Il serial killer più feroce dell’anno uccide a Roma e si firma Romulus

Tra cinema e fiction tv, la grande riscoperta di Romolo, il fondatore fratricida di Roma, può vantare finanche su uno spaventoso thriller ambientato alla vigilia di Natale, scritto da un filosofo allievo di Derrida, Simone Regazzoni. Un ferocissimo serial killer sparge infatti terrore e sangue nella Capitale e la sua firma è Romulus. Con tanto di impatto scenografico su Instagram: “Una creatura mostruosa. Sul corpo nudo indossava una specie di mantello di pelliccia, provvisto di zampe e coda, che arrivava fino a terra. Sul capo aveva una testa di lupo con le fauci aperte”. Il culto di Fauno, lupo sgozzatore, in onore del quale fu sacrificata pure una bambina, decapitata per far nascere Roma.

La prima vittima di Romulus è una donna di nome Sara. Avvocato. Sta tornando a piedi a casa, sotto la neve, quando accetta un passaggio da uno sconosciuto. È Romulus. L’assassino le sfonda il cranio, la denuda e l’appende a testa in giù. Poi con una lama le incide un’oscura scritta in latino-etrusco, “Sakros Esed”, le squarcia il ventre e la eviscera ancora viva. Romulus la fa a pezzi. Alcuni resti vengono lasciati nel Foro Romano, sul Lapis Niger, laddove Romolo venne ucciso e sepolto. Testa, braccia e gambe vengono invece fatte ritrovare in un casale abbandonato. A indagare in questa truculenta caccia al tesoro sulla fondazione della Città Eterna è la trentenne Giulia Rakar, ispettore capo. Rakar è una profiler che conosce il buio sin da piccola, quando fu spettatrice del massacro della sua famiglia. Per lei, che pratica le arti marziali violente (le mma), gli omicidi di Romulus hanno origine anni prima negli Stati Uniti. Il colpevole s’intuisce, ma è solo apparenza, in una matrioska vorticosa di colpi di scena.

I segni del male – Simone Regazzoni, Pagine: 409, Prezzo: 18, Editore: Rizzoli, 

Un mélo inedito e zuccheroso della zia West

Ci sono opere che incarnano a tal punto un’eccentrica e strenua idea di letteratura da poter essere amate o respinte con la stessa intensità. È il caso di Quel prodigio di Harriet Hume di Rebecca West, edito da Fazi.

Ecco tutti i topoi di una storia inglese di inizio Novecento: rito del tè pomeridiano, dialoghi leziosi e artefatti, toponomastica di Londra, intrighi di palazzo e classismo. Come in una involontaria parodia, galleggia su queste pagine una quintessenza di inglesità, per di più viziata da un tocco di soprannaturale. West – autrice un tempo celebrata e poi confinata in un cono d’ombra – ha del resto un timbro inconfondibile che i lettori hanno già potuto sperimentare e riscoprire grazie alla fortunata Trilogia degli Aubrey.

Nel romanzo, finora inedito in Italia e tradotto da Francesca Frigerio, lo stile ha un’impennata lirica che si distingue al pari di un pezzo di antiquariato. Un brano fior da fiore: “Lei aveva oltrepassato la trincea di ombra polverosa disegnata dalla casa sul marciapiede argenteo, ed era illuminata in pieno dalla luna quando si voltò; così che la coda del suo abito, che era più lunga del mantello, aveva la lucentezza della veste di un angelo e le mani con le quali si copriva la bocca tremante sembravano risplendere, e degli esperti avrebbero potuto scambiare per diamanti le lacrime dei suoi occhi”.

La trama è un esile canovaccio sul quale l’autrice vi appende, come su una corda tesa fino all’anticlimax, due ritratti psicologici. I protagonisti sono Harriet Hume: pianista squattrinata che vive del suo talento, sia pure ridimensionato dalle sue mani piccole. E Arnold Condorex: delfino politico, prigioniero di un matrimonio di convenienza con la figlia di un deputato, roso dall’ambizione di diventare un uomo di potere. Li unisce un sentimento ambiguo e intermittente, scandito da incontri e lontananze che si dipanano nel corso di un ventennio.

