Predicano bene, ma poi… Le banche e i diritti dei clienti

Finanza: l’arte o la scienza di gestire i ricavi e le risorse per il miglior vantaggio di chi le gestisce. Ambrose Bierce diede questa sulfurea definizione nel suo Dizionario del diavolo del 1906. Nonostante le leggi e le garanzie per i clienti delle banche da allora siano molto progredite, pare però che la situazione non sia migliorata. Lo dimostrano gli ultimi dati dell’Arbitro bancario finanziario, l’organismo di composizione alternativa delle controversie tra i clienti e le banche fondato nel 2009 e sostenuto dalla Banca d’Italia. Se un cliente fa ricorso contro la decisione di un istituto di credito relativa a un contratto bancario e la sua richiesta non viene accolta, prima di andare per tribunali può chiedere gratuitamente all’Abf di discuterla. Nei primi nove mesi dell’anno scorso ciò è accaduto 7.209 volte, con il 59% dei ricorsi accolti a favore dei clienti e un altro 14% dei casi nei quali la vertenza è stata chiusa bonariamente. Ma nel 2020 sono esplosi i casi di banche che, nonostante abbiano perso davanti all’Abf, si sono rifiutate di ottemperarne alle decisioni, preferendo andare in causa. A rendere surreale il tutto è il fatto che tra gli operatori che meno riconoscono i diritti dei loro clienti ci sono quelli che più si dicono impegnati a diffondere l’educazione finanziaria.

Secondo gli ultimi dati dell’Abf, dal 2016 sono stati 1.558 i casi di decisioni favorevoli ai clienti a cui le banche non hanno dato seguito, di cui ben 937 nell’ultimo anno. Se si escludono le finanziarie, gli istituti che meno hanno ottemperato alle decisioni dell’Abf sono BancoPosta di Poste Italiane (199 reclami disattesi dal 2016, di cui 196 l’anno scorso) e Intesa Sanpaolo (92, 90 nel 2020). Tra le altre banche inadempienti spiccano poi l’ex Ubi (19, 18), Banca popolare pugliese (6,6), UniCredit (4,1), Findomestic (2,0), Bpm (2, 0), Bper (1,1), Popolare di Ragusa (1,1), Carige (1,0), Mps (1,1) e Credem (1,0). La beffa è che sono alcuni degli istituti che si dicono più impegnati a diffondere l’educazione finanziaria.

Banca Intesa, ad esempio, ha da poco ottenuto per il suo responsabile delle relazioni esterne Stefano Lucchini la presidenza della Feduf, la Fondazione per l’educazione finanziaria dell’Abi. Del consiglio della Feduf fanno parte anche Mauro Buscicchio, direttore generale della Popolare pugliese, Eugenio Tangerini, capo della responsabilità sociale d’impresa di Bper, Matteo Cidda, capo della comunicazione di Banco Bpm, Maurizio Giglioli, vicedirettore generale del Credem. Alle otto banche i cui rappresentanti fanno parte del consiglio della Feduf fanno capo 124 decisioni non adempiute a favore dei clienti davanti all’Abf dal 2016 a oggi, di cui ben 119 nell’ultimo anno.

Alcuni di questi operatori sono stati tra i più attivi nell’ultimo “mese dell’educazione finanziaria”, organizzato dal Mef come ogni anno a ottobre, con appuntamenti dal vivo e iniziative online. Tra questi Agos Ducato, Findomestic Banca, Iw Bank, Mps e Poste che dal 2016 non hanno adempiuto 207 decisioni dell’Abf favorevoli ai loro clienti, delle quali ben 199 nel solo 2020. Eppure “l’educazione finanziaria costituisce una parte della cultura di cittadinanza economica, particolarmente attenta alla legalità e alla responsabilità sociale”, spiega la Feduf sul suo sito. Forse educazione finanziaria, legalità e responsabilità sociale non comprendono i diritti dei clienti.

Rider, l’algoritmo discrimina chi si ammala e chi sciopera

Ora c’è anche un giudice che lo afferma: l’algoritmo usato da Deliveroo per misurare la bravura dei rider è “discriminatorio”. Il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 31 dicembre, ha così definito il “ranking reputazionale” stilato dall’app britannica di consegne a domicilio. Per come è stato congegnato, infatti, ha penalizzato chi si “assentava” dal turno per scioperare, ma pure chi non poteva lavorare perché malato. Sulla carta è solo una pagella di affidabilità assegnata ai fattorini, ma nei fatti ha colpito indirettamente diritti fondamentali dei lavoratori.

È stato accolto quindi il ricorso presentato a dicembre 2019 dalla Cgil con le federazioni Filt, Filcams e Nidil (sindacati dei trasporti, del commercio e dei cosiddetti atipici). Deliveroo dovrà versare loro 50 mila euro, come risarcimento per la condotta “anti-sindacale”. Ennesima sonora batosta per le multinazionali della gig economy, dopo quella del Tribunale di Palermo che ha ordinato a Glovo di assumere come dipendente un fattorino.

