Potere, Giochi e papi: Roma ritrova l’orgoglio del 1960

Anno 2021, calendario Battistoni. Per Roma è come il calendario Pirelli per Milano. Magari meno internazionale, ma più legato alle radici culturali della città. Le belle foto che illustrano il calendario sono tutte in bianco e nero, paradossalmente il colore del dopoguerra. Della televisione di Lascia e Raddoppia, dei Caroselli, del festival di Sanremo al tempo di Nilla Pizzi. In bianco e nero sono i film del neorealismo. Di Roma città aperta. Della Dolce vita. E delle Olimpiadi di Roma: il tema scelto dalla Casa Battistoni per illustrare il calendario dell’anno che verrà, i Giochi del 1960.

Guarda caso, nel febbraio di quell’anno il capolavoro di Fellini irrompe nei cinematografi. Per i bigotti e i clericali, vederlo è peccato mortale, il film viene accusato di “propagandare il vizio”. Cassola pubblica La ragazza di Bube, spietato ritratto delle difficoltà politiche e sociali del dopoguerra, nonostante il boom e il Pil che supera l’8 per cento. Il 4 aprile nasce il famigerato governo Tambroni, un monocolore democristiano (detto degli “affari”) appoggiato dal Msi. Fu subito accusato di filo-fascismo. Tensioni sociali. Manifestazioni. Le proteste represse duramente, troppo. A Reggio Emilia, cinque morti. A Licata, un morto. Disordini, scontri, incidenti a Milano e anche a Roma. Altri morti, altre centinaia di feriti. Il governo Tambroni cade. Le tensioni restano.

È in questo clima difficile che a settembre si svolgono le Olimpiadi: il conto è di 40 miliardi di lire (oggi 550 milioni di euro), gli introiti previsti 30. I 14 miliardi per gli impianti sportivi sono finanziati dal Totocalcio e dalle lotterie. Presidente del Comitato olimpico è Giulio Andreotti, ministro della Difesa con Tambroni e pure dopo. Eccolo infatti scendere compiaciuto, fasciato in un doppiopetto scuro, la fastosa scalinata dell’Altare della Patria dopo aver presenziato alla cerimonia per il Milite Ignoto. È l’immagine più emblematica del calendario 2021. Rappresenta l’intreccio di potere, politica e orgoglio nazionale. L’Italia che è riemersa dal disastro, dalle macerie. Suggella la ricostruzione. Legittima l’ingresso tra le nazioni più progredite. La prima telecronaca in mondovisione. La macchina del tempo con la lotta greco-romana di oggi sotto la volta della basilica di Massenzio, come duemila anni prima. Gli impianti sportivi progettati dalle archistar dell’epoca per unire idealmente passato e presente, pensando al futuro. La nemesi della storia perpetuerà il ricordo dei Giochi di Roma quando a vincere la maratona sarà un soldato del Negus d’Etiopia, un quarto di secolo dopo l’ignobile conquista mussoliniana. Nella foto, Andreotti scambia uno sguardo complice e soddisfatto con Giulio Onesti, avvocato socialista che guida il Coni e che sfoggia un abbigliamento da cene a Portofino, col tocco dandy delle scarpe bicolori. Insieme ai due, un generale piuttosto corpulento, carico di medaglie. Testimone involontario di un’epoca moribonda.

Riproporre i Giochi del 1960 è, sottotraccia, una sorta di sfida: “Le Olimpiadi furono un momento epocale, un crocevia della modernità”, spiega Francesco Capodiferro, presidente della Casa Battistoni, che da raffinata bottega sartoriale di via Condotti nata nel 1946 si è trasformata in una pregiatissima impresa del made in Italy, “i Giochi ebbero un ruolo importante nel far affiorare capacità e vocazioni di Roma”. Perché non riprovarci?

La zampata del leone. Vasco “Una canzone… buttata via”

Un vecchio leone in gabbia. Soffre da matti, Vasco, a non ruggire dal palco. Lui vive lì sopra: potesse, si comprerebbe San Siro e farebbe una festa ogni sera. Inviti per sessantamila amici a botta. Non ne può più del 2020, che gli ha negato il suo “Festival” personale: il “NonStopLive”, un tour in giugno agli IDays di Milano, al Firenze Rocks, all’autodromo di Imola e un doppio Circo Massimo.

360 mila biglietti già staccati: restano validi se i concerti posticipati di un anno esatto potranno celebrare quello che anche il signor Rossi aspetta come un rito collettivo di “rinascita”, l’assembramento dionisiaco dove l’unico contagio è quello della musica nella calca che ti fa sentire dannatamente vivo, con tante grazie agli show in streaming.

Vasco ci crede al punto che, scaramanticamente, ha atteso “la fine dell’anno peggiore di tutti i tempi” per far uscire un nuovo pezzo, primo di un album di inediti che arriverà con la buona stagione, molto tempo dopo l’ultimo Sono innocente. Così, un secondo dopo l’inizio del 2021, vedrà la luce Una canzone d’amore buttata via, che la sera del primo gennaio sarà anche la sigla di Danza con me di Roberto Bolle, il programma su Rai1 in cui la rockstar flirterà ancora con la classica (dopo l’ingaggio di Eleonora Abbagnato nel video di Ad ogni costo e il balletto alla Scala per L’altra metà del cielo), ma non azzarderà passi di danza con l’étoile planetaria. A ciascuno il suo mestiere. Toccherà a Roberto decifrare il segreto tersicoreo della creazione di Vasco, con una performance girata in ottobre all’Ansaldo e il leone lì accanto, smagato e sornione che spiega: “Con il mito mondiale della danza è una combinazione astrale unica e beneaugurante” e comunque “nessuna canzone d’amore è stata mai buttata via, e non sarà mica questa mia la prima”.

