Venti centimetri di neve, 12 ore di polemiche. È il bilancio della giornata vissuta ieri da Milano, alle prese con i primi fiocchi dell’anno. Le precipitazioni hanno creato diversi disagi alla circolazione in mattinata. A causare i maggiori problemi i sei alberi caduti in diverse zone della città. Tre in via Raffaello Sanzio, uno dei quali ha tranciato i cavi del tram. Un abete è caduto, poi, nei pressi di via Breda e altri due alberi hanno ceduto vicino alla stazione di Greco. Sempre in via Sanzio è caduto un palo che ha colpito un’anziana, ferendola. “A Milano tram bloccati, strade con 20 centimetri di neve e caos – ha denunciato Matteo Salvini –. Nevicata annunciata da giorni, Sala non segue le previsioni del tempo?”. Il sindaco ha risposto sottolineando prima l’impegno di 200 mezzi spargisale e 1200 spalatori. Poi attaccando Salvini: “Chi come me lavora da una vita è abituato a seguire le cose e poi ad agire. Chi come lui non ha mai lavorato, è abituato più che altro a usare la tastiera e a fare grandi proclami”. La campagna elettorale è iniziata.
Vaticano, tolti alla Segreteria di Stato i conti dello Ior per evitare il rischio di altri scandali
Papa Francesco ufficializza il passaggio del portafoglio della Segreteria di Stato all’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica (Apsa). Una decisione che avviene dopo gli scandali finanziari che hanno travolto il cuore del potere della Curia romana con l’acquisto del palazzo di Londra, il licenziamento di cinque funzionari vaticani e la defenestrazione del cardinale Angelo Becciu dal ruolo di prefetto della Congregazione delle cause dei santi e a cui Bergoglio ha tolto anche i diritti del cardinalato. Con il motu proprio “Circa alcune competenze in materia economico-finanziaria” il Papa rende operativo, dal 1° gennaio 2021, il passaggio all’Apsa, presieduta dall’ex segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, della gestione degli investimenti finanziari e dei beni immobili di proprietà della Segreteria di Stato, compreso l’Obolo di San Pietro. Una decisione che era stata preannunciata dal Pontefice con una lettera dell’agosto scorso al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, e messa a punto da un’apposita Commissione di passaggio e di controllo istituita da Bergoglio all’inizio di novembre. Francesco ha stabilito che il trasferimento avvenga entro il 4 febbraio 2021. Tempi molto stringati dunque. Dal primo giorno del nuovo anno “la titolarità dei fondi e dei conti bancari, degli investimenti mobiliari e immobiliari, ivi incluse le partecipazioni in società e fondi di investimento, finora intestati alla Segreteria di Stato” passerà all’Apsa “che curerà la loro gestione e amministrazione”. Il Papa ha deciso, inoltre, che essi saranno sottoposti a un controllo ad hoc da parte della Segreteria per l’economia che “d’ora in avanti svolgerà anche la funzione di segreteria papale per le materie economiche e finanziarie”. La Segreteria di Stato dovrà trasferire anche tutte le sue disponibilità liquide giacenti in conti correnti ad essa intestati presso lo Ior o in conti bancari esteri. A decorrere dall’esercizio 2021, si legge ancora nel documento papale, “le contribuzioni a qualunque titolo dovute o liberamente devolute alla Santa Sede da parte di enti ecclesiali di qualunque tipo”, incluse quelle del Governatorato e dello Ior, “saranno versate su un conto denominato Budget generale della Santa Sede, gestito dall’Apsa”. In futuro i trasferimenti delle somme dovranno essere autorizzati dal prefetto della Segreteria per l’economia, il gesuita Juan Antonio Guerrero Alves.
La mafia torna ad uccidere Liguria, l’ombra della faida
Il primo omicidio di mafia avvenuto in Liguria negli ultimi 25 anni ha già un reo confesso: Domenico Pellegrino, 23 anni, rampollo del clan di ’ndrangheta di Seminara che domina Bordighera. Ma le certezze su questo caso finiscono qui. L’improvvisa (e anomala) ammissione convince poco gli inquirenti. Soprattutto il presunto movente: un litigio nato dalla compravendita di un’auto. Troppo poco per spiegare l’“esecuzione in stile mafioso” – due colpi in testa, esplosi con la vittima in ginocchio – di “Joseph” (Giuseppe) Fedele, 60 anni, narcotrafficante di origini calabresi residente a Beausoleil, in Costa Azzurra, una sorta di uomo-cerniera tra il “milieu” del Var (la mafia locale) e le ’ndrine d’Oltralpe. “Vicino al clan Fargette”, gruppo malavitoso alleato a sua volta dei clan calabresi di Ventimiglia, non da ieri infastiditi dall’esuberanza dei Pellegrino.
Il corpo di Fedele era stato abbandonato in un fosso a Ventimiglia il 22 settembre. Per il medico legale sul cadavere hanno infierito due armi diverse. Ecco perché per i carabinieri di Imperia e la Dda di Genova è plausibile “un movente legato alla droga” e “l’intervento di più persone”, almeno un terzo uomo. Un accenno che sembra emergere dalle telefonate: “Lo abbiamo tirato, quel porco”, dice Pellegrino. C’è di più. Quando il giovane decide di consegnarsi, la sorella Roberta lo riprende per aver seguito i “consigli” di un pezzo grosso della famiglia: “L’ho sempre detto io di finirla… io, la mamma, tutti, di ascoltare il grande eroe di tuo zio Roberto, hai visto?”. Il riferimento è a Roberto Pellegrino, in carcere per associazione mafiosa, insieme a Giovanni, padre del killer, e al nonno Ciccio Barilaro.