Harriet, “una donna con la squisita consapevolezza di cosa costituisca la femminilità”, ha il dono di leggere nella mente di Arnold e lui diventa ostaggio di questo sortilegio, grazie al quale lei può svelare le cospirazioni alle quali è ricorso per fare carriera. Harriet è la coscienza di Arnold, lo specchio che gli rimanda un’integrità ancora possibile. Segue profonda crisi esistenziale dopo che lui con amarezza deve convenire che Harriet è “una specie di rettile che si insinua strisciando nelle case delle persone che si stanno facendo strada nel mondo per instillare nella loro mente fantasie che le spingano a soffocare sul nascere la loro grandezza”.

Rebecca West cede con questo romanzo alla sirena di un amore convenzionale. Lo schema invero è usurato: maschio imbroglione e cinico redento da femmina irreprensibile e pure dotata di facoltà paranormali.

C’è l’aggravante di una scrittura zeppa di similitudini da far impallidire il più vieto mélo. Ma temiamo che gli estimatori del genere sapranno certamente apprezzare la descrizione di una coppia di amanti alla stregua di “erano come un vaso greco, lui il solido recipiente, lei la decorazione a spirale che lo avvolgeva interamente”.

Quel prodigio di Harriet Hume – Rebecca West, Pagine: 262, Prezzo: 18, Editore Fazi

Lo “Squartatore” di Netflix colpisce senza enfasi: un crime eccellente

S e due indizi fanno una prova, le miniserie sono la cosa migliore che Netflix oggi possa offrire: dopo The Liberator, fascinoso upgrade del rotoscopio a inquadrare la Seconda Guerra Mondiale, ecco Lo Squartatore (The Ripper), docuserie true crime britannica in quattro capitoli, tre ore e un quarto dedicate agli assassini di tredici donne commessi tra il 1975 e il 1980 nella zona di West Yorkshire e Manchester da Peter William Sutcliffe, morto di Covid lo scorso 13 novembre a 74 anni. Diretta a quattr’occhi da Jesse Vile e Ellen Wood, l’attenzione più che per il serial killer è per l’ambiente socioculturale in cui maturò, restituito con luminosa chiarezza attraverso materiale di repertorio, interviste a investigatori, giornalisti, sopravvissute e familiari delle vittime. Facendo dell’eleganza la cifra stilistica, la serie punta il dito non solo contro Sutcliffe, ma contro il Sistema chiamato ad assicurarlo alla giustizia: uomini che odiano le donne o poco ci manca, tanto da catalogarle sbrigativamente ed erroneamente quali prostitute con esiti nefasti per la risoluzione del caso. I volti dei poliziotti, vedrete, dicono tutto, per tacere delle parole, alimentate da sessismo, pressappochismo e impunità: se non concorso in omicidio, favoreggiamento ideologico. Tredici, più altri tentati e mancati, femminicidi, dunque, re-indagati con gli occhi di oggi ma senza la presbiopia del #MeToo: il rifiuto della spettacolarizzazione non pregiudica, anzi, lo spettacolo, che è teso, colto e coinvolgente. Sceneggiatori e wannabe showrunner nostrani, loro per primi, non dovrebbero perderla, ché il divario con il Regno Unito è ultrasensibile: basti pensare, artisticamente parlando, cosa abbiamo fatto noi col Mostro di Firenze, e cosa loro con lo Yorkshire Ripper, partendo dalla mirabile trasfigurazione del Red Riding Quartet di David Peace, passando per la raffinata serie antologica collegata, arrivando fin qui. Poveri noi.

 

Nanni è al lavoro su un altro script e Soderbergh si dà al sequel

In attesa dell’uscitadi Tre piani, prevista in primavera, Nanni Moretti ha iniziato a scrivere la sceneggiatura di un nuovo film insieme a Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella.

Steven Soderbergh sta pensando con lo sceneggiatore Scott Z. Burns a un sequel “filosofico”, ambientato in un contesto diverso, di Contagion, il suo inquietante e profetico film del 2011 con Matt Damon, Jude Law e Marion Cotillard, su un virus scoperto in Cina e la sua rapida diffusione attraverso le goccioline emanate dagli esseri umani mentre parlano e respirano.

Figlia d’arte delle star francesi Juliette Binoche e Benoît Magimel, la 21enne Hannah Magimel debutta in questi giorni nel film Feu! di Claire Denis.