Può stare tranquillo. Questa è una sua tipica zampata, il graffio rock di uno che non ha perso ancora smalto, alla faccia della senilità che lo aspetta al varco, ed è di nuovo lì a interpretare il ruolo del corteggiatore astuto nel mostrarsi dimesso, giustificatorio, sentimentale oltre misura prima di mordere al collo la preda. Canta, il Nostro: “Sembra strano anche a me/ Sono ancora qui a difendermi/ E non è mica facile/ Hai ragione pure tu/ Le mie scuse sono inutili/ Ma non posso stare senza dirtele”, e poi via sciorinando l’analisi di “Una stupida storia/ Una notte ubriaca/ Una sola bugia”. Eccolo, il campione dei casanova finto-sfigati, capace di un repertorio infallibile, dove il trucco è mostrarsi fragili e disposti a rendersi migliori. Il personaggio-poeta lo riconosci a distanza, nella ballata classic-Vasco (con assolo finale pirotecnico della chitarra di Simone Sello) che fa ben sperare per l’album in cantiere. Potrebbe non essere il peggiore della sua carriera: e a dirla tutta, cosa dovrebbe ancora dimostrare, il vate dei nichilisti rock? Nulla, in un mondo di presunte star che appassiscono in un amen.

Vasco è sopravvissuto (si definisce un “supervissuto”) a ogni giro di moda, alle manette, alle botte del destino, della salute e delle cattive abitudini. Un inestirpabile anarchismo gli permette di prendere graziosamente per i fondelli i coetanei che negli anni Settanta “erano schierati con Potere Operaio e Lotta Continua e sono finiti a lavorare per Berlusconi” e di mandare orgogliosamente a fare in culo i negazionisti, lui che è stato a un passo dalla fossa per altri virus. Giorni fa lo hanno onorato con il Premio Tenco “per la sua poetica” e Bologna (dove ha girato, in una Piazza Maggiore vuota, il video del nuovo brano) gli ha conferito il Nettuno d’Oro. Ha imparato a leggere avidamente Kierkegaard, Heidegger, Schopenhauer, i filosofi che lo aiutano a comprendere il senso della vita, recuperando il tempo che all’università perdeva a guardare le fanciulle dalla finestra.

Le ragazze, sua magnifica ossessione: da quando, bambino “autodidatta che ha imparato a cantare portando le pecore al pascolo” (scrissero sul Carlino) vinse l’Usignolo d’Oro, il suo primo concorso, battendo per un solo punto “una carinissima bimba di Finale Emilia”. La canzone si intitolava Come una fiaba, un filo diversa da Una vita spericolata. E da tutte quelle del vecchio leone famelico.

Armi, strenna per gli arabi amici

Un regalo (ai sauditi) al giorno toglie l’Iran di torno: ligio fino all’ultimo all’approccio di Trump per il Medio Oriente, il Dipartimento di Stato approva la vendita di bombe per 290 milioni di dollari all’Arabia saudita. È solo una parte dei flussi di armi verso le dittature del Medio Oriente acceleratisi nelle ultime settimane dell’Amministrazione Trump. Il magnate presidente punta sull’asse con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman per arginare l’influenza nella regione dell’Iran, il nemico di Israele per antonomasia. L’attenzione verso l’Arabia saudita, che ha ricambiato con massicci acquisti di armi americane, è stata una costante della presidenza Trump. L’avallo del Dipartimento di Stato arriva malgrado fermenti nel Congresso e nell’opinione pubblica per le cattive condotte dei regimi arabi sul fronte dei diritti umani e per il pesante bilancio in termini di civili uccisi del conflitto nello Yemen, dove sauditi ed emiratini contrastano l’insurrezione sciita degli Huthi (appoggiati dall’Iran). In un colpo solo, il Dipartimento di Stato ha anche dato via libera alla vendita di elicotteri Apache per quattro miliardi di dollari al Kuwait e di difese anti-missile per l’aereo del presidente egiziano Al Sisi (104 milioni di dollari), oltre che di strumenti di puntamento di precisione per aerei egiziani (65,6 milioni di dollari). In passato, la Casa Bianca aveva sanzionato l’Egitto per la sua repressione degli oppositori politici. Le mosse dell’Amministrazione spingono un think tank di New York, il Centre for foreign policy affairs, a denunciare il segretario di Stato Mike Pompeo, contestandogli in particolare una vendita per 65,6 milioni di dollari di droni e di aerei da guerra agli emirati arabi uniti.

Ma l’attenzione di Washington, più che sui satrapi del Medio Oriente, è ora puntata sul senatore Josh Hawley, un repubblicano del Missouri, che offre a Trump l’occasione di mettere in dubbio, quando il Congresso si riunirà in sessione plenaria il 6 gennaio, la regolarità delle elezioni e, quindi, la vittoria di Joe Biden. Ci vorrà un voto della Camera e del Senato: i repubblicani dovranno contarsi, pro e contro il magnate che corre sul filo del golpe istituzionale.