Il corpo di Fedele viene trovato il 21 ottobre. A identificarlo è un conoscente, Fortunato Foti, corriere della droga fra Spagna e Italia emerso in indagini antimafia. Aveva appuntamento con la vittima il giorno della sparizione. Quanto a Fedele, a Nizza è stato condannato per droga e gestione di bische clandestine. La moglie Marie Clotilde Regnier è figlia del leggendario padrino di Tolone Loulou Regnier. Gli altri figli del boss sono finiti male: a Michel hanno sparato nel 1998, a Jean Claude nel 2012.
Da subito le indagini si indirizzano su un camioncino ripreso dalle telecamere nei pressi del luogo del delitto. È usato da Girolamo Condoluci, 42 anni, cugino del killer, indagato per favoreggiamento. È preoccupato per le tracce che si sono lasciati dietro: “’Sto furgone puzza di cadavere”, si lamenta il 17 novembre. Teme per la tenuta del cugino: “Non parlare al telefono”, gli ripete spesso. E quando questi gli confida di avere un appuntamento dallo psicologo, lo ammonisce: “Non gli dire un cazzo”. La conversazione ricorda quasi una puntata dei Sopranos: “Tranquillo, gli dico che ho problemi sul lavoro e che hanno arrestato il nonno”. Tutto precipita il 15 dicembre. I due vogliono dare fuoco al furgone e cancellare le prove: “Venti litri e passa tutto”. Il blitz dei carabinieri lo impedisce: “Sanno tutto Domenico, regolati”, dice Condoluci. “Dovevamo bruciarlo ieri, vedevi come capivano che ero stato io”, risponde l’altro. Il giovane Pellegrino ha fama di testa calda e per questo viene rimproverato dallo zio Maurizio, appena scarcerato: “Non so cos’hai in testa, sei una rovina. Bastava un colpo a una gamba. Adesso ti metti su una branda e dormi per un po’ di anni bello mio”.
La Dda di Genova e i carabinieri del Ros hanno aperto un’inchiesta sui tanti collegamenti che ritornano tra i clan italiani e francesi. In Costa Azzurra le famiglie calabresi nascondono latitanti, riciclano denaro e trafficano droga. Per alcuni pentiti ci sono almeno una decina di locali di ’ndrangheta, regolate da una “camera di controllo” a Nizza, una sorta di ambasciata del crimine, che ha il compito di risolvere i dissidi. Come accaduto a settembre, quando un membro del clan Gallico era arrivato dalla Calabria per risolvere una controversia per una partita di droga non pagata, recuperata attraverso la mediazione del clan calabrese dei Magnoli di Vallauris. Quell’intervento evitò una “Gomorra”, secondo i protagonisti, poi arrestati. Altro dettaglio interessante riguarda il tramonto dei vecchi boss di Ventimiglia, colpiti dalle inchieste antimafia. Al funerale del capobastone Peppino Marcianò, nel 2017, la vedova era accompagnata proprio dal figlio del vecchio boss Jean Louis Fargette, assassinato nel 1993 a Vallecrosia, a due passi da Bordighera, in circostanze mai chiarite. Per i pm è arrivato il tempo di alzare il velo su ciò che accade oltre confine.
Il Vaticano contro De Luca e Mattarella aspetta il turno
Medici in prima linea, prelati del Vaticano, esponenti del governo e persino il Quirinale, che ribadisce che il presidente Sergio Mattarella “aspetta le indicazioni del ministero della Salute e si vaccinerà quando chiameranno le persone della sua età”, senza saltare alcuna fila.
È ampio il fronte della protesta e del biasimo verso il governatore della Campania Vincenzo De Luca che domenica mattina si è fatto vaccinare al Cotugno di Napoli. Operazione a favore di fotografo, che secondo fonti del ministero della Salute ha violato le disposizioni della circolare di 14 pagine firmata dal direttore generale della Prevenzione Giovanni Rezza la vigilia di Natale: “Raccomandazioni per l’organizzazione della campagna vaccinale contro SarsCov2/Covid-19 e procedure di vaccinazione”. Circolare che a pagina 4 dice: “Considerata la disponibilità iniziale di un numero di dosi limitato, in questa prima fase della campagna di vaccinazione anti-SarsCov2/Covid-19 si opererà con l’obiettivo di massimizzare il risultato, concentrando le risorse sulla protezione del personale dedicato a fronteggiare l’emergenza pandemica e sui soggetti più fragili (operatori sanitari e sociosanitari e del personale ed ospiti dei presidi residenziali per anziani)”.
Insomma il V/day di domenica – satiricamente ribattezzato Vicienzo/day – era riservato a chi combatte negli ospedali ma il 71enne De Luca, da settimane nella bufera dei quotidiani salernitani che lo dipingono rintanato in un bunker del Genio Civile di Salerno per paura del contagio, è stato tra i primi 720 campani vaccinati. L’unico politico. L’unico volto noto. In Campania. In Italia. La cosa non è andata giù ad Alfonso Coletta, anestesista senese di 72 anni che lavora al reparto di terapia intensiva dell’ospedale del Mare di Napoli. È in pensione da dieci anni ma si è rimesso in gioco rispondendo al bando della Protezione Civile per la ricerca di medici da assegnare all’emergenza coronavirus in Campania. Domenica mattina sperava di ricevere la fiala del siero anticovid della Pfizer. Non c’è riuscito, e fin qui poco male. Entro gennaio sarà il suo turno. “Ma forse io ne avevo più diritto di De Luca – dice Coletta – ed a questo punto quando a gennaio mi riproporranno di vaccinarmi dirò no grazie, lo farò quando ritornerò nella mia città”.