Claudia Gerini, Lucia Sardo, Alessio Vassallo e Paolo Sassanelli recitano in Salento sul set di Sulla giostra, una nuova commedia al femminile di Giorgia Cecere prodotta da Anele e Rai Cinema.

Dopo aver diretto la serie de Il commissario Ricciardi, tratta dai libri di Maurizio De Giovanni e in onda su Rai1 con Lino Guanciale, Alessandro D’Alatri ha girato una nuova fiction, Un professore, interpretata da Alessandro Gassmann e Claudia Pandolfi. Il protagonista Dante è un prof di filosofia che aiuta i suoi studenti ad affrontare i problemi della vita, ma dovrà cercare di risolvere anche i suoi. Con il sostegno della madre Virginia, un’ex attrice di teatro molto esuberante, dovrà tentare di ricucire il rapporto difficile con il figlio Simone, dopo una lunga assenza, e confrontarsi direttamente con Anita, madre single di un suo alunno ribelle che gli farà conoscere il vero amore.

Ascesa e caduta di “San” Muccioli

Per chi ha vissuto gli anni 80 è come riaprire un vecchio baule lasciato a prendere polvere nella soffitta della memoria. Per chi non c’era, e conosce la storia di San Patrignano solo per sommi capi, è una rivelazione: davvero in Italia è successo tutto questo? E come mai negli ultimi 25 anni nessuno ne ha più parlato? Creata da Gianluca Neri e con la regia di Cosima Spender, SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano è la prima docuserie italiana di Netflix. Cinque episodi che ripercorrono una delle vicende più controverse dell’ultimo cinquantennio, un racconto costruito attraverso filmati storici, foto inedite e interviste a chi quella storia l’ha vissuta in prima persona. “Non ci interessava dare un giudizio. Per noi la cosa importante è raccontare i fatti, poi sarà lo spettatore a trarre le sue conclusioni” dice Carlo Gabardini, che ha scritto SanPa con Neri e Paolo Bernardelli. La comunità, però, si è dissociata parlando di racconto “sommario e parziale”.

I fatti, dunque. Alla fine degli anni 70, quando migliaia di giovani cominciano a farsi di eroina, Vincenzo Muccioli apre una comunità per tossicodipendenti nel suo podere alle porte di Coriano, in provincia di Rimini. Si tratta all’inizio di una specie di comunità hippie che ospita ragazzi di ogni tipo, poveri e ricchi, fascisti e comunisti. In poco tempo la droga è diventata un problema di portata nazionale cui lo Stato non sa dare risposte. A San Patrignano, invece, Muccioli sembra saper riportare alla vita i giovani che come zombie girano per le città a caccia di una dose: “Li curiamo con iniezioni potentissime. Amore, si chiamano” spiega.

Ma chi è quest’uomo che ha costruito la comunità a sua immagine e somiglianza? “Un omone con uno sguardo che sembrava trapassare l’aria” ricorda Fabio Cantelli, ex ospite e poi capo ufficio stampa di San Patrignano. L’allora sindaco di Coriano lo descrive come un personaggio strano, “che una volta è entrato in banca e ha ingoiato una cambiale invece di pagarla”. Pier Andrea Muccioli racconta invece che il fratello maggiore, dopo una carriera scolastica terminata prima del diploma, aveva sviluppato uno spiccato interesse per l’esoterismo. Quel che chiaramente traspare dai filmati dell’epoca è il suo grande carisma.

Il nome di Muccioli finisce per la prima volta sulla ribalta nazionale nell’ottobre del 1980, quando un’ospite della comunità denuncia di essere stata tenuta segregata per 15 giorni. Il fondatore trascorre 35 giorni in carcere, torna libero e non rinnega i suoi metodi. La disintossicazione, a San Patrignano, passa dal lavoro, dalla regolarità, dalla disciplina. “Qui, se ci entrate, ci state” ripeteva Muccioli ai suoi ragazzi: “Ma se voi volete mollare e ritornare indietro… Eh, no”. Conferma Cantelli: “Non potevi andare via se chi la gestiva non era d’accordo”.

