Libia, il Cairo non tifa più Haftar

Per non rimanere tagliato fuori dal capitolo Libia, in vista della formazione di un governo di accordo nazionale ad interim che porti il paese alle elezioni fissate al termine del 2021, il presidente egiziano Al-Sisi sembra disposto ad abbandonare l’indebolito, seppur vicino, anche in senso geografico, generale Khalifa Haftar, ex uomo forte della Cirenaica. A dimostrarlo, secondo l’analisi di numerosi esperti, è stata la decisione del Cairo di spedire una delegazione del ministero degli Esteri e dei funzionari dell’intelligence a Tripoli per incontrare gli esponenti del governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto dall’Onu e finora guidato da Fayez al-Sarraj.

Si tratta della prima visita egiziana a Tripoli dal 2014, quando scoppiò la seconda guerra civile dalla caduta del defunto Gheddafi. L’importanza di questa visita la si evince dal fatto che la delegazione è stata guidata dal vice capo dell’intelligence e capo del ‘fascicolo Libia’ presso la presidenza egiziana, Ayman Badie. Il Cairo durante i colloqui ha promesso di riaprire la propria ambasciata a Tripoli. Questa decisione inattesa, se si pensa che a metà settembre Badie era a Bengasi per parlare di petrolio con Haftar, può suonare come un’abdicazione al ruolo di protettore e finanziatore di Haftar da parte dello stesso presidente egiziano. Il tema principale del cruciale incontro tra (ex) nemici è stato quello del continuo arrivo a Tripoli di armi turche. La delegazione egiziana ha sottolineato la necessità di interrompere l’importazione di armi turche, di smantellare rapidamente le milizie pagate da Erdogan e di respingere completamente qualsiasi base militare turca sul territorio libico. Guardando più da vicino la dinamica dell’incontro, la mossa avrebbe avuto invece lo scopo di portare un messaggio di sostegno alla corrente del governo tripolino guidata dal ministro dell’Interno Fathi Bashagha nonché aspirante premier del governo di transizione, e leader di una potente milizia di Misurata, che rifiuta l’escalation militare turca.

Bashagha, che è vicino al ‘Partito per la giustizia e la ricostruzione’ affiliato ai Fratelli Musulmani, aveva visitato il Cairo lo scorso novembre. Un fatto inedito dato che Al-Sisi è colui che da capo dell’esercito aveva annichilito nel 2013 la Fratellanza Musulmana e quindi preso il potere.

Erdogan, leader da anni del movimento politico islamico, da allora accusa Al-Sisi di golpe, e non solo. Quest’anno in seguito al ritiro dell’Esercito nazionale libico (Lna, guidato da Haftar) da Tripoli e recentemente dalla regione di Sirte, nella Libia occidentale è emersa una spaccatura tra i sostenitori del processo di risoluzione politica che pone fine al ruolo militare della Turchia e coloro che chiedono la continuazione dei combattimenti e la conquista di Sirte e dei porti petroliferi, che si trovano soprattutto nella Cirenaica. L’ambizione di Bashagha di guidare il futuro governo ha messo a dura prova i suoi rapporti con gli ormai ex alleati turchi che sarebbero rimasti estremamente contrariati, per usare un eufemismo, dalle due visite che il potente ministro dell’Interno libico e originario di Misurata (la città simbolo della rivoluzione contro Gheddafi) ha fatto recentemente in Egitto e Francia. Parigi è l’unica in Europa ad aver sostenuto di fatto Haftar ma ieri un portavoce del ministero degli Esteri, commentando la ripresa di sparatorie fra Tripoli e Haftar ha dichiarato: “Non esiste una soluzione militare, bisogna concentrarsi sulla nomina del nuovo governo e sull’organizzazione delle elezioni” annunciate per il 24 dicembre 2021”.

L’influenza di Bashagha tuttavia sembra stia iniziando a scemare mentre si amplia quella di Salah al-Din al-Namroush, il nuovo ministro della Difesa nominato pochi mesi fa e noto per la sua posizione pro-Turchia. Fonti egiziane hanno detto che la visita è stata pianificata poche settimane fa, e non ha nulla a che fare con la visita del ministro della Difesa turco Hulusi Akar a Tripoli. Mohammed al-Zubaidi, professore di diritto internazionale presso l’Università di Tripoli, ha dichiarato: “La visita arriva dopo che il Cairo ha ospitato le riunioni del Comitato militare e del Comitato costituzionale, e in seguito al successo nel raggiungimento di un accordo sulla cruciale città di Sirte, lo scambio di prigionieri tra Lna e Gna e un accordo sull’uscita delle forze straniere dal Paese”.

Il Cairo ha ulteriormente ampliato la portata del suo raggio d’azione alle forze di tutte le regioni della Libia e ha ospitato riunioni che includevano figure di diverse regioni e diverse affiliazioni, nel tentativo di evitare di venire associato esclusivamente all’asse della Libia orientale, che include anche il presidente del Parlamento, Aguila Saleh.

