Test rapidi verso l’ok, ma Speranza resiste al pressing regionale

In Veneto, nella Regione che da settimane è la più colpita, sono molto chiari: “Mercoledì scorso abbiamo fatto quasi 18 mila tamponi molecolari e oltre 34 mila antigenici: con 2.986 positivi, la percentuale sui soli molecolari supera il 16%, ma se la calcolassero anche sugli antigenici sarebbe del 5,7”, spiegano dallo staff del presidente Luca Zaia. Insomma si sentono penalizzati perché la percentuale poi incide – con gli altri 20 parametri – sulla scelta delle zone rosse, arancioni o gialle, anche se il Veneto è sempre stato giallo perché i dati del contact tracing e degli ospedali sono meno preoccupanti che altrove. Replicano dal ministero della Salute che “con le regole attuali chi è positivo all’antigenico deve avere la conferma del molecolare”, quindi è giusto calcolare in quel modo l’indice di positività.

La discussione è aperta. Le Regioni, specie il Veneto e il Piemonte, il cui assessore Luigi Icardi coordina la commissione Salute delle Regioni, vogliono quasi l’equiparazione dei test antigenici – rapidi, meno costosi e ormai molto diffusi – ai molecolari, che richiedono spese assai maggiori e non meno di 72 ore tra il prelievo, l’analisi in laboratorio e i risultati. E soprattutto chiedono “che siano precisati chiaramente – si legge nella lettera inviata il 24 dicembre da Icardi al ministro Roberto Speranza e ai dirigenti del ministero – il totale dei test effettuati dalle singole Regioni in tutti i bollettini del ministero e della Protezione”, che oggi riportano solo i molecolari. Peraltro tutti, anche quelli di controllo su chi era positivo e attende di negativizzarsi, che invece non sono presi in considerazione nel report settimanale dove le percentuali di positività sono più alte e preoccupanti: ieri eravamo al 14,1 per cento, ma sui soli test diagnostici saremmo al 31,7. Gli antigenici, assicurano dal ministero, saranno inseriti nei bollettini. Il rischio è che, con lo screening, le Regioni abbassino notevolmente il tasso di positività.

La discussione si è aperta perché la Salute, forse lunedì, deve emanare una circolare che modifica la definizione di caso secondo le linee guida dell’Ecdc, il Centro di controllo e prevenzione delle malattie europeo di Stoccolma. In alcuni casi basterà la positività all’antigenico: senz’altro quando ci sono il link epidemiologico (cioè il contatto stretto con un positivo) e i sintomi. Oggi l’antigenico è equiparato al molecolare, secondo la circolare del 12 ottobre, solo per certificare la negatività dei contatti stretti dopo 10 giorni di quarantena (anziché i 14 canonici) oltre che per lo screening, in particolare nelle scuole. Il suo impiego sarà esteso, anche perché può essere ripetuto più volte in breve tempo. Il 22 dicembre il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione del ministero, ha incontrato Icardi e i tecnici delle Regioni. Sulla misura dell’estensione degli antigenici non c’è ancora accordo, le Regioni chiedono di definirne l’impiego nello screening degli operatori sanitari, comprese le Residenze per anziani.

Per il ministero, come per l’Ecdc, il test molecolare rimane il “gold standard”. La differenza c’è. Le aziende produttrici dei test antigenici dichiarano una specificità del 95-97 per cento, quindi è basso il rischio di falsi positivi. Ma la sensibilità a seconda dei casi oscilla tra il 70 e l’86 per cento. Questo significa che il rischio di falsi negativi è tutt’altro che trascurabile ed è un problema serio: possono contagiare gli altri. Gli ultimi kit danno risultati migliori, la circolare potrebbe indicare quali test devono essere utilizzati.

coordinatoreL’assessore alla Sanità del Piemonte Luigi Icardi coordina la commissione Salute delle Regioni

“Così Sparkasse fece da schermo al denaro leghista”

Gli investigatori le chiamano “back to back”. Sono operazioni finanziarie complesse: una società deposita soldi presso una banca, a garanzia di un finanziamento di pari importo, che l’istituto di credito concede subito dopo a un beneficiario indicato dalla società stessa. Insomma, un modo sofisticato per far uscire denaro dalla porta e farlo rientrare dalla finestra. Un meccanismo che la Lega avrebbe utilizzato fra il 2016 e il 2018 per riciclare parte del tesoro dei 49 milioni di euro spariti. È questo quello che racconta la rogatoria inviata dalla Procura di Genova alle autorità giudiziarie del Lussemburgo. Sei pagine – lette dal Fatto – che spiegano nei dettagli gli indizi su cui si basa la pista lussemburghese dei magistrati liguri.

Tutto inizia il 29 marzo del 2018, quando al procuratore aggiunto Francesco Pinto e al sostituto Paola Calleri arriva una segnalazione di operazione sospetta firmata dall’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia. È passato meno di un mese dalle elezioni che daranno vita al governo gialloverde, con Lega e Movimento 5 Stelle alleati. I detective della Uif notano uno strano giro di soldi che, segnalano, potrebbe essere collegato ai 49 milioni di euro della Lega. Il 20 maggio del 2016 dall’Italia è stato fatto un bonifico da 10 milioni di euro verso il Lussemburgo. I soldi sono partiti da un conto detenuto da Euroclear presso l’Istituto centrale delle Banche popolari italiane: due entità che per statuto svolgono funzioni di deposito per conto di non meglio specificati clienti. Insomma, impossibile dire con certezza chi sia il titolare effettivo di quei 10 milioni di euro. Di certo i soldi finiscono su un conto corrente lussemburghese intestato alla Cassa di Risparmio di Bolzano, cioè la Sparkasse, presso la banca privata Edmond de Rotschild Asset Management.

