Spreco? Le super siringhe ora fanno aumentare le dosi

Sono già oltre 8 mila gli italiani che hanno ricevuto la prima dose di vaccino anti-Covid, ma il maltempo sull’Italia ha ritardato la consegna del secondo carico di fiale a bordo di sei aerei in altrettante città. Tra oggi e domani ne sarà terminata la distribuzione, a cura della Pfizer, nei circa 200 punti di vaccinazione attualmente operativi: sulla carta si tratta di 470 mila dosi, che però ne potrebbero fruttare oltre 560 mila a seguito delle nuove indicazioni dell’Agenzia italiana del farmaco, che invita a trarre da ogni fiala una dose in più, quindi sei rispetto alle cinque previste in precedenza. Con l’obiettivo di “evitare ogni spreco – sottolinea l’Aifa – ferma restando la necessità di garantire la somministrazione del corretto quantitativo di 0.3 ml a ciascun soggetto vaccinato attraverso l’utilizzo di siringhe adeguate, è possibile disporre di almeno una dose aggiuntiva”.

E le siringhe adeguate sarebbero proprio le luer lock per l’acquisto delle quali si scatenò l’inferno con articoli di giornale e accuse di spreco contro il commissario all’emergenza Domenico Arcuri. Infatti, la struttura commissariale esulta per la raccomandazione dell’Aifa a cui è seguita una circolare del ministero della Salute: da ogni fiala Pfizer prendete sei dosi senza sprecare una goccia, in sostanza. E secondo l’Fda americana se ne potrebbero prendere addirittura sette con le siringhe di precisione costate all’Italia 3 milioni e 419 mila euro, più di quanto si sarebbero pagate quelle comuni, ma rivelatesi indispensabili.

Sei dosi invece di cinque per fiala significa un incremento del 20 per cento sui vaccini Pfizer preventivati: 5 milioni e 914 mila in più. Che sarebbero costate all’Ue 63 milioni di euro in più e si traduce, tra prima puntura e richiamo, in oltre 2 milioni e 700 mila persone vaccinate. E il commissario Arcuri annuncia: in 8.361 hanno ricevuto la prima dose. Le prossime consegne della Pfizer in Italia saranno 4, 11, 18 e 25 gennaio.

L’Ue, visti anche i ritardi di Astrazeneca, ha deciso di prendere da Pfizer “100 milioni dosi aggiuntive”, di cui 13 milioni e mezzo si aggiungono alle già previste 26 milioni di dosi per l’Italia. “Una bella pagina per l’Europa”, commenta Arcuri.

Lombardia ancora senza un vero piano. De Luca si lamenta e il Lazio promette

Le parole del vice direttore esecutivo dell’agenzia europea del farmaco Noel Wathion sono una doccia fredda. È “improbabile” che l’Ema dia il via libera al vaccino anti-Covid Astrazeneca Oxford a gennaio. “Non hanno ancora fatto domanda, servono altri dati sulla qualità del vaccino” ha detto Wathion. E così rischiano di “saltare” i piani di chi, come l’assessore laziale Alessio D’Amato, aveva ipotizzato di iniziare la vaccinazione di massa già a febbraio. Astrazeneca infatti è stata la prima a firmare un contratto con la Ue per 300 milioni di dosi, ma paga errori metodologici nei test. L’Italia ne attende 40 milioni, 16 dovevano arrivare entro marzo. Nel frattempo dopo il simbolico V/day è partita la campagna di vaccinazione del personale ospedaliero. Quantità e criteri variano da regione a regione.

In Lombardia la direttiva inviata dalla Regione alle 65 strutture hub incaricate della campagna vaccinale è semplice: fate come volete, l’importante è che rientriate nei tempi previsti dalla fase 1 del piano regionale. A illustrarlo era stato l’assessore Giulio Gallera presentando il V/Day del 27 dicembre. “Ciascun ospedale Hub dovrà in pochi giorni definire un piano per il proprio perimetro che tenga conto dei tempi del vaccino Pfizer”. E così sta avvenendo, ogni struttura va per la sua strada. Al Niguarda, per esempio, hanno iniziato a vaccinare il personale in ordine alfabetico. Alla Asst Milano Nord si procede in ordine di prenotazione. Dove sembra ancora tutto in alto mare, sono le rsa. “Abbiamo chiesto i piani vaccinali a tutte le residenze lombarde, ma nessuna ha ancora risposto”, fa sapere la Fp Cgil regionale. La fase 1 prevede che le prime 306 mila dosi in arrivo entro il 4 gennaio vengano inoculate nella prima settimana ai dipendenti degli hub, nella seconda a quelli degli ospedali satellite e dalla terza nelle rsa. Si tratta di 336.076 persone: 58.030 ospiti delle rsa e 278.050 sanitari.

