Trappola delle polizze “a vita intera”: peggiori dei fondi comuni e delle gestioni in fondi

È un discorso che riguarda milioni di risparmiatori, ignari di trovarsi sul groppone strane assicurazioni, diffuse ormai in maniera epidemica. Andando a vedere cosa gli hanno venduto, scopriranno infatti di avere versato soldi in polizze denominate “a vita intera”, così chiamate perché durano finché uno le riscatta (o muore).

Per più lustri i fondi comuni d’investimento sono andati per la maggiore nell’ambito del risparmio gestito. Ma per i padroni del vapore hanno alcuni difetti: poco vincolanti, non abbastanza opachi, facilmente confrontabili. Così un piccolo genio del male ha avuto una trovata: ripescare una forma assicurativa trascurata, cioè appunto quella detta a vita intera, e trasformarla in un sostituto peggiorativo dei fondi comuni e delle gestioni in fondi. Peggiore per i clienti e quindi migliore per banche e promotori.

Si tratta di contratti dai contenuti assicurativi minimi, da perseguire semmai con altri strumenti. Per cominciare al risparmiatore i soldi vengono bloccati per un anno, che già è un bel tiro mancino.

Di fatto finisce in una specie di gestione in fondi, ma interni alla struttura che gli ha venduto il prodotto, privi degli obblighi di trasparenza dei fondi comuni italiani. Paga commissioni che possono arrivare al 4% in un anno. Non ha nessuna garanzia nei confronti delle perdite nominali e ancor meno di quelle reali.

Oltre al discorso generale ci sono poi i casi particolari. Vedi la neonata Prospettiva Sostenibile di Banca Intesa, che ti invita a sottoscriverla perché così “contribuisci a creare un mondo migliore”. Ma invece io sono di animo malvagio, per cui mi rifiuto di mettervi i miei risparmi, sordo ai bisogni dell’umanità.

Banca Intesa scrive anche che così “investi i tuoi risparmi in modo semplice”. Il che si traduce in 68 pagine con 5 tabelle per i costi, anche molto complicate, e la richiesta di “una dichiarazione di residenza a fini fiscali secondo il diritto irlandese”. Alla faccia della semplicità!

Che dire poi di 100% Yellow Life, parto congiunto dei gruppi Generali e Mediobanca? Leggiamo che “il contratto prevede la rivalutazione annuale del capitale investito […] pari al rendimento della gestione separata diminuito dell’1,5% trattenuto da Genertellife”. Peccato che spulciando fra le clausole si scopra che la rivalutazione: “Può essere negativa”. In italiano le rivalutazioni negative si chiamano svalutazioni o perdite.

Insomma, la conclusione è una sola: se la volontà del legislatore fosse tutelare i risparmiatori, prodotti simili sarebbero proibiti.

 

 

Le norme Ue sui crediti malati vanno fermate o sarà il disastro

Il prossimo gennaio impatterà sulle banche e sui loro clienti l’annunciato meteorite delle “nuove regole di default” (ne leggete nelle prime due pagine). Se ne stanno lamentando, solo a parole, quasi tutti: Abi, Assofact, banchieri, imprenditori ecc. Assenti troppi politici, novelli Ponzio Pilato che, abdicando al loro ruolo costituzionale, lasciano intendere che queste nuove regole siano questioni solo tecniche da abbandonare nelle mani di vigilanti, banchieri e Commissione europea. Altri politici, pochissimi, segnalano il grave pericolo ma sono ignorati. I regolatori rispondono come Sibille e impressionano. Andrea Enria, Presidente del Consiglio di Vigilanza della Bce, ha concluso così una risposta scritta ad una interrogazione: “(…) Pertanto anche in questo caso una revisione temporanea della norma esula dall’ambito di competenze della Bce. In ogni modo, in un’ottica di vigilanza, sarebbe deludente scostarsi da una regola comune introdotta dopo lunghe e faticose discussioni, con cui si è giunti per la prima volta a una definizione armonizzata di default a livello europeo in linea con le migliori prassi internazionali”. Come a dire: abbiamo scelto una rotta, manteniamola, anche se può portarci contro gli scogli. Poco importa se decine o centinaia di migliaia di soggetti verranno segnalati come “cattivi pagatori” e imprese e famiglie annegheranno in un oceano di fallimenti.