Deliveroo dice di aver cambiato sistema da novembre 2020, ma quello utilizzato e difeso per anni – pur molto contestato – è stato ora fatto a pezzi dal Tribunale di Bologna, che ne ha ricostruito con cura la natura. Il “ranking” è un punteggio che si basa su due indici, “affidabilità” e “partecipazione”. È tuttora in vigore, ma fino a novembre è stato usato per la prenotazione dei turni e questo creava le discriminazioni: ogni rider – pur inquadrato come autonomo e pagato a consegna – poteva prenotare orari di lavoro con priorità riservata per quelli più in alto in classifica. Prima il 15% con le statistiche migliori, poi il 25% successivo e infine gli altri. Avere buoni voti significava avere accesso preventivo all’assegnazione degli slot migliori, ergo più prospettive di guadagno.

Prenotando la sessione ci si obbligava a geo-localizzarsi nella zona di competenza entro 15 minuti dall’inizio del turno; chi non lo faceva senza disdire almeno 24 ore prima scendeva di livello. Per migliorare le votazioni bisognava rendersi disponibili il più possibile in fasce orarie ad alto consumo, come la sera nel weekend

. Non c’era modo per “giustificare” le assenze. “Appare provato – scrive quindi il giudice – che l’adesione a una iniziativa di astensione collettiva dal lavoro è idonea a pregiudicare le statistiche del rider”. Il sistema non distingueva tra chi cancellava tardivamente per esercitare un diritto come lo sciopero e chi, invece, si assentava per futili motivi. Erano tutti sullo stesso piano, ugualmente declassati. Questo disincentivava le mobilitazioni e negava anche il diritto di mettersi in malattia. Come scrive il giudice, “non può darsi rilievo, come invece vorrebbe la società resistente, al fatto che il rider che sia malato o voglia astenersi dal lavoro pur avendo prenotato una sessione possa loggarsi e non consegnare neanche un ordine, in quanto per loggarsi il rider deve necessariamente recarsi nella zona di lavoro, in quanto la app ne rileva la posizione geografica”.

Nel processo, Deliveroo ha ammesso che in soli due casi il mancato rispetto del turno non pregiudica il punteggio: incidente durante la consegna o guasto tecnico della piattaforma. In tutti gli altri casi, anche gli scioperi, l’app non ammetteva ragioni.

Da novembre, come detto, Deliveroo ha abolito i turni e introdotto il “free login”: ora ogni rider può connettersi alla piattaforma in ogni momento e accettare ordini. Il giudice, però, ha voluto comunque decidere la causa per stabilire i danni prodotti da anni di discriminazioni. “L’attività giudiziaria – spiega la segretaria Cgil Tania Scacchetti – sta confermando un quadro che noi abbiamo sostenuto fin dall’inizio, cioè che non ci fosse chiarezza sulla effettiva possibilità di considerare questi lavoratori nell’alveo del lavoro autonomo, confermando la necessità di cambiare il modello di queste imprese e cambiarlo in un modo compatibile con un’esigenza di flessibilità da coniugare con i diritti dei lavoratori e condizioni che non siano più di sfruttamento”.

Con questa decisione, spiegano gli avvocati autori del ricorso Carlo De Marchis e Matilde Bidetti, “è la prima volta che in Italia e in Europa si considera discriminatoria l’organizzazione del lavoro di una piattaforma digitale. Il giudice ha accertato che non esiste la neutralità dell’algoritmo, in realtà ha i pregiudizi di chi lo ha programmato e non fa altro che ripetere all’infinito questa volontà”.

I Giochi 2026 “a costo zero” costano già oltre 1,5 miliardi

“Saranno i Giochi dell’autonomia”, esultavano i governatori leghisti Luca Zaia e Attilio Fontana. “Lo Stato non dovrà metterci un euro”, ammoniva il ministro Luigi Di Maio. “Il governo è stato chiaro”, tranquillizzava tutti il sottosegretario Giancarlo Giorgetti: niente soldi pubblici. Era il settembre 2018, quando Milano e Cortina fecero fuori Torino e il partito dei Cinque Cerchi capeggiato da Giovanni Malagò riuscì a trovare il compromesso politico per far ingoiare il rospo al Movimento 5 Stelle.

All’epoca fu un profluvio di slogan, promesse, rassicurazioni, di chi voleva far credere che non ci sarebbero state spese per il pubblico, o così si augurava. Il governo lo mise persino nero su bianco in un comunicato ufficiale del Consiglio dei ministri: “I servizi di competenza statale saranno prestati senza oneri a carico dello Stato”.