In Campania è in arrivo oggi il primo lotto di 33mila vaccini. Saranno distribuiti in parti uguali tra i 27 punti vaccinali individuati dall’unità di crisi: tredici nella Provincia di Napoli, sei nella Provincia di Caserta, cinque nella Provincia di Salerno, due nella Provincia di Avellino e uno a Benevento. Le consegne proseguiranno il 31 dicembre, il 1° gennaio e nei giorni a seguire, fino al raggiungimento della quota stabilita di 135.790 fiale per il personale medico, infermieristico e per gli ospiti delle rsa. Quota che ha fatto arrabbiare, e non poco, il governatore Vincenzo De Luca, secondo il quale il criterio di ripartizione nazionale ha penalizzato i campani: altre regioni con meno residenti riceveranno un quantitativo maggiore. Ogni asl e azienda ospedaliera regolerà l’ordine di somministrazione per conto suo.

Il Lazio ieri ha completato la prime 955 dosi legate al V/Day e conta di finire entro gennaio le 179.000 in arrivo da Pfizer. È previsto, ogni venerdì dal 4 al 25 gennaio, l’arrivo di 45.000 dosi a settimana, che i circa mille operatori già vaccinati inietteranno agli operatori sanitari pubblici e privati convenzionati e agli ospiti delle rsa. A chi ha ottenuto la prima dose è già stata comunicata la data per il richiamo. Cosa accadrà a febbraio? Se ci saranno i vaccini a disposizione, si potrà iniziare con medici di base e cittadini comuni. Dalla Regione Lazio dichiarano che la macchina messa in piedi potrebbe far vaccinare un milione di persone al mese, concludendo entro luglio la somministrazione ai quasi 6 milioni di residenti. Molto dipenderà dalle comunicazioni della struttura commissariale nazionale e dai farmaci a disposizione. Quelli firmati Astrazeneca potrebbero essere assegnati anche alle farmacie o ai medici di famiglia.

“La Carta tutela la vita: il vaccino può essere obbligatorio per legge”

Di cosa parliamo quando parliamo di vaccino? Dell’articolo 32 della Costituzione e del diritto alla salute, l’unico caso in cui un diritto viene qualificato come “fondamentale.” Lo aveva sottolineato Lorenza Carlassare, professore emerito di diritto costituzionale a Padova, che all’alba del Fatto aveva guidato i nostri lettori in una lettura ragionata della Carta. Oggi, tornando a parlare di diritto alla salute, la professoressa spiega quali sono i punti cardine da cui partire: “La salute è tutelata nella Carta come diritto fondamentale dell’individuo e come interesse della collettività”. Due sono i riferimenti costituzionali “l’individuo e la collettività: il diritto del primo può cedere, eccezionalmente, soltanto di fronte a un interesse della seconda”.

Così, non sembra esserci dubbio: il vaccino potrebbe essere obbligatorio. C’è chi però sostiene che sarebbe una violazione della libertà dell’individuo.

Il legislatore – nel limitare la libertà individuale, inviolabile secondo l’articolo 13 – si muove entro i margini ben definiti dall’articolo 32: la salute come fondamentale diritto della persona e come libertà di rifiutare ogni trattamento quando non sia in gioco l’interesse della collettività. Della possibilità di rifiutare trattamenti sanitari si è parlato a lungo a proposito del fine vita. Ma la situazione che stiamo vivendo ora riguarda chiaramente l’interesse della comunità.

Lei ha scritto che ‘la Costituzione rimette la persona al centro del sistema segnando una svolta decisa con il sistema autoritario dove è la collettività, identificata spesso con lo Stato, il valore centrale rispetto al quale il singolo è strumento’. Non vale nel caso dell’epidemia?

L’ultimo comma dell’articolo 32 dice che ‘la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona’. Trattamenti sanitari imposti, ai quali il paziente non abbia consentito, sono rigorosamente vietati. Il trattamento sanitario può essere imposto soltanto quando sia direttamente in gioco l’interesse collettivo: sicuramente legittimo è ogni intervento diretto a prevenire o fermare malattie contagiose che si risolvono in un diretto danno sociale. La vaccinazione è un esempio tipico. Non si può essere costretti a curarsi quando è in pericolo la propria vita, ma non quando la mancanza di cure mette in pericolo la vita di altri.

Il governo per ora pare orientato alla volontarietà: scelta che è stata letta da alcuni come il tentativo di non prevaricare l’arbitrio dei cittadini.

Io credo che il motivo sia pratico: non sappiamo ancora con ragionevole certezza quante dosi saranno disponibili e in quali tempi.

E cosa risponde a chi dice che il vaccino obbligatorio sarebbe un’intromissione dello Stato?

Che sbaglia, per i motivi che ho spiegato prima. La legge può imporre la vaccinazione. Solo la legge naturalmente, nessun atto diverso: la riserva di legge per la limitazione dei diritti individuali è assoluta.