Cosa accade il 1° gennaio 2021? Un cliente che paghi 500 euro solo un giorno dopo il 90esimo giorno dalla scadenza viene automaticamente classificato a default insieme a tutte le aziende dello stesso gruppo. Se si tratta di una piccola/media impresa (pmi) o di una persona fisica con fidi inferiori ad 1 milione, la banca la può classificare a default se paga oltre il 90mo giorno un debito di appena 100 euro€. Non sono più ammesse compensazioni tra i conti.

La classificazione a default fa registrare il cliente come cattivo pagatore e gli impedisce di ottenere sostegno dal sistema bancario per un lungo periodo anche se nel frattempo ha regolarizzato la posizione. C’è di peggio: secondo i regolatori le banche dovrebbero estendere il default non solo alle imprese del gruppo a cui appartiene il cliente irregolare e ai suoi co-obbligati o co-intestatari con altri conti ma addirittura alle imprese, anche se non collegate, se connesse sotto il profilo economico o industriale, quelle della filiera: clienti e fornitori. L’effetto contagio è garantito.

L’Italia viene colpita in pieno da questo meteorite normativo. Il suo sistema economico è composto in grande prevalenza da Pmi poco patrimonializzate e con fidi inferiori ad 1 milione; è afflitto dall’incapacità della P.A., che è uno dei principali clienti delle imprese italiane, di rispettare i termini di pagamento contrattuali ed è caratterizzato da filiere di Pmi. Questi nuovi parametri stabiliscono gli “arretrati rilevanti” e sembrano fatti apposta per mandare in default il 50% e oltre delle imprese italiane. Se aggiungiamo poi l’effetto “contagio”, è facile pensare che, oltre ai fallimenti, aumenteranno anche i contenziosi delle imprese passate a default per colpa di un loro cliente o fornitore irregolare. Problema giuridico che i regolatori hanno ignorato.

Le nuove disposizioni insieme al calendar provisioning, ovvero l’obbligo delle banche di azzerare in tre o nove anni le posizioni a default, rendono evidente che i regolatori si stanno solo preoccupando di evitare che gli istituti di credito debbano gestire i clienti critici che invece verranno “svenduti” sul mercato degli Npl. Non pensano all’effetto recessivo che questo innescherà. Come quei protomedici e speziali che davanti un esangue malato ordinassero implacabilmente salassi, determinandone il destino.

E la massa dei nuovi Npl dova andrà? Speculazione finanziaria certamente, che utilizzerà anche il nuovo strumento del mercato unificato europeo della compra-vendita degli Npl, che a tappe forzate si vuole approvare a Bruxelles con la Direttiva Credit servicers, credit purchasers and the recovery of collateral. Poi, se questo mercato europeo degli Npl si rivelerà un disastro economico, aprendo anche la porta ad appetiti criminali, l’Europa ci penserà solo tra qualche anno, con appositi studi. Anche questo abbiamo letto nei documenti della Direttiva. Prevenire i rischi criminali o terroristici non è di moda a Bruxelles. Anche la gloriosa “arte del banchiere” basata su competenza, prudenza e sensibilità non è di moda, purtroppo.

La politica deve immediatamente assumere provvedimenti urgenti per evitare un tracollo annunciato. Se non agisce, nell’ignavia generale, rischia di dover affrontare una crisi economico-sociale non controllabile.