Coletta è un medico che ha deciso di rendere pubblica la sua protesta contro De Luca e può farlo, perché non teme le conseguenze delle circolari dei manager della sanità campana che hanno imposto il divieto di comunicare coi mass media se sprovvisti di autorizzazione. Un altro medico, un dirigente dell’Azienda sanitaria dei Colli di Napoli (che ricomprende l’ospedale Cotugno), ha fatto sparire dai social un commento con il quale raccontava di aver assistito da vicino cosa era successo domenica mattina al Cotugno: “(De Luca) ha sottratto (il vaccino, ndr) a un medico o un infermiere che stava in fila al Cotugno. Io dopo quattro ore di fila non l’ho fatto poiché, essendo contati, l’aveva fatto De Luca e anche personale amministrativo e della direzione sanitaria, che stanno in prima linea con la scrivania davanti e la porta chiusa, sottraendolo a qualche infermiere o medico come me che sta davvero in prima fila”. In privato ha aggiunto: “Su cento vaccini del Cotugno, tre o quattro li hanno fatti a personale della Direzione sanitaria e a dirigenti amministrativi, è una cosa pubblica, l’hanno vista tutti. De Luca sarebbe stato comunicativamente utile quando si aprivano le vaccinazioni a tutti i cittadini, ma non domenica. Che senso ha dare l’esempio ai medici? Essendo i vaccini contati, gliele ne ha solo sottratto uno”.
Dal governo, se il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri crede “alla buona fede di De Luca che forse voleva dare l’esempio”, il sottosegretario Sandra Zampa pare crederci meno: “De Luca certamente non ha rispettato i criteri indicati da noi, ma non è la prima volta che non rispetta le indicazioni del ministero o del governo o che mostra che non sono di suo gradimento”. Aggiungendo: “Non so come abbia fatto ad avere la dose, ma le indicazioni del ministero erano distanti: tra le priorità c’erano medici, operatori sociosanitari e anziani delle rsa. Era una giornata simbolica che volevamo dedicare alle categorie più vulnerabili e colpite”. Conclude monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita: “È importante, proprio perché la vaccinazione possa avvenire con serenità e responsabilità, rispettare le indicazioni delle autorità: non si possono ammettere scorciatoie o forzature. Anche io mi vaccinerò ma rispetterò l’ordine dato dalle autorità competenti sulla vaccinazione”. All’altro Vincenzo avranno fischiato le orecchie.
I medici e gli infermieri no-vax rischiano anche la radiazione
Già avviati i primi procedimenti disciplinari nei confronti dei medici contrari al vaccino anti Covid. In tre, a Roma, sono già sotto inchiesta per decisione dell’Ordine provinciale di categoria, mentre l’Ordine nazionale annuncia di esser pronto alle radiazioni stimando in un centinaio (su 400mila) i potenziali camici bianchi no-vax. In totale gli operatori sanitari contrari al vaccino sarebbero stimati in due su dieci.
Una decisione, quella dell’Ordine provinciale dei medici di Roma, guidato da Antonio Magi, che procede su un terreno scivoloso. Perché da un lato ci sono la libertà di opinione e la facoltà di scegliere se essere sottoposti a trattamenti medici. Dall’altro, l’interesse pubblico e il rispetto del codice deontologico. “Il confine è sottile – dice Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici –. Dobbiamo distinguere la libertà di pensiero da un esercizio della professione difforme dagli obblighi deontologici. Se un medico rifiuta il vaccino ma lo somministra ai suoi pazienti siamo di fronte a una opinione. Se non lo somministra la questione è diversa: un medico non può mettere in dubbio le evidenze scientifiche”.
Su un totale di 400mila camici bianchi, sono circa un centinaio, secondo Fnomceo, i medici obiettori. “Numeri piccoli per un problema più grande, che riguarda l’esercizio della professione”, osserva Anelli. Ma, complessivamente – prendendo in considerazione anche infermieri, oss, tecnici – sarebbero due su dieci gli operatori che, almeno per ora, hanno detto no. I tre segnalati a Roma sono già stati contattati. Sarà la commissione disciplinare a decidere se archiviare o avviare un procedimento che può concludersi con una ammonizione ma anche con un provvedimento grave: la radiazione.
Percorso che potrebbe essere seguito da altri Ordini provinciali. Ma il condizionale è d’obbligo. Perché tanti chiedono un intervento legislativo nazionale, per non delegare tutto alle commissioni disciplinari. Lo fa, per esempio, Monica Oberrauch, presidente dell’Ordine dei medici di Bolzano. “Affronteremo la questione nella prossima riunione del consiglio direttivo – spiega Oberrauch –. Ci atterremo alle indicazioni della federazione nazionale. Ma è evidente che non può essere solo una questione deontologica da scaricare sugli Ordini”.
il caso di Bolzanoil 40% non ha ancora aderito
Il medico non deve essere un possibile vettore di contagio. Ma c’è anche il tema della libertà di scelta”. Proprio nella Provincia di Bolzano quasi il 40% degli operatori sanitari non ha dato la propria adesione alla campagna vaccinale. Risultato che, paradossalmente, viene considerato un successo. “Basti pensare – dice Oberrauch –, alla bassa percentuale di ricorso, da parte dei medici, alle vaccinazioni antinfluenzali”. Ma ci sono altre aree del Paese dove le adesioni non raggiungono il 90%. A Torino ha detto sì al vaccino Pfizer circa il 70% del personale sanitario. Tra questi ci sono gli infermieri, che in Italia sono 454mila, dei quali 395mila in attività. Difficile, per ora, sapere esattamente quanti tra loro hanno opposto un rifiuto.