Il “processo delle catene”, a metà anni Ottanta, spacca l’Italia e trasforma Muccioli in un personaggio pubblico. E mentre aumentano le fila dei suoi sostenitori, dai Moratti a Paolo Villaggio, da Montanelli a Red Ronnie, anche la comunità cresce fino a diventare la più grande d’Europa. In seguito al ritrovamento del cadavere di Roberto Maranzano e alle accuse di altri ospiti, poi, un secondo processo tenterà di rispondere alla domanda che ruota attorno alla docuserie e a tutta la storia di San Patrignano: “Per fare del bene puoi usare qualunque metodo?”.

SanPa racchiude in cinque episodi (Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta) oltre 15 anni: dalla fondazione della comunità alla morte di Muccioli avvenuta nel 1995. Non utilizza una voce fuori campo né offre risposte preconfezionate; si mette semmai continuamente in discussione alternando le testimonianze spesso opposte dei protagonisti: ex tossici, familiari di Muccioli, giornalisti, giudici. Se la sigla richiama quella di Narcos, la serie che torna più spesso in mente guardando Sanpa è certamente Wild Wild Country. E per una volta il paragone non è improponibile: per la potenza della storia che racconta, il grande lavoro di documentazione e lo stile narrativo, la prima docuserie italiana di Netflix regge bene il confronto con i migliori titoli internazionali degli ultimi anni.

SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano su Netflix

“Mamma” Rainey ha dato al blues il colore nero

Nell’originario accordo di Denzel Washington con Hbo doveva essere il secondo film dei dieci intesi ad adattare il Century Cycle di August Wilson, il rinomato drammaturgo morto nel 2005. Il primo, Fences (“Barriere”), l’ha ottimamente diretto e interpretato egli stesso, con quattro nomination e un Oscar a Viola Davis nel 2017, per Ma Rainey’s Black Bottom Washington s’è limitato a produrre: disponibile su Netflix, merita senz’altro di essere visto. Votato a raccontare l’esperienza afroamericana del XX secolo, il wilsoniano Ciclo di Pittsburgh ha il vertice proprio nella pièce del 1982 che inquadra la leggendaria cantante Ma Rainey, qui formidabilmente incarnata da Viola Davis, nel rapporto con la band e i discografici bianchi durante una sessione pomeridiana di registrazione nella Chicago jazz del 1927.

Il titolo viene da un suo famoso pezzo, in ballo c’è il controllo della musica, con annessi culturali e connessi razziali, ma l’indomita e dispotica “Mother of the Blues” non mette la sordina a tutti: il galletto nel pollaio è Leeve, talentuoso, stiloso e ambizioso trombettista che ha messo gli occhi sull’avvenente ragazza di Ma, scrive cose sue e già pregusta di mettersi in proprio. Gli dà corpo e – non è una frase fatta – anima Chadwick Boseman, lo scomparso Black Panther alla sua ultima prova: quando Leeve parla di bad luck e ineluttabilità, be’, potreste trovarvi i lucciconi, perché non è solo il destino bastardo e beffardo ma come Chadwick, morto a quarantatré anni lo scorso 28 agosto, sa fronteggiarlo. Con il fuoco dentro, e non da copione. Se n’è andato, così giovane e così grande, e questo precocissimo de profundis ne cristallizza possibilità e potenza, anche in senso identitario: dopo il T’Challa di Wakanda, il suo Leeve mostra il petto accoltellato dai bianchi, rivela una madre stuprata dai bianchi e un padre, che ha trovato parziale vendetta, impiccato dai bianchi. Wilson, e fedelmente in scia George C. Wolfe e lo sceneggiatore Ruben Santiago-Hudson, stigmatizzava l’ennesimo tradimento del Sogno Americano ai danni dei neri, protagonisti della Grande Migrazione dal Sud al Nord industriale, e tirava una combinazione drammaturgica, ovvero ideologica, devastante: prima il blues per evidenziare l’alterità degli afroamericani, “(I bianchi, ndr) lo sentono uscire, ma non sanno come sia arrivato lì. Non capiscono che è il modo di parlare della vita. Non canti – dice Ma – per sentirti meglio. Canti per comprendere la vita”, e dunque invocarne la solidarietà; poi con Leeve una resa dei conti intestina e fratricida, in cui lama e sangue sono dello stesso colore.

