Salvini fa il moderato: “La Ue come i nazisti”

Agli sgoccioli dell’ultima seduta dell’anno in Senato, durante le dichiarazioni di voto sulla Manovra, per la Lega prende la parola Alberto Bagnai, responsabile economico del partito. Al suo fianco Matteo Salvini è sereno, compulsa il telefonino e ad ogni pausa applaude l’intervento del collega. Nel suo esordio Bagnai attacca sobriamente il premier Giuseppe Conte che a suo dire “disprezza” il Parlamento e come un “monarca e sovrano del Medioevo” considera i senatori dei “giullari”. Salvini, a suo fianco, applaude baldanzoso. Poi l’economista della Lega si esercita in un moderato parallelismo storico: “L’ultima volta l’ho presa un po’ larga – premette – questa volta la prenderò larghissima”. Sentiamo. “Il 1° settembre 1939 – racconta Bagnai – in un afflato europeista la Germania invase la Polonia perseguendo a modo suo, nel frattempo cambiato nelle forme ma non nella sostanza, l’obiettivo di unificare il continente a suo uso e consumo. Quello che accade dopo ce lo ricordiamo tutti”. Segue una serie di dati su Pil e debito per dimostrare come la “potenza egemone” (la Germania) e l’Ue tengano in scacco l’Italia con l’austerità europea e con i 209 miliardi del Piano di Ripresa e di Resilienza per uscire dalla crisi. Insomma per Bagnai l’Europa del Recovery è come la Germania nazista di Adolf Hitler che invade la Polonia facendo scoppiare la Seconda Guerra Mondiale. Quando il senatore conclude il suo accorato discorso, scroscia l’applauso dei colleghi della Lega, tra cui quello di Salvini. In un attimo la “svolta moderata” del leader della Lega svanisce. E anche la non ostile presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati non può fare a meno di notare il paragone di Bagnai: “Sto controllando il suo paragone con Germania e Polonia che non mi sembra adatto a questa situazione”.

Peccato che da qualche settimana Salvini, su suggerimento di Giancarlo Giorgetti, stia provando a vendersi come il leader moderato in grado di tornare al governo – di larghe intese o di centrodestra – e accreditarsi nelle cancellerie internazionali, tanto che ieri mattina il Corriere ha pubblicato una sua lettera con i “progetti per governare”, chiedendo un incontro al premier e annunciando un “tour delle capitali europee” per rafforzare il feeling della Lega con l’Ue. Una missiva che arriva dopo quelle di Silvio Berlusconi e di Giorgia Meloni inviate dal 14 dicembre scorso proprio al quotidiano di via Solferino per accreditare il centrodestra come forza di governo ma soprattutto come segno di una feroce lotta per la leadership interna. Ed è in questo quadro che ieri Meloni, dopo aver letto l’ennesimo retroscena su FdI che bloccherebbe la caduta di Conte dicendosi indisponibile a un governo con Renzi, ha annunciato la presentazione di una mozione di sfiducia contro il premier e il governo per vedere “chi vuole mantenere in vita l’esecutivo”. Una mossa per mettere nell’angolo Salvini che da settimane apre a un nuovo governo e che provoca una nuova rottura nel centrodestra. Tant’è che per tutta la giornata il leghista non commenta, non appoggiando la mozione: “Ora l’unico beneficiario sarebbe Conte” commentano gelide fonti leghiste.

Iv non ottiene nulla sul Recovery Plan: muro contro muro

“Conte è stato molto duro, poco aperto al dialogo. Se fa così, si va al muro contro muro”. Subito dopo la conferenza stampa di fine anno del premier, Matteo Renzi commentava così con gli amici. In linea con l’atteggiamento tenuto nelle ultime settimane, il fu Rottamatore non ha intenzione di fermarsi. Se Conte va in Parlamento a chiedere la fiducia senza un accordo con lui, è pronto a votargli contro. “Deve capire che se lo sfiduciamo, non è che poi facciamo il Conte ter”, continua a dire nei colloqui privati. “A quel punto, serve un altro premier”. Il nome che ha fatto trapelare in questi giorni è quello di Mario Draghi: tutto da capire se è una ipotesi reale, o una minaccia. Anche perché ufficialmente dal Colle continuano a dire che non è possibile che la legislatura vada avanti con una terza maggioranza. Renzi ha messo in conto che qualcuno dei suoi parlamentari non lo segua sulla strada della sfiducia, ma si dice convinto che non ci saranno abbastanza “Responsabili” per sostituirli. “Se poi va male e Conte riesce a trovare i numeri senza di noi, faccio l’opposizione”, va dicendo spavaldo. Mentre i suoi parlano anche di “appoggio esterno”. Le urne lui le esclude, nonostante il fatto che nello stato di caos politico generale è una variabile sul tavolo. Ma anche l’idea di uscire dal governo gli piace sulla carta più che nella realtà.

Tanto è vero che continua a ipotizzare che il premier vada da Mattarella, che apra lui la crisi. Che tratti. Per ora, l’altro non sembra intenzionato a farlo.

