una data certa per permettere all’intero mondo della montagna invernale di prepararsi a dovere. Ora si può finalmente ripartire in sicurezza”. Speriamo bene.

Scuola, le Regioni e il solito Ricciardi: “Non riaprite il 7”

A quattro giorni dalla riapertura delle scuole, prevedere come e se si tornerà in aula è piuttosto azzardato. Nelle intenzioni del governo – confermate qualche giorno fa dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte – dal 7 gennaio anche le secondarie sarebbero dovute rientrare in classe almeno per il 50 per cento degli studenti.

I numeri dei contagi però preoccupano, tanto che diverse Regioni – dal Lazio al Veneto – hanno già annunciato che difficilmente potranno prevedere un rientro in sicurezza dopo l’Epifania. Dubbi che trovano più di una sponda anche nel governo, come testimoniato dalle parole del professor Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute Roberto Speranza: “Occorre grande prudenza. Siamo nella fase più delicata della pandemia. Il problema non sono le lezioni in aula ma tutto ciò che sposta la scuola, tutto ciò che le gira intorno. Pensare di ripartire alle superiori quando registriamo più di 20mila casi al giorno non ha senso”.

Ricciardi consiglia di congelare le riaperture “almeno fino a metà gennaio”, dunque a quando si potranno vedere i primi effetti delle feste di Natale sulla curva dei contagi. Prima, meglio non rischiare.

Allo stesso modo, diverse Regioni stanno chiedendo interventi restrittivi. Un appello deciso arriva dal Lazio di Nicola Zingaretti, di solito molto attento a non agitare i rapporti già complicati tra enti locali e governo. In questo caso però l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato si espone: “Con questi dati in crescita – dice al Messaggero – faccio un appello a riflettere bene sulla riapertura delle superiori. Devono restare chiuse in tutta Italia. Sarebbe estremamente imprudente in questa fase dell’epidemia riaprire”.

Non è da escludere che, in mancanza di provvedimenti dall’alto, qualche Regione non si metta in proprio come già fatto in autunno – per esempio – dalla Campania.

Oggi il presidente della Puglia Michele Emiliano incontrerà insieme ai suoi assessori i sindacati del comparto scuola, con l’obiettivo di discutere una nuova ordinanza proprio sulle riaperture del 7 gennaio. Emiliano intende come minimo lasciare agli studenti di ogni ordine e grado la possibilità di scelta tra didattica in presenza e a distanza. In Piemonte la Regione guidata da Alberto Cirio e la prefettura hanno invece dato il via libera al rientro anche fino al 75 per cento degli studenti, purché però ingressi e uscite siano scaglionati nell’arco di due ore ciascuno.

Si vedrà. Certo è che il tema scuola per una volta mette d’accordo Matteo Salvini e il presidente del Veneto Luca Zaia. Il leader della Lega non perde occasione per criticare la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina (“Cos’ha fatto per mettere in sicurezza le aule? A queste condizioni non manderei a scuola i miei figli”), mentre il governatore non nasconde la preoccupazione per una riapertura che potrebbe peggiorare dati regionali già da maglia nera: “Ho molte perplessità, ormai è assodato che le curve dei contagi siano collegate ovunque alla ripresa della scuola. Se i ragazzi si contagiano, la letteratura dice che sono in molti casi asintomatici e con cariche virali alte. Un’aula scolastica rischia di essere il terreno di coltura per il virus che poi si propaga sui bus e fuori dall’istituto”. D’altra parte sui trasporti poco si è risolto negli sbandierati tavoli tra prefetture, enti locali e ministra Paola De Micheli. Motivo per cui i timori condivisi da Nord a Sud ora spingono Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia-Romagna ma soprattutto presidente della Conferenza delle Regioni, a chiedere un confronto urgente con l’esecutivo: “Sarebbe giusto che il governo ci ri-convocasse nelle prossime ore e insieme prendessimo una decisione molto laica sulla scuola. Capisco la posizione dei miei colleghi: se c’è la preoccupazione diffusa che la riapertura possa comportare un rischio, allora è bene che se ne discuta”.

Antinfluenzale: la metà di chi è a rischio è senza

Imedici avevano iniziato a lanciare l’allarme dalla fine dell’estate scorsa, chiedendo alle Regioni di prepararsi per tempo a una campagna di vaccinazione antinfluenzale, per evitare l’innestarsi di una crisi nella crisi. Un appello inascoltato, almeno in parte.

