Torino: il grande intrigo dem ha la variante Chiamparino

“La verità? È questa: Sergio deve solo decidere. Lui vincerebbe e anche bene…”. Tocca a Mimmo Portas, il vecchio “ascaro” ex di Forza Italia e oggi leader dei “Moderati”, la formazione voluta proprio da Sergio Chiamparino, lanciare sulle cronache locali la grande “gabola”.

Quella parola, nel dialetto piemontese che tanto piace all’ex sindaco e poi presidente del Piemonte, sta per intrigo, affare non troppo nobile ma neppure del tutto disdicevole, mossa comunque vincente nel gergo dei mediatori di bestiame delle campagne piemontesi. Per riconquistare, dieci anni dopo, e soprattutto dopo Piero Fassino e la pentastellata Chiara Appendino che lo disarcionò, quel Comune per la prima volta contendibile da parte di un centrodestra che, tra i mugugni di Berlusconi e le strambate di Salvini, dovrebbe finire per candidare Paolo Damilano.

Uno che arriva dalle Langhe, Damilano, imprenditore dell’ossimoro industriale dell’avere successo coniugando il Barolo con le acque minerali e in grado, grazie alla Lega, di raccattare voti in quelle ex periferie operaie conquistate nel 2016 dalla Appendino, ma anche (e per la prima volta) nella “Ztl del Pd”: i quartieri della Torino bene dove la borghesia, un tempo collaterale agli Agnelli e alla Fiat, ha scelto da anni il centrosinistra.

Un incubo che affanna il Pd: prigioniero di amare certezze e di incognite brutali. La certezza più cruda è proprio quella rappresentata da Damilano: questa volta, il candidato della “società civile” lo ha trovato proprio il centrodestra, mentre quello inventato per il centrosinistra dalle lobby subalpine, il rettore del Politecnico Guido Saracco, si è ritirato per gravi motivi familiari. Lasciando orfani i dem, costretti a fare i conti con i “sette nani”: un gruppo di sedicenti candidati sbucati dai meandri del partito cittadino. Un no netto, invece, è arrivato dagli unici due personaggi nazionali spendibili, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis e la vicepresidente del Senato Anna Rossomando.

Infine, e soprattutto, ecco l’incognita decisiva: battere il centrodestra in solitaria, senza un alleanza coi Cinquestelle, non appare per nulla scontato. Qui, però, tornano in gioco i rancori reciproci mai sopiti del 2016, e le indicazioni fornite da Chiara Appendino proprio in un’intervista al Fatto: “Si può discutere, ma su nomi che non siano legati al passato”. Un passato che significa soprattutto Fassino e i suoi ex assessori.

Ed è proprio in questa temperie da ultima spiaggia che il nome del vecchio sindaco delle Olimpiadi ha cominciato a circolare, pur nei giorni del grande “silenziatore” della pandemia. Negli ultimi mesi, l’attività sotterranea di Chiamparino è consistita prima nel fare telefonate, tutte segnate dallo stesso inizio:”Tu cosa dici?”, poi in un appoggio iniziale a Giorgis e dopo a Saracco, nel silenzio ufficiale dopo l’autocandidatura dell’ex mago dei trapianti di fegato, Mauro Salizzoni, mister preferenza del Pd alle Regionali (“Ho promesso a sua moglie che non farò mai nulla per spingere Mauro a candidarsi…”) e, infine, con il lancio di Stefano Lorusso (uno dei “sette nani”), docente del Politecnico, capogruppo del Pd in Sala Rossa, ex assessore di Fassino e grande accusatore dell’Appendino per la vicenda che le è costata una condanna a 6 mesi per falso in atto pubblico.

Con un’aggiunta: Salizzoni dovrebbe fare lo “sherpa” di consensi per Lorusso.

Strategie che hanno fatto sorridere le vecchie volpi della politica torinese: “In realtà, Sergio parla di sé. Sa benissimo che Lorusso è come un pugno in faccia ai Cinquestelle e alla Appendino con la quale lui, invece, ha un ottimo rapporto”. Così, la “variante Portas” prova ad assurgere a scenario elettorale. Quello di un Pd paralizzato, senza candidati, che invocherà l’antico sindaco, pronto dapprima a negarsi, poi a sciogliere la riserva, cercando in prima persona un qualche accordo con il M5S. E con qualche possibilità di vincere, forse più alta di quella che gli attribuisce chi, sprezzante, parla già di “minestra riscaldata”.

Infatti, la Torino depressa di oggi, in forte crisi e con i francesi di Peugeot alle porte della Fiat che fu, è molto spaventata e potrebbe alla fine decidere di affidarsi a un “usato sicuro” e consolatorio.

Con Chiamparino che, per paradosso, potrebbe addirittura costituire una chance per il futuro della città, libero dai ricatti del suo partito e dalle aspirazioni personali (a 72 anni, il mandato sarebbe di fatto irripetibile). Rompendo gli schemi di quel “sistema Torino” che aveva inventato, ingaggiando nuove forze e rappresentando nuovi interessi, consolidando a livello locale l’alleanza Pd-M5S, ma soprattutto costruendo ciò che non aveva mai fatto; la propria successione. Ma a 72 anni, si possono ancora cambiare idee e frequentazioni?