Il mantra “più figli” e la terra fa tic-tac

L’Istat ha comunicato che la popolazione italiana ammonta a 59,6 milioni di abitanti e come sempre ne ha messo in evidenza l’invecchiamento: età media 45,2 anni, con il 23% oltre i 65 anni e solo il 13% di giovanissimi sotto i 15 anni. In generale questo dato viene visto come un grave problema: come faremo a pagare le pensioni? Perderemo l’identità nazionale a vantaggio degli immigrati di culture diverse! Ci troveremo una società anziana più statica e meno creativa. Aumenteranno le spese di assistenza sanitaria. Quindi tutti in coro: bisogna aumentare la natalità, famiglie italiane tornate a fare più figli!

Certamente sul piano sociale questa soluzione appare condivisibile: una società giovane è più dinamica, vivace, intraprendente, allegra e produttiva di una composta da vecchi. Ma questa è la classica soluzione semplice a un problema complesso. E infatti di solito è sbagliata. Qual è il problema? Che non si fanno mai i conti con le risorse dell’ambiente che dovrebbe sostenere quella popolazione, la cosiddetta capacità di carico, ovvero il numero di esemplari di una specie che un certo territorio può sostenere senza collassare per eccessivo prelievo di cibo o eccessivo rilascio di rifiuti. Vediamo questi numeri: densità abitativa italiana poco meno di 200 per chilometro quadrato, ovvero 5000 metri quadri a testa, mezzo ettaro di patrio suolo, inclusivo delle pietraie improduttive, delle zone cementificate, delle foreste e dei campi coltivati, che ammontano alla metà di questa superficie e devono darci da mangiare. Pochini. Ci sono anche i mari che forniscono sempre meno pesce. E infine dobbiamo pure smaltire i rifiuti su quello stesso suolo, e compensare le emissioni di CO2, un po’ la catturano le foreste, ma solo una parte modesta. Bilancio finale: gli italiani vivono circa quattro volte al di sopra delle risorse naturali disponibili sul proprio territorio. Cioè facciamo festa con le materie prime degli altri (importate da altri Paesi) e ipotechiamo il futuro quanto all’erosione di quelle interne, facendo pagare il prezzo alle generazioni più giovani. Siamo in una situazione di debito, non solo economico ma pure ecologico, questo ben peggiore, in quanto non è sanabile da provvedimenti delle banche centrali, ma si misura in grandezze fisiche, non negoziabili. Quando il suolo l’hai cementificato tutto semplicemente fai la fame, quando l’acqua l’hai inquinata ti ammali, quando il clima diventa estremo ti spezza le reni. Non sono questioni regolabili nei parlamenti.

Di fronte a questo quadro di esposizione e di vulnerabilità aumentare ancora la popolazione sarebbe un azzardo: aumenteremmo anche i consumi e i rifiuti senza averne la possibilità fisica, diventando così più fragili. Per rafforzare la nostra resilienza collettiva bisognerebbe invece scendere un po’ di numero, in modo da consumare e inquinare meno e ovviamente stare tutti bene, invece che essere tanti e stare tutti male. Apriti cielo! Pronunciarsi contro la natalità diviene un’eresia e non se ne può nemmeno parlare. Diamo un’occhiata anche fuori dai nostri confini per capire in che situazione siamo: attualmente la popolazione mondiale è di circa 7,8 miliardi, cresce al tasso di 220.000 persone al giorno, circa 80 milioni in più all’anno, come una nuova Turchia che si aggiunge al mappamondo. Secondo i World population prospects (Wpp) delle Nazioni unite nel 2050 saremo 9,7 miliardi e nel 2100 arriveremo a 10,9 miliardi. Già ora il complesso dell’impronta ecologica globale è pari a 1,7 terre, cioè siamo fuori del 70 per cento dal pareggio di bilancio ecologico. Quindi se è vero che la distribuzione delle risorse è altamente ingiusta con pochi super-ricchi e miliardi di super-poveri, è anche vero che dal punto di vista fisico ciò non ha alcuna importanza, visto che ciò che conta sono i prelievi di materie prime e la restituzione di rifiuti complessivi. Bisogna rientrare prima possibile nei limiti fisici del pianeta, che non decidiamo noi, ma sono stabiliti a priori dalle leggi di natura. Se non lo facciamo semplicemente porteremo al collasso la nostra società e la biosfera, come ormai confermato da una moltitudine di studi autorevoli, cito per tutti l’Alliance of world scientists che pubblica i vari “Scientists’ warnings”, gli allarmi degli scienziati sui processi terrestri fondamentali dai quali dipende la nostra esistenza. Anche a livello globale sarebbe saggio essere di meno e stare tutti bene invece che troppi e stare quasi tutti male, con pochissimi che stanno troppo bene. Si dice che la tecnologia ci salverà, aumentando la produzione di cibo, evitando l’inquinamento e basandoci sulle energie rinnovabili: una bella fiaba non sostenuta dai numeri. Vero che questo è lo scenario che dobbiamo raggiungere e pure in fretta, ma è già così difficile realizzarlo ora che pensare di renderlo più efficace aggiungendo altri miliardi di persone è folle. Le Nazioni unite sostengono giustamente che una migliore educazione ed emancipazione delle donne nei Paesi poveri potrebbe automaticamente diminuire il tasso di fertilità: da fare. Ma da noi, dove si è già arrivati a questo risultato in modo spontaneo, perché bollarlo come imbarazzante e cercare di invertirlo? È più facile fare la riforma delle pensioni, tollerare qualche decennio di transitorio invecchiamento della società, assecondare la naturale decrescita e poi mantenere un tasso di rinnovamento demografico stabile con un mix ottimale di giovani e anziani. Stabilità è la chiave della sostenibilità, non crescita continua in un ambiente limitato, che è un postulato irrealizzabile. Avremo un’Italia più sicura e più autonoma sul piano energetico, agricolo e dei rifiuti. Purtroppo ogni approccio alla questione popolazione-risorse-rifiuti viene spazzato via da atteggiamenti ideologici, impedendo una serena valutazione delle condizioni fisiche che comandano più delle nostre aspettative culturali. Nei cinque minuti che avete impiegato a leggere questo articolo altre 764 persone si sono aggiunte al pianeta. La bomba demografica fa tic-tac.