Era tutto un bluff: sono arrivate le garanzie, gli investimenti sulle infrastrutture e adesso pure i soldi per gli impianti sportivi. Nella manovra ci sono altri 145 milioni di euro per Milano-Cortina 2026.

Il regalo olimpico, l’ennesimo, è il frutto di un emendamento che autorizza una spesa di 45 milioni per il 2021, 50 per il 2022 e 50 per il 2023. La firma ovviamente è della Lega che manda soldi alle Regioni che governa, ma almeno su questo Matteo Salvini era stato di parola: “Se non bastano i fondi privati, faremo noi l’ultimo sforzo”, aveva detto in tempi non sospetti. In fondo, quello di Lombardia e Veneto è stato solo un investimento redditizio, in un momento in cui il governo gialloverde era bloccato dai veti interni. Certo, quell’impegno esponeva le Regioni per centinaia di milioni, cifre da far impallidire governatori accorti se non avessero avuto le spalle coperte. “Andate avanti voi, tanto poi i soldi arrivano”, era ciò che un po’ tutti ripetevano nell’ambiente. Quello che nemmeno i più ottimisti immaginavano era che ci sarebbe voluto così poco.

Le Regioni erano state già ampiamente ricompensate un anno fa: proprio di questi tempi, sempre nella finanziaria, avevano ricevuto un miliardo di euro per rifare strade, svincoli, gallerie, stazioni e aeroporti, tutto ciò che serve per una splendida edizione dei Giochi, e anche di più.

Nelle ultime settimane la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli ha firmato il decreto che distribuisce le risorse, e permetterà per giunta di spenderle in deroga ai normali processi autorizzativi. Soldi e cemento, come nelle migliori delle tradizioni.

I 145 milioni di oggi paiono spiccioli al cospetto di quel miliardo. Ma c’è una differenza che li rende ancora più preziosi. Stavolta i fondi non sono per opere infrastrutturali, varie ed eventuali, che s’infilano sempre in questo genere di manifestazioni, a volte col disappunto degli stessi organizzatori impegnati a limare il budget. Questi soldi sono proprio per gli impianti sportivi, quelli che dovevano essere specifico onere delle Regioni. A detta del dossier, fra i contributi promessi dal Cio e quelli recuperati dai privati, degli 1,3 miliardi totali circa 350 milioni avrebbero dovuto ricadere sugli enti locali. Era quello l’unico, vero impegno chiesto alle Regioni per i “Giochi dell’autonomia”. Invece al posto loro ci penserà lo Stato: i contributi (non si sa per quali impianti, la lista non c’è) vengono assegnati alla presidenza del Consiglio, così anche il ministro Spadafora entra con un suo “portafoglio” nella partita olimpica.

Non è finita. Al momento della firma del contratto, il premier Conte si era impegnato a farsi carico pure delle spese per la sicurezza: niente cifre ufficiali, uno studio commissionato all’Università La Sapienza, sulla base delle stime del Viminale, le ha quantificate in altri 400 milioni. Anche qui, ci sarebbe un protocollo che obbligherebbe gli enti locali a rifondere l’eventuale saldo negativo fra le maggiori entrate erariali portate dalla manifestazione e i costi sostenuti dallo Stato. Ma di questo passo chi vuoi che se ne ricordi nel 2026. Ricapitoliamo: 400 milioni, più un miliardo, più altri 145 milioni. Totale: oltre un miliardo e mezzo di euro. E alla cerimonia di apertura mancano ancora sei anni. Non male per delle Olimpiadi “a costo zero”.

Il tempo non esiste I vaccini sì

Eccoci nel 2021. Viviamo l’illusione che il 31 dicembre sia davvero una porta che si chiude verso un passato che, solitamente, non ci ha soddisfatto a pieno. Eppure, in realtà, il primo giorno dell’anno non è diverso dal precedente. Felicità o tristezze non ci abbandoneranno, ignari del “passaggio” che ci ostiniamo a festeggiare in una sorta di illusione collettiva. Si fanno buoni propositi, come se si stesse davvero per affrontare una nuova vita. Saranno puntualmente dimenticati. Eppure tutto questo, giorno, anno, calendario, è un’illusione. Ce lo ha detto Einstein, il tempo non esiste. E lui che era uno scienziato che, malgrado la profondità del suo impegno, non ha mai perso l’arte dell’ironia, cercò di spiegare la soggettività del tempo con una impattante metafora: “Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora”. Ecco perché il 2020 ci è sembrato un secolo! Il tempo è una sensazione soggettiva. Ci sembra un’assurdità ma è scientificamente così.

Perché una virologa si attarda su questi principi di fisica? Perché come tutti vorrei che il 2020 ed il suo maledetto virus non fossero esistiti. Siamo stanchi, i sacrifici sono stati davvero tanti. L’illusione che sia stata chiusa una porta al passato ci fa star bene. Non è finita, non sono finiti i sacrifici, non è sparito il virus.