Marcucci “la talpa” fa infuriare il Pd

Bisogna essere persone piene di cattiveria e pregiudizi per credere davvero che Andrea Marcucci sia rimasto nel Pd per fare la talpa di Matteo Renzi. È vero che Marcucci è un renziano puro, tra i migliori prodotti della batteria toscana. Uno che ha legato in tutto e per tutto il proprio destino alle fortune del talento di Pontassieve. Da subito: nel 2012 i primi circoli renziani nella campagna (fallita) per la conquista del Pd – le primarie contro Bersani – nacquero proprio nella Lucca di Marcucci, e per iniziativa di Marcucci medesimo.

È vero pure che è stato sempre Renzi a imporre Marcucci come capogruppo del Pd al Senato all’inizio della legislatura, quando era già abbastanza chiaro che il rapporto col Pd fosse su un piano inclinato verso l’inevitabile divorzio (peraltro Marcucci fu eletto grazie al posto blindato in un listino bloccato, provvidenziale, visto che nel collegio di casa sua, Lucca, era arrivato addirittura terzo, con il 26%).

Insomma, politicamente Marcucci è Renzi. Ma quando nasce Italia Viva i loro destini si separano, a sorpresa: il capogruppo resta nel Pd. Solo i più maligni ipotizzano che sia una strategia, e cioè che Renzi abbia lasciato un po’ di fedeli nella casa madre, a combattere da dentro. E che Marcucci sia molto più utile da capo dei senatori dem (battuta da Palazzo Madama: “Iv ha due capigruppo al Senato, Faraone e Marcucci”).

Ecco, negli ultimi tempi questa ipotesi complottista della doppia fedeltà di Marcucci sta prendendo parecchio piede. Non solo tra i retroscenisti e gli odiatori di professione. Anche i compagni del Pd cominciano ad essere un po’ seccati. Prima sono arrivate le contorsioni di Marcucci contro i Dpcm di Conte: troppo severi, troppi divieti, troppo rigore (e d’altra parte per Andrea, che ha qualche interesse nel settore turistico, il tema è sensibile).

Diverse sopracciglia si sono inarcate, poi, quando Marcucci ha rilasciato un’intervista al Foglio, una settimana fa, per dire che se il governo cade non è affatto detto che si vada ad elezioni (come invece sostiene l’intera segreteria del Pd): “In una democrazia parlamentare se non c’è un governo si cerca di farne un altro”. Per aggiungere poi che “molte delle critiche di Renzi a Conte sono fondate”. Ma va?

Si è arrivati così all’ultima manifestazione della saudade renziana di Marcucci. Dopo il piano “Ciao”, il senatore ha voluto dedicare un pensierino di fine anno all’ex capo: “Gli auguro di raggiungere gli obiettivi che si prefigge”. Qualcuno s’è incazzato davvero. A nome di tutti, nel Pd, ha parlato Walter Verini: “Al momento della scissione, Renzi disse che l’obiettivo era asfaltare il Pd come Macron aveva asfaltato il Partito socialista francese. Sono sicuro che Marcucci non si riferisse a questo, e tuttavia tra gli obiettivi di Renzi farei una bella selezione”.

Il piano Renzi seppellito da una risata: “Ciao Mattè”

Era ampiamente prevedibile la reazione della rete al “Ciao” di Matteo Renzi. Un piano che ha la consistenza politica e culturale di un meme non poteva che essere riprodotto infinite volte nel linguaggio ironico e semplificatorio della satira sui social.

Quando si parla di Renzi, è sempre valida la vignetta di Osho con il toscano nei panni di Jep Gambardella, dandy annoiato della Grande bellezza di Sorrentino: “Io non volevo solo partecipare ai governi, volevo avere il potere di farli fallire”. Dove voglia andare a parare l’ex premier con il suo simpatico acronimo è chiaro a tutti: “Da ‘stai sereno’ a c.i.a.o. 1001 modi per salutare senza andarsene mai”, twitta Kotiomkin.

Qualcun altro invece sviluppa il tema dalla prospettiva dell’interlocutore di Renzi, Giuseppe Conte, e immagina la risposta del presidente del Consiglio – tra l’ironico e il rassegnato – che cita Luigi Tenco: “Ciao amore, ciao”.

Molto gettonati anche i meme con il vecchio “Ciao”, il motorino della Piaggio stilizzato (e lentissimo) che ha spopolato sulle strade italiane dalla fine degli anni Sessanta fino ai Novanta inoltrati. E allora sui social è un fiorire di Renzi sul sellino che scappa via (si suppone dalla maggioranza) o che si esercita in improbabili impennate (“Renzi lancia il progetto ‘Ciao’, non gli è bastato sfracellarsi con un ‘Sì’”).

E poi ci sono quelli che hanno subito pensato al “Ciao” di Italia 90, l’improbabile pupazzetto tricolore che è stato la mascotte delle “notti magiche” dei Mondiali: un’icona vintage dall’estetica molto discutibile (e dalla storia non particolarmente fortunata), che se non altro ispira nostalgia e ricordi di un’epoca meno cupa di questa. Secondo Paola Franceschetti nella scelta del “Ciao” potrebbe esserci lo zampino di un noto consigliere politico, lo stesso che aiutò Renzi nel disastro del referendum del 2016: “Renzi sfida Conte con uno slogan di avanguardia pura. A occhio e croce mi sa che è tornato Jim Messina”.

La storia. Gentiloni schiaffeggia il Bullo: e il Patto?