Secondo le stime della Fnomceo, la Federazione degli Ordini dei medici, solo il 50% delle fasce della popolazione a rischio ha potuto vaccinarsi. Vale a dire uno su due tra gli over 60, tra i bambini dai sei mesi ai sei anni e tra le persone con patologie croniche, categorie indicate dal ministero della Salute. “In pratica un dato in linea con quello degli anni precedenti”, dice il presidente di Fnomceo, Filippo Anelli. Con la differenza che prima non incombeva l’incubo della pandemia di Covid-19, con sintomi sovrapponibili a quelli di una influenza. Ed è per questo che su quello che potrà accadere nelle prossime settimane pende una pesante incognita. “Le ondate influenzali generalmente cominciano a manifestarsi dopo dieci-quindici giorni dalle festività natalizie – spiega Anelli –. Possiamo solo sperare che le misure restrittive adottate per contrastare l’epidemia ci proteggano dalla diffusione dell’influenza di stagione. In caso contrario, avremo un effetto sommatorio dell’emergenza, perché anche in tempi normali le complicanze influenzali determinano una forte pressione sugli ospedali: potrebbe aprirsi uno scenario da roulette russa.

Cosa che è sempre stata una delle principali preoccupazioni di noi medici”. Paradossale, viste anche le linee guida del ministero sulla necessità di vaccinare tutte le persone più fragili e di assicurare una copertura anche alla cosiddetta popolazione attiva. Le competenze, per la determinazione dei fabbisogni dei vaccini influenzali e per l’approvvigionamento attraverso gare pubbliche, spettano alle Regioni. E molte si sono mosse in ritardo. I vaccini non sono arrivati nemmeno alle farmacie, se non, in alcune aree, in quantitativi comunque insufficienti a garantire la copertura della domanda proveniente dai soggetti non a rischio.

Non sono arrivate in Abruzzo, in Basilicata, nella provincia di Bolzano. In Calabria sono state distribuite solo 8mila dosi, in Campania 12 per ogni singola farmacia. Niente nel Trentino, nonostante la promessa di 3.900 dosi. In Emilia-Romagna ne sono state fornite 36mila, in Liguria 10mila. Solo la Regione Lazio è riuscita a garantire un quantitativo sufficiente (100mila dosi) mentre in Veneto e in Friuli Venezia Giulia i farmacisti, di fronte allo stallo, hanno rinunciato alla fornitura a favore delle persone a rischio. Come si è arrivati a questo punto? I preordini dei vaccini influenzali di norma vengono fatti in febbraio. L’anno scorso, in giugno, al momento della conferma ecco la scoperta: tutta la produzione interna era stata assorbita dalle Regioni. È stato lo stesso ministro Roberto Speranza, per garantire una risposta alla popolazione attiva, a chiedere alle Regioni di girare una quota di quanto ordinato (l’1,5%) alle farmacie: qualcuna lo ha fatto, qualcuna no.

Il fatto è che, in base alle normative dell’Aifa, l’Agenzia nazionale del farmaco, le farmacie non possono approvvigionarsi all’estero, a differenza di cliniche e ambulatori privati. Con il risultato che molte strutture private hanno offerto un servizio di vaccinazione a pagamento: fino a 80 euro, contro una cifra che oscilla tra i 9,5 e i 12 euro in farmacia. “Ed è così – dice Roberto Tobia, segretario generale di Federfarma, federazione dei farmacisti –, che si sono create le condizioni di una forte disuguaglianza nell’accesso al vaccino”.

I morti scendono, ricoveri in salita. Per le chiusure nuovi parametri

Se vogliamo chiamarla “terza ondata” ci siamo quasi dentro. Lo dicono i morti: ieri 364 (il 1° gennaio 468) per una media di 479,7 al giorno nell’ultima settimana, superiore del 5,6 per cento a quella dei sette giorni precedenti (454,3). Lo confermano i numeri degli ospedali, dove ieri sono aumentati i pazienti nei reparti ordinari (più 126) e nelle terapie intensive (più 16, con 134 nuovi ingressi). Diminuivano dalla fine di novembre, cioè dal picco della seconda ondata, ogni settimana in misura variabile tra il 6 e il 13 per cento, mentre negli ultimi sette giorni sono rimasti stabili: meno 1,5 per cento nei reparti ordinari (ieri erano 22.948, sabato scorso 23.304), meno 0,4 per cento nelle rianimazioni (ieri erano 2.569, sette giorni prima 2.580).