 

MailBox

 

Michele Battiato ci scrive per “Artiglio Fontana”

Egregio Direttore, sono Michele Battiato, fratello di Franco. Desidero ringraziarla per aver collocato la frase di mio fratello nel giusto contesto per la quale era stata scritta e dalla quale l’incauto presidente della Regione Lombardia l’aveva estrapolata. Grazie, anche, per il coraggioso contributo che date a questo nostro disastrato Paese. Se fosse vivo Montanelli sarebbe orgoglioso di voi.

Michele Battiato

 

Una gestione territoriale troppo frammentata

Hanno protestato in molti, dai piccoli comuni, perché volevano poter uscire dai confini amministrativi. Hanno ottenuto un raggio di 30 chilometri per gli spostamenti. Ora però è tempo di chiedersi che senso ha questa suddivisione amministrativa difesa con le unghie e con i denti tutte le volte che si parla di accorpare le amministrazioni comunali. Che senso hanno regioni con gli abitanti di un quartiere di Milano o di una Città metropolitana? La Francia (544 mila km quadrati, 68 milioni di abitanti) in pochi mesi ha regolamentato le macroregioni, 13 in tutto il paese, più 5 nei territori d’Oltremare (131 mila km quadrati); in Germania (358 mila km quadrati, 82 milioni di cittadini) sono 16. Noi ne abbiamo 20 per una superficie di 302 km quadrati e poco meno di 60 milioni di abitanti. Eppure, invece di accorpare, si preferisce far nascere una miriade di enti intermedi – comunità o unioni montane, collinari, marine, nuove finte province… invece di affrontare il tema alla radice. Piccolo è bello, troppo piccolo rischia di diventare inutile.

Melquiades

 

Roma vuole un sindaco semplice e di cuore

Calenda si presenta come sindaco di Roma, scelta anche dell’altro comico sfidante Sgarbi, questo mi rende tranquillo sulla rielezione della Raggi. In pieno lockdown, la sindaca, sulla terrazza del Campidoglio, offrì un concertino per chitarra suonata da un giovane mentre la telecamera spaziava sui tetti storici della mia città. Nessun discorso, in silenzio a braccia conserte ascoltava anche lei rapita da tanta bellezza, che nemmeno quell’urlatore di Sgarbi, nonostante la sua colta preparazione in materia, può cogliere. La bellezza la possono cogliere solo i cuori semplici e amanti del bene comune e tutto questo la cara Virginia lo è. Calenda va bene, e nemmeno tanto, per l’Ambra Jovinelli, non per il Campidoglio.

Maurizio Dickmann

 

L’impagabile esperienza di leggere il cartaceo

Sono appena due giorni ma già la mancanza dei quotidiani mi innervosisce. Del Fatto in particolare che sfoglio per ultimo… per rifarmi la bocca. Il web? La tv? Utilissimi per quanto impegnativi per gli occhi e non solo quelli stanchi, ma non sono tattili, non hanno odore… e non lasciano i polpastrelli un po’ anneriti. Meglio il cartaceo, più vivo. Chi ha detto poi che sarebbe morto? Qualcuno certo poco brillante nelle previsioni.