Mossa di Putin, basta poco e sei un “agente straniero”

Giornalisti, blogger, attivisti ma anche cittadini russi che esprimono dissenso: tra dieci giorni, quando entrerà in vigore la nuova legge, potrebbero diventare tutti “agenti stranieri”. Ieri Putin ha firmato la modifica che inasprisce una norma già varata nel 2012, che nel mirino aveva le organizzazioni non allineate della società, sostenute finanziariamente dall’estero.

Anche senza ricevere pagamenti da oltre confine, adesso per essere incriminati basterà diffondere materiale pubblicato da media stranieri o da organizzazioni già finite nella lista nera del Cremlino. In una rinnovata intesa tra il presidente e i suoi senatori di Russia Unita, in vista delle prossime elezioni parlamentari previste nel 2021, la luce verde all’emendamento è arrivata dopo l’approvazione avvenuta nei giorni scorsi alla Camera bassa della Duma. Ora bersagli saranno anche i singoli che fanno “attività politica” – definizione che nel testo rimane volutamente vaga – o che commentano “l’attività elettorale e governativa russa”. Se ieri nella lista nera finivano i giornali, dal prossimo anno ci potranno finire i giornalisti e alcuni lo hanno già fatto: sono già caduti nelle maglie della giustizia quattro reporter – Ljudmila Savitskaya, Serghey Markelov, Denis Kamalyagin, Daria Apakhonchich – eLev Ponomariov, 79 anni, attivista. “Agenti stranieri” saranno anche quanti “diffondono informazioni, dati o commenti sulle attività militari russe” e se, ritenuti colpevoli dalle autorità, saranno obbligati ad inviare al ministero della Giustizia la documentazione necessaria per verifiche finanziarie e burocratiche di ogni loro attività. Se altri reporter, blogger o giornalisti racconteranno la loro vicenda, dovranno riferirsi a loro con la formula di “agente straniero” per rispettare la nuova legge e non incorrere nelle multe o sanzioni previste per la sua violazione. Per i critici è un “ritorno ai tempi sovietici”. Per il “paziente berlinese”, come il Cremlino chiama ormai ufficialmente Aleksey Navalny, invece sono mosse compiute da un “presidente isterico”.

E a proposito di Navalny, il dissidente è accusato di “aver rubato soldi dei cittadini russi”, una “frode su larga scala” e per questo rischia dieci anni di prigione. Lo ha reso noto, pubblicando stralci di una nuova indagine a carico del blogger, il Comitato investigativo russo, che ha accusato l’attivista di aver rubato quasi cinque milioni di euro, ovvero 356 milioni di rubli dei 588 totali che sono stati donati alla sua organizzazione Fbk, Fondo Anti-corruzione. I soldi sono stati spesi per acquisire “proprietà e beni privati” e per “spese personali, tra cui le vacanze all’estero”.

Nel 2014, per la condanna di riciclaggio di denaro sporco, il dissidente è rimasto per un anno agli arresti domiciliari e da allora è costretto all’obbligo di firma, imposizione violata perché attualmente si trova ancora in Germania, dove è stato curato per l’avvelenamento da novichok, ma, “come dice la rivista Lancet, adesso è completamente guarito e può tornare ad adempiere ai suoi obblighi”. A citare la pubblicazione britannica è stato il Servizio penitenziario russo: se il blogger continuerà a rinviare il suo rientro in Russia, lo attende una pena di tre anni e mezzo di prigione. Navalny replica: “Vogliono mettermi in prigione perché non sono morto”.

 

“Le donne con l’aborto portavano uno stigma: ora non sarà più così”

È legge. Né maschio, né femmina. Ma femminista: in Argentina l’interruzione volontaria di gravidanza non è più reato neanche se compiuta senza una motivazione tra quelle indicate dal Codice penale. A decidere di abortire saranno le donne.

È la vittoria della “marea verde”, l’unione di associazioni femministe che da 15 anni si batte perché il Paese abbia una legge per l’aborto, sancita ora dal Senato. Fuori dal Congresso la marea ha atteso la votazione per tutta la notte di martedì. Dentro, 39 senatori hanno avuto la meglio su 29 colleghi contrari. “Sono state 12 ore al cardiopalma. Siamo felici, è una festa. Aspettavamo questo momento dal 1921”. Juli Bazan è appena rientrata a casa dalla Plaza del Congreso in giubilo, la voce stanca ed emozionata. Giusto il tempo di riprendersi dallo stordimento di una nottata storica e tornare al lavoro, al Centro di salute di Lanús, distretto Sud di Buenos Aires. Qui, come responsabile della Rete dei sanitari per il diritto a decidere, per 5 anni ha assistito e accompagnato le donne intenzionate ad abortire pur nel solco delle norme del codice penale del 1921. “Solo noi ne abbiamo seguite 300 all’anno. Ne abbiamo viste di ogni sorta: donne abusate per anni che non hanno denunciato, quindi in difficoltà poi ad abortire, altre in pericolo di vita perché veniva prescritto loro il farmaco sbagliato o perché costrette a ricorrere alla clandestinità. Molte di loro non possono permettersi neanche la pillola abortiva. Ho visto donne vendere televisori, frigoriferi o lavatrici per poter porre fine a una gravidanza indesiderata”.

Da domani non sarà più così.