Girava una voce da un po’ di giorni, riferita da persone ineccepibili e di sicura buona fede, secondo la quale ci sarebbe stato un patto riservato da Paolo Gentiloni e Matteo Renzi per sostenere il secondo nelle sue manovre e assicurare al primo la poltrona del Quirinale. L’ampia intervista concessa ieri dal commissario europeo a Repubblica smentisce categoricamente quella voce. Gentiloni conferma che il governo non ha alcun ritardo nella definizione del Next Generation e ammette la necessità di norme speciali per fare in modo che i progetti abbiano “corsie preferenziali” e rispettino le scadenze. Altrimenti si perderebbero i fondi. Non a caso il ministro Enzo Amendola, indirettamente uno degli obiettivi primari di Renzi, parla di intervista “molto condivisibile”. Se Gentiloni schiaffeggia a distanza Renzi non vuol dire però che l’ambizione al Quirinale venga meno. Magari con una maggioranza senza l’ex Rottamatore.

L’ultima minaccia di Iv: “Ciao diventerà addio”

È una guerra di nervi quella di Matteo Renzi. Una guerra di trincea, che non prevede gesti improvvisi e istintivi, come pure sarebbe nel carattere del personaggio. Ma vuol mettere all’angolo Giuseppe Conte, puntando ora sul fatto che il Recovery Plan non piace a nessun partito. Come Renzi non ha evitato di twittare: “Venti giorni fa eravamo i soli a porre dubbi su metodo e merito del #RecoveryPlan. Oggi tutte le forze della coalizione avanzano proposte alternative e chiedono correttivi”. Le sue vere condizioni, oltre alle obiezioni di merito sul Piano, sono: il Mes, il fatto che Conte ceda la delega sui servizi segreti, il riconoscimento al suo ruolo nel governo, con un ministero in più a Iv. Sui punti di merito il Pd, che pure l’ha mandato avanti verso la strada della crisi per poi farsi indietro, è sulla stessa linea. Gli occhi del leader di Iv sono puntati su quello che dirà già oggi Conte nella conferenza stampa di fine anno: si capirà se c’è la voglia di cedere e quanto, oppure di tentare di umiliarlo. Ma lo showdown definitivo almeno nelle intenzioni della vigilia è rimandato. Anche se una reazione dell’ex premier è già prevista, nell’intervento annunciato nell’Aula di Palazzo Madama, quando si voterà la fiducia alla legge di bilancio.

Se il senatore di Scandicci riuscirà a mantenere i nervi saldi, i tempi saranno dilatati. Perché quel che sta succedendo al ministero dell’Economia dà il senso di quanto i suoi affondi abbiano colpito l’avversario: le riunioni di ieri con le delegazioni di Cinque Stelle e Pd sono durate tantissimo. Sotto esame l’intero Recovery Plan. Con qualche segnale inquietante per la tenuta del governo: M5S, per dire, insiste su più risorse per il superbonus, piuttosto che per l’edilizia popolare. Oggi Iv presenterà le sue 61 proposte. Con tanto di esplicitazione della richiesta di fare ricorso al Mes. A proposito di temi divisivi. Roberto Gualtieri, non solo per prendere tempo, ma anche per arrivare a un accordo blindato sul Piano finale, ha previsto una serie di passaggi: dopo il lavoro istruttorio, ci sarà un Cdm, poi il documento verrà consegnato alle parti sociali e al Parlamento. Se necessario, ci sarà un incontro con tutte le parti politiche. Ma il tempo stringe, l’Italia deve presentare il piano alla Commissione entro la metà di febbraio. E a più parti della maggioranza l’intervista di ieri di Paolo Gentiloni, Commissario agli Affari economici è apparso un segno di preoccupazione e un invito a tutto il governo a evitare ritardi. Quindi, tirarla troppo per le lunghe è impossibile. Dunque, per il Cdm si indica una data intorno all’Epifania. E sarà in quell’occasione che si capirà se le ministre renziane voteranno con i colleghi. Ieri Teresa Bellanova ha nuovamente chiarito che non si torna indietro: il “Ciao” di Iv sul Recovery si trasformerà in un addio se manca la “volontà di andare avanti per dare risposte e non scegliere amici per coprire postazioni”. Renzi non sembra intenzionato a fermarsi neanche rispetto alla prospettiva di una fiducia sul Recovery. Pronto a dire che se gli eventuali voti mancanti di Iv (che comunque non saranno tutti) verranno sostituiti da altri in soccorso, l’esperienza di questo governo Conte si è conclusa.

Conte riscrive il Recovery ma prepara la sfida a Renzi

Il presidente che ha un avversario evidente e diversi nemici nell’ombra ha deciso la rotta. Ne ha parlato con i suoi più stretti collaboratori e anche con un dem che ascolta volentieri, Goffredo Bettini, con cui ieri ha avuto un lungo colloquio telefonico. E il succo è che Giuseppe Conte sfiderà il nemico che si mostra, cioè Matteo Renzi, sui contenuti: aprendo ad (alcune) modifiche del Recovery Plan, per poi puntare a un voto condiviso sul documento in Consiglio dei ministri. Ma se Renzi andasse dritto, dicendo no e ritirando le ministre, Giuseppe Conte è pronto a parlamentarizzare la crisi. E a tutto ciò che potrebbe seguirne, comprese le elezioni. Da affrontare come candidato di una coalizione giallorosa: a capo di una sua lista, oppure come guida del Movimento, strada forse più semplice. Ma che si intreccia a un’altra vicenda, l’elezione della segreteria dei Cinque Stelle. Un organo collegiale di cinque membri che dovrebbe essere votato entro fine gennaio, con regole ancora da scrivere (ma di rinvio in rinvio si potrebbe scivolare anche oltre).