Preoccupa anche l’andamento dei contagi rilevati. Ieri le Regioni ne hanno comunicati 11.831, che sembrano pochi per un Paese che a novembre ha sfiorato i 40 mila e il 1° gennaio ne contava 22 mila, ma il numero dei tamponi è bassissimo, appena 67.174, quindi l’indice di positività è risalito dal 14,1 al 17,61 per cento (eravamo scesi all’8) come a novembre, quando però si facevano oltre 200 mila tamponi ogni 24 ore. Se lo calcoliamo sulle persone testate (30.451), escludendo i tamponi di controllo, arriviamo al 38,85 per cento. In Europa non va meglio: secondo l’Ecdc, il Centro europeo per il controllo delle malattie di Stoccolma, l’Italia ha avuto un’incidenza di 337,95 nuovi casi ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni del 2020, la Germania 379,14, il Regno Unito 720,70, la Francia 277,25 e la Spagna 271,70. Il nostro Paese conta più morti, ma Londra e Berlino li vedono aumentare rapidamente.

La Regione con i dati più preoccupanti è sempre il Veneto e potrebbe dipendere dalla cosiddetta variante inglese. L’ultimo report settimanale ha confermato che il tasso di riproduzione del virus Rt al 21 dicembre era sopra 1 (1,07) e l’incidenza al triplo della media nazionale. In Italia Rt cresce lentamente da tre settimane (l’ultima rilevazione è 0,93) e secondo gli esperti significa che i casi aumenteranno. Altre due regioni sono già leggermente sopra 1, Liguria e Calabria, mentre Lombardia, Puglia e Basilicata sono appena sotto.

Al ministero della Salute sono preoccupati. La prossima settimana, se il nuovo monitoraggio confermerà queste tendenze, il ministro Roberto Speranza potrebbe disporre nuove zone arancioni, difficilmente rosse. Intanto i tecnici del ministero e dell’Istituto superiore di Sanità stanno anche lavorando a qualche aggiustamento dei 21 parametri e delle soglie fissate nel documento di ottobre (“Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale”) per rendere possibili misure restrittive anche quando Rt supera 1 di poco e per periodi brevi, ma con un’alta incidenza di nuovi casi. Sembra un’idea su misura per il Veneto, che è sempre rimasto “giallo”. Ogni modifica dovrà comunque essere condivisa con le Regioni. E la combinazione dei parametri non dovrà spingere le Regioni a fare meno test. Il Veneto, come è noto, ne fa più di altri.

È attesa forse già domani la circolare ministeriale che estenderà per alcuni casi l’impiego dei test rapidi antigenici senza conferma del molecolare, secondo le linee guida dell’Ecdc. Saranno conteggiati anche nei bollettini, con un probabile abbassamento dell’indice di positività visti anche i costi assai contenuti rispetto ai più attendibili tamponi molecolari.

L’ultima di Fontana & Gallera: 80mila dosi, vaccinati in 2.446

Tre dosi su 100. È la percentuale di vaccini somministrati in Lombardia rispetto a quelli consegnati dal produttore. Significa che nella Regione più colpita dal Covid-19 a oggi sono state vaccinate solo 2.446 persone. Una triste minoranza delle 63.263 che ieri risultavano vaccinate in tutta Italia. Un dato che certifica solo l’ultimo fallimento della sanità lombarda.

Se infatti il Trentino ieri aveva somministrato il 34% della sua dote vaccinale, il Lazio il 25,3%, il Friuli il 16,3 % il Veneto il 15,5% e il Piemonte dichiarava il 14,7%, la Regione di Attilio Fontana arrancava con un misero 3%. Certo, c’è chi sta peggio, come il Molise, fermo all’1,7% o la Sardegna, inchiodata all’1,9%, o la Calabria, che a stento ha raggiunto il 2,2%, ma è ben magra consolazione. Soprattutto se si considera che la Lombardia è la Regione che ha ricevuto più dosi del vaccino Pfizer, 80.595 su 469.950.

Per il responsabile della campagna vaccinale lombarda, Giacomo Lucchini, la “colpa” è da ricercare in una concomitanza di cause indipendenti dal Pirellone, come spiegato al Corriere. Dalla consegna a singhiozzo delle dosi, alla coincidenza con le vacanze, il maltempo, nonché il carente rifornimento da parte della Struttura Commissariale di siringhe e diluenti.