No, anzi speriamo. La legge che legalizza l’aborto entro le 14 settimane di gravidanza e lascia intatte le motivazioni di violenza e di salute per il trimestre successivo è stata approvata, ma ora va scritta. Bisogna stare attenti alle letras chiquitas (le postille) che inserirà il governo.

Quali sono le postille che più temete?

Noi ci batteremo soprattutto perché vengano rispettati due punti: quello sull’obiezione di coscienza che il disegno di legge prevede ma che va regolamentato perché non accada che in un ospedale tutti i sanitari si appellino a questa clausola. Se ciò accadesse, in molti distretti le donne sarebbero costrette a cambiare provincia per andare ad abortire, il che non cambierebbe molto la situazione attuale. E poi c’è la clausola dell’età. Già avevamo ottenuto l’abbassamento dell’età dell’aborto a 13 anni nei casi non perseguibili, visto il numero di abusi domestici su minori e adolescenti in Argentina. Ora secondo gli emendamenti presentati, sembra che la soglia resti la stessa, ma che le adolescenti debbano essere accompagnate almeno da un genitore o tutore legale. Questo vanificherebbe tutti gli sforzi fatti finora: molte ragazze non denuncerebbero mai le violenze subite e quindi pur di non essere accompagnate dai familiari continuerebbero ad abortire clandestinamente.

L’altro successo di questa legge è che l’aborto sarà gratuito.

Sì, anche questo obiettivo è stato raggiunto per gradi in questi anni: dalla nascita dei Centri di salute per l’accompagnamento all’aborto, alla loro iscrizione nella Sanità pubblica, fino a oggi. Se la legge appena approvata verrà rispettata, finalmente le donne in Argentina avranno l’interruzione volontaria di gravidanza tra le prestazioni sanitarie gratuite.

Qual è la situazione con cui in questi anni come operatori sanitari vi siete confrontati?

Noi lavoriamo soprattutto con una coscienza femminista. Le storie nelle quali ci imbattiamo sono migliaia e le situazioni con cui ci misuriamo ogni giorno sono le più disparate e difficili. Intanto c’è lo stigma con il quale ogni donna che vuole interrompere la gravidanza in Argentina si è dovuta misurare finora. Poi il difficile accesso alle informazioni pratiche, aspetto che noi come Rete dei sanitari abbiamo cercato di migliorare. Sul nostro sito ci sono tutte le documentazioni mediche, ma anche l’elenco dei Centri a cui rivolgersi a seconda della zona del Paese, più le informazioni per denunciare gli abusi. È stato un lavoro improbo, ma negli ultimi tempi abbiamo cominciato a vedere dei miglioramenti. Purtroppo il lockdown non ha facilitato le cose e, quando si è tornati a uscire, per alcune donne era ormai troppo tardi per abortire oppure molte di loro, rimaste senza lavoro per la pandemia non avevano più soldi per affrontare un aborto. Alcune, sebbene il mio distretto sia quello della Capitale, non certo un posto sperduto, sono state costrette a vendersi le cose di valore che avevano in casa per comprare la pillola abortiva che, nonostante la prescrizione, resta spesso inabbordabile.

Perché il presidente Alberto Fernández ha inserito la depenalizzazione dell’aborto nel suo programma, se nel 2018 non era passata?

Il merito è delle donne che sono scese in piazza e delle associazioni che hanno saputo portare in strada il tema dell’aborto, farlo uscire allo scoperto e inserirlo a ogni livello, dalle famiglie alla politica. Anche la vicepresidente Cristina Kirchner a causa di pressioni interne al suo partito, alla fine l’ha votata. Il presidente Fernández fa parte del Frente de Todos e anche all’interno della sua coalizione c’era chi spingeva per legalizzare l’aborto. Oramai bisognava approvare la legge.

Quale sarà il prossimo Paese sudamericano a seguire il vostro esempio?

Non lo so, ma l’intero Sudamerica si sta mobilitando, non solo per l’aborto, ma in tutte le lotte femministe.

 

Ci fu una volta palazzo Grazioli Disneyland di B.

Mancava un set al declino. Silvio Berlusconi lo ha trovato nel più malinconico dei teatri di posa della Roma monumentale, le ville funebri dell’Appia antica, dove da una ventina di secoli muoiono le stagioni, tra le felci e i vialetti di ghiaia, oggi spazzati da eserciti di giardinieri d’oltremare, domestiche con il grembiule azzurro e cuochi che fanno volentieri la cresta ai conti stratosferici spediti dai fornitori di crostacei, pernici e antidepressivi.

La villa, tra le più celebri del catalogo, fu per un tempo cospicuo abitata da Franco Zeffirelli, re dei prati in fiore, antico regista dei due mondi, passione estetica degli americani eterni adolescenti, e con l’immaginario colonizzato dai mostri colorati di Disneyland. Per di più devoto amico e confidente di una americana in particolare, Liz Taylor, la penultima diva di sempre, che veniva a lacrimare tra le sue statue e i suoi divani bianchi, il più grande in pelle umana, circolare, al centro del salone, e a raccontargli le pene d’amore che le infliggeva il più amato dei suoi sette mariti, Richard Burton, purtroppo sempre inzuppato di whisky, brandy e vino rosso da mezzogiorno in poi. E senza mai un briciolo di allegria.