Echi tarantiniani, simmetrie nere, maschie e musicali con One Night in Miami di Regina King (Prime Video, dal 15 gennaio), smaccata, e forse limitante, è la derivazione teatrale, ma fotografia (Tobias Schliessler), scenografie, costumi e musiche (Branford Marsalis) sono di rilievo: Black Lives Matter, morti comprese.

 

“Né mondana né sedotta dal palco. Io sto di lato”

In questo caso la direzione non è ostinata e contraria per calcolo, ragionamento o fascinazione. Antonella Ruggiero è ostinata e contraria perché è natura, indole, rispetto di se stessa.

Con lo stesso tono evita la retorica del palco come necessità (“mai sentito il bisogno”), del desiderio di socializzare (“sto bene così”), di correre, correre e ancora correre (“alle autostrade della vita preferisco i viali paralleli dove si va pure in bicicletta”).

E non stupisce la sua scelta di pubblicare un nuovo album, Empatía – è la registrazione del concerto tenutosi nella Basilica di Sant’Antonio a Padova, l’8 febbraio 2020 – e di aprire la vendita solo attraverso il suo sito, senza neanche pubblicità.

Perché cantante.

È il mio destino, non ho cercato nulla; mi sono ritrovata in questo mondo, quando in realtà volevo dedicarmi alle arti visive come pittura e grafica.

E invece.

È andata bene, perché ho comunque una libertà assoluta, ed è il punto fondamentale.


Empatía
è stato registrato prima del lockdown. Ha bisogno del palco?

Non ho mai avvertito la necessità fisica di esibirmi, di essere al centro dell’attenzione, di dire ‘eccomi, sono qua’; questo è un momento importante per fermarsi e guardarsi dentro, capire, un po’ come accadeva agli artisti di un tempo, quando scoppiavano le pandemie. E in quelle situazioni nascevano delle grandi opere d’arte…

Mentre ora?

L’omologazione, l’esigenza perenne di esserci, la Rete onnipresente, porta a realizzare lavori superficiali.

A molti suoi colleghi il lockdown ha spento l’ispirazione.

A me no, e poi non ho una vita mondana, la mia quotidianità è tra la campagna lombarda della Brianza e Berlino, due dimensioni in apparenza lontane, in realtà la capitale tedesca è verde.

Torniamo al palco: neanche all’inizio l’appassionava?

Non ho mai amato l’esposizione, per me il live, e da subito, ha rappresentato un mettermi alla prova; poi ogni mestiere ha i suoi ostacoli e per una persona non malata di egocentrismo, il palco diventa il luogo del lavoro.

Ansia prima di salire?

Forse solo all’inizio, altrimenti sarebbe stata e sarebbe una vita infame; piuttosto è una scuola che mi sono autoimposta; ora il palco lo considero un luogo famigliare, quasi come entrare in casa, e con alcuni pezzi posso chiudere gli occhi e sentirmi in una stanza, da sola.

Senza esserlo.

Durante i concerti sento un silenzio assoluto, posso percepire il respiro dei musicisti.

Le piace il pubblico ‘cantante’?

Non sono una persona che si porta dietro gli strilli.

Ha pezzi celebri.

E le persone amano ascoltarli per tornare a momenti personali, e li viviamo insieme. Ma il pubblico che mi segue è educato e gentile, in qualche modo simile a me.

Da ragazza chi le piaceva?

Dai 12 ai 14 anni amavo i Beatles, e lì ho manifestato una passione come mai più nella vita; loro davano degli spunti emozionali pazzeschi, ora la musica è spesso ripetizione di ciò che è stato.

Li ha ascoltati dal vivo?

Purtroppo i miei non mi hanno portato, ma ricordo le urla delle ragazze dentro al concerto.

I Beatles sono ancora parte di lei?

Raramente; attraverso la musica rivedo, risento, rivivo momenti che possono portare a una malinconia interiore, e non la voglio frequentare più di tanto, preferisco altro.

Nel disco interpreta Crêuza de mä. De André le dà malinconia?

Crêuza de mä mi riporta bambina tra i vicoli di Genova, dove abitavano i miei nonni; quei vicoli li conosco così bene da poterli girare a occhi chiusi; (ci pensa) la musica non è solo ascolto con le orecchie.

Nel panorama musicale, dove si inserisce?

Né avanti, né indietro. Di lato; (cambia tono) accanto alle autostrade spesso corrono delle stradine bianche, polverose, dove le persone vanno a piedi, in bicicletta, a cavallo. Sono lì.