Ieri è intervenuto anche l’assessore Gallera, promettendo che domani partirà “la vaccinazione dei sanitari”, e che “si prevede una capacità di somministrazione iniziale fino ad un massimo di 10 mila dosi al giorno, che potrà essere successivamente incrementata fino a 15 mila”. Gallera ha bollato come “pretestuose” le polemiche. L’assessore ha poi ribadito che la regione è in linea con “la programmazione originaria”. Ma non è così: originariamente il piano prevedeva che entro la prima settimana si vaccinasse la maggior parte dei sanitari degli Hub e dalla seconda, quelli delle strutture satellite. Una bella differenza da quanto accaduto. Tanto che solo ieri la Lombardia ha comunicato ufficialmente al commissario Domenico Arcuri che insieme a Molise, Calabria e Sardegna, avrebbe posticipato l’inizio delle vaccinazioni al 4 gennaio (la Sardegna addirittura al 7).

Alcuni dati sono oggettivi: solo 14 ospedali Hub su 65 ricevono i vaccini direttamente dal produttore. Da questi le fiale devono essere “girate” alle altre strutture, dilatando tempi e rischi di interrompere la “catena del freddo”. Le vacanze, poi, si fanno anche nelle altre regioni, quindi la “agenda” non è una giustificazione. Così come la consegna a step è comune a tutte le regioni. Dalla struttura di Arcuri assicurano poi che ogni regione ha ricevuto siringhe e diluenti a sufficienza.

Ma, soprattutto, è un fatto che a ieri in tutta la Lombardia fossero stati vaccinati solo 2.224 sanitari, 180 non sanitari e 12 ospiti delle Rsa.

Il Pirellone, come denunciato dal Fatto, non ha previsto una strategia per la somministrazione dei vaccini valida per tutti, ma ha lasciato a ogni singola struttura la libertà di organizzarsi (la ormai nota strategia del “fate come volete”). Il risultato è che manca una visione organica della situazione, una regia.

Nel Lazio, invece, il piano vaccinale era pronto prima di Natale, con la lista redatta da ciascuna Asl con i nomi degli operatori sanitari e degli ospiti delle Rsa da vaccinare. Sono stati organizzati 20 Hub e la Regione ha preso accordi con Pfizer affinché fosse la casa farmaceutica, con i suoi corrieri, a consegnare le “pizze” presso le strutture dotate di freezer. Le prime 47.970 dosi sono arrivate il 30 e da allora le vaccinazioni non si sono mai fermate. Le prossime consegne sono previste per domani: il 33% delle dosi sarà tenuto per i richiami.

“Il confronto con altre Regioni è disarmante”, scrivono i consiglieri regionali lombardi M5S Marco Degli Angeli e Gregorio Mammì. “Serviva attivarsi per tempo dando linee guida chiare. Invece l’unica cosa che ha fatto la Giunta è stata pubblicare le foto delle passerelle degli assessori al Vax day”. Per il Pd Samuele Astuti invece, “dopo il flop della campagna vaccinale antinfluenzale, la Lombardia è già in ritardo per le vaccinazioni anti Covid. Perché non ci siamo preparati di più e meglio degli altri?”. Già, perché?

I veri “transfughi”

Il primo modo di dire del 2021 è “avere la faccia come la Boschi”. Sempreché la faccia ampiamente rielaborata che domina le 87 interviste rilasciate nell’ultimo mese appartenga davvero alla deputata renziana che nel 2016 annunciò solennemente il ritiro dalla politica in caso di sconfitta al referendum. Ieri, nella speciale staffetta a mezzo stampa, la Boschi – o chi per essa– è toccata a Repubblica. E ha spiegato che “Conte sbaglia strada se spera di salvarsi con i transfughi”. Il che è possibile: non è affatto detto che si trovino abbastanza senatori per rimpiazzare la masnada renziana. Ma ciò che commuove è la definizione di “transfughi” e, soprattutto, il pulpito da cui proviene. Ma perché, la Boschi e tutti gli altri 47 parlamentari di Iv cosa sono, se non transfughi? Sono stati eletti nel Pd dagli elettori che non erano riusciti a mettere in fuga in quattro anni di rottamazione scientifica del partito. Nel 2018 comandavano ancora e respinsero la proposta di Di Maio di governare coi 5Stelle, spingendolo fra le braccia di Salvini e contribuendo a raddoppiare i consensi della Lega. Nell’agosto 2019, temendo le elezioni che li avrebbero spianati, proposero per primi il governo col M5S. E quando Zingaretti pose il veto su Conte premier, dissero sì a Conte premier. Poi, tre mesi dopo, se ne andarono in un nuovo partitucolo per “svuotare il Pd” a cui devono il seggio e per picconare il governo di cui fanno parte. E un anno fa, se non fosse arrivato il Covid, l’avrebbero rovesciato sulla riforma della prescrizione (che avevano promesso essi stessi nel 2015).