Ed è anche da lì che potrebbe passare il futuro di Conte e del suo governo. Dai nuovi vertici di un M5S che in due anni e mezzo ha perso decine di parlamentari tra espulsioni e addii, e che è alle prese con la milionesima rivolta, perché 17 eletti protestano per l’annunciata rimozione del deputato Alvise Maniero da “presidente della delegazione parlamentare italiana presso il Consiglio d’Europa”. È la sanzione pensata dal reggente Vito Crimi per Maniero, uno dei 13 che alla Camera votarono contro la mozione sulla riforma del fondo salva Stati. Ma 17 grillini, tra cui Nicola Morra e Barbara Lezzi, protestano. E ieri pomeriggio in un’assemblea dei deputati sono volati stracci sul caso. Conte però ha un’altra priorità, mediare con Renzi. Non è casuale allora che ieri abbia sentito Bettini, teorico di una lista Conte e di una coalizione giallorosa, nonché delle urne come via obbligata in caso di crisi. Il premier, va detto, spera ancora di schivare le urne. Ma le valuta come possibili. Pochi giorni fa, in incontri con alcuni 5Stelle di governo, è stato chiaro: “Sono pronto anche al voto, ma è evidente che a quel punto voi dovrete ragionare sui due mandati”. Regola di nuovo blindata come intoccabile negli Stati generali, sorta di congresso dei 5Stelle. Ma aggirabile, magari con una deroga da far votare dagli iscritti, motivandola con il mancato completamento della legislatura. Ipotesi. Ma prima del liberi tutti c’è il passaggio in Parlamento. Perché Conte, se si arrivasse allo scontro finale, vuole essere sfiduciato in Aula. Dove potrebbero anche trovarsi i voti per salvarlo, nel nome dell’autoconservazione (il gruppo che si raccoglie sotto la dicitura Italia23, raccontato ieri dal Foglio, si propone come pattuglia di responsabili). E sarebbe una nuova maggioranza: magari potabile per Renzi, che ovviamente teme le urne, ma chissà quanto accettabile per diversi 5Stelle. E da qui si torna al tema di chi guiderà il Movimento. E la prima certezza è che, salvo improbabili sorprese, Alessandro Di Battista non sarà della partita. Resterà fuori, pronto a rientrare in gioco in caso di urne.

Un passo di lato che Luigi Di Maio ha cercato di evitare, anche perché da componente della segreteria l’ex deputato sarebbe più “gestibile”. Ma andrà diversamente. E a questo punto anche Di Maio è tentassimo dal restare fuori. Però in queste ore diversi big, tra cui alcuni ministri, sono tornati a chiedergli di candidarsi per stabilizzare il Movimento. E per l’ex capo politico non sarà facile dire di no. Anche perché tutti danno come probabilissimo eletto, assieme a Paola Taverna e Danilo Toninelli, anche Nicola Morra, irregolare che spesso marcia in direzione contraria, in nome dello spirito del M5S originario.

Ed è pronta a correre anche la consigliera regionale pugliese Antonella Laricchia, in ottimi rapporti con Di Battista e ostile a ogni accordo con il Pd, che sta sondando consiglieri a 5Stelle di tutta Italia. In questo quadro, Di Maio potrebbe essere candidato anche per gestire una discesa in campo di Conte. E non lasciargli troppo campo libero sul M5S. Intanto riflette anche Roberto Fico. Disponibile, ma solo come nome di mediazione, voluto e soprattutto votato da tutte le anime. Mentre Di Battista e diversi parlamentari sperano ancora nella candidatura di Virginia Raggi. Ma la sindaca di Roma non pare dell’idea. Almeno per ora.

 

I PARERI

Alessandra Ghisleri

Meglio mettersi alla guida del Movimento

A settembre il partito di Conte stava intorno al 4-6% ma eravamo in un periodo di grosse polemiche per la riapertura delle scuole. Ed è ovvio che i sondaggi sono molto legati alla stretta attualità e questo è un altro momento critico, in piena seconda ondata. Ad ogni modo, più che fare un partito nuovo, per Conte sarebbe più semplice correre come leader del M5S. Questo perché non si può creare un movimento di opinione in poco tempo: anche Grillo e Berlusconi ci hanno messo un po’ perché queste sono operazioni mediatiche e di emotività più che di territorialità. Sarebbe più nelle sue corde correre come leader di in un movimento strutturato, anche se ci saranno delle reticenze nel M5S. Fare un proprio partito è faticoso come dimostrano Renzi e Calenda, ex premier e ministro, che non superano il 4% nonostante siano presenti sul territorio e sui media. E poi, se è vero che il premier ha un gradimento molto più alto del suo governo, questo non comporterebbe un consenso diretto del suo partito.

 

Antonio Noto

La pandemia ha già fatto nascere la “lista conte”

Da mesi testiamo un ipotetico partito di Conte e abbiamo anche un trend: rimane abbastanza forte ma con una piccola flessione naturale. Il primo sondaggio l’abbiamo fatto dopo la nascita del governo giallorosso ed era intorno al 15%, mentre gli ultimi dati di dieci giorni fa oscillano tra il 10 e il 12%. Da una parte è chiaro che al governo non si guadagna consenso, dall’altra io interpreto questo dato come uno zoccolo duro intorno al premier. Sono quegli elettori che si identificano in Conte più che nel M5S, Pd, Italia Viva o Leu: nell’immaginario collettivo è come se il partito del premier fosse già stato creato, anche se non esiste ancora. Conte ha un bacino elettorale più ampio del perimetro di Pd e M5S: la sua forza è quella di attrarre anche chi non vota o vota centrodestra. Io penso che Conte ci stia seriamente pensando: la pandemia gli ha dato un’identità politica forte e penso che Conte sia un leader che sta nascendo, non che sta morendo.