Armin Weissenegger, oggi responsabile della direzione finanza e tesoreria della Sparkasse, firma l’ordine con cui quei 10 milioni vengono investiti su un fondo: si chiama Pharus Sicav ed è gestito dalla finanziaria lussemburghese Pharus Management Lux S.A., si legge nella rogatoria. Questo è quanto avvenuto nel maggio del 2016.

La Banca d’Italia segnala però anche un’altra movimentazione. Un’operazione datata gennaio 2018. Siamo nel periodo immediatamente successivo al sequestro dei conti della Lega da parte della Guardia di finanza di Genova, e immediatamente precedente alle elezioni politiche che si terranno a marzo. I detective di Banca d’Italia segnalano che a gennaio del 2018, su ordine sempre di Weissenegger, 3 di quei 10 milioni sono stati disinvestiti dal fondo Pharus Sicav e riportati in Italia, su un conto corrente della Sparkasse. È con questa motivazione che i magistrati liguri nel 2018 hanno chiesto collaborazione ai colleghi lussemburghesi. Perché è attraverso il Granducato che sarebbe avvenuta un’operazione pensata – si legge nella rogatoria – “in modo tale da ostacolare la riconducibilità di essa al partito politico Lega Nord e quindi a reati commessi dai rappresentanti di tale movimento politico”.

L’ipotesi è che 10 dei 49 milioni della truffa siano stati insomma fatti sparire in Lussemburgo grazie a un’operazione “back to back” della Sparkasse, o Cassa di Risparmio di Bolzano. Sarebbe cioè stata la stessa banca scelta nel 2013 da Roberto Maroni come istituto di fiducia del partito di via Bellerio a spostare i soldi nel paradiso fiscale europeo facendo da paravento alla Lega. Una ricostruzione che l’istituto altoatesino ha sempre smentito, ribadendo che quei 10 milioni trasferiti nel 2016 in Lussemburgo non erano assolutamente soldi del Carroccio, ma parte di ordinarie operazioni di investimento della banca stessa.

L’audio che incastra la lega sui 10 mln spariti

L’incontro avviene nell’estate del 2018 in un locale del centro di Bolzano, proprio mentre in Lussemburgo sono in corso le perquisizioni ordinate dalla Procura di Genova. Da mesi i media danno conto della caccia ai 49 milioni di euro della Lega. Una parte del tesoro scomparso dalle casse del partito, 10 milioni, sarebbe partito da una banca altoatesina, la Sparkasse, per essere investito nel Granducato e poi ritornare parzialmente in Italia. È questa l’ipotesi dei magistrati liguri che indagano per riciclaggio, ed è questo l’argomento al centro del colloquio, finora inedito, fra due ex manager di Sparkasse. Uno scambio da cui emerge preoccupazione a proposito di quanto stanno pubblicando i giornali in quei giorni: “È uscito fuori di tutto e di più. Il problema sono questi dieci milioni”. E ancora: “Lui mi diceva che li c’è un manager che è un leghista, uno della Lega, all’interno di… come si chiama, la società…”.

Il dialogo inedito

A parlare è Sergio Lovecchio, 51 anni, fino al maggio del 2016 responsabile finanziario della cassa di risparmio di Bolzano. Dall’altro capo del tavolo c’è Dario Bogni, 60 anni, svizzero, ex capo della tesoreria di Sparkasse. Nel momento dell’intercettazione i due lavoravano fianco a fianco nella Euregio Plus Sgr Spa, società di gestione del risparmio controllata dalla provincia autonoma di Bolzano, retta da un’alleanza tra Svp e Lega. Durante l’incontro intercettato dagli investigatori i due manager mostrano familiarità con i vertici della politica locale: “Me l’ha chiesto Kompatscher – dice Lovecchio a Bogni parlando di altre vicende bancarie – ma lui si imbarazza per queste cose”. Il riferimento è al governatore del Trentino-Alto Adige Arno Kompatscher, artefice del ribaltone che ha portato il partito autonomista Svp a tradire l’alleanza di centrosinistra per andare al governo della Regione insieme alla Lega.

Quanto a Bogni, secondo gli investigatori avrebbe avuto un ruolo operativo nel trasferimento dei 10 milioni di euro di Sparkasse: “Il problema – dice lo svizzero – è questo… è uno… il collegamento… il collegamento è questo Brandstätter (attuale presidente di Sparkasse, ndr)”. Il dialogo risale al 18 settembre del 2018 e viene captato da una registrazione ambientale dei carabinieri del Ros di Bolzano. I militari in quel momento stanno indagando sulle presunte malversazioni nella gestione della cassa di risparmio altoatesina. Molti accenni di quella conversazione interessano però la Procura di Genova, che a sua volta, con il coordinamento del procuratore aggiunto Francesco Pinto, sta cercando le prove del collegamento tra i 10 milioni di euro e la Lega. Per questo l’audio viene trasmesso ai magistrati liguri.

l’affare lussemburghese

Ad accendere i fari sull’affare lussemburghese sono varie coincidenze. La prima è che il Carroccio, nel gennaio del 2013, aveva aperto un conto corrente alla Sparkasse depositando in tutto una decina di milioni di euro tra liquidità e titoli finanziari: quel deposito viene svuotato nel giro di sei mesi, fino ad essere chiuso. Tre anni più tardi, nel 2016, su un conto deposito detenuto da Sparkasse in Lussemburgo, presso la banca privata Edmond de Rotschild Asset Management, viene accreditato un investimento di un ammontare molto simile: 10 milioni di euro. Soldi che Sparkasse ha sempre rivendicato come propri e non riconducibili alla Lega.