Da gennaio stop a quelli in rosso: stipendi a rischio

Dal primo gennaio cambiano le regole per la gestione dei conti correnti in rosso: gli addebiti automatici non saranno più consentiti se i clienti non avranno sufficienti disponibilità. In altre parole, se sul proprio conto si hanno la domiciliazione delle utenze di casa, come il telefono, il gas o luce, ma anche la rata del mutuo o l’accredito dello stipendio, nel caso in cui si verificasse uno scoperto la banca non pagherà più le bollette. Ma c’è di più. Dopo tre mesi di mancati pagamenti da 100 euro in su, la filiale sarà costretta a segnalare il correntista al Sistema di informazione creditizie (Sic) che ai più è tristemente conosciuta come “centrale rischi”. Vale a dire un giro infernale per chi ci si ritrova iscritto: per 36 mesi, infatti, si resterà esclusi dal circuito creditizio, risultando così difficile ottenere anche l’accredito dello stipendio. La pesante novità è la conseguenza dell’entrata in vigore delle nuove norme dettate dall’European Banking Authority (Eba), l’autorità bancaria europea, per allineare tutti i Paesi Ue alle stesse norme in tema bancario. Non solo perché si sta cercando di limitare il sovraindebitamento di famiglie e imprese e, di conseguenza, arginare la montagna dei crediti deteriorati delle banche (Npl). Ma anche perché nel Nord Europa non esiste la possibilità per i correntisti di andare in rosso, così come è impossibile ottenere un finanziamento tramite lo scoperto di conto corrente, prassi da anni ampiamente consolidata da noi soprattutto in favore dei piccoli imprenditori. Una certa flessibiltà che le banche hanno sempre avuto anche con i piccoli rossi delle famiglie alle quali le filiali hanno sempre pagato gli addebiti delle utenze anche se in quel momento sul conto non c’erano soldi, per chiedergli di rientrare in pochi giorni. Ma da venerdì prossimo tutto questo non sarà più possibile.

Si tratta, insomma, di nuove misure che vale la pena capire bene, vista la portata delle loro azioni anche sulle più semplici attività quotidiane come i pagamenti di utenze, stipendi, mutui, affitti, contributi previdenziali, rate di finanziamenti che potrebbero venire bloccati anche con un rosso di poche centinaia di euro. Il consiglio, obbligato, è di onorare con puntualità le scadenze di pagamento previste dal contratto e il piano di rimborso debiti, senza trascurare gli importi di modesta entità, per evitare di essere considerato un cattivo pagatore e di rendere più difficoltoso l’accesso al credito.

 

Niente rinnovi né futuro: il Natale nero dei museali

“Era il pomeriggio di giovedì 17 dicembre, stavo aspettando la comunicazione per decidere che fare con i regali di Natale. Inutile dire che ho dovuto ridimensionare le idee iniziali”: Sara, nome di fantasia, lavora nei musei di Firenze per Ales spa, una società strumentale del MiBACT, partecipata al 100% dal ministero stesso. Si occupava di servizi al pubblico, doveva prendere servizio a marzo 2020, dopo aver superato una selezione nel 2017. Ma il COVID ha rimandato tutto, per mesi non ha avuto nulla. Ha preso servizio, con tante e tanti altri, in settembre “solo quattro mesi di contratto, ma il rinnovo era garantito, mi spiegarono”.

Come tutti i suoi colleghi il cui contratto scadeva il 31 dicembre 2020, pochi giorni prima di Natale ha ricevuto una comunicazione, non firmata, dalla mail dell’amministrazione: il suo contatto non sarà rinnovato. “Era già successo a marzo e, ammetto, me lo aspettavo. Ma a marzo, almeno, ci avevano mandato una comunicazione scritta che garantiva la riassunzione al termine dell’emergenza. Ora niente di tutto ciò”. L’azienda, contattata telefonicamente, spiega che esiste già un accordo in tal senso con Cgil, Cisl e Uil e che la riassunzione avverrà in presenza di nuovi contratti di servizio “in fase di sottoscrizione”.

La situazione del mancato rinnovo collettivo ha fatto rumore, dati i numeri e il tempismo, arrivando in Senato con una interrogazione a firma Virginia La Mura (M5S). Sono più di novanta i lavoratori coinvolti: giovani e meno giovani, alcuni con alta specializzazione, a Roma, a Firenze, a Napoli e in tutta Italia. “Alcuni di loro lavoravano da anni e stavano aspettando che il loro contratto venisse convertito in indeterminato, come promesso dall’azienda, altri, come me, lavoravano da pochi mesi. Ma sono fortunata -conclude Sara – ci sono colleghe e colleghi con figli nella stessa situazione”.