 

Roberto Weber

Non farà la fine di Monti: lo votano anche gli ex di B.

Abbiamo testato il partito di Conte in primavera e il risultato era intorno al 9-10%,una percentuale ragguardevole. Un anno dopo non è cambiato granché. La sensazione è che di fronte a una rottura del quadro politico, Conte potrebbe guadagnare qualcosa non solo nell’area dei 5 Stelle ma anche nel Pd e tra i moderati che vogliono stabilità e un tempo votavano Berlusconi. Conte infatti si è fortemente irrobustito politicamente in questo anno di pandemia e noto un’enorme distonia tra commentatori-giornali e opinione pubblica: il premier ha un gradimento ancora altissimo e non è mai successo che ci sia un coro di ostilità nei media così marcato, nemmeno con Berlusconi che almeno aveva i suoi media. Secondo me Conte non metterà su un partito ma se dovesse farlo non farà la fine di Mario Monti perché è molto più intelligente politicamente e non avrebbe problemi ad attirare consenso.

Cnr senza guida: candidato pronto, la nomina non c’è

Quando una decina di giorni fa il ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi si è affacciato al convegno dedicato al futuro del Consiglio nazionale delle ricerche, tutti erano pronti alla lieta novella: l’annuncio della nomina tanto attesa del nuovo presidente del più grande ente di ricerca italiano, al cui vertice oggi siede Massimo Inguscio. Scelto nel 2016 dall’ex ministro Stefania Giannini, sospettato di buone entrature con il giglio magico renziano e scaduto da quasi un anno. Ma rimasto in sella, causa Covid, nonostante l’emergenza non abbia impedito altre nomine, come all’Enea. Una prorogatio ancora più inspiegabile perché è tutto pronto per la sua successione da febbraio. Con cinque candidati già selezionati di cui uno premiato con il punteggio massimo.

Si tratta di Andrea Lenzi cattedratico di endocrinologia alla Sapienza di Roma e attuale presidente del Comitato di biosicurezza di Palazzo Chigi, che ha riportato una valutazione di 100 punti su 100. Seguito a distanza da Francesco Sette, fisico della materia che si è formato ai laboratori di Frascati dell’Infn e attualmente direttore generale dello European synchrotron research facility di Grenoble. E poi Vincenzo Barone, chimico, già direttore della Normale di Pisa, che si era dimesso nel 2019 dopo che la Lega aveva affossato il suo progetto di apertura di una Scuola normale superiore a Napoli. Infine Cristina Messa, medico e primo rettore donna dell’Università Milano-Bicocca, e Tommaso Edoardo Frosini, ordinario di diritto costituzionale all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e attuale vice presidente del Cnr.

Ma sono in corsa o no? Perché a Piazzale Aldo Moro ancora non si vede la luce e dal Miur non arrivano segnali, anzi. Ieri al Cnr, prima dell’ultimo cda dell’anno, si sono rincorse le voci più disparate sulla nuova governance che avrebbe in mente Manfredi per l’ente che dovrà saper agganciare il treno dello sviluppo delle attività di transizione industriale, il cuore del programma Next generation Eu. Qualcuno è pronto a scommettere che il ministro possa arrivare a giocarsi l’asso del commissariamento o meglio del riordino dell’ente pur di azzerare gli esiti della procedura di selezione del nuovo presidente che si è conclusa a febbraio. Perché? “La verità è che la lista dei candidati selezionati per sostituirlo è rimasta chiusa nei cassetti perché sono nomi che non piacciono a Manfredi, che però da lì deve pescare”, si lascia scappare chi non si capacita del tempo perduto.

L’attuale presidente, che doveva essere sostituito già il 19 febbraio scorso, ha fatto in tempo a finire il mandato e andare pure oltre: è già in pensione avendo spento le 70 candeline, ma resterà dov’è per altri 45 giorni almeno, senza esserne più di tanto dispiaciuto, tutt’altro. Del resto ha fatto domanda per succedere a se stesso rispondendo all’avviso di selezione per la carica di presidente indetto a dicembre 2019 dal dipartimento per la Formazione superiore e per la ricerca del Miur. Ma non è andata bene: il comitato incaricato di vagliare le pubblicazioni, i meriti scientifici e manageriali dei candidati ha valutato una trentina di curriculum, compreso il suo che però è stato scartato. Non è entrato nella rosa dei 5 finalisti che è nelle mani del ministro Manfredi dal 29 febbraio ma di cui, da allora, non si è saputo più nulla.

Fascisti alla guerra della sanità: imprenditori sotto i fari dei pm

Un’opera di dossieraggio, condita da minacce e portata avanti con l’aiuto di investigatori corrotti. Così si puntava a far fallire uno fra i principali gruppi della sanità laziale, strappandolo ai proprietari e spalancando la strada ad altri “noti” imprenditori del settore, si suppone compiacenti. Un complotto in piena regola, secondo la Procura di Roma, ordito da personaggi legati alla destra eversiva romana cui avrebbero contribuito – quanto coscientemente lo stabiliranno le indagini – anche politici di vari schieramenti. È la tesi su cui stanno lavorando i pm romani, nell’ambito di un fascicolo legato all’ennesimo capitolo della guerra in atto nella sanità laziale. Si tratta dello stralcio di un’inchiesta già nota, che vede a processo per induzione indebita e minacce Andrea Paliani, dirigente sindacale Sicel ed ex esponente di Avanguardia Nazionale – movimento neofascista fondato da Stefano Delle Chiaie e in passato guidato dal neonazista Maurizio Boccacci (in foto a sinistra)– e, per corruzione, il maresciallo dei Carabinieri Giuseppe Costantino. Ma ora l’indagine si allarga: i pm stanno cercando di capire se c’è stato un ruolo nella vicenda di esponenti dell’imprenditoria sanitaria nel Lazio.