È certo, però, che gli operatori che hanno scelto di non vaccinarsi si dividono in due grandi categorie: i no-vax per convinzione e gli indecisi. Tra questi ultimi, tanti tentennano perché incerti se dare più fiducia al vaccino Pfizer-Biontech o a quello di Moderna (messi a punto negli Stati Uniti) oppure a quello (europeo) di Astrazeneca. I primi due sono basati sull’uso della sequenza genetica del Covid, ossia l’acido ribonucleico, che è il messaggero molecolare (mRna) per fornire all’organismo le “istruzioni” per combattere il virus: hanno una efficacia, rispettivamente, del 95 e del 94,5%. Il terzo, tradizionale, si ferma al 62%, anche se è in grado di dare una copertura del 90% se somministrato per la prima volta in mezza dose e successivamente in una dose intera.
Chi ridimensiona il fenomeno degli obiettori è Maurizio Zega, presidente dell’Ordine degli infermieri di Roma e direttore delle professioni sanitarie al Policlinico Gemelli: “La campagna vaccinale vera e propria in Lazio partirà tra domani e il 4 gennaio. Solo allora sapremo quanti hanno aderito. Ma al Policlinico abbiamo già programmato la vaccinazione per 6.300 persone su 7mila, che comprendono anche gli specializzandi e gli studenti. Se togliamo i 549 che hanno già contratto il virus, vediamo che è coperta la quasi totalità del personale”.
Poi ci sono le rsa. Di fronte alla possibilità di defezioni, le associazioni che le rappresentano lanciano appelli agli operatori. Proprio come fa il presidente nazionale di Uneba, Franco Massi: “I lavoratori delle rsa e delle strutture per gli anziani da marzo ad oggi hanno compiuto sforzi enormi per proteggere gli ospiti e se stessi. Un vaccino efficace è un ottimo alleato del loro stesso impegno”.
il governo“Nessun obbligo ma fermezza assoluta”
Il sottosegretario Sandra Zampa chiarisce: “A me risulta un’adesione complessivamente già alta. Non ci sarà nessun obbligo ma è evidente che chi lavora nel sistema pubblico, quindi anche nella scuola e nella pubblica amministrazione, è incompatibile con una scelta no-vax. Quindi fa bene l’Ordine dei medici a pensare anche alla radiazione”. La Spagna ha annunciato la “lista nera” dei non vaccinati da condividere poi con l’Europa. “Anche noi avremo – spiega Zampa – l’anagrafe vaccinale”.
Ciaone
Un sogno tira l’altro. Quello di Padellaro era Conte che sfancula Messer Duepercento in Senato come fece con l’altro Matteo. La mia variante era il premier che trova una dozzina di senatori centristi disposti a votargli la fiducia per salvare la legislatura e il posto, dimezzando Iv, consacrando quel che ne resta come pelo superfluo della politica e liberandoci delle molestie quotidiane delle Bellanova, Bonetti e Scalfarotto. Ma a Natale ho fatto un sogno ancor più liberatorio: Conte saluta e se ne va, rubando il titolo del piano-fuffa dell’Innominabile, “Ciao”. Se ne torna ai suoi mestieri di professore e avvocato, fra gli applausi dei giornaloni e dei loro padroni che finalmente hanno trovato l’”anima” (de li mortacci loro). Così lascia ai suoi veri nemici, cioè mezzo Pd e Iv, i capaci e i competenti, apprezzatissimi all’estero e popolarissimi in Italia, il pallino della crisi. Quelli mettono subito le grinfie sui servizi segreti, scannandosi come fiere tra chi vuol darli all’Innominabile e chi preferisce l’usato sicuro di Pollari, Mori e De Gennaro. Affondano le ganasce nei 209 miliardi del Recovery e se li spartiscono alla vecchia maniera, senza task force di controllo a disturbare le mangiatoie. Chiedono per l’Italia – unico paese Ue ad ammettere la bancarotta – i 36 miliardi del Mes, lottizzandoli fra i governatori che ne fanno un sol boccone coi rispettivi cognati. Cacciano quell’incapace di Arcuri e fanno gestire i vaccini a De Luca, che se li inietta tutti i giorni, prima e dopo i pasti.
Via anche quell’impiastro della Azzolina: l’Istruzione va alla Boschi, così impara (l’Istruzione). Gli Esteri a B., gli Interni a Salvini, l’Economia a Giorgetti, gli Affari Ue a Borghi o a Bagnai, la Giustizia a Verdini grazie all’indulto speciale per svuotare le carceri (così i radicali e gli scrittori al seguito rimangiano), lo Sviluppo a Bertolaso (come sviluppa lui nessuno mai), il Lavoro a Brunetta, l’Antimafia a Siri. Resta da decidere il premier. Draghi risponde: “Fossi matto”. E parte la mattanza fra i pretendenti, che sommati insieme non fanno un terzo di Conte nei sondaggi. Poi iniziano le ricerche di una maggioranza: uno spasso, visto che i 5Stelle si fanno incredibilmente furbi e non prestano all’ammucchiata un solo voto. Passano le settimane e l’Ue, stufa di aspettare il Recovery Plan, ci cancella la prima rata. Così Mattarella manda tutti a votare, tranne i leader che han causato la crisi, barricati in casa per paura del linciaggio. Conte, visti i sondaggi bulgari, è costretto a tornare in pista. Ma, anziché farsi un partito, accetta l’offerta di guidare il nuovo direttorio dei 5Stelle. E li riporta al 30%, rubando voti a destra, FI e Pd e mandando Iv sottozero, con una campagna elettorale di un solo slogan: “Ciaone”.