Sarà l’anno della campagna vaccinale. Affrontiamola con concretezza. Non sappiamo per quanto tempo il vaccino potrà coprirci dall’infezione, non sappiamo quanto e come il virus muterà. Dobbiamo continuare con le vecchie misure di contenimento. Se ancora non siamo riusciti a bloccare la pandemia è perché abbiamo lasciato al virus la possibilità di sfuggire, perché abbiamo spesso interpretato in maniera non corretta il risultato di un test negativo, perché abbiamo pensato che in famiglia non ci fosse pericolo di contagio. Se non correggeremo questi punti di debolezza, difficilmente potremo festeggiare il prossimo capodanno senza il virus.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Quando è a rischio la libertà di stampa, la democrazia soffre

“La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.

(Piero Calamandrei)

 

Se è sempre valida per la libertà in generale, la citazione del giurista Calamandrei riportata qui sopra lo è a maggior ragione per la libertà di stampa. Tanto più in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, segnato dalla crisi dell’editoria, dal declino dell’informazione professionale, dai social network e dalle fake news. È proprio quando comincia a mancare la libertà di stampa, infatti, che se ne apprezzano di più la funzione e la necessità. E allora è a rischio anche la qualità della vita democratica.

Può essere utile a tutti, perciò, leggere il saggio di Giancarlo Tartaglia, segretario generale della Fondazione Paolo Murialdi, intitolato Ritorna la libertà di stampa (il Mulino). Sulla base di una ricca documentazione, il volume ricostruisce le vicende del giornalismo italiano nei quattro anni cruciali (1943-1947) tra la caduta del fascismo e la Costituente. Una “zona crepuscolare”, per dirla con lo storico inglese Eric Hobsbawm, di cui conserviamo la memoria attraverso i libri e la testimonianza dei nostri padri.

Per la stampa nazionale, quello fu un passaggio sofferto e tormentato che tuttavia conteneva i germi di una rinascita decisiva per la nostra democrazia. Ma il saggio di Tartaglia diventa di particolare attualità nella fase che stiamo attraversando: una fase in cui, purtroppo, ci manca l’aria e non solo metaforicamente. Fra le tante severe lezioni impartite dall’epidemia, c’è anche quella che riguarda l’attendibilità e l’affidabilità delle notizie infettate dal virus della disinformazione o della cattiva informazione.

Nel ventennio fascista – racconta l’autore del libro – “la visibilità dei giornalisti era stata maggiore di qualsiasi altra professione”. Medici, avvocati, ingegneri, architetti avevano potuto attraversare la dittatura senza la necessità di compromettersi né a favore né contro il regime. E invece, come scrisse Luigi de Secly, il direttore che avrebbe guidato la Gazzetta del Mezzogiorno di Bari dal ’43 al ‘60, unico quotidiano a non sospendere mai le pubblicazioni durante la transizione, “non così purtroppo è avvenuto per i giornalisti, per i quali la politica era un ferro del mestiere e specialmente per coloro che come noi traevano dall’esercizio professionale lo stretto necessario per l’indispensabile pane quotidiano”. Altri, come Raffaele De Luca dalle fila del Partito d’Azione, sosteneva piuttosto che quella dei giornalisti era la “classe più screditata d’Italia, ancor più della burocrazia corrotta”, perché la grande maggioranza di loro per vent’anni aveva “anteposto la carriera alla propria coscienza”.

Oggi che il fascismo fortunatamente non c’è più, la libertà d’informazione è minacciata dalla crisi economica dell’editoria; dalle maxi-concentrazioni; dall’assalto dei grandi gruppi industriali che perseguono i propri interessi e i propri affari; dallo sfruttamento dei giornalisti, sempre più precari e malpagati o non pagati affatto; e perfino dall’incertezza delle loro pensioni, insidiate dalla diminuzione dei redattori professionisti e dei contributi previdenziali. Tant’è che ora il governo promette d’intervenire per legge, come reclama la Federazione nazionale della stampa: da una parte, con il cosiddetto “equo compenso” e, dall’altra, con l’allargamento della base ai “comunicatori” che lavorano negli uffici stampa degli enti pubblici o delle aziende private.

C’è bisogno di far circolare più aria, in questo 2021 che comincia, anche all’interno delle redazioni dei giornali e in tutto il sistema dell’informazione. A favore dei giovani, innanzitutto. Ma più in generale a beneficio dei cittadini, del pluralismo e della libertà di stampa.

 

Con la tecnologia i lavoratori hanno posti sempre più modesti

Secondo un sondaggio Ipsos la maggior preoccupazione degli italiani (78%) per i mesi e gli anni a venire non è la salute ma l’economia, in particolare la possibilità di perdere il posto di lavoro ammesso che ciò non sia già avvenuto (come ci informa il Fatto Quotidiano.it già più di mezzo milione di precari e di autonomi ha perso il famigerato “posto di lavoro”, inoltre a marzo, cioè fra pochissimo, scade il blocco dei licenziamenti).