Da Ales, contattati dal Fatto, inducono alla calma: ci spiegano che il mancato rinnovo dei contratti è dovuto a una mancata commessa del ministero che, con ogni probabilità, arriverà non appena riapriranno i servizi al pubblico. Quella attuale scade appunto il 31 dicembre. Il ritardo fa pensare che i musei non riapriranno alla scadenza del DPCM, il 15 gennaio: ma dal MiBACT non trapelano informazioni a riguardo. Il caso Ales è emblematico, essendo un’azienda partecipata al 100% dallo Stato, ma non è certo isolato. Laura, altro nome di fantasia, lavorava al Colosseo occupandosi di didattica museale per Coopculture, l’azienda concessionaria: “Noi che lavoriamo con partita Iva siamo il doppio dei dipendenti che si occupano di educazione museale e da marzo non siamo più stati richiamati: siamo esclusi da tutti i sussidi del MiBACT, non vediamo un soldo da maggio, tanti hanno cambiato lavoro in fretta. A dicembre di norma ci arrivava una lettera d’incarico per l’anno a venire e finora non abbiamo visto nulla”. Per chi si occupa di didattica museale la partita IVA con collaborazioni per nulla occasionali è la norma e tantissimi di loro, da Torino a Napoli, sono esclusi da tutti i sussidi finora stanziati, salvo quelli generici, ci spiegano i responsabili del gruppo “Professione: Educatore Museale”, nato proprio durante il lockdown per far fronte alla situazione: “Solo chi non conosce la realtà dei musei può pensare che sia utile tagliare il personale ora: se gli istituti restano vuoti durante i mesi di chiusura, chi potrà programmare la riapertura? Si deve costruire una fruizione museale diversa, rinnovare l’interazione col pubblico. Senza personale, si rischia di offrire servizi di bassissima qualità quando si riaprirà”.

Poi c’è il caso dei cosiddetti “garantiti”. In tanti attendono la cassa integrazione da mesi e passeranno un Natale senza soldi. Luigi Napolitano, del sindacato RSA Cobas-Lavoro Privato, lavora a Pompei e attende ancora gli arretrati di settembre: “Siamo andati di nuovo in presidio all’INPS di Napoli, come già accaduto in novembre per sbloccare un precedente ritardo di quattro mesi. Tutta questa situazione diventa ogni giorno più insostenibile. Dentro i musei e i parchi archeologici esistono diseguaglianze profonde tra lavoratori che svolgono le stesse mansioni: abbiamo fatto guadagnare allo Stato e alle imprese miliardi di euro in questi anni. Perché, di fronte a ciò che sta accadendo, invece di limitarsi a dare sostegno pubblico ai concessionari il Ministero non pensa a internalizzare chi come noi da vent’anni è alle dipendenze di un oligopolio di aziende e cooperative private?” si chiede.

Servirebbe un piano, ma da mesi ai lavoratori sembra solo che si vada avanti alla giornata. E se lo Stato non dà l’esempio, una volta sbloccati i licenziamenti è facile prevedere cosa potrà accadere. Nel frattempo, le porte dei musei italiani restano chiuse. E potrebbero restare chiuse ancora a lungo, in assenza di comunicazioni e commesse, mentre per centinaia di lavoratori, che vanno ad aggiungersi alle migliaia già colpite dalla crisi nei mesi scorsi, si aprono le porte di un Natale difficile.

Zero solidarietà Ue. Gli “Npl” saranno un guaio per il Sud

Le recenti regole Ue sul credito non depongono a favore della coesione europea. Di fronte alla sfida dell’integrazione bancaria, ancora una volta l’Unione ha deciso di non decidere per una ragione semplice: alcuni Stati, Germania in testa, hanno un’economia reale più solida e rischi creditizi assai più limitati di quelli del Mediterraneo come l’Italia. Dunque, se a causa del coronavirus si dovesse concretizzare l’apocalisse ipotizzata dalla Bce, con la triplicazione delle attuali sofferenze bancarie a 1.400 miliardi, i Paesi forti non condividerebbero l’onere di quelli fragili.

Dopo un graduale miglioramento negli ultimi anni, a causa del Covid i crediti deteriorati (Non performing loans, Npl), delle banche europee hanno registrato un’inversione di tendenza a causa di nuove insolvenze. A giugno nelle banche Ue, al lordo degli accantonamenti, erano saliti a 588 miliardi dai 585 del primo trimestre, ma ancora sotto i 646 miliardi di fine 2019. La percentuale degli accantonamenti sui rischi di credito è migliorata nel secondo trimestre 2020, con la media Ue attestata al 63,4% (su 100 euro prestati, copro la perdita su 63,4), in crescita del 4,5% su base annua. A giugno 2020, gli Npl delle banche italiane ammontavano a 138 miliardi, 67 al netto delle coperture: erano 356 (191 netti) a giugno 2016. Le sole “sofferenze” (i crediti inesigibili) nette sono calate da 88 a 27 miliardi spesando perdite e vendendo portafogli di Npl per oltre 200 miliardi negli ultimi cinque anni.