“Sergio, Sergio – dice ancora Bogni – ma ti rendi conto che puoi dire che nel 2014, nel 2016, il bilancio della banca era falso? Tu quei fondi li hai messi dentro come fondi di proprietà. Se viene fuori che non lo sono vuol dire che il bilancio è falso”. “Ma no, sono di proprietà”, lo rassicura Lovecchio. E ancora Bogni: “Per chiudere un po’ il cerchio quella roba qua è cresciuta su una serie di coincidenze strane, non c’è niente da nascondere, è un investimento normale. Almeno io per la parte della banca… perché alla fine mi è venuto un po’ il dubbio…”.

Un ulteriore elemento considerato sospetto dai pm è la richiesta di rientro in Italia di 3 milioni di euro dell’investimento iniziale, che avviene a gennaio del 2018, in prossimità di due eventi ritenuti significativi dagli investigatori. Primo: il sequestro dei conti leghisti, che ammonta proprio a 3 milioni di euro e avviene nel settembre del 2017. Secondo: le elezioni politiche del marzo 2018. Insomma, il sospetto degli investigatori è che la Lega, per ripianare i 3 milioni venuti a mancare a causa del sequestro giudiziario, abbia riportato in Italia un ammontare equivalente parcheggiato segretamente in Lussemburgo un paio di anni prima. Soltanto un’ipotesi, per ora.

Di certo, uno degli operatori bancari coinvolti nell’operazione di rientro dal Granducato all’Italia dei 3 milioni ha segnalato quella movimentazione come operazione sospetta alla sezione antiriciclaggio della Banca d’Italia. “L’ha segnalata qualcuno, qualche coglione della Rothschild, che è la banca depositaria – sbotta Bogni con Lovecchio – non so per quale motivo quando sono entrati non li hanno segnalati e quando quest’anno hanno fatto il rientro dei 3 milioni… bam… A noi ci sbattono fuori dalle banche dalla sera alla mattina. Ti dicono: ‘Questo qua? Mah, non ci piace…’. Ne hanno beccato uno a Panama nel 2004, un banker che conosco, guadagna un milione e mezzo di dollari l’anno… C’erano italiani, con tutta la fabbrica… basta, compliance, e via tutto…”. E, ritornando all’investimento di Sparkasse: “Qui ha visto i 3 milioni, qualcuno da Rotschild ha visto che mancavano documenti… Magini mi rompeva le balle e continuava a dirmi: ‘Certo che è una serie di coincidenze strana…’. Si sapeva da giugno che avrebbero chiesto una rogatoria e sono andati lì alla…”. “Stamattina, sarebbe ieri?”, domanda Lovecchio. “Lunedì e martedì”.

I due, più in generale, sono preoccupati da problemi giudiziari: “I miei avvocati – prosegue Lovecchio – mi hanno detto: “Che cazzo vuoi fare, vai lì e non dire un cazzo… se tu fai l’informatore sei un coglione, questo è il messaggio”.

L’avvocato Aiello: il ruolo

Ma ritorniamo a quel riferimento, al presidente della banca Gerhard Brandstätter, nominato al vertice di Sparkasse nel 2014. Il “collegamento” che sembra impensierire il broker Bogni è quello con il socio con cui Brandstätter ha condiviso per anni uno studio legale a Milano: Domenico Aiello, avvocato di fiducia dell’allora segretario federale della Lega e poi presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni. “Credo che sia ancora con Aiello, in quello studio a coso, a Milano”, dice Lovecchio a Bogni riferendosi a Brandstätter. Di certo, al di là del colloquio intercettato, gli incroci tra Aiello, Brandstätter, Sparkasse e la Lega sono parecchi. Nel 2013, quando il Carroccio aveva un conto corrente attivo presso Sparkasse, il partito era difeso dallo studio legale Aiello-Brandstätter. Lo stesso Aiello, fino all’inizio del 2015, ha presieduto l’organismo di vigilanza della banca altoatesina. E Maroni, oltre ad aver scelto lo studio Aiello-Brandstätter come difensore della Lega, quando nel 2018 ha lasciato il Pirellone per tornare alla sua antica professione, l’avvocatura, ha ricominciato ad esercitare proprio nello studio di Aiello.

Contattata dal Fatto, Sparkasse ha fatto sapere che “la banca ha già fornito alla magistratura la propria posizione in proposito, per chiarire l’assenza di comportamenti illeciti o di connessioni con persone sottoposte ad indagini. L’operazione di investimento in Lussemburgo, di cui si sono occupati i media, è stata un’operazione svolta dalla banca per proprio conto, e non per conto di clienti, come normale investimento di tesoreria della banca stessa ed ha fornito ampie evidenze documentali in proposito alla magistratura”.

Brandstätteter ha sempre detto di non aver “mai saputo che la Lega avesse aperto un conto presso Sparkasse, se non ex post”. Ieri la banca ha aggiunto che “negli anni 2013/2016” Brandstätter “ha avuto semplicemente un’associazione professionale con l’avvocato Aiello, conosciuto per precedenti esperienze professionali, che era basata su una mera collaborazione tra le attività svolte dallo studio di Bolzano per quanto riguarda interessi in provincia di Milano di propri clienti”. Per quanto risulta al Fatto, nessuna delle persone citate in questo articolo è indagata dalla Procura di Genova.

“A 16 anni già gridavo. Oggi dico: non si può esser santi per lottare”

C’è quello che accade quando guardiamo una nostra fotografia da adolescente. Ci si riconosce ma solo nell’aspetto. I lunghi capelli ramati, le camicie fuori dai pantaloni… così Roberto Saviano si rivede in quel 16enne fuori dal liceo Diaz di Caserta. E così lo rivediamo noi all’inizio e alla fine di Gridalo, il suo ultimo libro, il più personale. Un viaggio in cui a saldarsi sono i destini di quel ragazzo oggi uomo e del nostro presente, grazie a “testimoni” quali Giordano Bruno, Pasolini, George Floyd, Jamal Khashoggi, in “un dialogo ispirato al più sacro dei dialoghi: l’opera di Platone”. Perché “conoscere le strade può far comodo”, specie se “il tracciato è in salita, col sole contro” e l’aria manca dentro ai polmoni.