Secondo il dottor Guariniello gli operatori sanitari che rifiutino il vaccino possono essere licenziati in base alla legge sulla sicurezza sul lavoro.

Secondo me medici e infermieri devono vaccinarsi, perché mettono a rischio i pazienti con cui entrano in contatto. In questi mesi abbiamo visto quel che è accaduto nelle rsa e negli ospedali. Credo basti questo. Per consentire trattamenti sanitari imposti, l’interesse della collettività dev’essere anche attuale, come accade oggi con tutta evidenza in questa epidemia mondiale.

Si parla di un possibile obbligo per i dipendenti pubblici e non per quelli del settore privato. Discriminante?

I lavoratori del pubblico, pensiamo alla sanità e alla scuola ma anche alla giustizia, entrano nella stragrande maggioranza a contatto con le persone. La Consulta l’ha spiegato bene: eguaglianza vuol dire trattare in modo uguale situazioni uguali, ma anche trattare in modo diverso situazioni diverse. Se una persona disabile ha un accompagnatore, questo non è un privilegio: il criterio che prevale nel trattare situazioni differenti è quello della ragionevolezza.

Cazzari a rotelle

A furia di sentirlo ripetere a reti ed edicole unificate, pensavamo che in Italia il vaccino non sarebbe arrivato per colpa di quei dementi di Conte, Speranza e Arcuri, che lo promettevano a fine 2020, mentre l’avremmo visto fra uno-due anni. Invece oggi siamo a 480mila dosi. Allora dicevano: sì, ma non avremo le siringhe per colpa di quei dementi di Speranza e Arcuri. “Il mondo fa scorta di siringhe. L’Italia rischia di restare senza aghi per il vaccino” (Stampa, 9.11). “Vaccino senza siringhe: ‘Ordini da tutta Europa, ma non dall’Italia’” (Luciano Capone, Foglio, 18.11). “Vaccino anti-Covid, Italia senza siringhe? Arcuri: ‘Non so dirglielo’. Gelo in conferenza stampa” (Libero, 19.11). Invece sono arrivate pure le siringhe. Allora si è detto: sono quelle sbagliate, costano troppo e sono introvabili. Colpa di quel demente di Arcuri che, invece di fare scorta nella farmacia sotto casa, s’è fissato – chissà con quale tornaconto – con le “luer lock”. “Arcuri paga le siringhe a peso d’oro. Le luer lock costano 14 volte di più di quelle scelte dagli altri paesi Ue” (Mario Giordano, Verità, 10.12). “Le siringhe a rotelle e altri nonsense di Napoleone Arcuri” (Christian Rocca, Linkiesta, 11.12). “‘Niente tappi alle siringhe’: un nuovo flop di Arcuri?” (Giornale, 16.12). “Vaccino: Arcuri fa il buco con le siringhe” (Nicola Porro, 19.12). E giù battutone sulle “siringhe a rotelle”. E giù puntatone di Diritto e rovescio (Del Debbio), Quarta Repubblica (Porro), Non è l’Arena (Giletti) sulle “siringhe d’oro”. E giù tweet di Calenda (“Arcuri va licenziato”), Salvini (“Mancano milioni di siringhe… Visto lo ‘storico’ di Arcuri, evitiamo di dover nominare un nuovo commissario agli aghi e alle siringhe a marzo”) e interrogazioni di Lega e Fd’I.

Ora si scopre che a raccomandare le “luer lock” è il bugiardino di Pfizer, infatti tutta l’Ue ha acquistato quelle (ma non erano introvabili?), che non costano né il doppio né 14 volte quelle normali, ma pochi cent in più. Londra invece, furba lei, ha preso le standard (“luer slip”). Ora l’Aifa ha autorizzato l’estrazione di 6 dosi anziché 5 da ogni fiala Pfizer, cioè ad avere un 20% di vaccini gratis ogni cinque già acquistati, ma solo se la siringa è la famigerata “luer lock” di quel demente di Arcuri (che evita sprechi di siero residuo e consente di recuperarli per la sesta dose). Cosa che potranno fare l’Italia e gli altri paesi Ue e non il Regno Unito (salvo che ricompri tutte le siringhe). Risultato: le fiale Pfizer acquistate dall’Italia per 26,5 milioni di italiani vaccinati in sei mesi con 5 dosi ciascuna serviranno a vaccinarne 31,8 (5,3 in più). Con un risparmio di 63 milioni di euro che, detratti gli 1,7 milioni di costi in più per le “luer lock”, fanno 61,3 milioni pubblici guadagnati. Si attendono le scuse dei cazzari a rotelle.