Per quanto possa sembrar strano, addirittura sbalorditivo a noi moderni, in era preindustriale non esisteva il problema, per noi oggi così pressante, del “posto di lavoro”, nel senso che tutti ce l’avevano e non potevano perderlo. Quella società era composta al 90% da contadini e artigiani. Se il contadino era proprietario della terra viveva del suo e sul suo, se la aveva in concessione dal feudatario (in genere per 99 anni) è vero che non poteva lasciarla (il cosiddetto “servo della gleba” o, più gentilmente, “servo casato”) ma è anche vero che non poteva esserne cacciato. I contadini vivevano insomma di autoproduzione e autoconsumo e solo le carestie, che in Europa avevano cadenza trentennale, potevano metterli in crisi. Ma anche all’artigiano era garantito uno spazio vitale perché gli statuti artigiani proibivano la concorrenza, che invece è la stella polare del nostro sistema. Così come era proibita la pubblicità delle proprie botteghe e dei propri prodotti, quella pubblicità che oggi è la linfa stessa della concorrenza (tout se tient). Ma, si dirà il lettore, senza concorrenza che cosa impediva allora all’artigiano di produrre manufatti mediocri? C’è una ragione, diciamo così, legale, e un’altra psicologica. Quegli stessi statuti imponevano standard molto severi sotto i quali non era possibile scendere, ma era innanzitutto lo stesso artigiano che per amor proprio voleva dare sempre il meglio, il cosiddetto capodopera, al compratore (ancora oggi i tombini più antichi di Milano conservano le iniziali di chi li concepì).

Nel clima di crisi occupazionale torna di moda il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. Nella sua ‘Nota diplomatica’, quel curioso personaggio di James Hansen che fu console statunitense in Italia, ci informa che diverse multinazionali fra cui Unilever e Microsoft stanno sperimentando la “settimana corta”, che avrebbe un doppio vantaggio: una maggior concentrazione del dipendente in un minor numero di ore di lavoro e risparmio energetico. Si tratta insomma di un cottimo al contrario, io ti spremo di più e quindi tu lavori di più, che non risolve il problema, perché il numero dei lavoratori rimarrebbe lo stesso dato che non avrebbe senso per queste aziende, viste le premesse da cui partono, assumere altri lavoratori. Io penso che abbiamo utilizzato malissimo le straordinarie tecnologie che abbiamo inventato. Avrebbero potuto servire per far fare alla tecnica una buona parte del lavoro e lasciare agli uomini maggior tempo per se stessi. Invece l’abbiamo usata per cacciare la gente dai posti di lavoro che già occupavano per andarsene a cercare altri più modesti, sempre più modesti o addirittura chimerici. Facciamo un esempio semplice, semplice. Nelle giornate di piena i dieci caselli dell’Autostrada, poniamo, Genova-Milano, erano occupati da esseri umani. Ora ce n’è uno solo, tutti gli altri sono automatizzati. Che fine han fatto gli altri nove? A quei caselli dovrebbero lavorare sempre dieci operatori, ma con orario dimezzato. Questo sarebbe il famoso “lavorare meno, lavorare tutti”. A dirla pare semplice, ma evidentemente non è così nelle infinite interconnessioni della società attuale di cui abbiamo avuto anche un esempio, solo un esempio, nella difficoltà delle Autorità, politiche, scientifiche ed economiche, nel definire esattamente, in epoca Covid, una filiera di produzione.

 

Un Mattarella saggio che difende la carta

Dal Colle del Quirinale si vedono, oltre che la sede della Corte Costituzionale, anche i palazzi della politica. Naturalmente, per vedere meglio e capire di più quello che si guarda bisogna avere qualche conoscenza di base, altrimenti si rischiano svarioni e errori di valutazione. Non possono esserci dubbi che il presidente Mattarella possegga molto di più che semplici conoscenze di base. Parlamentare per diverse legislature, più volte ministro, per alcuni anni anche giudice costituzionale, Mattarella è persona notevolmente informata dei fatti, dei non fatti e dei malfatti. Inoltre, occupa una carica e svolge un ruolo che è al centro del sistema politico e, al tempo stesso, gli impone e gli consente di continuare a ricevere informazioni.