Gridalo
nasce come mappa ‘per inciampare’, per mostrare ‘cosa non ha funzionato’.

Quel ragazzo fuori dal liceo, col poster di Majakovskij in camera e la locandina del Camorrista in bella vista, era convinto che la dinamica tra bene e male, tra mondo sano e corruzione fosse chiara. Non è stato così. Se dovessi incontrare quel ragazzo oggi, cosa gli direi? Qui nasce il libro.

Cosa gli diresti?

Che è impossibile non fare errori. E che non ci sono scorciatoie, ma può esserci consapevolezza, se decidi di esporti. ‘Vi lascio in eredità tutte le mie paure’, scriveva Reinaldo Arenas, dissidente cubano. Nel libro c’è questo. E c’è il desiderio di capire come sono arrivato fin qui. In parte, grazie alle mie ossessioni.

‘Vai e insegui il sogno fino in fondo al cunicolo’, scrivi.

Da bambino, quando venivano i parenti dal Nord, non sapevo condurli negli angoli turistici della mia città. Preferivo far osservare loro la guerra che vivevo, le macchie di sangue sull’asfalto, le madri dei morti, gli altari improvvisati… Mia madre non era contenta. Ma avevo bisogno di ‘gridarlo’. Gomorra nasceva da questo, oltreché dall’imprudenza. Quando hai 16 anni credi di poterti realizzare attraverso le tue parole. Ascoltavo Dario Fo a Santa Maria Capua Vetere ne Lu santu jullare. Ero uno dei tanti a entrare gratis. Prima dello spettacolo Fo urlava: ‘Chi ha dimenticato il biglietto? Dai, entrate tutti…’. Stavo sotto al palco con le gambe incrociate e mi dicevo: ecco il potere della parola. Con la parola – pensavo – avrei cambiato le cose. Non è stato così.

Bilancio amaro…

Il rischio è il cinismo. Una sconfitta, la controfirma dei rapporti di potere esistenti. Le storie di Gridalo servono anche a questo, come terapia.

Quali non sono entrate?

I ragazzi della Rosa Bianca in Germania, García Lorca, Ján Kuciak. Ho scelto le storie incentrate sul rischio della parola, come la ‘favola nera’ di Kashoggi. Chi sceglie, per non cedere al ricatto, la propria condanna a morte. E schiaccia anche i suoi cari.

Tua madre nel libro torna spesso.

Ho un grande senso di colpa verso i miei familiari. Non solo per la paura per l’incolumità fisica. Ci sono gli attacchi, la delegittimazione, la ridicolizzazione perenne che devono subire.

Come la revoca della cittadinanza onoraria veronese…

Goebbels, a cui dedico un capitolo, è stato il primo teorico della propaganda di questo tipo: mai parlare del tema del tuo nemico/avversario, parla sempre del tuo nemico/avversario. Con Salvini al governo, l’ho vissuto in modo maniacale. Ero un bersaglio continuo. Per il mio discorso sulle ong, hanno picchiato così forte che diversi colleghi dicevano: ‘Io parlo con i miei film’, ‘Parlano le mie canzoni’… Così risponde chi ha paura a opporsi. È una codardia legittima. E per certi versi la invidio, hai una vita più facile. Prendendo parte perdi lettori, e serenità.

Qualcuno ti ha deluso?

Due mesi fa ero in tribunale a Roma, per le minacce del boss dei Casalesi Bidognetti e dell’avvocato Michele Santonastaso. C’era Beppe Giulietti, ma nessun collega o amico. Non mi lamento, però dici: ‘Wow, l’aula è vuota’. È la delusione dei prossimi, di chi senti più vicino…

Potresti aver sbagliato qualcosa tu?

Mi rimprovero, rispetto alle amicizie di un tempo, di non aver fatto ‘manutenzione degli affetti’ direbbe Antonio Pascale. In generale, al di là delle cagate che dicono, ho fatto una vita ‘disciplinata’. Ed è un problema, non un vanto. Spero ancora di rifarmi…! Le figure che racconto nel libro mica sono vergini che si sottraggono alla vita. Fanno guai enormi!

‘Non occorre essere santi per lottare’, scrivi.

Eppure quando qualcuno alza la voce per ottenere giustizia c’è chi insinua un tornaconto personale. La delegittimazione è una macchina mortale, di cui si nutre soprattutto il giornalismo: non si vende più, il lettore cerca sensazione, nulla è meglio del gossip. Quando i giornali diventano poi la bacheca di Facebook che riporta solo la tua bolla, muore tutto. Sei schiavo dell’algoritmo.

L’accusa più infamante?

Forse il dire che ho fatto i soldi sputtanando Napoli… Fa il paio con l’altra cazzata dell’attico a Manhattan. Mi riecheggia Solženicyn: ‘Quando la democrazia in un Paese ha problemi, l’opposizione la fanno gli scrittori’. Era già successo con Berlusconi. Salvini non ha fatto altro che scegliersi l’opposizione più ‘dinamica’.

Non pare gli sia andata bene.

Il grandissimo errore populista è stato quest’estate: hanno urlato al regime sanitario, millantando che sul virus si stesse esagerando, che la mascherina fosse inutile. Hanno perso credibilità: hanno sbagliato tutto.