Joni Mitchell “com’era”. Quelle ballate folk registrate in casa e la gavetta nei club

Non sarà una passeggiata immergersi nelle tracce del primo volume di rarità e gemme preziose emerse dagli archivi di Joni Mitchell, pubblicate in cinque cd – e in streaming – e risalenti al periodo 1963-1967. Sei ore di materiale audio con alcuni demo registrati in casa, nei club e in radio, tra i quali 29 inediti mai pubblicati prima. Cruciale il coinvolgimento diretto dell’autrice in ogni singolo dettaglio di questo progetto – che andrà avanti nel tempo – con la collaborazione dello scrittore e regista Cameron Crowe. Tenendo conto che il primo album ufficiale è del 1968, le canzoni sono da considerarsi un mix di provini e gavetta nei club di piccole dimensioni, molto prima dell’iperbolica esplosione della stella del country-folk. Non è un caso che il brano di partenza sia House Of The Rising Sun, ballata tradizionale folk venata di blues malinconico, portata al successo dagli Animals nel 1964, registrata da una diciannovenne Joni alla stazione radio CFQC AM della sua città natale di Saskatoon. A seguire un’altra canzone popolare americana, John Hardy, narrante la vita di un operaio ferroviario che viveva nella contea di McDowell, impiccato nel 1894 ma riconciliato con Dio poco prima della condanna. The Dowie Dens Of Yarrow è pura catarsi: si ode solo la voce di Joni, in chiave gospel, per raccontare una storia scozzese su una faida tra uomini che si contendono una donna che sceglie un povero aratore al posto dei ricchi pretendenti; per ripicca decidono di ammazzarlo. Le registrazioni della terza parte sono le più amatoriali, realizzate a casa di parenti a Saskatoon nel febbraio del 1965. Sorprendono per i vocalizzi di Ten Thousand Miles e l’arpeggio di Urge For Going, pubblicata nel 1967 da Tom Rush e incisa successivamente dalla Mitchell. Tra le varie esibizioni in alcune radio locali spicca la cover di Neil Young Sugar Mountain, registrata il 28 maggio del 1967 a What Fm. Una delle leggende rock racconta dell’incontro avvenuto a Winnipeg in Canada tra Neil e Joni dopo una sua esibizione al club 4D: Neil avrebbe interpretato Sugar Mountain per lei sul palco e l’avrebbe incisa solo nel 1977 nell’album Decade, mentre Joni ha composto The Cicle Game ispirandosi proprio a questa canzone. L’album si discosta dalle raccolte ordinarie di outtakes in voga per ogni rockstar che si rispetti presentando al pubblico – per la prima volta – un racconto quasi filologico di un’artista in fieri, inconsapevolmente concentrata sull’affinazione e calibrazione del suo autentico dono, quella voce unica e magica capace di stregare un’intera generazione. “Non dovrei essere così snob contro i miei primi lavori” ha dichiarato la cantante, “molte di queste canzoni le ho semplicemente perse, sono svanite via; esistono solo in queste registrazioni. Per molto tempo mi sono ribellata alla definizione di folk. Poi ho ascoltato e era bellissimo. Mi ha fatto perdonare i miei inizi. Ho realizzato che ero una cantante folk!”. L’appuntamento è al prossimo volume: potrebbe ipoteticamente cominciare dalla performance di Cbc Tv del 1968, in piena epoca di contestazione studentesca, con la pacifista The Way It Is, cantata dalla figlia di un militare dell’aviazione canadese.

La nuova magia di Ortolani si chiama Bedelia ed è libera

Di qualcuno troppo geniale si dice, a volte: “ci sarebbe da aprirgli la testa per vedere cosa c’è dentro”. Certo, è un modo di dire e se aprissimo la testa di Leo Ortolani, magari con un apriscatole, sono certo che non ci troveremmo niente fuori dall’ordinario. In più, avremmo probabilmente ucciso uno degli autori più originali degli ultimi trent’anni. Per “spiare” la testa di Ortolani in modo non cruento conviene leggere piuttosto le sue storie.

È arrivato il momento in cui specifichiamo che si tratta di un autore di fumetti ma, tranquilli, non siamo qui per affrontare l’ormai superata (da chiunque abbia i pollici opponibili) “sottovalutazione del media fumetto”. Siamo invece qui per Bedelia, l’ultimo libro di Leo Ortolani. Veloce ricapitolazione: nato a Pisa nel 1967, è geologo e ha una pagina wiki occupata per due terzi solo dai premi che ha vinto (che non c’entrano niente con la geologia, ma col fumetto). Nel 1989 crea Rat-Man, fumetto umoristico diventato uno dei più longevi successi italiani. Nel 2017 decide di concludere la serie, ancora premiatissima nelle edicole, per passare ad altre storie. E quelle storie arrivano, tra le ultime quelle covate con cura da Bao Publishing: dopo Cinzia (2018), ecco Bedelia.