La villa, che Zeffirelli abitò fino all’ultimo, anno 2019, accoglie chi entra con un Cristo del Quattrocento appeso in fondo al corridoio, intriso di sangue, a dire la ferocia degli uomini e il gusto mistico carnale del regista sempre tormentato dagli abissi della religione, ma che sullo schermo raccontava tutt’altro: il lieto fine e la bella giovinezza e la sofisticata eleganza che non aveva riscontro nel mondo vero, ma danzava nei suoi allestimenti miliardari, per farne meraviglia: “Ho sempre amato il bello, quello che perfora il cuore”.

Un set per il declino tra i cimeli di Hollywood

Raffinatissimo com’era, non si capiva cosa ci trovasse in Silvio B. Anche se poi si capiva benissimo: i soldi, il vitalismo, le lusinghe, il riconoscimento persino culturale, lui che si considerava un emarginato dal Sistema e dall’Invidia, il riscatto finalmente anche politico e il seggio da senatore gentilmente offerto tra le plastiche oniriche di Forza Italia nel mirabile anno 1994. C’entrava certamente anche l’anticomunismo. Ma in Berlusconi era falso pure quello, un melodramma da operetta, visti i favori ricevuti, dai tempi della Crostata fino al Nazareno, e comunque niente a che vedere con quello nascostamente autentico di Luchino Visconti, l’ultra aristocratico, che per Zeffirelli fu signore, maestro e amante (“ci inondavamo di profumo Hammam quando ci asciugavamo dopo il bagno”) che coltivò il suo cuore e il suo immaginario per anni, lasciandogli in eredità lo snobismo del jet set internazionale – quello che se vede un operaio vero, chiama i Marines – che Zeffirelli frequentò davvero a cavallo di una carriera che lo ripagò di tutto (“per la carriera ho venduto il culo, mai l’anima”) e che lui celebrava esponendo in ogni scaffale della villa le foto della vita: accanto alla regina Elisabetta e a Charlie Chaplin, a Maria Callas e a Giovanni Paolo II, a Bill Clinton e a Sean Connery, come certificati di somma esistenza. Era il suo modo di bilanciare l’insicurezza che lo perseguitava dai tempi dell’infanzia, figlio illegittimo di “un padre puttaniere”, e poi orfano di madre a sei anni, cresciuto tra zie e preti che lo molestavano, per poi pentirsi con lacrime e ricatti.

Di queste trame e labirinti è intrisa la villa che Berlusconi comprò vent’anni fa per 3 milioni di euro e spiccioli, garantendo a Zeffirelli l’uso gratuito e perpetuo, in nome della sua proverbiale generosità che non disdegna mai la risonanza mediatica del gesto e l’investimento immobiliare.

Del resto Palazzo Grazioli, che a suo tempo avrebbe voluto comperare, ma senza intendersi con l’omonimo Duca proprietario, gli costava 40 mila euro al mese di pigione, un affronto, se hai dieci ville in Sardegna e almeno il doppio nel mondo, che lo infastidiva come fanno all’alba certi molari guasti.

E poi i saloni arredati con marmi e argenti da Giorgio Pes, architetto che fu pure scenografo monumentale di Visconti, gli erano venuti a noia, intasati com’erano di politici questuanti sopra i sessant’anni, durante il giorno, e di notte da pupe a tassametro sotto i venticinque, a parte la D’Addario. Con il viavai di scorte che portavano tutte e due le compagnie, davanti allo sguardo imperturbabile di Vincenzo, il portiere, delle quattro colonne doriche e dei poveri carabinieri al cancello che stazionavano armati, al servizio esclusivo della Nazione, mentre le ragazze uscivano all’alba ridendo.

Seminterrato concesso a Red Tv e comparsate di Dudù

Nel Palazzo, per comicità involontaria, l’Egolatra aveva rifatto in piccolo la sua Repubblica presidenziale, con il parlamentino annesso al piano terra, un finto ufficio da premier con tanto di stucchi dorati e di bandiere, per impressionare Francesca Pascale, le badanti e Paolo Romani, il cortile con le auto blindate da cui, a ogni telegiornale, spuntavano Renatino Brunetta e Dudù.

Per togliersi lo sfizio, aveva persino concesso il seminterrato e l’attico a due notevoli creature di Massimo D’Alema, nei seminterrati la Red Tv che purtroppo andò fallita, e in cima al tetto gli uffici del suo ex spin-doctor, Claudio Velardi, che da allora traffica in comunicazione bipartisan e feste, come se ci fosse qualcosa da festeggiare.

Con l’addio a Palazzo Grazioli trasloca un’epoca che in fondo ci siamo meritati. Con l’anziano miliardario al potere e una infinita schiera di servitori a masticare le briciole che si lasciava dietro, o sotto, nei sotterranei, fingendo il miracolo del milione di posti di lavoro, le tasse al 15 per cento e altri reperti di quel triste varietà che gli ha moltiplicato per 25 volte il patrimonio. Tutti imbrogli spazzati via nel mondo di ieri, e che andranno a rendere l’ultimo omaggio a quell’altro re delle finzioni cinematografiche e delle consolazioni teatrali, tra le memorie funerarie dell’Appia.

Quelli che… “il vaccino ti fa uscire una pinna di tonno”

Non so se ve ne siete accorti, ma la fiamma del negazionismo s’è leggermente affievolita, travolta ormai dal divampare di quella dei no-vax del Covid, ovvero una scoppiettante umanità immune alla scienza, alla razionalità e al senso del ridicolo. Vado qui a elencare le nove principali tipologie dei contrari ai vaccini.