Nel libro omaggi Giorgio La Pira: ‘C’è un momento in cui gridare è il solo dovere’. La Pira, così caro a Renzi e a Conte…

Oggi è facile dichiararsi lapiriani, era difficile allora. La Pira creava scandalo con la sua visione socialista nella fede, era un resistente. E il silenzio – ci dice – porta all’immobilità. Noi stiamo lasciando il grido a complottisti e populisti, a chi sbraita e insulta, dimenticando la possibilità e la volontà di opporre un mondo altro.

Viviamo in un mondo in cui tutti gridano, però.

Tutti gridano… ma gridano stronzate. Io – voglio citare di nuovo Arenas – ‘grido quindi sono’. E sono qui a pretendere di ricordarti chi sono. Non si tratta di essere ottusamente estremisti. Giordano Bruno quando comprende che negoziare comprometterebbe i suoi valori non abiura. Quando il Pd dichiara di non voler finanziare la Guardia costiera libica, ma per ragioni di Stato poi vota sì, quello non è mediare, è compromettersi. Quando si vendono le fregate all’Egitto senza pretendere un processo per Giulio Regeni… A quel 16enne fuori dal liceo dico: essere maturi non significa accettare e assecondare. Non significa arrendersi alla verità per cui è tutta la stessa chiavica.


Gomorra
si chiudeva con un grido.
Gridalo
con la mancanza di ossigeno.

È una buona metafora per il nostro tempo. L’ossigeno che manca ai migranti che affogano nel Mediterraneo, alle persone gasate in Siria, a George Floyd… E poi c’è il Covid. Mai come ora per gridare devi avere ossigeno, ma l’ossigeno ci sta mancando.

Vedere l’ingiustizia aumenta però la resistenza. Gridalo finisce con una consegna per il lettore. Che dire per il 2021?

Luigi Pintor scriveva: ‘Azione è uscire dalla solitudine’. La mia consegna è: conoscere per agire e agire per uscire dalla solitudine. Non voglio far evadere né confortare il lettore, voglio vederlo prendere parte, sfidare la noia, superare la voracità di una vita impossibile… per lanciarci, quando sarà, dagli scogli. E buttarci là dove il mare è mare.

Il premier triplica i follower, Renzi li perde

Le conferenze stampa in diretta Facebook per annunciare un nuovo dpcm, la letterina di Natale in risposta a Tommaso Z., ma anche la liberazione di Silvia Romano e dei diciotto pescatori in Libia (annunciata via Twitter). Il 2020 della pandemia sui social network incorona il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e certifica il crollo, di popolarità e di follower, del suo principale avversario: Matteo Renzi.

Secondo i dati di Fanpage Karma, software che permette di monitorare l’andamento social dei personaggi pubblici, il primo dato che balza all’occhio è quello dei “follower”: il premier Conte, che alla fine del governo gialloverde aveva poco più di 900mila seguaci, in un anno ha guadagnato ben 2,5 milioni di fan passando da poco più di 1 a 3,6 milioni. Un aumento che non ha paragoni negli ultimi anni, basti pensare che nei 15 mesi da ministro dell’Interno Matteo Salvini ne aveva guadagnati 1,4 milioni.

Staccati tutti gli altri: Matteo Salvini resta il leader più seguito su Facebook con 4,5 milioni di fan (+630 mila), poi Luigi Di Maio con 2,4 milioni (+127mila) e Giorgia Meloni con 1,7 milioni (+408 mila). L’altro dato che colpisce sui follower del 2020 è che l’unico leader politico – e parlamentare – che perde fan sul social network di Mark Zuckerberg è Matteo Renzi che registra -5 mila seguaci. Anche Alessandro Di Battista ne ha persi 26mila ma non ha un seggio parlamentare e non interviene quotidianamente sull’attualità politica. Uno smacco pesante, quello del senatore di Scandicci, che dai tempi in cui era sindaco di Firenze ha fatto dell’iperattivismo sui social il suo distintivo. Diverso il discorso di Twitter dove il fondatore di Italia Viva è il leader più seguito con quasi 3,4 milioni di follower ma la platea del social dei cinguettii è formata per lo più da addetti ai lavori. Su Instagram invece il rapporto dei follower torna a riequilibrarsi con Salvini seguito da 2,3 milioni di fan e Conte da 1,8 milioni.

Tornando a Facebook, i picchi di visualizzazioni e di interazioni sui post del premier coincidono con le conferenze stampa all’ora di cena per annunciare nuove restrizioni: la conferenza del 10 aprile che annunciava ulteriori limitazioni fino a fine mese è stata vista da 8,8 milioni di persone, quella dell’11 marzo in cui comunicava il lockdown totale di tutta Italia è arrivata a oltre 7 milioni di visualizzazioni e 150mila interazioni. Numeri simili per gli auguri pasquali e per la “lettera” natalizia in cui rispondeva al piccolo Tommaso. Chi, nel governo, ha visto crescere di molto il proprio seguito è il ministro della Salute Roberto Speranza che, oltre ad essere il più amato nei sondaggi, ha guadagnato 135mila follower su Facebook passando da 62mila a 197mila anche per la sua esposizione mediatica durante la pandemia. Un altro ministro molto seguito è l’ex capo politico del M5S e titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, passato da 2,2 a 2,3 milioni (+127 mila) unendo messaggi istituzionali (la liberazione dei pescatori in Libia) a post più pop come i festeggiamenti insieme alla famiglia.

Nel campo del centrodestra se Salvini resta il leader italiano con più seguito, Giorgia Meloni è in ascesa anche sui social (1,7 milioni su Facebook e 860mila su Instagram): i due competitor del centrodestra sono stati i primi a sperimentare su TikTok, la piattaforma in voga tra i più giovani che fa molto uso di canzoni e balletti.