Ieri pomeriggio c’è stato il tavolo sul Recovery Plan al ministero dell’Economia, coordinato da Roberto Gualtieri e da Enzo Amendola (Affari europei). Il titolare del Tesoro ha presentato una nuova bozza di partenza di 153 pagine, con il dettaglio di come e dove si spende. Molte delle voci che interessavano Renzi restano immutate: 3,5 miliardi vanno alla Cultura, 9 alla Sanità. Così come le spese addizionali cambiano di poco (circa 2 miliardi). E rispunta la Fondazione per la Cybersecurity (contro la quale l’ex premier si è scagliato frontalmente), come Centro di ricerca. Dall’altra parte, sparisce il riferimento alla riforma della prescrizione, messa nel mirino da Iv. Resta ancora una bozza di partenza sulla quale mediare, alla luce delle proposte dei partiti. Ma le premesse confermano il muro contro muro.

Come quelli con Pd e M5S, l’incontro con Iv è durato ore. Il che evidenzia due aspetti in parte contraddittori: la voglia di Iv di condizionare la maggioranza per restarci dentro, ma anche la poca volontà di fare passi indietro sugli aspetti più divisivi. Nella delegazione c’erano Maria Elena Boschi, Ettore Rosato, Davide Faraone, Teresa Bellanova e Elena Bonetti. Agguerritissime soprattutto Boschi e Bellanova. Ma sul tavolo, Iv ha messo con forza il Mes e la riforma della giustizia. Temi divisivi. Tra i punti di Iv c’è persino “il riconoscimento del passato”, a partire dal jobs act.

Tra i momenti più animati, la risposta di Faraone a Gualtieri, che ha spiegato come sia irricevibile la proposta di Iv di usare tutti i prestiti per progetti aggiuntivi: far crescere il debito sarebbe incompatibile, è la linea del governo, con l’obiettivo di rientro che continua ad indicare l’Europa. “Ci mettete dei limiti”, ha risposto Faraone.

Gualtieri, poi, ha cercato di proporre un metodo: arrivare al Cdm previsto intorno all’Epifania con un accordo di massima e poi riaprire un tavolo, magari con gli esperti dei vari partiti. “No, dobbiamo arrivare a un accordo politico”, si è sentito rispondere. E dunque, si profila una riunione di maggioranza di inizio anno, magari il 2 gennaio. Dal Mef alla fine parlano di “incontro positivo”. Ma Iv continua imperterrita ad attaccare: “Ci separa un abisso, non saremo complici”.

Il Pd non sembra trovare troppo produttiva la linea di Conte del “muro contro muro”. Intanto, continuano i dialoghi sotto traccia con Renzi, per cercare una soluzione. Ma il ritiro delle ministre potrebbe esserci già nel Cdm sul Recovery.

Conte, ultimo avviso a Renzi “Se apri la crisi, si va in Aula”

Come l’anno scorso il convitato di pietra è un Matteo. Ma se nel 2019 si trattava del Salvini ex alleato e avversario ormai sconfitto, questa volta nella conferenza finale di un calvario chiamato 2020 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte deve rispondere spesso su un nemico attualissimo, quel Renzi con cui ieri guerreggia a colpi di citazioni di Aldo Moro.

Schermaglie dietro la sostanza, evidente: Conte non arretra e non vuole “vivacchiare o galleggiare” come ripete più volte. Ergo, “se verrà meno la fiducia di un partito andremo in Aula e ognuno si assumerà le proprie responsabilità”. Quindi a inizio gennaio porterà il documento sul Recovery Fund in Consiglio dei ministri. E se Iv dovesse mostrare pollice verso, il premier sfiderà Renzi a sfiduciarlo davanti al Paese.

Perché è vero, il premier prova a giurarlo: “Il presidente del Consiglio non sfida nessuno”. E figurarsi se può ammettere di pensare al voto anticipato, magari con una sua lista: “Non mi appartiene ragionare di questo, non posso distrarmi pensando a una campagna elettorale”. Però nella conferenza in una gelida Villa Madama, tra giornalisti con mascherine e distanziamenti, l’avvertimento lo lancia e fa rima proprio con sfida. Del resto a chi gli evoca eventuali responsabili come sostituti dei renziani in Parlamento, Conte assicura: “Non cerco altre maggioranze, e non si governa senza coesione”. Sintesi: se l’attuale coalizione giallorosa non dovesse più esistere, andare avanti in qualche modo con i voti di ex forzisti e transfughi vari non gli interessa.