Claudio Fantuzzi

 

Ci avevo visto lungo sull’“Innominato”

Quando ho visto l’“Innominato” la prima volta in tv (giuro, non sapevo nulla di lui), pontificava davanti a un megaschermo rivolto a una platea di astanti. Erano tutti intenti a mirarlo e mi chiedevo “chi è costui?”, il sindaco di Firenze, ecc.. Ecco, il Berluschino rosé! Nota marca di politico da esposizione. Meno male che per nostra (s)fortuna re Giorgio l’ha nominato presidente del Consiglio, altrimenti oggi ce lo saremmo trovato a fare il rottamatore ai tempi del Covid. E sai che fortuna! Perché al posto del faccione del sopra citato non pubblicate una bella immagine dei tesori di Firenze?

Maria Valeria Tarpini

 

Maratea, perla naturale da patrimonio Unesco

Il verde e il mare di Maratea, definita “Cittadella verde”, sono l’espressione più elevata dello splendore primigenio ed incontaminato della natura. Le chiare acque sia del mare, sia dei ruscelli e dei mille rivoli che si aprono nelle pareti rocciose delle contrade e le alte e verdi montagne fanno di Maratea uno scorcio di paradiso, di cui i suoi abitanti sono consapevoli a tal punto da essersi impegnati affinché fossero impedite costruzioni selvagge. Maratea merita di essere patrimonio mondiale dell’Unesco, e, quindi, dell’Umanità, non solo per testimoniare la sua radiosa bellezza naturale e la sua cultura per la vita, ma anche per testimoniare la premurosa cura dei suoi abitanti dedicata alla natura, al proprio patrimonio di bellezze naturali, per fare in modo che esso possa essere patrimonio di tutti.

Biagio Maimone

 

Anch’io credo nell’idea del fondo per “il Fatto”

Sono una vostra lettrice fin dal primo numero. Dopo aver assaggiato qualche quotidiano a caso, leggo solo voi. Tutti ottimi giornalisti, ma quel che più mi aggrada è la chiarezza e la conoscenza dei fatti esposti. Sono assolutamente d’accordo alla creazione di un fondo-raccolta pro-spese legali, avete molti nemici… Organizzatevi, credo che saremo parecchi.

Stefania Mantero

Zona rossa. A Natale meno controlli di Pasqua e c’è un calo di trasgressori

 

Non si è fatto altro che parlare, prima delle feste natalizie, di chiudere tutto, fare un lockdown generalizzato, che l’Italia doveva essere zona rossa, e poi alla prova dei fatti cosa è accaduto realmente? Dal 24 di dicembre ogni mattina, prima di uscire da casa, ho precompilato l’autocertificazione. La motivazione acclusa che mi recavo da mia madre, anziana e sola. Così facendo ho cercato, anzi ha cercato tutta la mia famiglia, di limitare gli spostamenti all’essenziale, come appunto dispongono i decreti governativi. Ma nonostante questo, dalla vigilia di Natale ho notato, con enorme sorpresa, e non credo solo io, tantissima gente in giro, incolonnata nelle auto e a piedi a bighellonare. Sono stato io il fesso e tutti gli altri furbi o sto nel giusto e gli altri hanno compiuto illegalità diffuse?

Maurizio Maccagnano

 

Dai dati del Viminale sappiamo che nelle giornate del 24, 25 e 26 dicembre sono stati schierati circa 70 mila agenti al giorno e controllate oltre 200.904 persone. In totale, nei tre giorni, le sanzioni amministrative elevate sono state 2.636, cui si aggiungono 22 denunce nei confronti di altrettante persone che hanno violato la quarantena. Le attività commerciali controllate sono state 34.235, con 104 titolari sanzionati e 120 esercizi chiusi, sempre nei tre giorni. La percentuale dei sanzionati sui controllati è circa l’1,3%, che scende allo 0,3% in relazione ai titolari di esercizi commerciali multati. Si può confrontare la tre giorni natalizia con quella pasquale (11-13 aprile), in pieno primo lockdown. In quel caso furono controllate 746.430 persone, sanzionati in 42.815 (5,7%) e denunciati in 393; vennero verificate 212.857 attività commerciali, sanzionati 446 titolari (0,2%) e chiusi 138 negozi. Dunque, i controlli di Natale sono stati meno di un terzo di quelli di Pasqua, ma si è abbassata notevolmente la percentuale di trasgressori. Ovviamente il contesto è diverso. Ad aprile la chiusura era totale; questa volta, il governo ha previsto (ma sconsigliato) il ricongiungimento familiare e composto nel complesso una normativa più “morbida” (si pensi al doppio viaggio in auto per portare una famiglia di 4 adulti al cenone della Vigilia). I provvedimenti di dicembre si basano, in ultima analisi, più sulla fiducia riposta nel buon senso dei cittadini. Non si tratta dunque di essere “fessi” o “furbi”: chi ha approfittato di queste maglie meno strette lo ha fatto a rischio e pericolo suo e dei propri affetti.