I talent li guarda?

Capita, e tecnicamente ho ascoltato dei ragazzi molto bravi, però mi domando sempre qual è il loro futuro, perché non c’è più nessuno che si impegna per far crescere un artista.

Respiro corto.

Basterebbe investire su almeno un decennio, mentre il giro di giostra è breve, e li sbattono sotto un riflettore e in maniera innaturale.

In questi anni di cosa l’hanno rimproverata?

Perché?

Magari di essere stata poco presente.

Vado per la mia strada laterale e non me ne importa nulla. Di me stessa so cosa devo fare.

Un personaggio letterario che si porta nel cuore.

Uno solo? Simone de Beauvoir in L’età forte : lì racconta di lei che durante la guerra scriveva accanto a una stufa dove ribolliva un cavolo; ecco, questa immagine mi ha sempre affascinato, come dalla difficoltà escono le opere d’arte, le sensazioni più profonde delle persone.

 

Gibilterra resta in Schengen. La Scozia minaccia secessione

Dopo 47 anni di convivenza e un accordo dell’ultimo minuto, il Regno Unito ieri ha inaugurato il nuovo corso fuori dall’Unione europea. Ultimo è venuto il pre-accordo raggiunto il 31 notte in extremis con la Spagna per Gibilterra. La Línea de la Concepción (Cadice), infatti, senza un patto preciso, rischiava di richiudere le porte a el peñón come fu per 13 anni dal 1969 al 1982. Così invece Gibilterra resterà nell’area Schengen e la frontiera con la Spagna sarà fissata a porto e aeroporto. Il confine sarà garantito dall’agenzia europea Frontex. “Un accordo storico”, secondo la ministra degli Esteri spagnola Arancha Gonzalez che aveva lanciato l’ultimatum di 72 ore all’omologo Domenic Raab.

Per il resto niente caos, siamo inglesi. Il traffico del canale della Manica ieri è stato fluido e nel porto francese di Calais i nuovi sistemi informatici hanno funzionato bene. Ora le relazioni tra Londra e Bruxelles iniziano a essere regolate dall’accordo raggiunto alla vigilia di Natale che ha scongiurato l’applicazione di tariffe e quote alle merci ma che comporterà per le imprese nuovi costi e pratiche burocratiche aggiuntive. ”Abbiamo la nostra libertà nelle nostre mani e sta a noi sfruttarla al meglio”, ha detto in un videomessaggio di Capodanno il premier britannico Boris Johnson che ha definito il momento “straordinario”. L’accordo di partenariato Ue-Regno Unito sul commercio e la cooperazione “costituirà una solida base per la nostra continua amicizia con il Regno Unito”, ha scritto su Twitter la Commissione europea, sottolineando però che questo comporterà “grandi cambiamenti”. La cattiva notizia per Johnson arriva invece dalla Scozia che nel 2016 ha votato per restare nell’Ue e ora rafforza il sostegno alla separazione dal Regno Unito. “La Scozia tornerà presto, Europa. Tenete la luce accesa”, ha twittato la premier indipendentista, Nicola Sturgeon, accompagnando il suo proclama con la foto provocatoria della scritta “Europe-Scotland” proiettata la notte di Capodanno sulla facciata della sede della Commissione a Bruxelles. Una sfida destinata a farsi concreta già alle elezioni amministrative britanniche di maggio, quando verrà rinnovato pure il Parlamento locale di Edimburgo. In caso di vittoria netta del Partito nazionalista scozzese saliranno anche i toni della rivendicazione d’un nuovo referendum per la secessione.

Al Qaeda fa i “botti”, l’Isis uccide: il jihad c’è ancora

Si è chiuso male il 2020 in Siria e l’anno nuovo è iniziato anche peggio. Un’autobomba ieri è esplosa nei pressi di una base militare russa nel nord est della Siria – la zona abitata prevalentemente da curdi e tribu arabe nomadi – nel primo attacco estremista di questo tipo nell’area contro i soldati di Mosca, alleata di Damasco. La notizia è stata data dal gruppo di monitoraggio dell’Osservatorio siriano per i diritti umani. L’attentato, che ha provocato numerosi feriti, è avvenuto in tarda serata nell’area di Tal Saman nella regione di Raqqa, l’ex ‘capitale’ dello Stato Islamico. I jihadisti del defunto Al-Baghdadi e quelli dell’altrettanto defunto Bin Laden che ancora si aggirano nell’est della Siria al confine con l’Iraq, sembrano volersi riattivare anziché svanire.