Ora si riparte. Il 12 ottobre Andrea Enria, capo della vigilanza della Bce, ha detto che “in uno scenario grave con una seconda ondata di contagio potrebbero esserci fino a 1.400 miliardi di crediti inesigibili”. Un’analisi datata 16 dicembre di Mediobanca Securities ha calcolato che se ciò avvenisse significherebbe che il 9% dei crediti bancari Ue sarebbe a rischio, erodendo di 4 punti percentuali il capitale di vigilanza degli istituti. Questo innescherebbe una spirale di svalutazioni e perdite che colpirebbe la redditività delle banche, già ai minimi in Italia. Secondo l’analisi dell’Autorità bancaria europea sui bilanci al 30 giugno di 135 banche, tra cui 11 italiane, solo Mediobanca e Intesa Sanpaolo avevano un rapporto costi/ricavi sotto la media Ue del 66,6%, mentre Mps e UniCredit – i due istituti che il Tesoro vorrebbe fondere – svettano con l’86,9% e l’82,2%.

Secondo la Bce, a giugno le sofferenze lorde per le banche italiane erano pari al 6,3% dei crediti, a fronte della media Ue del 2,8%, con la Germania all’1,2%. Nel solo settore privato, in Italia le sofferenze erano all’8,2%, in Germania al 2. Gli accantonamenti per rischi su crediti degli istituti italiani valevano il 59,8% dei prestiti dubbi, in Germania l’89. Se le banche italiane volessero portare le loro riserve al livello delle concorrenti tedesche, dovrebbero mettere da parte 40 miliardi. Un onere insostenibile, che spingerà inevitabilmente a nuove vendite di crediti deteriorati a operatori privati o a una bad bank pubblica. La riscossione avrà pesanti effetti sui debitori, sulla tenuta sociale e sull’economia nazionale.

Il 16 dicembre la Bce ha rinnovato le limitazioni imposte alle banche sulla distribuzione di dividendi, raccomandando che gli istituti conservino capitale a sufficienza per supportare l’economia reale e assorbire le perdite. Lo stesso giorno, nella sua comunicazione sull’impatto del Covid sulle sofferenze bancarie, la Commissione Ue ha definito una strategia per lo sviluppo di mercati secondari per i crediti deteriorati e la revisione delle norme sull’insolvenza e il recupero crediti. Bruxelles però non ha voluto creare una bad bank europea ma punta su una rete di bad bank nazionali. Ogni Paese, insomma, dovrà risolvere da sé i propri problemi e sopportare le relative perdite. Il rischio concreto per gli Stati del Sud è che la riscossione dei loro Npl divenga un grande affare per gli operatori calati dal Nord.

Banche, la stretta europea che può schiantare i debitori

Se già la pandemia non fosse bastata a mandare al tappeto decine di migliaia di imprese e attività, dal primo gennaio il knock out per la parte più fragile del sistema economico e sociale del Paese potrebbe arrivare dalle nuove regole europee sul credito. Con un uno-due micidiale, i debitori in difficoltà rischiano di soccombere per la coincidenza tra l’entrata in vigore dell’identificazione dei crediti deteriorati e la stretta del cosiddetto calendar provisioning sulla copertura obbligatoria per le banche dei finanziamenti a rischio. Sono 2,7 milioni i clienti del sistema bancario con il fiato sospeso, quelli che, con la crisi Covid, hanno presentato richieste di moratoria su prestiti, mutui e finanziamenti per un valore totale di 302 miliardi. Ma questa gragnuola di colpi rischia anche di innescare una nuova stretta creditizia potenzialmente letale per il sistema economico messo in ginocchio dal coronavirus.

Le difficoltà economiche del Paese sono datate, il coronavirus le ha esacerbate causando una recessione simile per entità a quella scatenata da una guerra. Nei primi due trimestri dell’anno il Pil italiano è calato su base trimestrale del 5,5% e del 12,8%, poi in estate è rimbalzato del 16,1%. Ora però con la seconda ondata e i rischi di una terza la congiuntura è tornata a frenare.