Leggerlo è come assistere a un numero di escapismo del grande Houdini. Come si evince dal titolo, è la storia di una donna. Una donna bellissima e il cui successo nella vita (è modella di lingerie) si basa su questa unica dote. Inoltre, la passione di Bedelia (e leit motiv di quasi tutte le gag) è passare da un partner sessuale all’altro senza toccare mai terra. Il tutto raccontato, con frizzi e lazzi, da un uomo: Ortolani, appunto. Sentite questa sirena suonare? Questo allarme rosso che grida: “Indignazione Sessismo”?

Il libro si legge come si guarda Houdini incatenato e appeso per i piedi in una vasca piena d’acqua, chiedendosi: “come farà a uscirne vivo?”. Ortolani ci riesce: ci porta a conoscere la sua Bedelia. Ci fa ridere, ci fa innamorare, ci prende a schiaffi, e finito lo spettacolo ci mette il cappotto e – esterrefatti – ci accompagna alla porta. Ha fatto tutto davanti ai nostri occhi, ma il lettore non può non chiedersi: “come c’è riuscito?”. Forse il segreto è il rispetto che l’autore dimostra per i suoi personaggi? La voglia di raccontare storie che sfidano ogni limite e pregiudizio? O la semplicità del bianco e nero? A Leo, per stupire, non servono effetti speciali grafici di alcun tipo. Il colore diventa un orpello superfluo. Ma tutto questo non svela ancora il trucco, anzi lo infittisce di mistero. Com’è riuscito Ortolani a far filare liscia e a consegnarci una storia così perfetta, delicata e divertente? Così torna quella voglia irrefrenabile di aprirgli la testa e frugare bene dentro, cercando se per caso non sia nascosta lì da qualche parte la chiave segreta del suo successo. Ma lasciamo perdere, non vorremmo ammazzarlo e così perderci le sue prossime storie.

Il cinema muta pelle e Colori. Dalla Regina afro agli scacchi

Il passato è una terra estraniata. Comunque, riscrivibile, a dar retta alle serie: Hollywood di Ryan Murphy apparecchia nello showbiz Anni 50 una “storia controfattuale – stigmatizza il Guardian – attraverso la lente del #MeToo”; La regina degli scacchi fa del “gambetto di donna” un empowerment femminile che trasfigura il romanzo di Walter Tevis in agenda politica. Ma il meglio doveva venire: Bridgerton, regalo di Natale firmato Shondaland e Netflix, dispone nella Regency London una Regina nera o, meglio, ambrata, affidata all’anglo-guyanese Golda Rosheuvel, con il duca di Hastings incarnato dall’anglo-zimbabweano Regé-Jean Page.

Immaginazione al potere oppure emendazione delle colpe di ieri con il politically correct, alla voce inclusione e diversity, di oggi? Negli States hanno coniato l’espressione color-blind casting, attuato – meritocraticamente? – senza considerare etnia, pelle, corpo, sesso e/o genere dell’interprete. Su color- blind anche l’Actors’ equity association ha eccepito, del resto, per un’arte visiva non è il massimo. Ucronia, sofisticazione, negazionismo? Per dirimere la questione serve la giusta distanza, un oceano di mezzo, forse, aiuta.

Luca Guadagnino, reduce dall’acclamato We Are Who We Are, sbotta: “È un non argomento: non vedo la necessità di maneggiarlo. ‘Chi interpreta cosa’ l’aveva già risolta Buñuel con due attrici per un personaggio (Quell’oscuro oggetto del desiderio, ndr), io ho affidato un uomo ebreo a un’attrice scozzese protestante (Tilda Swinton, Suspiria, ndr), e che dire dell’opera lirica? L’unico problema è se la serie sia brutta o bella, e ora vorrò sincerarmene. Gli attori vanno presi per quello che sono, preferibilmente straordinari”.

Per Marco Risi, che della verità storica ha fatto, da Il muro di gomma a Fortapàsc, un imperativo categorico e morale, “col politically correct finiremo chissà dove… Il pericolo sensibile è di falsificare la Storia, lavandosi la coscienza: un conto è combattere la discriminazione, come fanno inginocchiandosi i giocatori della Premier, un altro far interpretare un bianco a un nero. Mi sembra un po’ una cazzata”.

Regina Anna di Francia in Tutti per 1 – 1 per tutti, Margherita Buy scoppia a ridere per l’omologa inglese: “Mostrare che la differenza tra bianchi e neri non tiene più è una svolta, confido, oppure gli attori sono talmente bravi da scongiurare la verosimiglianza. Ma a ’sto punto io potrei fare Michelle Obama, se tanto vale tanto. Allora vedremo se in America sono così aperti, intanto mi propongo”.

Per la nobildonna portoghese Eleonora Pimentel Fonseca de Il resto di niente aveva voluto una connazionale, Maria de Medeiros, per questi Windsor eterodossi Antonietta De Lillo esplode un “siamo impazziti? Penso si debba ritrovare il buonsenso, siamo sempre eccessivi. Abbracciamo cose giuste ma lontane, io voglio essere amata dal vicino di casa: scegliere un’attrice nera o un attore omosessuale crea un modello, ma che impatto può avere sulla società qui e ora? Serviranno vent’anni, io preferisco essere inclusiva e solidale nella vita reale”.