Non concepita dai Costituenti come una carica di grande rilevanza politica, la presidenza della Repubblica italiana ha acquisito una imprevista centralità a partire dall’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo in concomitanza nient’affatto casuale con il declino dei partiti politici. Pur ancora scelto dai partiti, il presidente della Repubblica si è trovato dotato di poteri istituzionali e politici significativi e costantemente sollecitato a utilizzarli anche a fronte delle debolezze e delle carenze dei partiti politici. Comprensibilmente, tanto più il presidente conosce(va) le istituzioni e, in particolare, il Parlamento (e i parlamentari) tanto meglio è in grado di svolgere tutti compiti che gli affida la Costituzione. Alcuni critici di parte hanno accusato i due presidenti di più lunga esperienza parlamentare, Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999) e Giorgio Napolitano (2006-2013; 2013-2015) di avere ecceduto nell’esercizio dei poteri presidenziali, di avere talvolta operato, certo non contro la Costituzione, ma extra Constitutionem. Dissento, ma capisco che da questa critica possa discendere talvolta la richiesta/proposta che il presidente venga eletto direttamente da popolo.

Proprio perché per esperienza istituzionale e per cultura politica, Mattarella è perfettamente attrezzato sia a fare pieno ricorso ai poteri e alle prerogative presidenziali sia a evitare improduttivi scontri con quel che rimane dei partiti, finora la sua presidenza è stata apprezzata da quasi tutti. Di recente, persino dal quotidiano progressista spagnolo El Paìs, ma, inevitabilmente, non è sfuggita alle critiche particolaristiche di coloro fra i politici che preferiscono muoversi in base ai loro interessi e vantaggi particolaristici. Il presidente Mattarella non ha mai replicato direttamente, ma le sue azioni e le sue decisioni, sempre riferibili in maniera coerente alla Costituzione, parlano per lui. Che si trattasse di nominare il presidente del Consiglio oppure di procedere o no allo scioglimento del Parlamento, Mattarella ha fatto costante e preciso riferimento alla Costituzione. Nei suoi messaggi di fine anno agli italiani, Mattarella, contrariamente ad alcuni suoi predecessori, non ha mai replicato ai critici, ma ha sempre lasciato trasparire le sue preferenze.

Il presidente, “arbitro” si è definito nel discorso di accettazione, ha, per l’appunto, regolamentato il gioco, spesso falloso, delle diverse parti politiche. Lo ha fatto con riferimento a due stelle polari: la rappresentanza dell’unità nazionale che gli compete a norma di Costituzione e l’equilibrio e la stabilità del sistema politico. In questa chiave, è possibile apprezzare appieno alcuni contenuti più propriamente politici del suo messaggio di fine anno. Il richiamo all’Unione europea e alla sua capacità di imparare e migliorare rispetto a quanto (non) fatto più di dieci anni fa per contrastare la crisi economica e la valutazione positiva della scienza nell’affrontare la pandemia debbono fare fischiare le orecchie ai sovranisti e ai no-vax. L’annuncio tout court che il 2021 è l’ultimo anno della sua presidenza indica la sua indisponibilità ad accettare una eventuale rielezione. Ricordo che Napolitano si sentì obbligato ad una rielezione a tempo a fronte di enormi pressione di parlamentari incapaci di trovare il suo successore.

Due punti chiave che Mattarella ha sofficemente inserito nel suo discorso riguardano direttamente il governo e il suo futuro. Da un lato, sta l’invito a “non perdere tempo”. I ritardi e gli errori del passato, ricordati da Mattarella, solo in parte giustificabili, non debbono essere riprodotti. Dall’altro, ed è la frase più forte del suo discorso, “non vanno sprecate energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte”. Ciascuno, nella coalizione di governo e nei ranghi delle opposizioni, faccia, ma so che è un appello disarmato, il suo esame di coscienza. Comunque, grazie, presidente Mattarella.

 

Scuola Servono riaperture graduali e la priorità ai docenti per i vaccini

In questi giorni sembra esserci una sola certezza: la riapertura di tutte le scuole al 50%, per poi passare all’anomalo 75%. Penso sarebbe importante porsi qualche problema su questo e distinguere fra ciclo primario e secondario. La contagiosità dei più piccoli è minore, le loro scuole sono vicine a casa e con le scuole chiuse dovrebbero essere seguiti da un familiare. Non così gli adolescenti, contagiosi quanto gli adulti, con stili di socializzazione molto pericolosi e istituti spesso lontani, per raggiungere i quali prendono più di un mezzo pubblico. Per Natale si è chiesto di stare al massimo in 4 in casa, com’è pensabile che in un’aula angusta ci possano stare tra 15 e 25 persone senza pericolo? Poiché la stagionalità è un fattore cruciale nella diffusione del contagio delle malattie virali e la seconda ondata si è scatenata proprio con la riapertura delle scuole di settembre, non sarebbe più serio gestire a distanza i mesi pericolosi e riaprire ad aprile, già con molti vaccinati (perché tra le categorie da vaccinare con priorità non ci sono i docenti delle scuole over 55 anni?), quando la bella stagione mitigherebbe i rischi di contagio?