La platea dell’Italia esposta col credito che potrebbe andare in crisi è vasta. Le cifre le ha messe in fila il direttore generale dell’Associazione bancaria italiana, Giovanni Sabatini, nell’audizione del 14 dicembre alla Commissione parlamentare sul sistema bancario. Al 27 novembre erano 1,2 milioni le richieste di accesso presentate dalle imprese alle moratorie di legge o concesse volontariamente dagli istituti di credito, per un controvalore di 195 miliardi, oltre a 1,5 milioni di domande presentate dalle famiglie per 97 miliardi, delle quali oltre 220mila chiedevano al Fondo pubblico di solidarietà la sospensione delle rate del mutuo sulla prima casa, per un importo medio di 94mila euro ciascuna. A queste si aggiungono le richieste di garanzia dei finanziamenti al Fondo per le piccole e medie imprese del ministero dello Sviluppo economico: con le misure di emergenza per la pandemia, dal 17 marzo al 10 dicembre sono arrivate oltre 1,45 milioni di domande per 116 miliardi, di cui oltre un milione per prestiti fino a 30mila euro. Infine ci sono le garanzie Sace attive dal 20 aprile: al 9 dicembre erano stati erogati circa 18,2 miliardi su 1.092 richieste.

Su questo esercito che in parte già arranca, ha spiegato Sabatini, da gennaio si sta per abbattere il fuoco incrociato di due misure europee “introdotte da anni in un contesto completamente diverso da quello attuale” che rischiano “di avere gravi conseguenze sul tessuto economico dell’Italia, da un lato limitando fortemente la possibilità per le banche di offrire all’economia l’indispensabile sostegno per uscire dalla crisi e, dall’altro, compromettendo irrimediabilmente la situazione finanziaria di clienti che si trovino a versare in difficoltà, anche solo temporanea”. La prima riguarda l’identificazione dei crediti deteriorati e la definizione di default, la seconda il calendar provisioning per la copertura obbligatoria dei finanziamenti a rischio.

Con la revisione delle regole sul default, le banche dovranno dichiarare inadempienti le imprese in arretrato di pagamento per oltre 90 giorni su importi superiori a 500 euro, riferiti a uno o più finanziamenti e che rappresentino più dell’1% dei debiti totali. Per le persone e le piccole e medie imprese con crediti inferiori a un milione, l’importo del pagamento scaduto che fa scattare il default è di soli 100 euro, se superiori all’1% del debito totale. In base alle nuove regole, dal default di una posizione scatterà automaticamente quello di tutti i finanziamenti del cliente nella stessa banca. Inoltre, a differenza del passato, i margini attivi dell’impresa su altre linee di credito non potranno più essere usati per compensare gli arretrati ed evitare l’inadempienza. Ancor peggio, la banca non potrà aiutare i clienti con dilazioni o variazioni delle condizioni perché saranno considerate cause di default tutte le “ristrutturazioni onerose” che riducono dell’1% o più gli incassi rispetto al debito originario. Ma a finire in default saranno tutti i co-intestatari del debitore inadempiente e quelli legati da connessioni legali o economiche. I nuovi criteri si applicheranno a tutti i debitori, compreso lo Stato che rischia di essere classificato in default per i suoi cronici ritardi nei pagamenti.

Finire sulla lista dei cattivi pagatori gestita dalla Centrale dei rischi della Banca d’Italia non è un problema da poco, perché impedisce a chi vi viene iscritto di accedere ad altre linee di credito. L’Abi ha così chiesto a Parlamento e Governo misure temporanee come la concessione di più di 90 giorni prima della classificazione delle rate tra quelle scadute, l’innalzamento del valore delle soglie e l’introduzione di criteri meno stringenti per le ristrutturazioni dei crediti.

Ma non basta. Dopo anni di preparazione, da gennaio entreranno concretamente in vigore le regole varate a luglio 2018 dalla Banca centrale europea e nel 2019 dalla Commissione Europea sul calendar provisioning, che cambiano il calcolo delle coperture obbligatorie per le banche dei crediti deteriorati, accelerando la loro svalutazione automatica. La Bce chiede alle banche di svalutare completamente in tre anni i crediti deteriorati e in 7-9 anni se coperti da garanzie per ripulire i bilanci degli istituti dai rischi ed evitare crack come quelli seguiti alla grande crisi del 2008-2009.