1. Quelli che “non so ke c’è dentro”.

Categoria affascinante perché convinta che gli ingredienti di un vaccino siano tipo quelli della lasagna vegetariana, che uno te li dice e tu a quel punto li cerchi in frigo e accendi il Bimbi. Mi piacerebbe sapere cosa dicono, quelli che “non so che c’è dentro”, una volta che gli si elencano gli ingredienti del vaccino tipo liposomi, glicole polietilenico, fosfato monobasico di potassio. Si sentono più tranquilli? Chiedono di sostituire il fosfato col burro di capra che è più leggero? Cosa se ne faccia un addetto ai ponteggi di Sessa Aurunca della lista ingredienti del vaccino è mistero fitto.

2. Quelli che “voglio kontrollare i numeri, i risultati e tutti i dati del vaccino”. Poi devono aiutare i figli con le tabelline e sull’1×1 vanno su Google a cercare quanto fa.

3. Quelli che “ti cedo volentieri il mio posto per il vaccino”, convinti di parlare alla vecchietta sull’autobus. Allora gli spieghi che tu il loro posto te lo prenderesti pure ma non funziona così, che se non ti vaccini puoi dare il nome di un altro. Allora loro ti rispondono che “sono tutte skuse perché tu il vaccino dici dici ma non te lo vuoi fare”, tu ribadisci di sì, allora loro dicono “quando se lo faranno i politici ci krederò”, tu rispondi “De Luca lo ha fatto”, loro dicono “eh, ma si è fatto iniettare acqua micellare alle rose, lo sanno tutti”, tu replichi “ma tutti chi?” e loro “se non sei informato, informati”. “Ma dove?”. A quel punto ti mandano un meme di “laveritàkedevisapere”.

4. Quelli che “hai visto kosa è successo a quell’infermiera?”. Sono quelli che prendono informazioni da siti tipo “quellokenontidikono” amministrato da un tizio che fino a febbraio vendeva padelle di rame a Porta Portese e quindi ti spiegano che un’infermiera, appena vaccinata nel Maryland, ha sviluppato sul dorso la pinna caudale del tonno pinne gialle e ora parla con la voce di Mario Giordano. È disperata perché la pinna sarà asportata ma la voce di Mario Giordano le rimarrà. Se chiedi: “Scusa, ma è una notizia verificata?”, loro “Sì, Diego Fusaro ha konfermato tutto ieri a Tele Norba”.

5. Quelli che “C’è voluto troppo poco tempo per kreare questo vaccino, kiediti perché”. Allora tu rispondi “Perché si sono trovati subito i fondi, perché gli studi precedenti su Mers e Sars hanno aiutato, perché hanno aderito subito volontari, università, istituti etc…”. A quel punto loro: “E ti sei kiesto perché tutti hanno aderito subito?”. Tu: “Perché c’è una pandemia”. Loro: “Questo è quello ke kredi tu”. “In che senso?”. “Scusa, vorrei spiegartelo ma ho il corso di pilates via zoom”.

6. Quelli che “non mi vaccino perché il vaccino ti cambia il dna”. Allora tu spieghi con pazienza che no, non ti cambia il dna, non è che ti vaccini, vai a dormire e ti risvegli giapponese o gatto birmano o macaco del Borneo o tua zia. Loro: “E ke ne sai tu, ti sei vaccinato?”. Tu: “No, ma migliaia di persone lo hanno già fatto e nessuno adesso beve da una proboscide”. Loro: “Beh, intanto su “nocielodikono.net” c’è uno strano video kon un tipo ke esce dal pronto soccorso e si sente un rumore ke pare un barrito, ma un’ambulanza vuota a sirene spiegate kopre il suono e quelle per terra sembrano noccioline. Sarà!”.

7. Quelli che “Ti paga Big Pharma”. Allora tu fai notare che vivi in un monolocale a Quarto Oggiaro con due figli e un cane, se proprio ti facessi pagare da Big Pharma te la passeresti meglio. Ma soprattutto, perché Big Pharma dovrebbe pagare te? A quel punto loro replicano che “lo sanno tutti ke Big Pharma ha messo a budget 1000 trilioni per komprare la stampa, Kasalino, Giuseppi, la Merkel, Enrico Ruggeri, Jo Squillo e Michele KuKuzza, è inutile ke fai finta di non sapere”.

8. Quelli che “ma hai letto il bugiardino Pfizer?”. E tu: “Sì, ma anche sul bugiardino del farmaco anti-diarrea c’è scritto che potresti avere reazioni allergiche, però quella volta in India che ti eri mangiata il curry all’enterococco, ti sei ingoiata anche la scatola di quella strana medicina che ci ha venduto quell’ambulante senza denti a Mumbai!”. A quel punto l’amica replica: “Ma ke c’entra!”, “Ma come che c’entra?”, “Senti, tanto parli kosì perché ti paga la Rai, lo sanno tutti!”, “Ma faccio il capocantiere in autostrada!”.

9. Infine, quelli che se dici “vaccinatevi” postano la foto della stella a sei punte, per dire che “quelli ke si vaccinano avranno la spilletta con la primula, i no-vax saranno markiati con la stella e probabilmente vaccinati tutti a forza kol pigiama a righe, in qualke kampo lavoro”. E pensare che gli unici marchiati sul braccio sono stati proprio quelli che si sono vaccinati per il vaiolo, fino agli anni 70, e senza complottismi da minchioni. Anzi, da minkioni.