Meglio altro, cioè le urne. “Forse non subito ma in primavera, in un election day con le amministrative” soffiano voci trasversali dai palazzi, secondo cui “prima bisognerà comunque varare il Recovery Plan, con i numeri che si troveranno”. Poi si potrà anche votare. Anche perché nei Palazzi è diffusa un’altra convinzione: “Il Quirinale non accetterebbe la terza maggioranza diversa in tre anni”. La certezza è che Conte ha fretta. Per questo raccoglie l’invito di prevedere “percorsi accelerati” per il Recovery lanciatogli tramite Repubblica dal commissario europeo Gentiloni: “Se non si rispetta il cronoprogramma semestrale le erogazioni sono sospese o si devono restituire i fondi. Serve un meccanismo che stabilisca cosa succede se si accumulano ritardi e si rischia di perdere le somme”. Quindi arriverà “un decreto per la struttura di monitoraggio e i percorsi preferenziali”. Ma soprattutto bisognerà essere rapidi: “Dobbiamo accelerare, avremo la riunione finale sul Recovery al massimo agli inizi di gennaio. E a metà febbraio avremo la presentazione finale del documento”. Però poi ci sarebbe sempre Renzi, che pochi minuti prima in Senato aveva citato Moro: “La verità è sempre illuminante”. E un’oretta dopo Conte gli replica così: “Gli ultimatum non appartengono al mio bagaglio culturale e politico. Moro disse che non sono ammissibili in politica perché portano a un precipitare delle cose e a impedire una soluzione positiva”. Colpi di fioretto.

Ma il premier usa anche la clava, quando dice no a Renzi su un tema caldissimo, quello dei servizi segreti: “Chi chiede al premier di abbandonare la delega sui servizi deve spiegare perché: è una prerogativa del presidente del Consiglio. E poi neanche il mio predecessore Gentiloni aveva assegnato ad altri questa competenza”. Mentre è meno inflessibile sul rimpasto: “Ogni capitano difende la propria squadra, ma se il problema verrà posto lo affronteremo”. Ma entro certi limiti. Perché per esempio di avere due vicepremier proprio non ha voglia: “Nello scorso governo questa formula ha avuto scarso successo”.

E suona anche come un graffio al fu vice Luigi Di Maio. Ma ora le priorità sono altre, per il premier, che la butta lì: “La crisi? Non voglio credere a uno scenario del genere”. E sembra un esorcismo.

Vocabolario 2021

Nell’ambito delle pulizie di fine anno, ecco 12 parole che, alla luce del 2020, è meglio cancellare dal vocabolario 2021 per motivi di profilassi igienico-sanitaria.

1. Anima. Elemento fondamentale dell’essere umano, ma non richiesto ai governi: a cui bastano e avanzano una maggioranza, un programma e dei buoni ministri. L’anima dei governi è come l’amalgama del Calcio Catania per il mitico presidente Angelo Massimino: “Alla squadra manca amalgama? Ditemi dove gioca e ve lo compro subito”.

2. Autonomia differenziata. Purtroppo prevista dalla Costituzione, ce l’avevano spacciata per la panacea di tutti i mali. Invece ha fatto danni incalcolabili già l’autonomia semplice, figurarsi se la differenziano pure. Modesta proposta: differenziamola a tal punto da levare la sanità alle regioni e riaffidarla allo Stato.

3. Bonus/sussidi. Basta coi bonus, solo noi facciamo i bonus, ci vuol altro che i bonus, siamo diventati il Sussidistan. Poi si scopre che gli Usa hanno appena varato un piano da 900 miliardi di dollari di bonus e sussidi per i più colpiti dalla crisi Covid. Quindi basta con i basta ai bonus e ai sussidi.

4. Competenti. Non ne esistono per scienza infusa né per diritto di nascita, come dimostrano tutti i governi che ci hanno lasciato questo disastro, ma anche i figli di papà imprenditori che han mandato (o stanno mandando) in malora le aziende di famiglia. Meglio astenersi da oracoli preconcetti e aspettare tutti al varco dei fatti, onde evitare di dover esclamare un giorno: “Però, quel Conte!”, “Però, quel Patuanelli!”, “Però, quello Speranza!”, “Però, quell’Azzolina!”, “Però, quel Provenzano!”, “Però, quel bibitaro!”. O di doversi domandare: “Possibile che il supercompetente Beppe Sala non abbia pensato a tener da parte un po’ di sale per sciogliere due dita di neve a Milano?”.

5. Governatori. Termine abusivo usato per definire i “presidenti di Regione” che, salvo rare eccezioni, è già eccessivo chiamare così, visto che i più non saprebbero presiedere il ballatoio di casa loro. I governatori in Italia erano quelli dell’impero romano e dell’impero fascista. Uno, però, somigliava molto ai nostri: il governatore della Giudea Ponzio Pilato.

6. Governo Draghi. Perché esista, occorre che l’attuale governo cada, che in Parlamento si formi una maggioranza disposta a votarne uno guidato da Draghi e soprattutto che Draghi accetti di guidarlo. Chi dice di stimare Draghi dovrebbe almeno chiederglielo, anziché nominare il suo nome invano per darsi un tono e fingere di esistere sulle e alle sue spalle.

7. Larghe intese. Termine volutamente generico e suadente per nascondere un’operazione truffaldina e terrificante.

Cioè un governo-porcata per cacciare chi ha vinto le elezioni e imbarcare i partiti di un pregiudicato, Berlusconi, e di un Cazzaro, Salvini. Chiamiamolo con il suo vero nome e poi vediamo l’effetto che fa.