Al centro dell’inchiesta, il dossieraggio ai danni del gruppo Ini di Grottaferrata, in provincia di Roma, guidato dagli imprenditori Cristopher e Jessica Faroni (in foto a sinistra), figli del patron centenario Delfo. La Procura ipotizza che Paliani possa aver stretto accordi con imprenditori concorrenti allo scopo comune di spingere l’Ini verso il commissariamento e la cessione delle quote. Il presunto obiettivo del sodalizio era raccogliere materiale scottante relativo ai conti dell’azienda e costruire un castello accusatorio in grado di mettere in cattiva luce la società, sia davanti alla magistratura, sia sulla stampa locale e nazionale. Ciò, secondo i piani, avrebbe dovuto portare la Regione a muoversi politicamente, chiedendo il commissariamento delle strutture. Paliani, che ai suoi ex camerati si presenta come “Geppo di Avanguardia”, in cambio avrebbe ottenuto l’assunzione nella “nuova azienda” di gran parte degli iscritti al suo sindacato.

Dalle informative agli atti dei pm, si apprende che Paliani, intercettato, il 6 aprile 2019 prospettava a Boccacci il cambio di società in virtù dell’inchiesta “pilotata” in corso. Dice Paliani: “Li commissariano… forse non hai capito (…) la nuova azienda è una multinazionale tedesca o francese lo sappiamo io…”; ma il fondatore di Militia gli replica prospettando una soluzione diversa: “Sì ma ‘na volta commissariato viene messo in vendita (…) Guarda io io sto vendendo… non io… un amico… (…) una Rsa per 25 milioni di euro, va bene?”. “Ok mi posso muovere con Barillari, lo sai”, replica Paliani. L’allusione è a Davide Barillari, consigliere regionale ex M5S: contattati dal Fatto, i suoi legali spiegano che il loro assistito non ha mai ricevuto alcuna comunicazione dalla Procura. In una conversazione, Paliani rivela alla sua compagna di aver regalato a Jessica Faroni un libro “con dedica” di Delle Chiaie, per mettere in difficoltà lei e suo fratello con gli inquirenti in caso di una perquisizione: “C’hanno i libri… gli dico che a un incontro mi hanno detto che so camerati, così se li incula… ma glielo dico è! Che me frega!”.

Sui particolari dell’inchiesta c’è il massimo riserbo. Secondo fonti inquirenti, fra gli imprenditori su cui si sono accesi i riflettori della Procura ci sarebbe Antonio Angelucci, deputato di Forza Italia, che non risulta indagato. La sua famiglia è proprietaria del gruppo San Raffaele e il suo nome viene fatto riguardo la presenza di alcuni articoli del quotidiano Il Tempo, che hanno dato risalto alle denunce di Paliani. Fatto salvo, ovviamente, il diritto di cronaca. L’entourage dell’editore, interrogato lo staff legale, spiega che il parlamentare forzista è “completamente all’oscuro” sia dell’indagine, sia dei fatti in oggetto. Non solo. Dall’informativa si apprende che Paliani ha ricevuto materiale “utile” da un dirigente di secondo piano del gruppo Giomi, la cui proprietà risulta però estranea all’inchiesta. Alfredo Vitali, legale di Paliani, spiega al Fatto che “non c’è alcun complotto, respingiamo ogni addebito” e conferma che Boccacci testimonierà in tribunale per la difesa nel processo in corso. Il gip, invece, ha stabilito che l’inchiesta per truffa nei confronti dei Faroni, generata nel 2017 dalle denunce di Paliani e dall’indagine “non genuina” portata avanti dal maresciallo Costantino – all’epoca in servizio presso il Nucleo ispettorato del lavoro di Roma – dovrà ricominciare.

Medici, camici lerci e untori: ecco top e flop

 

Personale sanitario

Eroi che forse non ci meritiamo

Largamente sotto organico, dopo anni di tagli alla spesa sanitaria, hanno impedito, con turni massacranti e pesanti sacrifici, che la sanità pubblica venisse travolta dall’epidemia. In primavera anche scarsamente provvisti di dispositivi di protezione individuale, durante la prima ondata, medici, infermieri e operatori sociosanitari sono stati acclamati come eroi. Salvo poi, con l’acuirsi delle tensioni economiche e sociali, diventare bersagli di rabbia perché hanno continuato a denunciare la gravità della situazione. Hanno prima respinto l’aureola che la retorica nazionale ha loro affibbiato, poi hanno sopportato l’accusa di alimentare terrorismo psicologico o di perseguire interessi di categoria. Molti, già in pensione, sono rientrati in servizio per aiutare. Tanti hanno contratto il virus e si sono ammalati. E tanti sono morti: in 274 solo tra i medici.