Ora ci riprovano e, se qualcuno con la testa sul collo è pronto a sostenere Conte per evitare la follia di una crisi al buio o financo di elezioni anticipate nel bel mezzo della terza ondata Covid, del Recovery plan e delle vaccinazioni, gridano ai “transfughi” mentre vanno in processione a Rebibbia da Verdini, il noto “transfuga” forzista che con altri “transfughi” di Ala&Ncd tenne in piedi per quattro anni il governo R.. Eppure sono stati loro a imporre, con FI e Lega, il mostruoso Rosatellum di impianto proporzionale che impone le alleanze non prima delle elezioni, ma dopo, dunque diversamente dal maggioritario non contempla il concetto di “transfughi”. Ieri, su Twitter, Giovanni Valentini ha lanciato un appello agli elettori Pd: “Se avete votato per un parlamentare passato a Italia Viva, scrivetegli per dirgli o dirle che cosa ne pensate se vota la sfiducia a questo governo”. Gli indirizzi email dei 48 eletti di Iv sono sui siti di Camera e Senato. Chi ha dato il voto al Pd e se lo vede scippare da questi transfughi scriva due paroline a loro e in copia anche a noi. Saremo lieti di pubblicarle sul Fatto.

Viaggio negli “altri” anni Settanta: quando “il manifesto” si legò alla fabbrica

“Come ha scritto Giorgio Agamben, se vuoi davvero capire il futuro devi occuparti di archeologia”, scrive nell’introduzione a questo libro Luciana Castellina. E per molti, moltissimi, la storia delle lotte, del pensiero, della pratica operaia che va dal 1969 lungo gli anni 70 può apparire davvero archeologia. Il linguaggio, le dinamiche politiche e sindacali, le attese di un mondo che non vediamo più. La forza del volume che Castellina, madre putativa di gran parte di quel che resta della sinistra comunista, ha curato insieme a Massimo Serafini, è che riguardare quella storia, attraverso gli articoli pubblicati in varie forme dalla “famiglia” del manifesto, offre squarci di futuro. Il libro si basa sulle “esperienze e documenti del gruppo che ideò il manifesto”, nato come rivista nel giugno del 1969, poi diventato quotidiano nell’aprile del 1971 (fra poco sono 50 anni di vita che ci auguriamo ancora lunga) e che intreccia la sua storia a quella del Pdup, il partito la cui figura di spicco sarà Lucio Magri.

Il notevole materiale di archivio consente di raccontare l’onda operaia del 1969 che continua nel 1972 e arriva almeno fino al 1979. Ci sono chicche straordinarie come la cronaca di Valentino Parlato su Enrico Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980, documenti più pensati come il rapporto sulla Fiat della stessa Castellina, ma anche i racconti e le storie operaie, quelle dei collettivi, come l’esperienza dei Consigli di fabbrica che incrocia il sindacato. Si legge dello “sbocco politico” di quelle lotte negli articoli di Lucio Magri oppure la cronaca dei metalmeccanici a Roma nel 1977 a cura di Rossana Rossanda. Un pezzo di passato che vuole interrogarsi su come si può innescare “il salto politico” delle lotte e ricordare, soprattutto, che gli anni 70 non sono gli “anni di piombo” che piace a molti tratteggiare, ma un decennio di protagonismo dal basso che ha cambiato la politica.

La fabbrica del Manifesto – Luciana Castellina e Massimo Serafini, Pagine: 232, Prezzo: 15,40, Editore: Manifesto libri

Torna la casalinga disperata dell’horror

Di ammettere che aveva tre anni più del marito non le andò mai, diceva di esserne coetanea. Un piccolo, significativo, vezzo. Classe 1916, di San Francisco, Shirley Jackson crebbe a pane e occultismo in una famiglia cristiana scientista e non smise mai d’interessarsi a magia, stregoneria, soprannaturale, pur essendosi dichiarata atea.