8. Mes. Siamo l’unico paese europeo dove tutti parlano e chiedono del Mes, il prestito-capestro salva-Stati che nessuno Stato Ue ha attivato né intende attivare. Facciamo così: ne riparliamo dopo che almeno tre Paesi Ue lo attiveranno. Cioè mai.

9. Modello tedesco/lombardo/veneto. La Germania, che finora l’aveva scampata, viaggia al ritmo di mille morti al giorno e viola le regole Ue sull’acquisto di vaccini. Il Veneto era un modello grazie al romano Andrea Crisanti, poi il veneto Luca Zaia l’ha scaricato e addio modello. La Lombardia (non l’Italia intera) ha il record mondiale di morti Covid per abitante e i governanti più ridicoli della storia. I soli modelli esistenti sono quelli da non seguire.

10. Rimpasto. Anziché invocarlo a ogni pie’ sospinto, i partiti che ritengono di avere dei pessimi ministri propongano di sostituirli con gente valida, se ce l’hanno. Ovviamente ogni partito rimpasta i suoi, non quelli altrui. E morta lì.

11. Ritardi (sul Recovery). A leggere i giornaloni, l’Italia era in ritardo prim’ancora che il Recovery Fund fosse deliberato il 20.7.2020. Come sui banchi di scuola, sul Mes, sui vaccini, sulle siringhe, su tutto. Ma dicesi ritardo il tempo trascorso fra il momento in cui un evento si verifica e quello in cui avrebbe dovuto verificarsi. Il Recovery Plan va presentato all’Ue a febbraio-marzo, fra 2-3 mesi. Si prega dunque di comunicare il ritardo quando il treno arriva, non prima che parta.

12. Verifica. Altro termine da Prima Repubblica, come rimpasto, consiste in una cosa semplicissima: ogni partito di governo porta le sue proposte, il Consiglio dei ministri le vota e quelle che hanno la maggioranza passano, le altre no. Se qualcuno si offende, lo spiega in Parlamento, sfiducia il governo e lo fa cadere, a meno che altri parlamentari non la votino al posto suo. Cosa immorale nei sistemi maggioritari, ma del tutto normale in quelli proporzionali, purché sia gratis.

Ps. Ciao. Parola fuori ordine alfabetico e fuori concorso, perché è troppo bella per essere abolita. Ma va riportata al significato originario, che non è il ridicolo acronimo renziano di Cultura Infrastrutture Ambiente Opportunità, né quello più attinente di Cazzaro Inquisito Avido Opportunista. È un saluto fra amici felici di vedersi. Da non confondere col suo falso sinonimo, che dedichiamo a chi non vogliamo mai più rivedere, possibilmente già nel 2021: “addio”. Magari accompagnato dal ricordo di chi vorremmo rivedere sempre e per sempre: “Tu m’hai rotto er ca’”.

Dalla Simonetta di Botticelli alla ninfetta di Millais, tante le “Muse nascoste” nelle opere

È uscito un libro, al tempo stesso affascinante e inquietante: Le muse nascoste. Protagoniste dimenticate di grandi opere d’arte (Giunti), della qualificata storica dell’arte Lauretta Colonnelli. Racconta, con dottrina e stile limpido e spazioso, il retroterra, dirò così, “femminile”, di sedici capolavori della pittura. Alcune storie sono più o meno semplici; altre terribilmente intricate. Ci troviamo di fronte a ogni manifestazione del “guazzabuglio del cuore umano”.

Incominciamo da La più bella di Firenze. Pochi dipinti andrebbero anteposti a La Primavera, a La nascita di Venere di Botticelli. Altri raffigurano la stessa irraggiungibile bellezza. Il modello è Simonetta Cattaneo, maritata Vespucci, e amante di Giuliano de’ Medici, che per lei uscì di sé. Il modello stesso della bellezza femminile secondo i canoni neoplatonici. Ma lo Stato retto dalla saggezza di Lorenzo attraversò il terribile episodio della congiura dei Pazzi, nella quale Giuliano fu vittima. Dopo la morte di Lorenzo, i Medici furono cacciati e in Firenze s’instaurò l’atroce regime teocratico retto da Girolamo Savonarola. Chi avrebbe immaginato che il cantore stesso della serenità rinascimentale, Botticelli, si facesse sinceramente “piagnone”, ossia aderisse all’estremismo penitenziale del Savonarola? Dopo la cruenta eliminazione di costui Botticelli non rinsavì: rimasto “piagnone” non dipinse più e morì in miseria. “Piagnone” non sarebbe mai stato Filippo Lippi, il più lussurioso frate che mai fosse, pur egli pittore eccelso. Questi si monacò, fuggì, ritornò; rapì una bellissima monaca, Lucrezia Buti; continuò a dipingere alta arte sacra conducendo la sua vita postribolare, sotto la paziente protezione dei Medici.