Natascia Ronchetti

 

Gli scienziati

Ecco i vaccini grazie al genio e al denaro

Il Covid ha mostrato che i tempi per un vaccino si riducono vertiginosamente, da almeno 6 anni a 8 mesi, se l’investimento in ricerca è massiccio, generando al contempo punti di Pil. Oltre 40 miliardi l’investimento stimato nel mondo, 172 progetti avviati e le prime approvazioni (per Moderna e Pfizer Biontech) giunte a dicembre. Quella per Astrazeneca attesa. Oltre a tecnologie note, idee innovative hanno contribuito a ridurre i tempi. I vaccini a Rna di Pfizer e Moderna poggiano sull’invenzione di Ugur Sahin, figlio di un operaio della Ford emigrato in Germania dalla Turchia, e sua moglie Özlem Türeci, fondatori della Biontech. Avevano messo a punto la tecnologia mRna anni fa contro il cancro. Quegli studi, condotti quando il Covid non esisteva, si sono rivelati cruciali. Biontech in un anno è passata da un valore di 4,6 miliardi a 21.

Laura Margottini

 

Fontana&Gallera

Il duo sciagura della lombardia

“Le abbiamo azzeccate tutte”. Esultavano al Pirellone nella prima ondata. Erano i giorni delle dirette social, quando Giulio Gallera a reti unificate spiegava che la Lombardia nonostante i numeri reggeva grazie al sistema sanitario migliore al mondo. A volte alle dirette partecipava anche l’Attilio, raccogliendo il tributo della corte. Gallera sognava Palazzo Marino. Poi è cambiato tutto. Sono arrivate le domande: perché il Veneto traccia il Covid e voi no? Perché l’Emilia fa le zone rosse e voi no? Perché gli altri hanno mascherine e camici – affare di famiglia di Fontana con tanto di inchiesta giudiziaria – e voi no? Perché mette i positivi nelle rsa? Da allora è stata una spirale di errori, scandali, gaffe. Ma l’Attilio è andato avanti, è stato il megafono di Salvini. Anche Gallera è andato avanti, da runner ha valicato tre comuni. “Non me ne ero accorto”. Non ci sorprende.

Andrea Sparaciari

 

Toti

Il gran capo dei ribelli sempre pronto ad aprire

Il capo dei ribelli, dei bizzosi, degli insofferenti. Da maggio in poi, fiutando l’aria, Giovanni Toti si è messo alla guida del fronte aperturista. Grazie a lui, in estate, i liguri hanno dimenticato ogni restrizione: discoteche affollate, treni stipati al 100%, nessun tampone in stazioni, porti e aeroporti. A settembre, da vicecapo delle Regioni, propone di riaprire gli stadi al pubblico, in inverno si batte per le settimane bianche. Il tutto in nome di quello “sviluppo produttivo” del Paese a cui gli anziani, parole sue, “non sono indispensabili”. Nel frattempo i numeri del Covid nella sua regione precipitano: per settimane di fila, in autunno, la Liguria è prima per rapporto positivi/testati e ricoveri in terapia intensiva, mentre a Genova e La Spezia spuntano i primi focolai della seconda ondata. Ma il nemico di Toti ormai non è più il virus: è il governo.

Paolo Frosina

 

I virologi

Da laboratori e corsie a tv e giornali (per colpa nostra)

Credevamo che gli scienziati vivessero nei loro laboratori, nascosti al mondo, diffidenti del sensazionalismo. Il coronavirus ci ha fatto scoprire che non è proprio così. Anzi, è il contrario. I tele-virologi sono stati la vera rivelazione dei talk, vogliosi di schierarsi e di battersela con politici e opinionisti. Abbiamo gli allegri tele-virologi di destra (Matteo Bassetti, Alberto Zangrillo) e gli austeri di sinistra (Massimo Galli); Il Telegatto per il Grande Virologo Vip va ad Andrea Crisanti, meglio di Sgarbi; il premio Nostradamus va a Zangrillo (“Il covid è clinicamente morto”), il record per la carica televirale va al professor Galli, apparso in contemporanea a Carta Bianca e a Fuori dal coro (figuriamoci se era dentro). “La scienza deve fornire dubbi” diceva Giulio Giorello, ma i tele virologi sono portatori di certezze. Ogni giorno una certezza diversa.

Nanni Delbecchi

 

Arcuri

Tra critiche e attacchi qualche risultato è arrivato

Domenico Arcuri arriva a marzo inoltrato, quando ormai la pandemia ha travolto il nostro Paese. Negli ospedali mancano soprattutto i dispositivi di protezione individuale e i ventilatori per le terapie intensive: Regioni, ministero della Salute e Protezione civile non li trovano più. Così il governo sceglie il numero uno di Invitalia come commissario straordinario all’emergenza, incaricato innanzitutto degli acquisti. E Arcuri, manager pubblico di lungo corso, fa tutto il possibile con grande determinazione, potendo agire in deroga alla legislazione ordinaria. Poi gli toccano anche i banchi per riaprire le scuole e ora i vaccini. A volte con ottimi risultati, a volte attirandosi critiche. Ieri la precisazione dell’Aifa sulle siringhe per sei dosi di vaccino a flaconcino gli rende il merito dell’acquisto proprio di quelle siringhe per cui fu preso in giro dai più.

Alessandro Mantovani

 

Bertolaso

Le astronavi inutili e il premio: candidato a Roma

“Ho costruito un’astronave”, ha dichiarato entusiasta Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, a proposito dell’ospedale Covid alla Fiera di Milano. Il flop dell’anno: spesi 21 milioni, ricoverate poche decine di pazienti, curati da medici sottratti ad altri ospedali, con più d’un donatore che ha chiesto di ritirare le donazioni. Lo aveva previsto anche il professor Alberto Zangrillo: “Una rianimazione non può essere svincolata, pure in termini di spazi, da una struttura ospedaliera”. Bertolaso, ingrato, ha reagito al fallimento scaricando i suoi mandanti (cioè il presidente della Lombardia Attilio Fontana): “Se gli astronauti chiamati a pilotarla non sono stati capaci, la colpa è di chi li ha scelti”. Poi ha fatto il bis con il flop dell’altra “astronave”, a Civitanova Marche. Per premio, è stato indicato come candidato sindaco a Roma.