Prof. Antonio Mussino

 

Gentile Professore, il suo suggerimento è legittimo e certo non errato. È infatti probabile che alle scuole sarà lasciata autonomia per decidere se chiudere più in là e permettere così di recuperare la didattica eventualmente perduta nelle pieghe dell’emergenza. Tenga conto che i docenti non si sono comunque mai fermati, anzi. Sul resto, va detto che in effetti le scuole primarie e le secondarie di primo grado (a eccezione delle zone rosse) hanno continuato la didattica in presenza anche prima di gennaio, dunque il problema non si pone. Le superiori sono la criticità, è vero. Ma è anche vero che a oggi non c’è una incontrovertibile prova del fatto che sia la scuola a favorire i contagi. Non lo si può neanche escludere, quindi questo potrebbe essere uno di quei casi in cui la virtù sta nel mezzo, ovvero nel riaprire gradualmente, gestendo i mezzi di trasporto e i flussi, mettendo alla prova la capacità di controllo degli enti locali grandi e piccoli e delle scuole stesse, senza continuare a sacrificare l’istruzione. I teenager troverebbero comunque il modo di riunirsi, proprio come gli adulti. Sui vaccini concordo: la scuola dovrebbe avere priorità.

Virginia Della Sala

Mail box

 

Un grazie speciale a tutto il team del “Fatto”

Gentile direttore, io la ringrazio. Lei e tutta la sua squadra mi avete fatto sentire meno solo. Ricordo l’emozione del vostro primo numero, la delusione perché non riuscivo a trovarlo e il sorriso la sera dopo il lavoro, mentre rientravo a casa stringendo una copia tra le mani, la stessa che ancora conservo gelosamente. In tutti questi anni avete avuto il merito di arricchirmi sia dal punto di vista umano che intellettuale. Grazie per ciò che fate, per le professionalità e serietà con cui svolgete la vostra missione, per la voglia di verità che vi contraddistingue. Infine, vi ringrazio perché ogni volta che mio figlio di sei anni mi chiede il motivo per cui leggo il giornale tutti i giorni, posso ricordargli senza vergogna l’importanza della lettura e di un’informazione corretta e leale.

Daniele Galli

Ho pensato al prossimo scenario politico…

Mi sono immaginato quanto segue (che in parte si riallaccia al “famoso” sogno di Antonio Padellaro ma che ha una fine ben diversa): Renzi sfiducia il governo Conte, Conte in Parlamento lo manda a quel paese a reti unificate, elezioni anticipate con Renzi che si presenta come capo di Forza Italia, Salvini diventa premier, Berlusconi presidente della Repubblica italiana. Mi viene da stare male solo a pensarci: ma potrebbe davvero accadere?

Marco Paravisi

 

Certo, è possibilissimo.

M. Trav.

 

Direttore, cosa ci dice dell’attacco di Crosetto?

Caro direttore, mi farebbe piacere avere la sua opinione riguardo a quell’articolo in cui esprime l’auspicio di trovare 10 parlamentari dell’opposizione, salvando maggioranza e legislatura, evitando i continui attacchi di quel pelo superfluo di Iv, ma a questo proposito criticato della non coerenza, confrontato al grave fatto di Razzi e Scilipoti passati a suo tempo con Berlusconi i quali compromisero la tenuta del governo, quando il Fatto Quotidiano giustamente non perse tempo a contestare tale nefandezza parlamentare.

Roberto Mascherini

 

Caro Travaglio, ormai in casa i tg e i giornali non trovano più audience con grande beneficio di orecchie e tasche. Le uniche fonti sono il Fatto e una rapida scartabellata mattutina nel pensatoio preposto alle sacre abluzioni facendo scorrere i notiziari Google che riportano una carrellata dei titoli più significativi di alcuni quotidiani che possono essere letti solo in quella sede… Sono scatenati contro di te perché hai avuto l’ardire di proporre a Conte di supplire in sede di voto alle Camere, le minacciate defezioni degli onorevoli “renzisti” con l’ingresso dei dissidenti delle stesse fila politiche e di altri al fine di salvare il governo dalle dimissioni. Non ti hanno risparmiato pesanti allusioni e avvicinamenti alle corruttele berlusconiane in favore degli Scilipoti e dei Razzi. Critiche avanzate dal lotar della Meloni, tale Guido Crosetto, un altro che aveva preannunciato il suo ritiro dalla politica, una droga di cui non può fare a meno come molti altri perché sta ancora là a sparare boiate!

Maurizio Dickmann

 

Cari Maurizio e Roberto, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Nel sistema proporzionale, le alleanze si fanno in Parlamento e ciascun parlamentare è libero di votare come gli pare, purché lo faccia gratis. Ricevere attacchi dai complici di chi comprava senatori a suon di milioni (o di mignotte) è per me una medaglia.