Questi son casi semplici. Altri sono così intricati che quasi non si riesce a seguirli, tanto mescolano nevrosi, psicosi, impotenza, anoressia, pedofilia. Subito pensiamo all’Inghilterra vittoriana. L’inconfessato ideale femminile di quel mondo è la donna impubere, e infatti l’emblema del capitolo Le bambine del desiderio è il ritratto di ragazza (in realtà, una bambina) di John Everett Millais. Questa storia è addirittura non riassumibile. John Ruskin aveva sposato Effie Gray, ma non la toccò mai. Negli anni Effie divenne l’amante del pittore Millais, che di Ruskin era intimo amico. Millais ritrasse lei e lui. Dopo molti anni, Effie ottenne l’annullamento e sposò il pittore. Ma intanto s’era inserita, a far da tramite fra i due prima del matrimonio, la sorella più piccola di lei, Sophie, la bambina del ritratto. Ella divenne l’amante di Millais, che non avrebbe mai potuto sposarla anche se la moglie fosse morta. Passò tra crisi depressive, manicomî, anoressia; tentò un matrimonio; morì in manicomio nel 1882; aveva conservato un corpo di bambina.

Da Alma Mahler con Kokoschka e tutti gli altri, da Costanza Bonarelli e Bernini, da Marguerite e Mathisse, le pagine si percorrono con piacere e, ripeto, inquietudine. Non è un libro qualsiasi, questo.

Quella volta che Pierre spostò un tavolo di casa per farmi cenare

Amava farsi fotografare. O almeno, a noi fotografi ci lasciava lavorare. Ricordo quanto mi colpì la sua eleganza la prima volta che lo vidi. Eravamo a Palazzo Fani Pecci Blunt, a Roma, a due passi dal Campidoglio. Era il 1979 e c’era la festa per un premio, con un po’ tutte le star di allora: Gassmann, la Vitti, ma anche Valentino e altri stilisti. Gli stilisti erano tutti pischelli e gioviali allora. Alcuni col tempo sono cambiati, ma non Pierre. Lui anche invecchiando ha sempre amato stare tra la gente, vestire bene e farsi fotografare.

Gli piaceva la “dolce vita”. A Venezia era di casa come a Roma, e spesso veniva per le feste da ballo. Parlava questo italiano con accento veneto di cui andava fiero perché gli ricordava le sue origini.

A Roma frequentava tutta la nobiltà, e a Parigi, ovviamente, vedeva e vestiva le premières femmes di Francia: da Claude Pompidou alla principessa Gislène de Polignac, fino alle consorti dei grandi banchieri. Erano tutte sue amiche. Gente piena di gioielli neanche fossero una vetrina di Cartier.

Ma in tutte queste giravolte d’alta società, Pierre è sempre stato il contrario dello snobismo. Stava tra i nobili come tra i lavoratori.

A Parigi una volta, ero invitato a una festa a casa sua, nella maison particulière vicino alla Tour Eiffel. C’era un sacco di gente. Lui a un certo punto si accorse che i fotografi non avevamo un tavolo dove sedersi. Si alzò e lo andò a prendere di persona, spalla a spalla con i camerieri.

Addio Cardin, lo stilista venuto dal futuro

Ha vestito i Beatles consegnando alla storia la loro immagine in abito nero con scollo alla coreana. È stato il primo a sfilare sulla Muraglia cinese e nella piazza Rossa di Mosca, ma anche nel deserto e nei borghi medioevali, sdoganando la spettacolarizzazione delle sfilate. Ha creato il prêt-à-porter, la moda alla portata di tutti, e dato il via allo stile no-gender. Dopo aver rivoluzionato la moda del ‘900 lasciando il segno nella Storia, se ne è andato a 98 anni Pierre Cardin, lo stilista futurista che guardava allo spazio.

“Ho sempre avuto la testa rivolta al futuro”, diceva. E questo suo pensiero all’avanguardia lo si vede ancora oggi, riflesso nei suoi abiti, esposti come opere d’arte nei musei. Basti pensare all’iconico Bubble Dress, ispirato alla sua casa sulla costiera francese, la Bubble House. “Per me l’abito è un’opera d’arte. Chi lo indossa diventa una scultura, anche se il fisico ha qualche imperfezione. Conta solo il vestito. Il corpo è un liquido che prende la forma del vaso”, spiegava. Dive del cinema e del jet set come Elizabeth Taylor, Barbra Streisand e Jackie Kennedy si innamorarono del suo animo visionario, che si esprimeva con silhouette unisex e motivi geometrici, oltre ai leggendari minidress con le zip e gli oblò, a celebrazione della sua idea di libertà della donna dagli stereotipi.