Milano, piazza 6 febbraio: in casa con lui ed Eco, due diavoli tentatori

Se dovessi dare un titolo a questo testo sulla mia lunga amicizia con Furio Colombo, scriverei “Furio, o della vicinanza”.

È stata sempre una presenza molto costante nella mia vita, a cominciare dai primi tempi della Rai in cui lavoravamo ad Orizzonte, un programma televisivo che andava in onda il sabato pomeriggio ed era dedicato ai ragazzi. Tenete presente che, oltretutto, io essendo più giovane di lui e di Umberto Eco, cioè il nostro gruppetto di amici allora molto legati, avrei potuto essere molto più influenzato da loro.

Invece Furio ho l’impressione che sia sempre stato rispettoso dei miei spazi, un po’ distaccato, discreto insomma. Per esempio, io studiavo filosofia mentre lui era un giurista, laureato in legge; qualcosa che lo distingueva in qualche maniera e lo faceva differente.

Anche nelle nostre carriere politiche e accademiche eravamo distaccati ma sempre vicini. Per il suo 90° compleanno vorrei offrirgli la prima copia della mia Opera omnia, pubblicata dalla Nave di Teseo e di cui il merito va principalmente a Franco Debenedetti, un’altra presenza molto costante nella mia vita e simile alla sua. Profondamente amici, rispettosi, vicini ma mai invasivi. Spero un pò di essere stato anch’io per loro questo.

Tornando al nostro piccolo settimanale che lui dirigeva ed io presentavo, Orizzonte, è molto importante perché è l’epoca cui si riferirà l’agile e bel libro di Aldo Cazzullo I ragazzi di via Po, una stagione fondamentale per l’appena nata Rai. Che poi era la Rai di Filiberto Guala, cioè sotto il dominio democristiano. Era anche il periodo in cui io, Eco e Colombo abitavamo insieme a Milano e la Rai faceva i corsi per i nuovi assunti. Non so se ricordate Il dentone, magistralmente interpretato da Alberto Sordi e che fa parte del film a episodi, come andava in voga all’epoca, I complessi. Questi erano un po’ i severi corsi che noi giovani pionieri dovevamo affrontare nella Rai della nuova televisione italiana. Noi tre abitavamo a Milano, mi ricorderò sempre, in piazza 6 Febbraio e la signora si chiamava Padoan. Passavamo lunghe serate insieme a parlare eccetera. Oltretutto io ero un giovane cattolico molto impegnato nella vita religiosa, che andava in chiesa tutte le mattine, recitava la sua bella preghiera prima di addormentarsi e così via. Sia Umberto che Furio invece, ammesso che non lo facessero di nascosto da me, non si son mai posti il problema di andare a messa tutte le mattine, anzi, eran sempre pronti allo svago nei locali in Brera per esempio o al “Santa Tecla”, famosa discoteca dell’epoca. Due diavoli tentatori per me che avevo come guida spirituale Monsignor Pietro Caramello, grande studioso di San Tommaso e che vedeva la Rai televisione come una tentazione da tener lontana, ma che soprattutto mi spingeva verso lo studio della filosofia. Cosa che feci in effetti.

Ebbene, per tutte queste ragioni ero sempre molto vicino a Eco e Furio ma me ne distinguevo in qualche modo. La Rai, benché con Orizzonte per noi fu un piccolo episodio della nostra vita, fu importante non solo per noi ma anche per la televisione di allora. Facevamo “semplicemente” un programma in fascia oraria per ragazzi, ma è appunto sotto l’ala protettiva di Guala che il direttore di Orizzonte, Furio, riuscì una volta a far venire in studio Danilo Dolci non senza creare un certo scandalo. Danilo Dolci in quel periodo stava occupando abusivamente delle terre di “padroni” al Sud, nelle zone di Partinico, per dare ai contadini, impoveriti ancor più dalle guerre, degli spazi in cui vivere e rifarsi una vita e una casa. Un Robin Hood, come vuole la fiaba, ben voluto dalla povera gente ma osteggiato da chi aveva tanto da perdere… come la terra, anche se incolta. Fu un bel colpo soprattutto politico in un programma per ragazzi!

Ad un certo punto Guala fu esautorato dalla qualità di amministratore e a noi ci venne a mancare quel “paracadute” che ci lasciava un certo spazio di manovra negli argomenti da trattare in una tv per ragazzi (vedi appunto l’intervista a Dolci). L’esperienza finì e i contatti fra me e Furio, ma anche fra me e Umberto si diradarono, vedendosi poche volte e soprattutto in America, rimanendo però profonda l’amicizia… “di vicinanza”.