Rimpasto, Conte-ter o un dem premier: cosa succede se c’è la crisi

Tutte le formule sussurrate da big, colonnelli o semplici gregari dei giallorosa hanno la classica variabile indipendente, l’incognita imprevedibile che può far saltare scenari e previsioni. Facilissimo indovinarla: Matteo Renzi. Sostiene un importante esponente della maggioranza: “Renzi è un giocatore e al solito sta tentando l’all-in. Impossibile sapere cosa abbia veramente in testa”. Appunto.

È l’incubo di una crisi al buio, con le urne sullo sfondo, consegnando così il Paese alla peggiore destra dell’Europa occidentale, capace persino di eleggere Silvio Berlusconi al Quirinale nel 2022. Una crisi che ormai molti danno per certa, finanche tra i ministri dem del Conte due. Sulla carta gli scenari plausibili sono cinque. Il primo poggia sull’ottimismo giallorosa più che sul realismo. È il fatidico rimpasto. Il premier e Renzi trovano un accordo e a Italia Viva va un ministro in più, lo stesso leader di Iv oppure Maria Elena Boschi, che scalcia da morire per entrare in un esecutivo che sia uno.

Raccontano però che il fattore umano proceda di pari passo con quello politico. Cioè che Renzi detesti talmente Conte che farà di tutto per buttarlo fuori da Palazzo Chigi. A quel punto il premier potrebbe tentare la mossa ventilata negli ultimi giorni: sostituire i ribelli italoviventi con una pattuglia di Responsabili. Questo è il secondo scenario. L’operazione non è semplice, nonostante punti sull’istinto di sopravvivenza di decine di parlamentari. Come trapela da ambienti di governo si tratta al momento di una trattativa frammentata (si veda l’articolo sopra), senza un punto di riferimento che garantisca un orientamento unitario a questo gruppo.

Oltre queste due opzioni, c’è poi la crisi vera e propria. Conte che va in aula e parlamentarizza la rottura con Italia Viva e l’apertura delle consultazioni. Il giocatore Renzi continua a essere convinto che il voto anticipato non ci sarà e che un governo alla fine si farà. Qualcuno, lungo l’asse demogrillino, fa pure notare che il tono tragico e solenne di Mattarella nel messaggio di San Silvestro strida con l’eventualità di nuove elezioni, al di là delle minacce dello stesso Colle fatte arrivare in queste settimane.

Nella rosa di premier del leader di Italia Viva c’è tutto e il contrario di tutto. Il primo nome, infatti, è quello di Mario Draghi, l’ex presidente della Bce invocato cotidiecome una divinità da élite e parti della destra. Lo schema Draghi, terzo scenario, dovrebbe essere l’esca per un governissimo, attirando sia l’ultraottuagenario Silvio Berlusconi, sia la Lega di Salvini & Giorgetti. Detto di Draghi, l’azzardo renziano potrebbe anche contenere l’ipotesi Luigi Di Maio, per proseguire l’esperienza di un governo politico con l’attuale maggioranza. L’ex capo dei 5S ha più volte smentito un suo coinvolgimento (“Quando il diavolo ti accarezza…”, ha detto) ma la dinamica delle consultazioni è sempre un fenomeno nuovo, che sovente azzera timori e veti iniziali.

Qualora però, al suo interno, il M5S non dovesse reggere un premier diverso da Conte, ecco che potrebbe concretizzarsi, quinto e ultimo scenario, la possibilità di un democratico a Palazzo Chigi. Nelle ultime ore, tra gli stessi dem governisti, sono due i nomi che girano con insistenza, entrambi di due ministri. Il primo è quello, scontato, di Dario Franceschini. Il secondo è quello di Lorenzo Guerini, titolare della Difesa e capo di una delle correnti più corpose del Pd, Base riformista. Cinque opzioni in teoria, tra rimpasto e crisi. Il Ventuno giallorosso comincia così.

Responsabili pronti, ma senza federatore Maggioranza sul filo

Parlamentarizzare la crisi, come intende fare il presidente del Consiglio Giuseppe Conte per sfidare Matteo Renzi, significa una cosa sola: prendere in mano il pallottoliere e tornare a parlare di “responsabili”. Con questo apparentemente nobile aggettivo si intendono – dai tempi del 2011 quando Razzi, De Gregorio e Scilipoti salvarono il governo Berlusconi, anche se eletti con Di Pietro – quei parlamentari di opposizione che in caso di difficoltà della maggioranza accorrono per salvare il governo (e la propria poltrona).

Così, dopo l’Epifania, se Renzi dovesse aprire la crisi e il premier sfidarlo in Parlamento come nell’agosto 2019 con Matteo Salvini, l’ultimo bollettino da Palazzo Madama registrerebbe un gruppetto di 9-10 senatori pronti a salvare la maggioranza giallorosa e disinnescare i renziani che voterebbero la sfiducia. Problema: al momento la pattuglia di “responsabili per Conte” non ha una guida, un federatore in grado di dare una strategia. E ad ammetterlo è Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella : “Le voci ci sono ma non c’è niente di concreto” dice al Fatto. E allora potrebbe giocare un ruolo “Italia 23”, il sito registrato dall’ex FI Raffaele Fantetti che potrebbe mettere insieme centristi, ex berlusconiani e transfughi di M5S e Iv. A quel punto si aprirebbe un problema politico ma questa è tutt’altra storia.

pallottoliere. In Senato, l’asticella da cui partire è 169, come i voti ottenuti a ottobre nel terzo scostamento di Bilancio a cui vanno aggiunti quattro senatori (due delle Autonomie e due del M5S) assenti perché in quarantena. La maggioranza assoluta in Senato è di 159 voti perché ai 315 senatori vanno aggiunti 2 senatori a vita su 6 (Monti e Cattaneo) che partecipano regolarmente alle sedute. Sottraendo a questi i 18 senatori di Italia Viva, la maggioranza parte da 151 voti. Vediamo da dove potrebbero arrivare gli 8 necessari a salvare il governo.

maggioranza. La maggioranza, senza i renziani, può contare su 151 voti compatti: i 92 del M5s, 35 del Pd, 8 delle autonomie e 16 del gruppo Misto considerando ormai l’ex FI Lonardo e il senatore a vita Mario Monti.

opposizione. L’opposizione invece, sulla carta, può contare su 149 voti: 63 dalla Lega, 19 da Fratelli d’Italia, 54 di Forza Italia e 13 del Misto che votano contro il governo. Ma qui iniziano le defezioni.