La Rivoluzione d’Ottobre va guardata a occhi aperti
Emarginazione, solitudine, infamie, vessazioni. A questo va incontro chi decide di ascoltare la voce della coscienza. Non una novità: una costante della Storia. In qualunque epoca. Inclusa la nostra. E persino nelle democrazie – o simulacri di democrazia – di quei paesi che consideriamo civili ed evoluti. Cosa succede, però, quando la voce della coscienza entra, drammaticamente, in rotta di collisione con uno di quei regimi che considerano la libertà di coscienza l’unico nemico in grado di mettere a rischio la loro sopravvivenza?
Nessuno potrebbe rispondere a questa domanda meglio di Victor Serge. E non lasciamoci ingannare dal fatto che quasi nessuno ricordi questo nome: è per la sua importanza non per la sua irrilevanza che Serge patisce Gulag e damnatio memoriae, prima di morire di infarto – esule e povero – su un taxi di Città del Messico, a soli 57 anni. Nato a Bruxelles da immigrati russi, Victor è un giovane intellettuale anarchico, che arriva in Russia subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Affascinato dagli ideali rivoluzionari lo è assai meno dall’apparato ideologico e dai metodi disumani del bolscevismo. “La rivoluzione non è un pranzo di gala”, si sa. Ma da lì a sbranare dissidenti e oppositori ce ne corre. Serge comincia presto a maturare i dubbi che lo porteranno su posizioni fortemente critiche nei confronti del regime. Ai suoi occhi, la rivoluzione getta la maschera nel marzo del ’21, reprimendo nel sangue la rivolta dei marinai di Kronštadt, che, dopo un contributo decisivo alla causa, si erano ribellati, chiedendo libertà di parola, riunione e stampa, e riconoscimento dei partiti socialisti. Serge si avvicina, così, alle posizioni antistaliniste di Trockij, il quale, espulso dal partito nel ’27, verrà condannato a morte in contumacia (’36), raggiunto a Città di Messico ed eliminato (’40) da un agente della Ghepeù, la polizia segreta del regime. Serge rischia la stessa fine. Sotto sorveglianza dal ’27 e incarcerato tra ’33 e ’36, verrà espulso nel 1936, in seguito a una campagna in suo favore di un gruppo di intellettuali francesi socialisti e anarchici. Sarà l’ultimo intellettuale, imprigionato per motivi di opinione, liberato dal regime di Stalin.
Ma perché una voce così lucida, rigorosa e intellettualmente onesta non è conosciuta come quella di Orwell, Koestler, Camus o Silone? Perché è un esule e, dunque, nessuno può rivendicarlo appieno, o perché fu tutta la vita attivista e agitatore?, si chiede Susan Sontag ne “Il caso Victor Serge” (Nello stesso tempo, Mondadori 2008). Secondo la filosofa, scrittrice e saggista americana, Serge fu un “militante, in lotta per un mondo migliore, fino alla fine dei suoi giorni, cosa che lo rese esecrabile alla destra. […]. Ma fu un anticomunista abbastanza perspicace da preoccuparsi che il governo inglese e quello americano non avessero compreso come, dopo il 1945, Stalin mirasse a impadronirsi dell’intera Europa (a costo di una terza guerra mondiale). E ciò – in un’epoca in cui tra gli intellettuali dell’Europa occidentale erano diffusi i preconcetti filosovietici e la diffidenza per gli anticomunisti – fece di Serge un rinnegato, un reazionario, un guerrafondaio”. Raggiunta Parigi, Serge scriverà una lettera aperta ad André Gide – scrittore francese combattuto tra valori cristiani e ideali comunisti – deluso dalla rivoluzione vista da vicino durante il viaggio in Russia del ’36. Per evitare strumentalizzazioni, Serge affida la sua lettera a Esprit, la rivista fondata da Emmanuel Mounier nel ’32, ispirata all’umanesimo cristiano, e critica sia verso l’individualismo e il liberalismo che il totalitarismo comunista. Nella lettera – parte del Patrimonio della Fondazione Feltrinelli, che la renderà pubblica a fine mese, sul suo sito in un ebook dal titolo “Occhi aperti” – Serge denuncia la “tragedia di una rivoluzione distrutta all’interno dalla reazione”, puntando il dito contro un “regime reazionario che […] ha privato, fraudolentemente, la classe operaia della maggior parte delle sue conquiste”. “Il Vostro coraggio – scrive – è stato sempre quello di vivere a occhi aperti. Oggi non potete chiuderli di fronte a questa realtà”. È necessario – conclude – che la “grande intelligencija occidentale” […] scelga nel suo intimo tra la cecità e la lucidità. […] Lasciate che io Vi chieda, in nome di coloro che, laggiù, hanno tutti i coraggi, di avere il coraggio di questa lucidità”. Serge non dimentica di essersi salvato solo in quanto intellettuale. Un privilegiato – come scriverà a Magdeleine Marx- Paz, grande sostenitrice della campagna per la sua libertà – rispetto alle decine di migliaia di persone vittime della repressione stalinista, che nessuno conosce e in favore delle quali non ci sarà mai alcuna mobilitazione. Chapeau. E grazie alla Fondazione Feltrinelli che ha deciso di inserire il 30 dicembre – giorno della nascita di Serge – nel suo Calendario civile, per ricordare a tutti l’importanza di dire la verità, senza fare sconti, anche a costo di rimanere soli.