Caro Furio, auguri dal tuo indomito “borseggiatore”

Caro Furio, non sapevo come dirtelo ma io sono un ladro. Di parole. E vedrò di festeggiarti degnamente provando a restituirti ciò che è tuo. Gente come noi (non sono il solo) cerca di rubare i segreti del giornalismo smontando e rimontando il congegno di un articolo, di un titolo, di un’idea che non ci appartengono, per sottrarre e ricomporre le tecniche di una meccanica perfetta (spesso per poi ritrovarci smarriti a maneggiare pezzi e concetti che non combaciano più). Confesso che ho cominciato a sgraffignare qua e là durante i nostri incontri che precedettero il ritorno dell’Unità

in edicola. Tu ne saresti stato il demiurgo e mi accoglievi al bar dell’hotel Plaza (quale migliore location per indicarci come radical-chic?) con dei post-it gialli, in tinta con l’inchiostro verde di una stilografica. La stessa che, immaginavo, aveva preso appunti su Robert Kennedy e Martin Luther King. Avevi già in testa il menabò scintillante dei primi numeri del quotidiano risorto dalle sue ceneri (e da una dissennata gestione politico-editoriale). E oggi davanti a certi manufatti sbiaditi sarei anche tentato di istigare al reato di appropriazione indebita (negli archivi di quella testata divenuta un modello di giornalismo civile, per essere poi assassinata, c’è tutto, basta copiare). Nel corso degli anni qualcosa ho imparato anche io, a cominciare dalla regola di non stare al gioco di chi conduce il gioco (eravamo a quel tempo sommersi dal Berlusconi trionfante): regola sulla quale fu successivamente edificato il successo del Fatto Quotidiano

. Confesso di avere provato a decifrare il codice che in quelle indimenticabili, ma purtroppo dimenticate, Feste dell’Unità ti metteva in immediata sintonia con le folle (sì, ad ascoltarti c’era il tutto esaurito), in una corrispondenza intellettuale ed emotiva che non ho (non abbiamo) più ritrovato. Confesso di averci provato di nuovo a rubarti qualcosa poco tempo fa quando in possesso di quella Colombeide antologica dal titolo La scoperta dell’America

mi sono sentito come quegli artisti del furto che non riuscendo a forzarla in loco asportano la cassaforte per poterci lavorare con calma, risoluti a violare per tentativi la formula della combinazione fino, clic, allo scatto finale. Ho provato a farlo e mentre pagina dopo pagina incontravo i maggiori protagonisti della storia contemporanea, che tu hai incontrato, e i memorabili accadimenti della cronaca dove tu c’eri sempre, animato dalla indomabile frenesia di osservare, riflettere, testimoniare, finalmente ho compreso quanto il mio sforzo d’emulazione fosse vano. Poiché la scrittura scaturisce direttamente dalla vita, e se pure la scrittura può essere ricalcata o plagiata, una vita come la tua è inimitabile. Neppure può consolarmi quella celebre frase di Picasso secondo cui i buoni artisti copiano, i grandi artisti rubano. Purtroppo non essendo Picasso mi accontento di avere attinto da chi ne sapeva più di me. In ogni caso, quando dopo questo incubo ci ritroveremo io e te alla “Capricciosa” per riprendere le nostre consuete chiacchierate, caro Furio stai in guardia poiché ad ogni tuo ricordo, ad ogni tuo commento, ad ogni tua scintilla ora sai che potrei affettuosamente borseggiarti.

Toti ci riprova: “Silenzio-assenso per tagliare i parchi”. La Consulta lo bocciò già a luglio

Via libera a sforbiciare i confini dei parchi, in quindici giorni e con il silenzio-assenso. È il diavolo nascosto nei dettagli della legge di bilancio ligure, svelato da una denuncia di Angelo Bonelli, coordinatore nazionale dei Verdi, e Danilo Bruno, responsabile parchi di Europa Verde Liguria. Nelle disposizioni collegate alla manovra, la giunta guidata da Giovanni Toti ha previsto che gli enti locali interessati da una proposta di modifica delle aree protette si dovranno esprimere sul merito entro due settimane. E se non lo fanno? “Il parere si intende acquisito in senso favorevole”, recita il testo. “È una norma che viola almeno due leggi fondamentali dello Stato”, spiega Bonelli. “La legge quadro sulle aree protette, che impone la consultazione obbligatoria di comuni, province e comunità montane, e soprattutto la legge sul procedimento amministrativo, che esclude il silenzio-assenso per i pareri in materia ambientale e paesaggistica. Un’iniziativa vergognosa, uno stratagemma per lasciarsi le mani libere e ridisegnare in modo semplice e veloce le aree sottoposte a tutela”.

Già nel 2019, con la legge regionale ribattezzata “sfascia-parchi”, Toti aveva tentato di sottrarre 540 ettari ai maggiori parchi regionali liguri (Aveto, Antola, Beigua e Alpi Liguri) e di cancellare 42 aree protette in provincia di Savona: contro il provvedimento si erano scagliate opposizioni e sigle ambientaliste, preoccupate da un nuovo allentamento dei vincoli ambientali in un territorio già funestato da edilizia selvaggia e dissesto idrogeologico. A luglio 2020 la legge è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale proprio per la mancata consultazione degli enti locali, imposta dalla legge-quadro statale che la nuova norma vorrebbe aggirare. Per questo il timore è che l’iniziativa – sospetta – di inserire disposizioni sui parchi nella legge di bilancio faccia da anticamera a un nuovo blitz. “È evidente la fretta di intervenire sul tema, per questo terremo la guardia alta”, dice il leader dei Verdi, che chiederà al governo, con un ricorso formale, di impugnare la previsione davanti alla Consulta. “L’obiettivo è arrivare, come per la sfascia-parchi, a una pronuncia di illegittimità per violazione della competenza esclusiva statale in materia ambientale – spiega –. Impediremo con tutti gli strumenti a nostra disposizione questo nuovo assalto ai parchi da parte di Toti”.