Gianni Barbacetto

 

Briatore&negazionisti

Twiga, Billionaire e cocktail al virus

Se di mezzo non ci fosse una pandemia, al duo Briatore-Santanchè andrebbe dato un voto altissimo. I due alfieri del “faccio quello che mi pare, perché io sono io e voi non siete un cazzo” (ma sempre in nome del valore sacro della libertà individuale) non hanno deluso. Il patron del Billionaire ha passato l’estate a polemizzare con i virologi che invitavano alla cautela (“Avete terrorizzato l’Italia”) e con il governo che chiudeva le discoteche (“Gli extracomunitari vanno in giro e castigano i giovani”). La signora del Twiga tuonava contro la “decisione senza senso” di chiudere i locali “senza evidenze scientifiche”. A fine agosto, com’è noto, Briatore è stato colpito dal Covid ed è fortunatamente guarito in fretta. Memorabile la “prostatite” indicata da Santanchè come causa ricovero. Ammettere di aver sbagliato, si sa, è roba da loser.

Stefano Caselli

 

Gli italiani

Il lockdown in ordine ma dopo brutti, sporchi e cattivi

I canti dai balconi, le scorte di lievito e gli arcobaleni dei bambini sono durati giusto il tempo di capire che non sarebbe andato tutto bene. Poi è arrivata l’estate, la curva scendeva giù e per i fortunati che imboccavano gli svincoli della A14 o salpavano oltre Tirreno, gli eroi del coronavirus erano già tornati i soliti rompicoglioni. E così nelle città che dovevano diventare tutte un dehor e una pista ciclabile, ricominci a fare zigzag tra i resti delle passeggiate col cane, bene supremo difeso da ogni Dpcm. Il commosso appuntamento col bollettino delle 18 cede il passo all’aperitivo anticipato. Al posto delle file ordinate davanti alla bottega, riecco la calca da Primark. La scuola “cuore pulsante del Paese” ricomincia ad arrangiarsi come sa fare benissimo. Ci siamo dimenticati tutto? No. Abbiamo ricominciato a vivere. Brutti, sporchi e cattivi, con o senza Covid-19.

Paola Zanca

 

Il Papa

Obbedienza alle misure e gesti simbolici indimenticabili

I gesti, prima ancora delle parole. Il papa Francesco del Covid è stato l’uomo dei simboli che hanno accompagnato la tragedia della pandemia. Ispirati da criteri diversi, ma legati tra loro dall’umanità. Il primo, quello dell’obbedienza alle misure contro i contagi: ed ecco allora, nel primo lockdown, la passeggiata solitaria nel centro di Roma e la smentita di chi invocava la riapertura delle chiese. Il secondo, quello della condivisione: con le cerimonie della Settimana Santa in una piazza San Pietro deserta e culminate con i riti del Venerdì Santo, il Calvario di Cristo accanto al Calvario di un popolo sofferente. Quando, vicino al Crocifisso, le testimonianze di 5 detenuti, dei familiari di una vittima di omicidio, di un’educatrice carceraria, di una magistrata e di un agente di custodia, hanno additato a tutti la solidarietà per il dolore che è nella vita dell’uomo.

Ettore Boffano

Male i contagi, critiche interne per l’accordo con l’Europa

La pandemia continua a fare paura a Berlino. E se i numeri dei nuovi contagi si sono ridotti a un terzo rispetto alla vigilia di Natale, quando superavano i 32.000 in 24 ore, tutti sanno la verità: non è la pandemia ad essere in pausa ma gli uffici sanitari che non trasmettono con regolarità i dati all’ufficio centrale del Koch Institut durante le festività. Il numero dei decessi continua ad aumentare rapidamente, martedì erano oltre 30.900 in totale, con una media intorno agli 800 morti al giorno. Gli ospedali della Sassonia sono ancora in emergenza e ormai trasferiscono i pazienti in altre regioni, mentre le case di cura sono tuttora i focolai più colpiti. “Se il lockdown non ha un effetto sufficiente le misure devono essere inasprite” ha detto il ministro degli Interni Horst Seehofer e si valuta un prolungamento del lockdown. La campagna sanitaria, che a ieri contava 41.962 vaccinati (metà nelle case di riposo) è partita tra le polemiche. L’accusa: i vaccini sono troppo pochi rispetto alla popolazione. Ma la linea di attacco a queste latitudini prende due direzioni: la prima accusa il governo di organizzazione tardiva e di eccessiva indole pro-europea, l’altra invece chiede conto del perché il governo non abbia messo in piedi una propria linea di produzione del vaccino tramite l’acquisto della licenza. Il tabloid populista Bild cavalca la linea anti-Ue e spara a zero sul governo: avrebbe perso tempo dando la precedenza ad accordi comuni con l’Europa. Le 30 milioni di dosi aggiuntive concordate in un patto bilaterale tra l’azienda di Magonza Biontech (che a settembre aveva ricevuto 375 milioni dal governo federale per il sostegno alla ricerca) e il governo di Berlino, oltre alle 55,8 milioni di dosi previste per la Germania dalle quote Ue, sarebbero in coda agli ordini Ue di Biontech e senza corsia preferenziale.