L’autobomba sarebbe stata piazzata a Tal Aman dal gruppo estremista Hurras al-Deen legato ad Al-Qaeda, che ha rivendicato l’attacco. Hurras al-Deen ha combattenti nell’ultimo grande bastione ribelle del Paese nella regione nord-occidentale di Idlib ma opera molto raramente al di fuori di quell’area e finora mai in questa regione. Quest’area, dopo l’invasione del Rojava curdo siriano (la fascia a nord est della Siria a est del fiume Eufrate) da parte della Turchia nel 2019, ha assorbito i combattenti curdo-arabi siriani delle Syrian Democratic Forces. Questi, dopo essere stati costretti ad arretrare, hanno dovuto, loro malgrado, mandare giù il boccone amarissimo della sottomissione all’esercito lealista del presidente siriano Assad che ha riconquistato anche Raqqa. A monitorare Raqqa e il Rojava, quest’ultimo invaso non solo da soldati turchi ma anche dai miliziani tagliagole finanziati da Ankara, ci sono però anche i soldati russi che hanno numerose basi ormai in tutta la Siria a stretto contatto con quelle di Assad e dell’Iran, l’altro alleato di Damasco. La presenza russa nel Rojava conquistato dai turchi è frutto di uno dei numerosi accordi avvenuti in questi ultimi cinque anni nell’ambito del conflitto siriano tra il presidente turco Erdogan e il suo omologo Putin. Un altro esito di questi accordi è la co-presenza di posti di osservazione russi e turchi anche lungo i confini della provincia di Idlib, l’ultima roccaforte dei ribelli e jihadisti siriani apparentemente sorvegliati dalla Turchia, più spesso protetti.

“È il primo attacco diretto del genere contro una base russa nel nord-est della Siria”, ha detto il capo dell’Osservatorio, Rami Abdel Rahman.

Mentre la Russia non ha ancora commentato questo attacco, ha invece ripetutamente accusato i ribelli di Idlib di aver attaccato la sua base aerea di Hmeimim, a ovest della roccaforte jihadista, con droni armati, ma si trattava di attentati minori.

È stata al contrario sanguinosa, almeno 30 vittime, l’imboscata avvenuta il 30 dicembre contro un autobus dell’esercito di Assad lungo l’autostrada principale della vasta provincia siriana di Deir al-Zor, al confine con l’Iraq, rimasta sotto il controllo dell’Isis fino al 2017 quando fu annichilita dai bombardamenti internazionali. I residenti di Deir al-Zor e le fonti dell’intelligence hanno segnalato che negli ultimi mesi c’è stato un aumento di imboscate e attacchi mordi e fuggi da parte degli ultimi kamikaze dello Stato Islamico che si nascondono nelle caverne presenti in questa regione prevalentemente desertica. Ciò che è certo nel disastro siriano è che solo la Russia e la Turchia possono condurre i giochi e confrontarsi da pari nonostante gli accordi di Astana siglati negli anni scorsi con l’Iran, la potenza locale alleata del clan Assad.

Fentanil, pillola d’oro dei narcos

Narcos, spacciatori e farmacisti. La fortuna del traffico di droga tra Messico e Stati Uniti si chiama fentanil. La pillola d’oro che in contee di confine come Monterey (California) viene venduta in boccette di alprazolam e prescritta da medici conniventi con i trafficanti. Nel 2020 i sequestri di laboratori di fentanil da parte delle forze di sicurezza messicane sono aumentati del 486%, secondo il segretario della Difesa per un totale di 1,3 tonnellate di oppiacei sintetici a fronte dei 222 kg del 2019. “La domanda è in aumento”, fa sapere Luis Cresencio Sandoval che ha spiegato quanto queste droghe sintetiche siano “più redditizie per le organizzazioni criminali”. A San Francisco il gran giurì ha accusato Matthew Sanchez, 25 anni, spacciatore, e Francisco Javier Schraidt Rodriguez, 61 anni, farmacista, di distribuire fentanil come alprazolam nascosto in un carico di farmaci dal Messico alla California. Uno delle centinaia di casi rintracciati dalla Organized Crime Drug Enforcement Task Force, un reparto che indaga e persegue le più significative organizzazioni di traffico di droga negli Usa insieme alla Dea, con l’assistenza della Customs and Border Protection e il Dipartimento per la sicurezza interna. La posta in gioco è altissima. Fermare il malaffare ed evitare centinaia di morti all’anno. Tra giugno e novembre scorsi, solo Schraidt Rodriguez e Sanchez hanno spacciato centinaia di boccette di pillole dal Messico alla California per 81.859 dollari, una delle quali ha ucciso un coetaneo di Sanchez per overdose. “Le false pillole di ossicodone inondano la contea di Monterey”, ha dichiarato il procuratore degli Stati Uniti Anderson.