M. Trav.

 

Crisi di governo, è tutta colpa dell’invidia

Ecco perché, secondo me, Renzi vuole far cadere Conte e sostituirlo con chicchessia: Renzi ha fatto il presidente del Consiglio per 1024 giorni, Conte ad oggi, tra primo e secondo governo, è arrivato a 946 giorni. Perciò tra meno di cento giorni supererebbe la durata del governo Renzi e gli rode; chiunque succeda a Conte gli va bene, perché non deve superare la sua durata di governo. Buon 2021.

Michele Lacerenza

 

Auguroni: facciamoci carico del nuovo anno

Buon anno a tutti voi, e grazie per il vostro prezioso lavoro. Se non fosse per voi, saremmo messi davvero male in questo Paese a livello di informazione. Dipenderà da quel che faremo nel 2021, se il 2020 non sarà tutto da buttar via.

Giuliano Checchi

 

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La proposta per resistere alle cause pendenti di Natale G. è molto interessante. Proviamo a fare qualcosa, lanciamo almeno una sottoscrizione a difesa del Fatto; se la proposta di Natale fosse un po’ complicata da realizzare e richiedesse tempi lunghi, noi ci siamo.

Carlo Moscardi

 

Le minacce di Bellanova mi ricordano qualcosa

Quando la ministra Bellanova minaccia di dimettersi, mi vengono in mente le ultime parole di Nerone morente, riferite da Svetonio: “Qualis artifex pereo (‘Quale artista muore con me’)”.

Giuseppe Trippanera

Buoni propositi per il 2021: portare la pace, bere meno e coltivare insetti

È una settimana che sono euforico: Babbo Natale mi ha portato in dono la condirezione di Kung Fu Magazine! Succede, quando fai il bravo bambino. C’è invece chi è diventato direttore di Repubblica. Davvero è stato così cattivo? E dire che non credevo all’esistenza di Babbo Natale. (Ci credevo quando andavo all’asilo dalle suore, ma all’università ho avuto i primi dubbi). Bè, sono felice di essermi sbagliato. Cosa ho fatto per meritarmi il bel regalo? All’inizio dell’anno scorso ho scritto una lista di buoni propositi, e non ho desistito finché non li ho mantenuti. E poiché quest’anno mi piacerebbe la presidenza della Rai (dopodiché la chiuderei, serve solo alla Kasta), ecco la mia lista dei buoni propositi per il 2021:

1) Ridurmi chirurgicamente il pene. Di nuovo.

2) Troncare la mia storia segreta con Alessandra Mussolini.

3) Farmi crescere basette talmente lunghe da doverci fare i buchi per le braccia.

4) Unire i miei due hobby, sesso anale e insetti, in un unico hobby tutto da esplorare.

5) Rimuovere col laser il tatuaggio dei Lunapop dal petto, aggiungerne uno dei BTS sulla fronte.

6) Avvisare con cautela Cossiga che non è più presidente.

7) Ammanettarmi a Catrinel Marlon, buttare la chiave.

8) Suggerire a Paul McCartney una nuova versione dell’album Let It Be, stavolta solo con Ringo.

9) Completare entro l’estate il puzzle di Padre Pio da diecimila pezzi.

10) Essere uno zio migliore per Come-cazzo-si-chiama.

11) Smettere di basare tutte le mie decisioni importanti su quello che imparo dai cinepanettoni con Boldi e De Sica.

12) Scrivere un saggio sul tema: “Dio è rilevante?” Ricavarne una puntata di Don Matteo.

13) Confessare a Naomi la scappatella con Heidi Klum. (Però prendere precauzioni: una volta Naomi emise un gemito sessuale mangiando un cheeseburger. Se mangiare un cheeseburger ti fa fare un gemito sessuale, sei flippata. È quando cominciò a scoparsi i Loacker che capii che aveva un problema).

14) Restituire a Mediaset la costumista trafugata all’epoca di Mai dire Gol.

15) Accendere un mutuo per finanziare il mio nuovo monologo satirico contro le banche italiane.

16) Bere meno vinavil.

17) Riprendere il mio ruolo di “Ricky Memphis” nella nuova stagione di Distretto di polizia.

18) Quando le mucche ridono, gli esce il latte dal naso? Verificare.

19) Smetterla di entrare gratis nei club di scambisti spacciandomi per Fabio Fazio.

20) Puzzare meno di Dom Bairo.

21) Fare causa a Satana per inadempienza contrattuale, dato che tornare in tv su Blob non soddisfa appieno la clausola sulla notorietà.

22) Dopo il successo del mio proposito dell’anno scorso sulle liceali in minigonna, estenderlo quest’anno alle milf in minigonna.

23) Portare la pace in Medio Oriente, oppure farsi meno seghe, a seconda di quale delle due risulti più facile.

24) Basta battute su De Luca.

25) Naah, quell’uomo è una miniera.