Trump cacciato di Casa (Bianca), la voce di Charlie e il nuovo Cile
The Donald Elezione persa e grandi complotti
La parola sconfitta non figura nel suo vocabolario: l’uomo che è diventato una celebrità televisiva pronunciando la sentenza “You’re fired”, sei licenziato, non accetta di sentirselo fragorosamente dire dal popolo alle urne. Il rifiuto di Donald Trump di riconoscere d’avere perso le presidenziali del 3 novembre segna la fine del 2020 negli Stati Uniti e rischia di turbare l’inizio del 2021. Joe Biden, l’usato sicuro del partito democratico, lo ‘Zio Joe’ di un’America per bene, l’ha battuto per oltre sei milioni di voti popolari e ha conquistato 306 Grandi Elettori:per vincere, ne bastavano 270. Ma Trump non ci sta: denuncia brogli di massa, evoca cospirazioni, segnala frodi senza prove, ricorre a giudici d’ogni ordine e grado fino alla Corte Suprema, uscendo sempre battuto; e sprona alla resistenza i suoi fan
Giampiero Gramaglia
Usa, Black Lives Matter La rivolta afroamericana
Nell’anno in cui il movimento Black Lives Matter, BLM, è stato protagonista della più forte ribellione afroamericana da 50 anni a questa parte, pochi sanno che i tre fondatori sono donne: Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi. Ad opporsi nelle piazze a BLM fin dalla sua fondazione,nel 2013, sono sempre stati i gruppi suprematisti bianchi, quest’anno più numerosi, grazie alla tolleranza del presidente Trump. Lo scorso maggio il brutale assassinio dell’afroamericano George Floyd ha riacceso la richiesta di giustizia; la protesta da Minneapolis è dilagata in tutti gli Usa. Le tre attiviste hanno fondato il movimento (Ogni vita conta) sette anni fa dopo l’assoluzione di George Zimmerman, un agente che aveva sparato all’adolescente, disarmato, Trayvon Martin. BLM ha mobilitato anche l’elettorato di colore in favore del democratico Biden.
Roberta Zunini
Le donne di Minsk Il dissenso gentile contro Lukashenko
Dall’estate scorsa le donne bielorusse rimangono in piazza. Le proteste di Minsk, le più numerose dal crollo dell’Urss nel 1991, sono scoppiate dopo le elezioni presidenziali del 9 agosto, quando, per il sesto mandato consecutivo, Aleksandr Lukashenko si è dichiarato nuovamente vincitore tra molteplici accuse di frode elettorale e violazione dei diritti umani per la brutalità delle forze dell’ordine. Avversari, dissidenti politici e migliaia di manifestanti in questi mesi sono finiti in prigione. Simbolo della resistenza sono diventate le donne, che ogni weekend, vestite di bianco, sfilano nelle strade. A capo della rivolta pacifica le tre “fidanzate di Minsk”, finite prima in cella e poi in esilio: Maria Kolesnikova, Veronika Tsepkalo e Svetlana Tikhanovskaya, candidata alle elezioni al posto del marito Serghey, blogger dissidente già in carcere.
Michela A.G. Iaccarino
Francia Paty eroe per caso decapitato da un jihadista
Samuel Paty, 47 anni, era un insegnante di storia della scuola media di Conflans-Sainte-Honorine. Il 16 ottobre 2020 è stato ucciso e decapitato da un islamista ceceno. Paty era stato minacciato sui social dai genitori di alcuni suoi alunni dopo aver tenuto una lezione sulla libertà di espressione, in cui aveva mostrato le caricature di Maometto pubblicate dal settimanale Charlie Hebdo. Nell’anno del processo per gli attentati alla redazione del gennaio 2015, con tre nuovi attacchiin pochi mesi, Paty, suo malgrado, da anonimo insegnante è diventato un simbolo della libertà di parola proprio come i vignettisti di Charlie decimati dai fratelli Kouachi sei anni fa, e la sua foto con la scritta “Je suis enseignant”, come allora si diceva “Je suis Charlie”, è brandita in nome dei valori della République.
Luana De Micco
Santiago, addio Pinochet Via alla nuova costituzione
Per un pugno di pesos, nella fattispecie 30, quelli dell’aumento del prezzo del biglietto dei mezzi pubblici di Santiago del Cile. Tanto è costata al governo di Sebastián Piñera la nuova Costituzione che vedrà la luce nel 2021 in sostituzione di quella del dittatore Augusto Pinochet e per cui si sono battuti centinaia di migliaia di manifestanti per un anno intero nelle strade del Paese considerato dal presidente “un’oasi in un’America latina in subbuglio”. Alto è stato invece il prezzo delle vite perse durante le proteste e gli scontri più duri dall’epoca della dittatura, 34 morti e 3.700 feriti. Finché il 25 ottobre con un plebiscito, il 78% i ‘Sì’, i cileni hanno approvato la nascita dell’Assemblea costituente di donne e uomini eletti dai cittadini che si impegneranno nella stesura della nuova Carta, in nome della democrazia.