“Siamo sul fantasy estremo”, ribatte Pupi Avati, un film su Dante in cantiere, e il nullaosta a “qualunque ipotesi che allarghi immaginazione e immaginario. Tv e streaming sono molto più spregiudicati del cinema, o della fiction italiana: sono la stanza dei giochi, dentro ci trovi stupore e provocazione. Le news ci sovraccaricano di realtà, ogni alternativa è la benvenuta: mi auguro non siano solo questioni razziali, che si voglia raccontare l’improbabile, l’inverosimile, l’impossibile. È quel che mi ha innamorato di Fellini”.

Maria Sole Tognazzi ha da poco licenziato la miniserie Petra, traslando via Paola Cortellesi l’ispettrice di Alicia Giménez-Bartlett da Barcellona a Genova: “Chi adatta ha sempre il desiderio di aggiungere qualcosa di diverso, di spostare, come Piero Marcello con Martin Eden. Sono piccoli o grandi tradimenti, compiuti in buona fede, per esigenze autoriali”.

A breve sul set della serie Un professore scritta da Sandro Petraglia, Alessandro Gassmann premette che “cinema significa libertà di espressione” e, forte dell’esperienza teatrale, sorridendo si candida “da bianco per il Moro di Venezia, l’Otello scespiriano”.

In partenza per una serie americana che la impegnerà per quattro mesi, Valeria Golino non ha dubbi: “È science-fiction, la Regina nera. Libertà d’immaginazione dettata da motivi sociali, culturali, politici, se preferite, licenza poetica. Nell’arte va bene tutto, finché tutto va bene, il problema è quando non va bene nulla, quando si censura, a causa del politicamente corretto del momento: allora mi oppongo. Fin qui, chiedo reciprocità: voglio fare Malcolm X. Se una bianca può essere nera, perché un uomo non può essere donna? Lo scriva: ‘Valeria Golino parte per l’America a fare Malcolm X!’”.

 

Un Nobel lontano dai riflettori, la fine caotica del dio del calcio

 

Maradona Un addio anarchico così com’è stata la sua vita

Diego è morto da Maradona, in quel maledetto mercoledì 25 novembre. Un congedo anarchico così com’è stata la sua parabola terrena di Dio della pelota: in una villetta anonima del Barrio San Andrés di Tigre, su un materasso gettato per terra con il conforto di un cesso chimico. Al suo capezzale avvoltoi medici e legali e una dottoressa che non sapeva che fare. Un mese prima aveva compiuto 60 anni. Indi un’operazione alla testa e i soliti problemi alcolici. Il suo funerale è stato un Carnevale di dolore, risse familiari e figli spuntati da ogni parte del globo. Maradona è stato il più grande calciatore di tutti i tempi. I suoi anni migliori li regalò a Napoli, città che è nostalgia e utopia come la sua Argentina. Il gol più bello lo segnò il 22 giugno 1986 a Città del Messico contro l’Inghilterra: in 60 metri saltò sei albionici. Erano i Mondiali e li vinse.

Fabrizio D’Esposito

 

Proietti “Genio e sregolatezza” come Kean, ma venerato da re

Solo un guitto avrebbe avuto l’ironia di nascere nel giorno dei morti, il 2 novembre, e solo un sensibile avrebbe avuto la delicatezza di morire nel giorno dei morti, il 2 novembre. Ma solamente un artista ha il genio di nascere e morire nello stesso giorno, il 2 novembre; proprio come Shakespeare: Gigi Proietti se n’è andato a 80 anni, tra la folla commossa e plaudente di Roma, che lo venerava come il suo ottavo Re. Attore, comico, doppiatore, conduttore, regista, cantante, pedagogo e direttore (fantastico il suo Globe, lo Shakespeare in the Park di Villa Borghese): una carriera generosa, cavalcata come una mandrakata, tra cinema, tv e teatro. “Ringraziamo Iddio, noi attori, che abbiamo il privilegio di continuare i giochi d’infanzia fino alla morte”. Tra i suoi ultimi personaggi Edmund Kean, l’artista per cui Dumas coniò la definizione di “Genio e sregolatezza”.