“Gli spacciatori che le vendono non potrebbero controllare la quantità di fentanil in esse contenute anche se volessero. Il fentanil è dosato in microgrammi. I rivenditori non hanno l’attrezzatura né la capacità di controllare ciò che stanno vendendo. I nostri giovani stanno morendo per ignoranza e indifferenza”, ha concluso Anderson. L’85% delle morti per overdose negli Usa nel 2020 è da attribuire a oppiacei sintetici, eroina, cocaina, spesso mischiati; solo il fentanil ha la responsabilità sul 38,4% di questi decessi, e la cifra è aumentata con la pandemia. Nel 2018 il fentanil rappresentava la causa della metà dei 67.367 decessi per overdose negli Usa. La chiva sintetica può essere tagliata con altri agenti per creare pillole contraffatte – note come M30 – che imitano l’ossicodone alla metà del prezzo. Ma a uccidere sono proprio le minime variazioni della quantità e della qualità del fentanil. Storie come quelle di Monterey si ripetono a Dayton come a San Diego: in tutto sono 40 gli Stati in cui la piaga è in aumento, secondo l’American Medical Association. Ma anche in Messico. Lì il fentanil viene venduto a monodose, costa solo un dollaro e 50 centesimi. E lì si trovano i laboratori casalinghi, quasi raddoppiati, sostiene Sandoval: da 91 nel 2019 sono passati a 175 nel 2020. La Abc è entrata nella catena di montaggio messa su dal cartello di Sinaloa. “Prima qui era tutta eroina – spiega uno dei narcos dell’organizzazione che si è reinventata all’arresto del Chapo, Joaquín Guzmán – ora il business è tutto sintetico”. La guerra per le distese di piantagioni di papaveri sono sostituite da qualche anno dalle battaglie, con record di omicidi, per le rotte marittime, quelle attraverso cui arrivano le materie prime per i laboratori dove uomini del cartello e chimici arruolati negli Stati Uniti o ingegneri biochimici messicani con master statunitensi in tuta bianca le lavorano.

Il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador ha incaricato la marina militare e l’esercito delle ispezioni ai valichi di frontiera nel tentativo di ridurre il contrabbando. I narcos importano i prodotti chimici dall’Asia. Dalla Cina le materie prime arrivano al porto di Mazatlán. Nel 2018, secondo il sito indiano The Lede, un documento classificato della Dea datato, rilasciato come parte diBlue Leaks, individua il viaggio del cittadino messicano, Jorge Ayon Peña, con altri due amici identificati come Francisco e Fernando da Culiacan (Sinaloa) a Shanghai, Hong Kong, Tokyo, Indore, Rajasthan come un viaggio d’affari. “L’obiettivo dei tre, identificati nel rapporto come membri del cartello di Sinaloa, era quello di ottenere prodotti chimici per produrre droghe illegali in Messico e spacciarle negli Stati Uniti”. I tre infatti vennero raggiunti dall’imprenditore Manu Gupta, cittadino cinese arrestato due anni dopo proprio per produzione e tentativo di contrabbando di fentanil in Messico. Il fascino del fentanil è l’alta resa. Nel 2019, la Dea ha stimato che una pillola di fentanil costi solo un dollaro al produttore per essere rivenduta negli Stati Uniti a non meno di 10 dollari. La produzione richiede solo una forza lavoro e un’infrastruttura minime e Sinaloa in questo è la migliore.