Vin. Bis.

Da Renzi a Salvini, Trump e Bolsonaro: i peggiori del 2020

Il 2020 se ne va e saranno in pochi a rimpiangerlo. A fine anno è quasi sempre tempo di bilanci. In questa rubrica parlo quasi sempre di personaggi che hanno spiccato negativamente in qualcosa. Trovo dunque giusto, come ultimo pezzo dell’anno, segnalare cinque nomi che hanno straordinariamente dato il peggio di loro stessi.

Renzi. Inserire nella cinquina uno che politicamente ormai ha meno voti di Tabacci e Intini messi assieme è in sé assai discutibile: si rischia di dar troppo peso all’evanescente. La Diversamente Lince di Rignano è sempre stata la più assurda sbornia nella storia della “politica” italiana, e chi dice oggi che “con gli anni si è perso” mente a se stesso per darsi un alibi nell’avergli (colpevolmente e assurdamente) creduto. Renzi non ha mai avuto particolari doti. È sempre stato circondato da una “classe dirigente” imbarazzante. E ha sempre avuto le stimmate della peggiore brutta copia di Berlusconi. Dal 4 dicembre 2016 – Seconda Festa della Liberazione – è un politico postumo in quasi vita, e se avesse smesso come aveva promesso avrebbe fatto un favore a se stesso. Nonché al mondo. Invece è ancora lì, a contorcersi e agonizzare. Finché avrà fiato in gola, anzi in pappagorgia, sarà disposto a tutto pur di raccattare mezzo scampolo di potere. Persino aprire una crisi in tempo di pandemia mondiale. Non lo vota più nessuno, tranne quattro o cinque twittaroli incurabili, ma al Senato ha i numeri per far cadere tutto. E vedrete che lo farà. O lo minaccerà in eterno, che per certi versi è quasi peggio. Imperdonabile, irredimibile, inaccettabile. Gli sia lieve lo shish.

Bolsonaro. L’idea che uno così abbia in mano il Brasile dimostra da solo come l’animale uomo non abbia speranza. Ignorante, razzista, violento. Ha colpe immense sul Covid, non ha rispetto della democrazia, sta distruggendo gli indios e l’Amazzonia. Nel suo sguardo c’è la fissità tipica dell’ottusità feroce. Parafrasando Gaber, Bolsonaro “fa più schifo che spavento”. Orrore puro.

Al Sisi. Ci voleva quel galantuomo di Corrado Augias per mettere nero su bianco tutto l’orrore che ha avvolto e travolto Giulio Regeni. Un orrore di cui Al Sisi conosce nomi e cognomi, facendone parte. Solo che non si può dire, perché Al Sisi è funzionale all’economia (e alla strategia) del nostro Paese. Nel frattempo, in Egitto, le carceri sono piene di innocenti (per esempio Patrick Zaki). Torturati e seviziati. Davanti agli occhi del mondo. Che se ne frega.

Salvini. Mettere quel che resta di un quasi politico come il Cazzaro Verde accanto a nomi grossi (a parte Renzi, cui del resto è l’altra faccia della stessa medaglia) può comportare il rischio della sua sopravvalutazione. Vero. Ma siamo in Italia, e dunque ci tocca per forza di cose parlare di questi pesci politicamente piccolissimi. Prima dell’agosto 2019 era un destrorso minore con qualche dote mediatica, dopo l’Harakiri del Papeete è una sorta di Fantozzi improponibile. Le sbaglia tutte e si copre di ridicolo con masochismo bulimico. I citofoni, le ciliegie, la Nutella. Le mascherine, i clochard, i selfie in tempo di Covid. Poveraccio. Più lui sprofonda e più i Porro & Maglie cercano di celebrarlo, come teneri fiancheggiatori impigliati nel tramonto di una nuova – e ancor più caricaturale – Salò. Salvini è il Barbaro D’Urso dei nostri tempi sbandati.

Trump. Stava per essere rieletto Presidente degli Stati Uniti uno così: xenofobo, maschilista, mitomane. Pettinato coi petardi morti e responsabile della peggiore gestione dell’emergenza Covid in tutto il globo terracqueo. Siamo messi proprio male. Buon anno.

 

Milano ferma per un po’ di neve. E poi pensano di gestire il covid

A Milano ieri ha nevicato. Oh bella. Vivo da 75 anni in questa città, vicinissima alle Prealpi, il mitico Resegone ricordato dal Manzoni, la Grigna, la Grignetta, ma non molto lontani sono il Cervino e il Rosa che nelle giornate in cui lo smog non ci tortura posso vedere nitidamente dalle mie finestre e so come tutti i miei concittadini che dai primi di Dicembre a metà Marzo può nevicare. Per noi milanesi la neve è quindi un habitat abbastanza naturale e ce la siamo sempre cavata con disinvoltura. Solo nel 1985 la città si fermò per tre giorni, ma erano caduti tre metri, tre metri, di neve e non 20 centimetri come questa volta. E furono giornate molto belle perché, nell’emergenza, nelle difficoltà, i milanesi ritrovavano quella solidarietà – “Milan col cor in man” – che avevano già allora perso dall’epoca del primo dopoguerra (oggi siamo in un’altra emergenza, quella Covid, ma io non ho scambiato una sola parola con le due famiglie che sono mie vicine di pianerottolo).