Camilla Tagliabue

 

Pablito Rossi Non era baciato dagli dei, ma arrivò a baciarli

Paolo Rossi, scomparso a 64 anni, è stato il potere della normalità. Così “banale”, dal cognome al fisico, che, quando diventò padrone del mondo, ci demmo un pizzicotto. Non è stato una cicala come Maradona, al quale bastava un soffio; è stato una formica che rincorreva gli episodi e li ammucchiava per i lunghi inverni degli attaccanti comuni. Ha vissuto di attimi, ha saputo riemergere dal pozzo nero del calcio-scommesse. Non ha gridato al complotto, ha pagato. Ha ballato poche estati, tutte con l’entusiasmo ruspante che, per produrre fama, ha bisogno di tanta fame. Da Prato alla Juventus, da Como a Vicenza, da Perugia ancora alla Juve, dal Milan a Verona, perennemente piegato sugli inviti e gli agguati del destino. Non era baciato dagli dei, ma arrivò a baciarli. La tripletta al Brasile appartiene alla storia dello sport, non solo alla sua.

Roberto Beccantini

 

Operatori che spettacolo, i lavoratori che resistono

The Show Must Go On, sì, e i lavoratori dello spettacolo? O esiste forse spettacolo che possa farne a meno? La domanda retorica ha avuto risposta pandemica: chiusi i cinema, fermi i teatri, sgombrati i palchi, annullati i concerti, ci siamo accorti di chi mette in scena senza l’onore dei riflettori, ma con l’onere della professione. All’Italia gretta de “con la cultura non si mangia” il 2020 ha mostrato quanti di cultura e spettacolo ci campino, e quanto l’interruzione del Servizio, tra i massimi e misconosciuti del Paese, possa nuocere. A chi dà come a chi riceve. Campagne social e misure economiche, appelli e solidarietà allargata: tra palco e realtà il virus ha avuto un’esternalità positiva, farci comprendere come alla società dello spettacolo di Debord si accompagni, anzi, si contrapponga una socialità dello spettacolo. Vitale, essenziale: sono i lavoratori, che spettacolo!

Federico Pontiggia

 

Louise Glück Un premio inaspettato e “poetico”

Con la scelta di Louise Glück come Nobel per la Letteratura, ancora una volta si sostanzia la volontà dell’Accademia di Svezia di dare voce al margine. Poetessa americana di discendenza ungherese, nella sua carriera – vissuta lontano dai riflettori, tanto che i giornali all’indomani dell’assegnazione hanno utilizzato le stesse foto – ha rifiutato negli anni 80 e 90 di seguire le vagues del postmodernismo o della decostruzione al fine di trovare la propria voce. La sua poesia dal tono scorbutico incanta perché non confessa miserie e peccati, non commuove i lettori ma muove gli animi con parole esatte che cantano la distanza e il risentimento, la durezza e la verità. Gli editori italiani l’hanno pubblicata e poi abbandonata, finché grazie al Saggiatore potremo leggere i suoi versi, bellissimi e austeri: “Ciò che vive, vive sottoterra/ Ciò che muore, muore senza lotta”.

Angelo Molica Franco

Zhan paga cara la verità sul virus

Per “la diffusione di false informazioni sul Covid-19 attraverso testi, foto, video ed altri media” e per aver “provocato litigi e problemi”, – formula di rito delle sentenze verso i dissidenti cinesi – la corte di Pudong del tribunale di Shanghai ha condannato ieri a quattro anni di carcere Zhang Zhan, 37 anni. Avvocatessa e giornalista, Zhan ha documentato sui canali Youtube, Twitter, e WeChat, lo scorso febbraio la pandemia a Wuhan mostrando ciò che il governo non voleva: ospedali e forni crematori saturi. Per aver sfidato la narrazione dominante del mastodonte delle tv e canali di Stato cinesi che parlavano di contenimento della pericolosità dell’infezione, a Zhan spetta un destino uguale a quello di Chen Mei, Cai Wei, Chen Quishi, altri tre giornalisti che da aprile scorso rimangono in cella e sotto sorveglianza. Arrestata a maggio scorso, alimentata artificialmente in cella durante il suo sciopero della fame, la ragazza ha perso in questi mesi 20 chili ed è “psicologicamente esausta” ha riferito Zhang Keke, l’avvocato che l’ha difesa. Ad un anno di distanza dall’inizio della pandemia che ha sconvolto il mondo, Pechino torna a fornire dati tranquillizzanti: alla fine di novembre ci sarebbero stati solo 25 casi, di cui 12 importati; i positivi asintomatici, solo 6. Per Worldmeter, che fornisce le statistiche mondiali, la Cina ha solo 21 casi. Sul fronte dei vaccini, la sperimentazione cinese prosegue e ieri i ricercatori della Tsinghua University, della Tianjin Medical University e della Walvax Biotechnology Co. Ltd. di Kunming, hanno confermato lo sviluppo di un vaccino prodotto utilizzando sangue di scimpanzé.