Nato il 2 luglio 1922 a Sant’Andrea di Barbarana, un paesino del Trevigiano, come Pietro Costante Cardin, arrivò in Francia quando aveva appena 2 anni: i suoi genitori, agricoltori con 9 figli da sfamare, fuggivano dal fascismo e dalla povertà. Sarà anche per questo che è sempre stato un vero democratico. Nella seconda metà degli Anni 50 intuì che il futuro della moda non era l’haute couture, ma la strada. Iniziò così a lavorare a una nuova collezione e nel 1959 fu il primo couturier a creare una collezione “a prezzi democratici”, che fosse elegante ma allo stesso tempo alla portata di tutti, in vendita nei grandi magazzini francesi Printemps. All’epoca fece scandalo, tanto che la Camera della moda francese lo cacciò dai suoi associati, salvo poi fare marcia indietro e riammetterlo poco dopo. Lo spirito di quegli anni, che vedevano allora Usa e Urss in gara per la conquista della Luna, è impresso nei suoi abiti dalle forme aerodinamiche, spaziali, con colori sgargianti e tagli arditi. Per non parlare delle cravatte a fiori e delle camicie maschili stampate. Poi, verso la fine degli Anni 60, gettò le basi per la prima moda “no gender”: omosessuale dichiarato, non ha mai nascosto che il suo più grande rimpianto è stato quello di non aver avuto un figlio.

Tanti i primati della sua lunga carriera: è stato il primo a portare la moda fuori dai confini dell’abbigliamento, acquistando nel 1981 la catena di ristoranti Maxim’s e sdoganando il suo marchio in ogni ambito del vivere, dagli occhiali all’arredamento, dalle navi agli aerei. Stilista ma anche sarto, abilissimo a cucire, è così che ha iniziato nel 1945, quando fu assunto come apprendista da Elsa Schiaparelli. Christian Dior fu tra i primi a credere in lui, dando il via al suo riscatto sociale. Nelle interviste, parlava sempre con orgoglio della sua storia di “self made man”: “Sono un bambino di periferia che è diventato Pierre Cardin”.

Quante oscenità, Aristofane: la “Lisistrata” e la “Festa”

“Allora dobbiamo rinunciare al cazzo”. Questa la frase-clou della Lisistrata del greco Aristofane (411 a.C.), ora riproposta dalla Fondazione Lorenzo Valla in una sontuosa edizione per la cura di Franca Perusino e la traduzione di Simone Beta. A pronunciarla, con la sboccata franchezza tipica della commedia antica, ma anche di Catullo e dei graffiti pompeiani, è la protagonista eponima, dinanzi alle donne ateniesi unite in uno sciopero del sesso concertato con le colleghe di Sparta e di Tebe, volto a far recedere i mariti dall’ormai ventennale “guerra del Peloponneso”, e comprensivo di occupazione dell’Acropoli con immediato taglio delle spese militari.

Le reazioni sono da cabaret: compagne che esitano (“piuttosto camminare in mezzo al fuoco”), estorsione di solenni giuramenti (“non solleverò le pantofole persiane verso il soffitto e non me ne starò accucciata come una leonessa sulla grattugia”), tentativi di diserzione (“Per dirla in due parole: abbiamo una voglia matta di scopare”); per non dire della simmetrica, grottesca eccitazione di cittadini e ambasciatori in crisi da astinenza (“questa rigida tensione me lo rende duro come se fosse una mazza ferrata”, annuncia entrando in scena il povero Cinesia, che più tardi chiederà all’araldo spartano: “Ma tu chi sei? Un uomo o Priapo?”). Ma alla fine, la vittoria è certa.

L’utopia della Lisistrata crea un archetipo di straordinaria potenza: nel 2002 lo stesso sciopero fu varato dalle donne liberiane per fermare la guerra civile nel loro Paese (la leader Leymah Gbowee ottenne il Nobel per la pace nel 2011), mentre solo pochi mesi fa Alyssa Milano ha invitato ad analoga astensione contro la nuova legge anti-aborto in Georgia. Riletture e riscritture si sono susseguite a iosa ai tempi nostri, in chiave pacifista (dagli Usa allo Zimbabwe all’Iraq – per la guerra del 2003, in particolare, il “Lysistrata Project” coinvolse attori e attivisti di mezzo mondo) ma anche, sin da fine ‘800, in chiave femminista – è del resto proprio in questa commedia che le Ateniesi si presentano come vere, consapevoli cittadine, rivendicando per sé coraggio, patriottismo e sagacia politica, accennando alla loro segregazione sociale e affermando principi modernissimi del tipo: “Non esiste piacere per gli uomini, se ci costringono a cedere con la forza… Un uomo non potrà mai godere se la sua donna non gode insieme a lui”. Eppure.

