In attesa che, verosimilmente ad aprile 2021, scoppi la bomba dei licenziamenti, il lascito del 2020 è una piccola (ma inaspettata) consolazione: per la prima volta dopo molti anni, si è ristretto, e di parecchio, il lungo elenco di crisi aziendali che ingolfava il ministero dello Sviluppo economico. Per molto tempo il numero di tavoli aperti si è aggirato attorno ai 150; quest’anno, invece, è sceso prima a 120, in estate, e ora a 105 con l’ultimo aggiornamento.
I lavoratori coinvolti nel limbo sono passati da oltre 200 mila a circa 120 mila. Ancora tantissimi, insomma, e resta preoccupante vedere come le situazioni ancora senza soluzione siano spesso le più datate. Settanta quelle che si protraggono da almeno un triennio e altre 28 risalgono a prima del 2013. La sottosegretaria allo Sviluppo Alessandra Todde è convinta però che dietro questa accelerata nella definizione di molte crisi vi sia l’effetto di una nuova strategia: “Aver affrontato le vertenze con una visione d’insieme e dei progetti industriali – ha detto – ha cominciato a dare i suoi frutti durante quest’anno di governo”.
Quanto successo potrebbe sembrare un paradosso: come è possibile questo miglioramento proprio mentre l’emergenza Covid metteva in ginocchio la nostra economia? In realtà, non è inspiegabile, perché dal 23 febbraio del 2020 non è possibile avviare tagli di personale per via del blocco dei licenziamenti imposto dal decreto Cura Italia e reiterato dai provvedimenti successivi fino al 31 marzo 2021. Nessuna azienda ha potuto aprire procedure per allontanamenti collettivi. Inoltre, in questi mesi alle imprese in difficoltà conviene utilizzare la cassa integrazione con la causale Covid-19 piuttosto che quella per la cessazione delle attività.
In un simile scenario normativo, era improbabile che il numero di tavoli ministeriali aumentasse. C’è di buono, come detto, che sono diminuite quelle già esistenti. È attesa una nuova impennata dopo il primo aprile, quando cesserà la moratoria, e proprio per questo è importante aver sfoltito la coda delle precedenti. L’impressione è che più una crisi si dilunga, più diventa di difficile gestione. Tra l’altro, il fatto di trovare una soluzione non chiude automaticamente il tavolo; spesso resta attivo proprio per monitorare i progetti di riconversione. Le re-industrializzazioni dimostrano di essere le più ostiche.
Lo sanno i 635 ex operai Fiat di Termini Imerese che dal 2012 aspettano la partenza del progetto Blutec: ieri, per l’ennesima volta, è stata reiterata la cassa integrazione che li proteggerà per un altro anno.
Il caso dell’ex Ilva parla chiaro: firmato l’accordo con Arcelor Mittal a settembre 2018, è stato messo in discussione meno di un anno dopo e oggi per l’acciaieria è prevista l’ennesima ripartenza da zero: lo Stato torna nel capitale e serve un nuovo accordo sindacale. Questo tavolo è aperto dal 2012, dall’avvio dell’inchiesta penale per l’inquinamento.
Rimanendo in tema, quello per l’ex Aferpi di Piombino – oggi in mano al colosso Jindal – è meno grande per dimensioni, ma non meno intricato. I 1.600 operai in cassa integrazione aspettano dal primo gennaio 2020 il piano industriale per la partenza dei forni elettrici. Le istituzioni hanno messo sul tavolo soldi veri: 30 milioni da parte della Regione Toscana, altrettanti di Invitalia per l’ingresso nella società. Ma soprattutto una commessa da 900 milioni di Rete ferroviaria italiana (Rfi) per costruire rotaie. La proprietà, tuttavia, continua a rimandare. Proprio ieri ha incontrato i sindacati e ha chiesto una nuova proroga al 31 gennaio. Nella partita è entrato Marco Carrai, amico stretto di Matteo Renzi, in qualità di vice presidente Jsw Italy. “Non possiamo attendere che si perda ulteriore tempo”, hanno detto Guglielmo Gambardella e Lorenzo Fusco della Uilm.
Alla fine del 2021 si attende la cessione dell’Ast di Terni da parte della Thyssenkrupp: fino ad allora è stata garantita l’occupazione dei circa 2.300 lavoratori con un accordo ponte, bisognerà vedere che cosa accadrà con la cessione.
Quella della Whirlpool è una ferita ancora molto fresca. Non ci sono più speranze di convincere la multinazionale americana a restare a Napoli: il 1° aprile licenzierà tutti i 350 dipendenti rimasti, che erano oltre 400 quando a maggio 2019 ha annunciato la chiusura. Il tradimento dell’azienda di elettrodomestici è stato plateale: dopo aver promesso investimenti e mantenimento del sito campano, ha stracciato l’accordo ministeriale in pochi mesi. Ora il governo è al lavoro per il piano B, sta scegliendo le proposte di riconversione più credibili e le presenterà ai sindacati subito dopo le vacanze.
Per la verità, ci sarebbero anche vertenze aperte negli ultimi mesi, in pieno blocco, ma per fortuna già indirizzate verso una definizione. Un accordo con Alfagomma ha permesso di dare nuove prospettive ai lavoratori coinvolti nei licenziamenti Yokohama di Ortona, in Abruzzo: con il subentro, saranno riassunti 155 addetti entro il 2022. Nella stessa regione, la strana vicenda della Betafence di Tortoreto ha avuto un lieto fine: la multinazionale aveva dichiarato la chiusura auto-inducendo una crisi di commesse dovuta allo stesso annuncio, dopo anni di utili. Dopo le trattative al ministero, la marcia indietro.
I proprietari turchi della Pernigotti sono stati convinti a portare a Novi Ligure nuove linee di produzione per evitare chiusura e licenziamenti.
Restano sotto la lente le crisi delle grosse catene commerciali. Nell’acquisizione di Auchan da parte di Conad sono stati salvaguardati 5.400 posti ma restano quasi 800 esuberi. I 1.300 ex Mercatone Uno, oggi alle dipendenze della gestione commissariale, sono in cassa integrazione, ma questa partita è al ministero del Lavoro.
Oltre alle grosse crisi industriali c’è la miriade di licenziamenti nelle imprese medie e piccole, che non approdano al ministero e fanno meno rumore. Per i consulenti del lavoro, si rischia di perdere il 10% dell’occupazione nelle aziende di minori dimensioni. I dati Inps dimostrano che tra aprile e settembre abbiamo avuto oltre 120 mila licenziamenti economici, pur con il divieto. Questa tregua del 2020 rischia di essere un sospiro prima dell’ecatombe occupazionale prevista nella prossima primavera.