Questa volta invece Milano s’è fatta sorprendere dalla nevicata. Eppure il meteo, che oggi è molto più preciso di quello dei tempi del colonnello Bernacca, da un paio di giorni aveva preavvertito che ci sarebbero state delle nevicate sulla Pianura Padana. A Parma, che è a un centinaio di chilometri da qui, si sono attrezzati per tempo e la vita, approfittando anche della zona arancione, è continuata come sempre. Milano si è semiparalizzata. Nel momento in cui scrivo, attorno a mezzogiorno, sotto le finestre di casa mia ci sono quattro tram incolonnati e fermi. Il tram, che per me è il simbolo di Milano più del Duomo, è un mezzo di trasporto molto importante per la nostra città. Non ci voleva molto a capire che le rotaie e gli scambi andavano riscaldati. Invece per sei ore la paralisi.

Noi italiani continuiamo a raccontarci la favola che siamo sfigati e che gli eventi naturali ci travolgono. A travolgerci sono la nostra imprevidenza e la nostra dissennatezza. A Genova abbiamo ricoperto di cemento dei torrenti, in realtà poco più che dei rigagnoli, che quando piove venendo giù dalle montagne retrostanti scoppiano, inondano la città e provocano disastri, a Rigopiano è stato costruito un grande albergo a metà montagna che ci voleva poco a capire che prima o poi sarebbe stato travolto da una valanga (29 morti). Ci abbiamo messo anni a capire, nonostante tutti i notissimi e spaventosi precedenti, che il nostro è un territorio sismico e quindi ogni volta che c’è un terremoto anche non particolarmente intenso, poiché a differenza del Giappone non abbiamo riconvertito le abitazioni, siamo lì a chiagne disgrazie e morti.

Ma torniamo a Milano. Sono bastate sei ore per semiparalizzare la città. E questa, guidata dal milanese doc Beppe Sala, dovrebbe essere l’Amministrazione, basata su un retroterra austro ungarico, che ci farà riemergere dopo il Covid più forti, energici e motivati di pria, guidando la Nazione verso i suoi luminosi destini? Ma “andate a dar via i ciapp” come “disem noi incì a Milan”.

 

La giustizia è in crisi, Troviamo il “farmaco”

La Magistratura è reduce da un biennio terribile. La quotidiana emorragia di chat e intercettazioni emerse dall’inchiesta perugina ne ha messo a nudo limiti e contraddizioni. L’immagine che la stampa proietta al pubblico è di un sistema malato, ordinato per “caste” e con problemi di imparzialità e trasparenza. Eppure, migliaia di giudici e pubblici ministeri, di diversa estrazione anagrafica, territoriale, culturale e ideale, sono estranei al “mercato delle nomine” e mai disposti a rinunciare alla propria autonomia per motivi di carriera. Senza clamori e fra mille difficoltà, ogni giorno onorano la toga con dedizione professionale e senso di indipendenza, partendo dal rispetto per avvocati, testimoni, parti processuali, vittime di reati. Così i progetti di rigenerazione della “giustizia”, che stanno impegnando governo, Parlamento, associazionismo giudiziario e ordini forensi, sono chiamati a difendere quel “patrimonio istituzionale”.

Un primo segnale promettente si coglie da una delibera del Consiglio superiore della magistratura dello scorso 17 dicembre. Riscrive la circolare sulla gestione delle procure in nome della trasparenza e della pari dignità dei magistrati che le compongono. Le modifiche sono di natura “strutturale”. Si incide su di un modello gerarchico, voluto dalle riforme del 2006- 2007 per dare omogeneità a prassi investigative e accusatorie. Negli anni, la formula che riconosceva al “procuratore-capo” un potere organizzativo sostanzialmente incontrollato ha mostrato i suoi limiti. La facoltà di assegnare e revocare, in modo unilaterale, indagini di rilievo, deleghe e incarichi di diversa natura, può trasformare il dirigente dell’ufficio in arbitro delle aspirazioni professionali dei suoi sostituti. La ricerca del suo “gradimento” è in grado di generare timidezze e conformismi, che corrodono senso di indipendenza e imparziale esercizio della giurisdizione. E, si sa, laddove vengono emarginate le coscienze critiche, germogliano perniciosi personalismi e “interessati cerchi magici”, ossia gli ingredienti principali della vicenda oggetto dell’indagine di Perugia.