Eppure, a onta della sua ricezione moderna, la Lisistrata non è di per sé né pacifista né femminista, né soprattutto porta avanti alcun programma politico “rivoluzionario”. L’azione, primariamente ridanciana, ha ispirato corrive messe in scena da rivista o burlesque, da quella di Maurice Donnay (1892) in cui Lisistrata cede al calore del suo amante, al noto Trapezio di Garinei e Giovannini in piena Guerra Fredda (1958). Le donne, da vere conservatrici, non mirano a una reale presa del potere, né all’affermazione di un diverso ordine politico o ideale, bensì al mero ripristino dell’oikos, dell’amore coniugale, dell’equilibrio sociale provvisoriamente stravolto dalla guerra. Esse riproducono le liturgie del potere maschile, usano metafore tratte dall’ambito della tessitura e della cucina (gli angoli ai quali presto torneranno), e si mostrano apertamente persuase di tutti i topoi misogini: doppiezza, propensione al bere, voglia smodata che si sfoga anche sui falli di cuoio (“il rimedio di pelle per la nostra solitudine”), incapacità “di fare altro che andare con gli uomini e fare figli” (così la versione di Beta, che spesso allunga e chiarifica espressioni greche più dense e criptiche). Prova ne sia che, dinanzi all’abile orazione finale con cui la sagace Lisistrata denuncia gli errori passati e presenti di Ateniesi e Spartani, gli ambasciatori reagiscono con una condiscendenza degna di certi osceni commenti ai discorsi di Azzolina, Boldrini, Carfagna etc.: “Sì, ci comportiamo in modo ingiusto. Ma quanto è bello questo culo… non ho parole!”; “Noi la vogliamo eccome, la pace – se però qualcuno ci vuole dare il buco”…

La Lisistrata, “una commedia gigantesca, universale, in cui danzano assieme dèi e uomini e bestie, in cui si abbracciano grazia e rudezza” (Hofmannstahl), andò in scena nel febbraio del critico anno 411, pochi mesi prima del colpo di Stato che sovvertì il regime democratico. In aprile Aristofane mise in scena un’altra pièce al femminile, le Donne alle Tesmoforie, in cui un’assemblea delle Ateniesi raccolte al tempio delle dee emana un solenne decreto di condanna del poeta Euripide, reo di aver oltraggiato le donne nelle sue tragedie (la maldestra difesa è affidata a un suo parente, depilato, camuffato e infiltrato tra le donne, ma infine scoperto). Anche in questo testo così libero (appena riproposto da Garzanti), ricco di travestitismo, di doppi sensi e di amplessi sugli altari di Apollo (nel 2000 il Julie Thesmo Show di Mary-Kay Gamel lo riambienta in un talk-show tv tra drag queen e discussioni sul fallocentrismo), Euripide non viene condannato in quanto bugiardo, ma in quanto inopportuno nel descrivere pubblicamente i “reali” difetti delle donne (lussuria, falsità, alcolismo), anziché lodarle come nobili fattrici di figli. Nessun femminismo, dunque, ma solo burla, quando il parente di Euripide viene minacciato (mentre è ancora en travesti) dall’incontenibile Mika: “Ora le depiliamo la vulva, così impara/ a smettere di offendere le donne, essendo donna”. Per ripartire davvero dal pensiero femminile, dopo quest’anno critico, ci vorranno parole nuove, e serie.

Difesa, Trump tiene all’oscuro Biden

Joe Biden denuncia l’ “irresponsabilità” di Donald Trump, che ostacola la transizione al Pentagono e tiene celate al team del presidente eletto informazioni essenziali per la sicurezza nazionale, anche economiche e finanziarie. “Al momento non stiamo ricevendo tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno”, ad esempio sulla dislocazione all’estero delle truppe Usa, rivela il presidente eletto. C’è allarme perché i nemici dell’America potrebbero profittare del caos nell’Amministrazione. Ma un sondaggio ringalluzzisce il magnate quasi ex presidente: per la prima volta, la Gallup gli assegna il titolo di uomo più ammirato (18% di ‘nominations’), dopo 12 anni d’ininterrotto dominio di Barack Obama (15%), che cede una fetta dei suoi fan a Joe Biden (6%). Nella classifica ci sono pure il virologo Anthony Fauci al 3% e Papa Francesco al 2%. Il risultato testimonia che Trump, nonostante la sconfitta elettorale, ha uno zoccolo duro d’irriducibili sostenitori. È su di loro che punta per provare a dare una spallata al risultato delle elezioni il 6 gennaio, quando il Congresso uscito dal voto del 3 novembre si riunirà per la prima volta e, in plenaria, farà la conta dei Grandi Elettori (306 per Biden e 232 per Trump). Un deputato del Texas, Louie Gohmert, repubblicano, è fra i protagonisti delle manovre per sovvertire in aula l’esito del voto. Ma ormai anche la stampa amica invita Trump a desistere: il New York Post di Rupert Murdoch dedica la copertina al magnate presidente, “basta con questa follia, hai perso le elezioni … stai spingendo per un golpe anti-democratico”. Il Nyp suggerisce di concentrarsi sui ballottaggi in Georgia, che il 5 gennaio decideranno la maggioranza in Senato. Lì una giudice federale, Leslie Abrams Gardner, sorella dell’attivista nera Stacey Abrams, ha appena sventato brogli repubblicani per escludere dal voto 4.000 elettori al 95% democratici. Biden non vuole perdere tempo per riguadagnare “la fiducia del mondo” agli Stati Uniti, segnalando che, su molti fronti, gli altri Paesi hanno cominciato a lavorare senza o addirittura contro gli Usa. L’ex vice di Obama vede un “grave rischio per la sicurezza nazionale” negli attacchi hacker alle Istituzioni nelle scorse settimane e avverte ritardi nella distribuzione dei vaccini anti-Covid – ieri, s’è vaccinata in diretta tv la vice Kamala Harris –, mentre la pandemia è più virulenta che mai con un americano su mille deceduto e quasi uno su 15 contagiato. Più che a battersi contro il Covid, Trump è impegnato in un braccio di ferro con il Congresso che vuole ‘bypassare’ il veto sui finanziamenti alla Difesa, mentre i repubblicani gli negano l’aumento a 2.000 dollari degli aiuti agli americani con reddito sotto i 75mila dollari annui. Favorevoli Biden e i dem.