Alessia Grossi
Google e i giganti del web contro il baco israeliano
Microsoft e Google hanno unito le forze con Facebook nella battaglia legale contro la società di software di sorveglianza israeliana NSO Group, dopo che un recente rapporto ha rivelato che lo spyware dell’azienda è stato utilizzato per hackerare i telefoni di dozzine di dipendenti del network arabo “Al Jazeera”. I principali giganti della tecnologia Usa, insieme a Cisco, Linkedin, VMware e Internet Association, hanno presentato in tribunale una dichiarazione a sostegno della causa di Facebook contro NSO Group, che accusa l’azienda di aver cercato di infettare più di 1.400 dispositivi con uno spyware che potrebbe essere utilizzato per rubare informazioni sugli utenti da WhatsApp, applicazione di proprietà di Facebook. Depositando un “amicus brief “- un documento presentato in tribunale da parti che non sono direttamente coinvolte nel caso – le società hanno espresso il loro sostegno alle argomentazioni di Facebook. Il brief si oppone alle argomentazioni della difesa di NSO che vorrebbe ricevere “l’immunità sovrana” perché il software viene venduto alle forze di polizia e alle agenzie di intelligence dei Paesi, e quindi non è responsabile per come viene utilizzato. Lo spyware Pegasus può essere scaricato da remoto sui dispositivi e utilizzato per tracciare telefonate e sms, basta un’email o una semplice chiamata anche senza risposta. A luglio, NSO aveva perso la sua argomentazione contro la causa di Facebook in un tribunale della California, dopo che il giudice aveva stabilito che la società non poteva ottenere l’immunità sovrana; ma ha appellato il caso alla Corte d’Appello degli Usa, dove le società tecnologiche hanno depositato la dichiarazione di “amicus”. Lo spyware di NSO è stato ripetutamente utilizzato da più entità, inclusi governi stranieri, per hackerare i dispositivi di giornalisti, avvocati, difensori dei diritti umani e dissidenti politici. Pegasus è stato utilizzato anche per hackerare l’account WhatsApp di Jamal Khashoggi, assassinato nel consolato saudita a Istanbul nell’ottobre 2018. La causa legale di Facebook afferma anche che il gruppo NSO ha facilitato l’hacking in 20 Paesi, ma ha identificato solo Messico, Bahrain e Emirati Arabi Uniti.
Il nuovo mostro post-apartheid è l’industria ArcelorMittal. La Taranto del Sudafrica
Nelle strade c’è odore di fogna. Dei bambini camminano tra i rifiuti. Da lontano si vedono i fumi grigi e neri degli impianti industriali. “Ieri ha piovuto, quindi oggi il cielo è più chiaro. Ma in genere si riesce appena a scorgere l’orizzonte”, afferma Samson Mokoena, co-fondatore dell’associazione Veja (Vaal Environmental Justice Alliance). Sharpeville, storica township a 60 km a sud di Johannesburg, è uno dei simboli del fallimento del Sudafrica post-apartheid. Il 21 marzo 1960 si verificò qui il più grande massacro degli anni dell’apartheid: la polizia sparò su migliaia di persone di colore che si erano riunite davanti al commissariato per protestare contro i “passaporti interni”, che autorizzavano o meno i neri a vivere e a lavorare nelle città. 69 furono i morti, 180 furono i feriti.
È sempre qui che, nel 1996, Nelson Mandela firmò la nuova Costituzione. Oggi la regione del Triangolo del Vaal è una delle più inquinate del paese. Jeanette Puseletse aveva 19 anni nel 1960: “Ho visto i soldati sparare più volte per assicurarsi che le persone fossero morte. Una donna incinta che conoscevo è caduta a terra. Il suo bambino è morto con lei. Poi la pioggia ha lavato il sangue”, racconta la donna di 79 anni. Per la prima volta, dopo quel massacro, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvò una risoluzione, la n.134, che condannava le politiche razziali del Sudafrica. Il Partito nazionale imprigionò centinaia di attivisti. Le organizzazioni nere abbandonarono la non violenza e costituirono dei gruppi armati. Il massacro di Sharpeville è spesso visto come l’inizio della fine del regime dell’apartheid. Jeanette nutriva grandi speranze dopo le prime elezioni democratiche del 1994: “Ma non c’è stato alcun cambiamento”, dice, tossendo. La sudafricana, che non ha mai lasciato la township, soffre di asma da dieci anni. Come lei, molte persone della regione, attraversata dal fiume Vaal, soffrono di malattie legate all’inquinamento, asma, bronchite, sinusite, infezioni dell’orecchio e del tratto respiratorio, cancro ai polmoni. Molti sono i casi di bambini nati morti. Dal 2006 la regione è stata dichiarata Vaal Triangle Airshed Priority Area (Vtapa) a causa dell’inquinamento atmosferico che supera fino a 2,5 volte gli standard sanitari internazionali. In Sudafrica, 20 mila persone muoiono ogni anno a causa dell’inquinamento atmosferico. Un rapporto del Centre for Environmental Rights (Cer) indica che l’inquinamento dovuto alla Lethabo, la centrale elettrica a carbone di Eskom, uccide da solo 204 persone ogni anno. Gli abitanti della township denunciano anche le esalazioni tossiche delle acque di scarico. “Moriremo per colpa di queste fogne”, dice il figlio di Jeanette, Jeffrey Radebe, 55 anni. Jeffrey ci mostra il grande lago che si trova dall’altro lato della strada. È il Dlomo Dam, patrimonio nazionale dal 2011: è da lì che, da più di vent’anni, risalgono i cattivi odori. Sull’altra sponda, William Choku, 60 anni, lancia la canna da pesca nell’acqua torbida. Il giorno prima ha mangiato tre pesci che aveva pescato anche se gli scarichi di acque reflue nel Vaal, con livelli estremamente elevati di E.coli, possono provocare infezioni e favoriscono la presenza di alghe blu-verdi pericolose per l’uomo e dannose alla biodiversità. Per non parlare di tutte le sostanze chimiche che vengono scaricate dalle fabbriche. “Non è buono per la salute, ma cosa possiamo farci?”, dice. All’origine di tanto inquinamento ci sono soprattutto tre aziende: il gigante sudafricano dell’elettricità Eskom, l’impianto siderurgico ArcelorMittal (ex Iscor, acquistato nel 2006 dal gruppo indiano) e l’azienda di petrolchimici Sasol.