Il centrodestra.Un possibile aiuto potrebbe arrivare dai moderati di FI che non vogliono consegnare la leadership a Salvini. Da questo gruppo, i “responsabili” potrebbero essere 4-5: i 3 dell’Udc (Antonio de Poli, Paola Binetti e Maurizio Saccone) che il 9 dicembre hanno deciso di uscire dall’aula nel voto sulla riforma del Mes, ma anche un paio di forzisti tra cui Andrea Cangini. Così la maggioranza salirebbe a 155.

Italia viva. Secondo i rumors, almeno 5 senatori renziani su 18 sarebbero pronti a non seguire il leader in caso di crisi (Iv scomparirebbe dal Senato con le elezioni): i nomi che girano sono Giuseppe Cucca, Eugenio Comincini, Donatella Conzatti, Leonardo Grimani e Gelsomina Vono. Se anche solo tre decidessero di mollare Renzi si arriverebbe a quota 158, a un voto dal quorum.

misto. Nel Misto, a ballare sono cinque voti: i 3 di Cambiamo! (Gaetano Quagliariello, Paolo Romani e Massimo Vittorio Berruti) che più volte hanno ammiccato alla maggioranza e l’ex M5S Gregorio De Falco, che vota volta per volta i provvedimenti. Con tutti e quattro i voti, si arriverebbe a 162, senza i tre “totiani” a 159. Una maggioranza sul filo.

La prima mossa di Conte: vertice entro l’Epifania e nuovo Recovery

Che ne sarà del “Ciao” di Matteo Renzi? Per qualche ora oscillerà ancora tra l’essere l’innocuo acronimo delle proposte di Italia Viva sul Recovery Fund – Cultura, Infrastrutture, Ambiente, Opportunità – e il diventare l’addio all’attuale governo, con annessa apertura della crisi in Parlamento. Le risposte, però, arriveranno presto: Giuseppe Conte convocherà un vertice con le forze di maggioranza tra il 5 e il 6 gennaio, cercando di ricucire i rapporti interni ai giallorosa e sfoltire i 52 progetti del Recovery Fund finora sul tavolo.

Il vertice Giuseppe Conte lo aveva ammesso durante l’ultima conferenza stampa del 2020: “È urgente fare una sintesi politica prima possibile attraverso una verifica di maggioranza”.

E allora ecco che, a ridosso del- l’Epifania, il premier incontrerà di nuovo i partiti che sostengono il suo esecutivo, dopo che a dicembre una prima verifica di governo non aveva placato le bizze di Italia Viva. Il nodo è soprattutto la gestione dei 209 miliardi in arrivo dal- l’Europa, su cui i renziani hanno presentato richieste e progetti alternativi rispetto a quelli sulla scrivania del ministro Roberto Gualtieri.

Prima che il Piano vada in Consiglio dei ministri, si proverà a trovare un compromesso smussando le divergenze e riducendo un po’ gli oltre 50 progetti previsti nelle bozze.

Il Consiglio dei ministriNella tabella che si è dato il governo, i progetti del Recovery plan dovrebbero arrivare in cdm “entro i primi giorni di gennaio”. Settimana prossima, allora, anche se da qui in avanti le ipotesi dipendono molto dalla volontà politica di Renzi di accelerare con la crisi o di fare un passo indietro. Stando alle minacce renziane, se i tavoli politici non avranno esiti positivi il governo “farà senza Italia Viva” e “le ministre e il sottosegretario (Teresa Bellanova, Elena Bonetti e Ivan Scalfarotto, nda) si dimetteranno”. Con tanti saluti al Piano sugli aiuti europei. Ad ogni modo, se anche dopo il vertice dell’Epifania l’ex rottamatore volesse comunicare una sfiducia di fatto a Conte, la crisi arriverebbe subito in Aula.

Parlamento Anche in questo caso fanno fede le parole di Conte di appena quattro giorni fa: “Il premier non sfida nessuno. Per rafforzare la fiducia e la credibilità del governo e della classe politica bisogna agire con trasparenza e confrontarsi in modo franco. Il passaggio parlamentare è fondamentale, finché ci sarò io ci saranno sempre passaggi chiari, franchi, dove tutti i cittadini potranno partecipare e i protagonisti si assumeranno le proprie responsabilità”. Parole che assomigliano molto a quelle che il premier pronunciò a ridosso dello scontro in Senato con Matteo Salvini del 20 agosto 2019. Oggi come allora, Conte vuole portare alla luce del sole ogni manovra destabilizzante nei suoi confronti, spostando la crisi in Parlamento e smascherando le contraddizioni del suo più ostile alleato. Se davvero Renzi formalizzasse la fine del rapporto di fiducia tra Italia Viva e l’esecutivo, si andrebbe allora alla prova dei numeri in Senato e poi si valuterebbero i possibili scenari, tra un eventuale Conte ter con cambio di maggioranza e l’ipotesi di voto anticipato. In ogni caso, i tempi non saranno lunghi e l’eventuale passaggio in Parlamento potrebbe esserci già entro metà mese, a conferma dei retroscena che davano Renzi pronto alla crisi già appena dopo la Befana.