Sánchez “il pacificatore” schiva Covid e monarchia

Con il “91% di ben 1.200 impegni presi a inizio mandato portati a termine”, di cui il 33% approvati nella “Manovra più progressista della storia” di Spagna, il governo di coalizione rossoviola di Pedro Sánchez compie un anno avviandosi verso una lunga e quasi incontrastata legislatura. Non senza qualche punto percentuale in meno (due rispetto al primo trimestre: passa da 30,2 a 28,4) nei sondaggi di gradimento, seppure con qualche medaglia in più. Retorica dei numeri a parte – quella che il premier ha snocciolato ieri in una conferenza stampa di bilancio di fine anno a sorpresa e che ha ribadito nel “primo report di resa dei conti” nella memoria del Paese” – il 2020 non è stato una buona annata e non solo per il Covid-19, a cui il report dedica un allegato a parte. A pesare, anche a detta degli ultimi sondaggi, sono stati gli alleati di governo di Unidas Podemos che infatti dal 12,8% delle ultime elezioni, scendono al 10,8, lasciandosi facilmente superare dall’ultradestra di Vox, ora terza forza politica al 14%. Su questi conti – che vedono l’eventuale coalizione delle tre destre, Popolari, Vox più i centristi populisti di Ciudadanos sommare più dell’alleanza governativa di Psoe, Up e partiti regionali – ha influito l’appoggio alla Manovra del partito indipendentista basco di Bildu, almeno quanto la questione dell’indipendentismo catalano, per non parlare dei guai della Monarchia, argomento di scontro nella stessa coalizione. Iglesias infatti, nell’estremo tentativo di tenere fede ai principi fondanti del partito, alla fuga del re emerito Juan Carlos, si è dimostrato dapprima attendista, infine critico, senza mai esporsi, attirando sul governo al contempo le ire dei progressisti monarchici, così come quelle dei repubblicani che non avrebbero visto male l’apertura a un referendum sulla monarchia. “Abbiamo molto da imparare dal governo italiano di coalizione”, ha dichiarato al vertice Italia-Spagna a Palma di Maiorca il leader di Podemos appena uscito dell’ennesimo braccio di ferro con Sánchez per l’inserimento del suo nome nella cabina di regia per la gestione del Recovery Plan. Sono finiti lì, nelle 58 pagine del documento per la gestione del tesoro dall’Europa molti dei progetti ancora non approvati: dalla digitalizzazione al recupero di posti di lavoro, compito questo ingrato in un anno in cui la Spagna ha cancellato 587 mila impieghi. Quanto all’indipendenza, il governo starebbe studiando in queste ore l’indulto per i leader catalani in prigione anche in vista delle elezioni regionali del 14 febbraio con la vicepresidente del governo Carmen Calvo che ha ricordato che il perdono governativo può essere concesso anche contro l’approvazione del Tribunale federale e del procuratore che l’hanno rigettato e il ministro dello Sviluppo José Luis Ábalos che ha ammesso che il governo ha “l’obbligo morale di alleviare le tensioni”. Tornando alla Monarchia, in un sempre vivo conflitto atavico tra sostenere il re o gettarlo dalla torre, il premier socialista ha scelto la terza via: suggellare – per la prima volta nella storia, di solito avviene costituzionalmente il contrario – la reggenza di Felipe VI con una legge che modifichi le prerogative della Corona, sulla via di una “modernizzazione” tracciata da re Felipe che “vuole una monarchia costituzionale adattata alla Spagna del XXI secolo. Rinnovamento, responsabilità, trasparenza”, ha dichiarato Sánchez. Una restituzione di favori al sovrano che nel discorso di Natale 2019 ha chiesto che su Sánchez confluissero i voti perché la Spagna uscisse dallo stallo politico di due elezioni andate a vuoto. Ultimo e inaspettato punto del programma che ha reso il premier più forte, viene il Covid. Sono meno gli spagnoli preoccupati per la salute (38%) di quelli in pena per la crisi economica (42,5%). Tra le prime fonti di inquietudine c’è il comportamento della politica (67,5%): per l’86% dei votanti la mancanza di dialogo tra le parti sta peggiorando la gestione della pandemia.