Dunque, la novità intende invertire certe tendenze. I poteri organizzativi del procuratore della Repubblica saranno sottoposti alla incisiva verifica di organi terzi, di prossimità (Consigli giudiziari) e centrali (Csm). La soluzione, già in vigore per i presidenti di Tribunale, pare in sintonia anche con il disegno di legge n.2681 per la riforma dell’ordinamento giudiziario (art.1 comma 2), recentemente approdato in Parlamento. Ma i due testi si spingono oltre. Prevedono una fase preparatoria del programma di gestione della Procura a cui sono chiamati a partecipare, collegialmente, il “dirigente” e tutti i suoi sostituti. Insomma, ogni magistrato viene responsabilizzato sul funzionamento del servizio da rendere ai cittadini del territorio di riferimento, al di là dei fascicoli di cui è titolare. Nel costituire anche un dovere deontologico, il farsi carico di questioni più generali può essere un antidoto alle derive burocratiche alla professione.

Da tempo, le Procure sono diventate la prima autorità ad essere incontrata da associazioni o gruppi di privati in cerca di legittimazione. Non trovando altri varchi istituzionali, la denuncia penale a carico di amministratori, imprenditori e liberi professionisti diventa lo strumento per rimostranze su problemi, ad esempio, di inquinamento ambientale, urbanistica, sanità. In questi casi le Procure devono cimentarsi in una delicata opera di “filtro”, posto che la sola iscrizione nel registro degli indagati può produrre effetti irreversibili per chi ricopre cariche pubbliche o svolge attività imprenditoriali o professionali di rilievo. Dunque, il programma di gestione di una Procura, con le sue regole di assegnazione dei processi, di priorità nella trattazione dei diversi reati e di costituzione di dipartimenti specializzati, va reso “conoscibile” a denuncianti e denunciati. Una trasparenza doverosa, anche per la responsabilità sociale che incombe sui magistrati.

Leggendo le ormai arcinote chat, pare che il male oscuro della giustizia stia nella smodata ambizione di non pochi magistrati a ricoprire ruoli di potere. Non esistono formule magiche per recuperare credibilità, quando in gioco sono ragioni etiche. Ma ripensare il sistema si può. A partire da una organizzazione “orizzontale” della giurisdizione, con magistrati che si distinguono solo per funzioni. E con incarichi direttivi da rendere effettivamente temporanei, per una interpretazione del ruolo da primus inter pares votato ad ascoltare tutti e valorizzare esperienze e sensibilità diverse.

 

 

A letto con mia zia (donna prosperosa e pallida) per parlare di monarchia

Qualche giorno fa ero a letto con mia zia (una veneziana pallida e prosperosa che nei musei palpa voluttuosamente le ginocchia delle statue, eccitandosi sulla carnalità del marmo: me la bombo con gusto) quando è apparsa in tv la regina Elisabetta col suo discorso natalizio, un tonico perfetto per il blues post-coitale: “La luce porta speranza. Per i cristiani, Gesù è la luce del mondo.” E mentre mi immaginavo a letto con la regina Elisabetta (è ancora una gran gnocca, e ha labbra perfette per i soffioni), ho chiesto a mia zia, una fanatica spettatrice di The Crown, come mai esistano ancora delle monarchie nel nostro continente. “Le ragioni sono molteplici. La più importante è che le fiabe dell’infanzia sono popolate da ragazze povere che diventano principesse. Poi le monarchie contemporanee non sono più assolute, ma costituzionali o parlamentari. Il loro ruolo è più simbolico che sostanziale: rappresentano l’unità della nazione, come un presidente della Repubblica. Tutti i monarchi attuali, inoltre, hanno press agent che garantiscono loro ruoli simpatici nello storytelling quotidiano. Il pubblico magnetizzato non si spazientisce, se i regnanti sono privi di potere e simpatici, specie in tempi come questi, dove accese divisioni sociali e politiche mettono a dura prova la fiducia nelle classi dirigenti elette democraticamente, al punto che molti, senza saperlo, finiscono per pensarla come Francesco Giuseppe, l’imperatore austro-ungarico: ‘Il ruolo della monarchia, nel mondo moderno, è quello di proteggere i cittadini dai politici.’ Era un monarca assoluto, come da noi c’è solo il Papa, capo elettivo della teocrazia del Vaticano: la religione lo giustifica come un tempo giustificava gli imperatori europei. La fede ha sempre garantito il massimo del potere col minimo sforzo. Mmmm, sì, continua a leccare. Così, bravo. Anche il Papa, però, ha bisogno dello storytelling giusto. Ricordi il video di Bergoglio da solo in piazza San Pietro? Spettacolare, ma prima dovettero mandare via quattro suore cinesi che rovinavano l’inquadratura. Ed ecco i membri della famiglia reale che sorridono, impegnati in opere di carità.” “Embè?” “Non ci sono Harry e Meghan: storytelling. Considera infine che la regina, essendo anche capo della Chiesa anglicana, gode di un enorme vantaggio propagandistico sugli altri monarchi: può recitare la parte della Papessa. Ruolo simbolico, simpatia, fede: il trifecta la rende inossidabile.” Sollevai la testa. “E in Italia?” La zia sospirò profondamente, mettendo in rilievo, nel torcersi, tutte le sue curve. “In Italia c’è un grande appetito popolare per la monarchia: lo dimostrano il successo di The Crown, e i periodici che vanno a ruba quando mettono in copertina qualunque reale inglese. Però quell’appetito non può essere soddisfatto dai Savoia, il cui ritorno sarebbe spudorato. Perciò mi stupisco che, per sbloccare la situazione, nessuno abbia ancora riscoperto Gioberti.” “Gioberti?” “Prendi quella candela, e sgocciolami la cera calda sulle tette. Era un sacerdote risorgimentale che auspicava una federazione degli staterelli italiani, governata da un Papa Re. Papa Gregorio XVI era un reazionario, e il progetto di Gioberti fallì; ma le cose sono cambiate. Il reazionario Ratzinger, con il suo papato pieno di omissis, non era simpatico, ed è stato facilissimo sostituirlo nel cuore dei fedeli. Al suo posto hanno messo Bergoglio, che, con quella testa a lampadina e quelle orecchie spioventi, quando ride sembra Stanlio. Il trifecta italiano ce l’avremmo già: se tanto mi dà tanto, è solo una questione di tempo. Ooooh!” “Anche sui capezzoli?” “Ti xe un bagolo. Ooooh!”