A che punto è la notte

Lo stupore per il record di ascolti di Mattarella è ampiamente esagerato, visto che eravamo tutti chiusi in casa. Ma accanto a chi cercava un po’ di compagnia almeno in tv o attendeva i televeglioni, c’era anche chi sperava di capire qualcosa sulle sorti del governo. A parte l’Innominabile e la sua masnada di irresponsabili, infatti, anche il leghista o il meloniano più sfegatato trasecola all’idea che il governo cada ora, coi vaccini da fare e il Recovery plan da presentare, o che si ipotizzi un assembramento generale alle urne con la terza ondata di Covid alle porte. Il capo dello Stato non poteva sostituirsi al Parlamento nemmeno ora che siamo sospesi fra “angoscia e speranza”. Ma qualcosina più dei messaggi sottovuotospinto degli anni scorsi l’ha detta. Non quando ha confermato che si vaccinerà (e che doveva fare: iscriversi ai No Vax?). Ma quando ha respinto i catastrofismi da “Covid governo ladro” (“Ho ricevuto in questi mesi attestazioni di apprezzamento e di fiducia per il nostro Paese da tanti capi di Stato di paesi amici”). E quando ha ricordato che “i prossimi mesi sono un passaggio decisivo per uscire dall’emergenza e porre le basi di una stagione nuova. Non sono ammesse distrazioni” e quindi guai a “perdere tempo”, a “sprecare energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte”.

Indovina indovinello: chi è che spreca energie per inseguire illusori vantaggi di parte? Naturalmente il destinatario ha subito finto di non sentire e c’è da aspettarsi che presto mandi il governo a gambe all’aria, o almeno ci provi. Non perché, come dice chi la sa lunga, “si è spinto troppo oltre e rischia di perdere la faccia” (quella rischia di perderla solo chi ne ha una). Ma perché, anche a volerne pensar bene, è della stessa specie dello scorpione che si suicida pungendo la rana che lo traghetta sul fiume e confessa: “È la mia natura”. Non sarà un monito d’inizio anno a fermarlo. E nemmeno le eventuali concessioni dell’ennesima bozza di Recovery che Conte, Gualtieri e Amendola stanno preparando dopo gli incontri con i partiti giallorosa. Il premier fa bene a levargli ogni alibi, perché sia chiaro a tutti chi avrà scatenato la crisi. Ma la crisi ci sarà, anzi c’è già. Se Messer Due Per Cento non avrà il coraggio di ufficializzarla, dovrà farlo Conte, se è vero che non vuole “galleggiare” tra un ricatto e un penultimatum, portando subito il Recovery in Parlamento. E dovranno farlo M5S, Pd e LeU, presentando una mozione di fiducia per stanare gli irresponsabili di Iv e gli eventuali “responsabili”. Cioè quanti preferiscono questo governo alle elezioni o al caos, purché non chiedano in cambio null’altro che conservare il seggio sino alla scadenza della legislatura. Cioè lo facciano gratis.

Dalla piazza al divano, un Capodanno Capitale con Nannini, Agnelli, Saraceno e i suoi ragni

A Capodanno Roma non avrà il suo concertone, ma prova a non rinunciare alla festa. Manco a dirlo, causa pandemia tutto si svolgerà online, ma un parterre di prim’ordine renderà più gestibile la transizione obbligata dal capodanno di piazza al capodanno da divano. Allora perché non approfittarne per fare qualcosa di diverso, andare “oltre” il concertone? Oltre tutto è il nome della serata organizzata dalla Capitale (con supporto di Mibact e delle principali istituzioni culturali della città) per dire addio al 2020 (senza troppa nostalgia), e avrà la forma di una trasmissione in streaming (sul sito culture.roma.it) dalle 22 a dopo mezzanotte. Così, se a salutare il 2019 erano in 40 mila sotto al palco, quest’anno sul prato del Circo Massimo al posto delle persone ci saranno due installazioni artistiche. Da un lato, la text sculpture di Tim Etchells: 16 metri di neon a comporre il messaggio “This precise moment in time as seen from the future” (più speranzoso del precedente “Let’s pretend none of this never happened”). Dall’altro, le “pire” site-specific di Alfredo Pirri (Fuoco-Cenere-Silenzio), ovvero sei silos alti otto metri riempiti di rami e sterpaglie da incendiare a mezzanotte con intento rigeneratore.

Arte a parte, l’evento vero e proprio sarà condotto da Michela Murgia e Chiara Valerio, che parleranno dal Laboratorio di Scenografia del Teatro dell’Opera. È qui che suonerà live Gianna Nannini. Altri contributi musicali saranno trasmessi pre-registrati, ma da luoghi eccezionali. Così vedremo Elodie nella cornice dei Musei Capitolini, il rapper Gemitaiz dall’Ara Pacis, Diodato dallo Stadio Palatino, Carl Brave dall’Arco di Giano e Manuel Agnelli con Rodrigo d’Erasmo da Palazzo Braschi.

Oltre tutto sarà anche la scena di una prima mondiale dell’artista argentino Tomás Saraceno. Si intitola How to hear the universe in a spider/web e si presenta come un “concerto live per/da invertebrati” pensato per avvicinare l’esperienza sensoria degli aracnidi. Infatti sarà fruibile anche attraverso un’app (Aracnomancy, e il sito www.aracnophilia.net) che consente di aggiungere ai suoni le vibrazioni tattili. Anche le parole avranno la loro parte, con Maria Giovanna Luini, Sandra Savaglio e Igiaba Scego. Tutto questo mentre in contemporanea suonerà “Radio India”, progetto dell’omonimo teatro di Roma (fino al 3 gennaio) che propone un melange di musica elettronica targata Dj Marcelle e arte contemporanea. Fino all’alba e oltre.