Il Triangolo del Vaal è diventato un hub industriale dopo la seconda guerra mondiale, quando il nuovo regime dell’apartheid (1948-1994) mirava a diventare indipendente sul piano economico. Sasolburg è nata nel 1954 per accogliere gli alloggi dei dipendenti di Sasol. Le township, come Sharpeville, erano state create per fornire manodopera alle fabbriche. Molti neri vennero fatti trasferire qui con la forza. Eskom emette quasi la metà delle emissioni di CO2 del paese, Sasol l’11%. ArcelorMittal SA (Amsa) consuma l’equivalente di 39.200 piscine olimpiche d’acqua all’anno. Samson Mokoena combatte da anni con tro l’acciaieria. “Mio padre ha lavorato per Iscor per 45 anni, mio fratello per 25. Nel 1995, abbiamo potuto approfittare della politica di ridistribuzione della terra del nuovo governo e per la prima volta siamo diventati proprietari terrieri nella vicina provincia dello Stato Libero”, racconta l’attivista. Ma molto presto le famiglie scoprirono che la terra era contaminata e non si poteva coltivare. Nel 2002, hanno chiesto al tribunale di vietare a Iscor di inquinare le sorgenti d’acqua sotterranee, ma hanno perso la causa e molti sono stati costretti a svendere la loro terra, spesso alla stessa azienda, e a trasferirsi. Nel 2006, Samson Mokoena ha fondato la Veja per difendere le popolazioni della regione colpite dall’inquinamento. Nel 2014, insieme alla Cer, ha vinto una causa contro Amsa: la corte d’appello ha obbligato l’azienda a rendere pubblici i risultati di diversi test ambientali, rivelando una serie di attività inquinanti per l’aria e l’acqua della regione. Secondo un rapporto del ministero dell’ambiente del 2013, le industrie, le miniere e le discariche sono le principali fonti di inquinamento atmosferico nel Triangolo del Vaal. Il problema non si limita alle emissioni di CO2: le industrie emettono cocktail di prodotti tossici, come anidride solforosa, ossidi di azoto, di mercurio, di ozono, idrogeno solforato e metalli pesanti. Sasol è stata di recente accusata dalla Commissione sudafricana per i diritti umani di aver riversato deliberatamente del vanadio e altre sostanze chimiche nel Vaal. ArcelorMittal è responsabile della presenza di resti di catrame nelle acque sotterranee vicino allo stabilimento di Vanderbijlpark. All’inquinamento contribuiscono la vetustà delle infrastrutture e la corruzione, soprattutto nel caso di Eskom, che fornisce il 95% dell’elettricità del Sudafrica. La crisi della compagnia elettrica, con un debito di 484 miliardi di rand (circa 26,4 miliardi di euro), è il risultato di anni di cattiva gestione che hanno raggiunto l’apice sotto la presidenza di Jacob Zuma (2009-2018). “Per le sue centrali elettriche Eskom utilizza del carbone di bassa qualità.
I costi della fornitura vengono gonfiati. Il settore dei trasporti è gestito da mafie”, spiega Stephan Hofstatter, autore del libro “Licence to Loot”, uscito nel 2018. In questo contesto si aggiunge la carenza di servizi municipali di Sharpeville. I rifiuti non vengono raccolti e gli abitanti si ritrovano a dover formare dei grossi mucchi di spazzatura. Thato Lestoko, 28 anni, e una cinquantina di vicini si sono organizzati per ripulire il parco della città diventato un’immensa discarica. “Le persone bruciano carta e plastica, altrimenti si ritrovano con la spazzatura in casa”, dice. Per contrastare la cattiva gestione delle acque reflue e riparare le stazioni di pompaggio in gran parte difettose, il governo ha schierato l’esercito lungo il fiume Vaal tra novembre 2019 a febbraio 2020. Alla periferia della township, gli abitanti del quartiere di Phuma Sibethane sono ancora più poveri. Non hanno servizi igienici, né acqua né elettricità. Per scaldarsi e cucinare bruciano legna, carbone e talvolta anche gli stessi rifiuti. La pandemia di Covid-19 ha aggravato ancora di più la situazione. Il Sudafrica, con più di 23.000 morti, è il paese più colpito dal virus nel continente africano. Secondo uno studio della rivista Cardiovascular Research, pubblicato lo scorso 26 ottobre, il 18% dei decessi per Covid in Sudafrica è legato alla presenza di altre patologie dovute all’inquinamento atmosferico, contro il 15% dei decessi su scala mondiale. Cifra che sale al 30% nelle aree più inquinate come il Triangolo del Vaal.
Traduzione di Luana De Micco