“Visto che generalmente non esiste un anticorpo neutralizzante contro l’adenovirus dello scimpanzé pre-immagazzinato nel corpo umano – ha dichiarato il ricercatore Zhang Linqi della Tsinghua University, a capo del progetto – il vaccino basato su questo vettore adenovirale possiede diversi vantaggi, quali il numero limitato di possibili reazioni avverse, le elevate capacità di produzione e l’alto livello di immunizzazione dopo la somministrazione”. Quasi a confermare la versione ufficiale della mancanza di malati, il ricercatore ha confermato che la fase 3 della sperimentazione sarà eseguita in varie aree all’estero: “Come per altri vaccini cinesi contro il Covid-19, non abbiamo un numero di pazienti positivi in Cina che possano partecipare agli studi”. Un funzionario della Commissione sanitaria nazionale nei giorni scorsi ha ribadito che cinque vaccini cinesi sono entrati nella fase 3 di sperimentazione clinica, compreso uno basato su un vettore adenovirale sviluppato dall’Accademia delle Scienze Militari.

L’ultimo regalo di Trump: l’immunità al principe MbS

Dopo averlo salvato dalle grinfie del Congresso – lui usa un’espressione più forte – Donald Trump sta pensando di sottrarre il principe ereditario saudita Mo- hammed bin Salman, alias MbS, agli strali della giustizia statunitense: Riad ha inoltrato una richiesta d’immunità al dipartimento di Stato, che la sta vagliando.

L’immunità eviterebbe al principe, vero ‘uomo forte’ del regime saudita, i fastidi relativi all’accusa di avere tentato di fare uccidere l’ex agente dell’intelligence saudita Saad al Jabri, ora in Canada. “Sarebbe pericolosissimo concedergli l’immunità – dice al New York Times il figlio di Al Jabri, Khalid –: sarebbe come rilasciargli una licenza di uccidere”. Saad Al Jabri aveva lavorato per il principe saudita Mohammed bin Nayef, ministro dell’Interno ed erede al trono dal 2015 al 2017, quando MbS lo detronizzò. Al Jabri, che aveva stretti rapporti con l’intelligence statunitense, era già stato licenziato e s’era trasferito in Canada. Dal 2017, è oggetto d’un mandato di cattura internazionale per corruzione. Nel marzo scorso, il regime saudita trattenne in carcere per qualche tempo il fratello di Saad e due suoi figli adulti, per convincerlo a rientrare.

Secondo la denuncia di Al Jabri, i cui contorni non sono molto netti e le cui circostanze non sono molto chiare, i tentativi di ucciderlo risalirebbero al 2018, poco prima del clamoroso assassinio di Jamal Khashoggi, l’oppositore saudita ed editorialista del Washington Post eliminato nel consolato di Istanbul nell’ottobre 2018.

Quella per MbS è una delle misure che il presidente uscente potrebbe adottare nei prossimi giorni, dopo avere già graziato decine di sodali, fra cui vari suoi ex collaboratori coinvolti nel Russiagate. Numerosi giuristi contestano, tuttavia, il fondamento legale d’un atto del genere. Ma il magnate, che starebbe vagliando il modo di graziare preventivamente se stesso, oltre che figli e parenti, oltre che il proprio avvocato Rudolph Giuliani, non è tipo d’arrestarsi di fronte a quisquilie giuridiche. Trump ha sempre avuto un occhio di riguardo per il principe saudita, ritenuto il mandante dell’assassinio Khashoggi. Parlando con Bob Woodward, celebre giornalista del Washington Post, il magnate raccontò: “Gli – a MbS, ndr – ho salvato il culo, quando riuscii a convincere il Congresso a lasciarlo in pace”, insistendo sul fatto che Bin Salman ha più volte negato di essere il mandante dell’omicidio. Per giustificare la sua scelta, Trump spiegò: “Bob, l’Arabia Saudita ha speso 400 miliardi di dollari in relativamente poco tempo” per acquistare prodotti americani, soprattutto armi, ed è il pilastro arabo della politica medio-orientale filo-israeliana e anti-iraniana dell’Amministrazione Usa.

Trump approvò il blocco del Qatar operato nel 2017 dai sauditi e dai loro alleati, bloccò con il veto una risoluzione bipartisan che faceva cessare il sostegno Usa alla guerra nello Yemen combattuta dai sauditi contro gli Huthi filo-iraniani; e negò le prove che MbS ordino l’uccisione di Khashoggi. Il presidente eletto Joe Biden esclude, invece, baratti fra diritti e affari.

Il regime saudita non fa nulla per mascherare la sua natura repressiva e oscurantista. L’attivista per i diritti umani Loujain al-Hathloul è stata condannata da un tribunale anti-terrorismo a cinque anni e otto mesi di prigione. Inizialmente, la sua colpa era di essersi messa da sola alla guida d’un’auto, poche settimane prima che il divieto fosse cancellato. Ma il suo caso s’era man mano appesantito, fino all’accusa di avere contattato non meglio precisate organizzazioni di Stati esteri “non amici”. Due anni e 10 mesi della condanna sono stati sospesi, purché Al-Hathloul “non commetta altri reati nei prossimi tre anni”.