Oppressa da una madre giudicante, invadente, anaffettiva che la definiva “aborto umano” e ripeteva “dobbiamo essere quello che gli altri si aspettano”, non ebbe maggior fortuna come moglie. Il marito, il critico letterario e docente universitario Stanley Hyman, la tradiva con giovani studentesse e, pur stimandone la penna, si aspettava restasse un passo indietro. È con lui che si trasferì a Bennington, paesino nel Vermont, appena ventenne. In una casa di diciotto stanze, senza domestica, con quattro figli, due alani, tanti gatti e vicini che la ritenevano stramba, Shirley non incarnò mai il ruolo di casalinga perfetta. Lottò per tener viva l’immaginazione (ai suoi utensili da cucina attribuiva emozioni) e coltivò hobby: pittura, lettura dei tarocchi, letteratura anglosassone, testi di magia nera. E la scrittura, cui si dedicava tutti i giorni col timore costante di essere interrotta.

“Trovo molto difficile distinguere tra vita e finzione” confessò, “mentre rifaccio i letti e lavo i piatti e vado in paese a cercare le scarpette da ballo mi racconto delle storie. Storie su qualunque cosa. Semplici storie”. Storie che poi metteva nero su bianco, tra una passata di aspirapolvere e l’altra. Amatissima da Stephen King, che la considera una maestra, fuggiva dalla routine, fedele amica la macchina da scrivere Royal, per scavare nei recessi più bui dell’animo umano. Imprevedibilità, straniamento, oscurità, tensione e attesa furono gli ingredienti nel calderone in cui cucinava atmosfere perturbanti. I figli, a cui trent’anni dopo la sua morte venne recapitato a sorpresa uno scatolone stracolmo di sue riflessioni e racconti inediti (i migliori finirono nel volume Let Me Tell You, Adelphi ne ha pubblicati diversi in Paranoia e La luna di miele di Mrs Smith) la ricordano, al ritorno da scuola, sempre intenta a scrivere mentre cucinava i brownie. Si stupirono di tutto quel materiale perché la madre era nota, al tempo, per i tragicomici sketch di economia domestica e ritratti di vita famigliare sulle riviste femminili, e la sua (ri)scoperta è affare recente, complice la serie-tv The Haunting of Hill House ispirata a uno dei suoi romanzi.

L’idea per una della sue prime novelle, oggi la più antologizzata, La lotteria, le venne mentre faceva la spesa e pensava ai vicini. “La sera prima avevo letto un libro in cui si raccontava come veniva scelta la vittima di un sacrificio, e mi stavo chiedendo chi nel nostro paese sarebbe stato un buon candidato”, raccontò. Il sorteggiato alla lotteria annuale, nel racconto pubblicato dal New Yorker nel ’48, vinceva la lapidazione. I lettori inorridirono ma La lotteria spiega perché Shirley firmò sempre storie inquietanti: lontana dal voler essere etichettata come regina dell’horror o del gotico, aveva invece bisogno di dar voce a qualcosa che spaventa più del soprannaturale, cioè sentimenti come invidia, rancore, vendetta, odio, sopraffazione e, non da ultimo, la malattia mentale. Accade nel romanzo Lizzie, storia di una donna vittima di sdoppiamento di personalità o ne L’incubo di Hill House, dove una dimora fatiscente, dotata di vita propria, si appropria della mente dei suoi abitanti, conducendoli alla follia.

I fantasmi, ci dice Shirley, sono dentro di noi. Hanno la forma dell’ansia, della solitudine, delle carenze affettive che l’hanno abitata nottetempo, s’incarnano nelle figure femminili che tratteggia, insicure, sospese, spesso orfane di madre o con madri incapaci di amore, chiuse in un guscio, la casa, che le fa sentire al sicuro ma le limita, come le giovani sorelle in Abbiamo sempre vissuto nel castello, convinte che “fuori” ci siano solo sofferenza e “persone orribili”, che sono forse anche un riflesso del suo tempo.

Le due guerre, i lager e l’atomica la segnarono. Stroncata a 49 anni da un infarto, complici alcol e psicofarmaci di cui abusava, una libertà salvifica però se la concesse: scrivere come voleva. “La cosa più bella dell’essere scrittrice è che puoi permetterti di abbandonarti alla stranezza quanto vuoi”, disse. Quella stranezza è la sua cifra.