 

Elkann- Casellati: l’intervista in famiglia

La Stampa degli Agnelli è oramai un grande quotidiano a conduzione familiare. E in ossequio allo spirito familiare e natalizio, sul giornale di domenica è comparsa una splendida intervista sull’asse Elkann-Casellati.

Le domande le fa Alain Elkann, papà di John, padrone del giornale (nel quale il babbo è titolare da molti anni di una rubrica domenicale), le risposte le dà Alvise Casellati, figlio di Maria Elisabetta Alberti (in Casellati, appunto) e luminoso astro nascente della musica lirica.

Una cornice prestigiosa per un intimo ritratto affettivo. In primo piano, come si diceva, ci sono i rapporti tra genitori e figli. “È vero – chiede Elkann – che la musica fa parte del dna di famiglia?”. Certo, risponde Alvise: “Tutti in famiglia avevano un diploma al Conservatorio e ci incontravamo per suonare insieme nei weekend. Era quasi un’orchestra!”. Tanta tenerezza: i lettori della Stampa ne saranno commossi.

I tg deprimenti e la nostalgia della tv di Biagi

Il Covid è pessimo ma a peggiorarlo concorrono i tg e non soltanto, come dice Massimo Cacciari a La Verità, per “il martellante bollettino di guerra che sfianca la gente e butta a terra il morale” (lui non fa certo mancare il suo contributo). Abbiamo fatto anche l’abitudine alla deprimente sfilata serale delle figurine partitiche. Quelle che in occasione della pausa natalizia ricorrono alla panchina lunga con dei tizi riconoscibili solo ai propri affetti stabili, chi afflitto da alopecia invasiva e chi intubato nella mascherina (non manca mai Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, la cui presenza resta rassicurante come il pastorello nella Grotta). Sui contenuti dei dichiaranti non ci soffermeremo se non per segnalare le due categorie che sostanziano le polemiche di giornata. “Si dimetta e si vergogni”, se “insorge l’opposizione”. “Chieda scusa e si vergogni”, se “insorge la maggioranza” (tutti i tg usano il medesimo format).

Tale scambio insurrezionale di vergogne evidenzia nel personale politico di ogni livello l’inclinazione a pontificare, senza mai azzardare uno straccio di argomento che uno. Mentre in studio si rifugge da qualsiasi valutazione nel merito, come se l’esercizio della ragion critica equivalesse ad afferrare un tizzone ardente a mani nude. O forse soltanto per pigrizia. Sono le occasioni nelle quali cresce il rimpianto per il giornalismo televisivo di Enzo Biagi, Ezio Zefferi (scomparso in questi giorni), Andrea Barbato, per citarne alcuni soltanto. Prendiamo la comica distribuzione dei regali ad uso social dell’uomo dei pacchi Matteo Salvini. Oppure la genialata vaccinale del presidente campano Vincenzo De Luca, più Crozza di Crozza ogni giorno di più. Pensate a cosa ne avrebbero ricavato di intelligente e di brillante il Fatto di Biagi, o la Cartolina di Barbato. Altro che vegetare con i “si dimetta” e con i “chieda scusa”.