“La nuova definizione di default e il calendar provisioning sono tra loro fortemente interrelati”, ha spiegato Sabatini ai parlamentari. “Un incremento dei crediti classificati a sofferenza, per effetto della nuova definizione di default, induce un maggior onere di coperture obbligatorie, i cui effetti restrittivi sull’economia tenderebbero a loro volta a indurre un effetto negativo sulla qualità degli attivi bancari”. Già a febbraio dell’anno scorso uno studio di Equita Sim calcolava che l’applicazione del calendar provisioning avrebbe portato a un taglio nell’erogazione del credito pari al 15% in meno in sette anni, con una riduzione cumulata dei prestiti nell’ordine di 185 miliardi. Queste regole, ardue da sopportare in una situazione economica normale, diventano ora un cappio al collo per banche e clienti piegati dalla pandemia. La situazione rischia di spingere molte imprese e famiglie fuori dai canali del credito ufficiale, consegnandoli nelle mani di intermediari senza scrupoli o addirittura dell’usura.

Il 9 settembre era stato il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, a spiegare i rischi del calendar provisioning alla Commissione parlamentare: “Una norma sbagliata che applicata nel post Covid è come una bomba atomica”. Anche dalle associazioni di categoria si è alzato un coro di proteste. Commercianti, artigiani, piccole imprese chiedono il rinvio o la cancellazione delle norme. La Confederazione nazionale dell’artigianato sollecita il Governo a trovare soluzioni a livello europeo che non vanifichino la proroga della moratoria e il potenziamento del Fondo di garanzia per le Pmi previsti nel disegno di legge di bilancio. All’Abi, il capo della vigilanza bancaria europea, Andrea Enria, ha però ribadito che sarebbe sbagliato rinviare o alleggerire le nuove regole. Secondo la Cgia di Mestre “l’applicazione di queste misure indurrà moltissimi istituti di credito ad adottare un atteggiamento di estrema cautela nell’erogare i prestiti, per evitare di dover sostenere perdite in pochi anni. Insomma, per tantissime Pmi è in arrivo una nuova stretta creditizia”.

Essere attrici “Aiuto, domani c’è il provino. Se non mi prendono mi ammazzo! Anzi, no”

Domani è il gran giorno! Il regista vuole vedermi. Sembra non sia proprio un provino. Lui, il regista, ti incontra, ti scruta e capisce tutto. L’importante è essere sé stessi. Lui non vuole gente che reciti, vuole te così come sei.

Ma io chi sono? Sono una ragazza normale, perché dovrebbe prendere me? Forse dovrei essere meno normale, ma come faccio? Sono nata normale, sono normale di famiglia e invece le attrici, quelle che fanno colpo su registi e su produttori, fanno cose imprevedibili: “Questa è pazza però è brava!”. Magari è solo pazza, però la prendono! Potrei aggredirlo: “Guardi, a me non frega niente di lavorare con lei, quello che fa mi fa schifo!” – “Allora perché è venuta?” – “Non lo so, passavo di qui. Cercavo un dentista, lei è dentista? No? Allora addio!”. No, troppo aggressiva.

Magari fingermi assente, pause eterne come nei film impegnati di Bergman. Lui mi fa le domande e io rispondo a monosillabi con un filo di voce: “Come si chiama?” – “Non so, io non ho un nome, mi chiamo come vuole. Io sono come l’aria e il vento, vivo perché gli altri mi respirano” – “Sì ho capito, ma che fa nella vita?” – “Non lo so, che cos’è la vita? Forse è solo un sogno e io sto dormendo” – “Allora, torni quando si sveglia! Avanti un altra!”.

E se lo seducessi? “Eccomi, sono tutta tua. Ho passato la notte a pensarti, non resisto più!”. E se mi prende alla lettera? Il mio ragazzo mi lascia, lui come me, è normale. Però devo colpirlo. Potrei andare lì nuda “Ma che fa tutta nuda?” – “Ah sono nuda? Non mi ero accorta, sono cosi distratta!”.

Io gli dico che se non mi prende mi ammazzo, minaccio di spararmi, fingo una crisi epilettica e urlo come una pazza. Un bel suicidio funziona sempre! Bip. Ops, un messaggio: “Il provino della pubblicità dei Rotoloni Regina, è fissato per domani alle 8.00. Presentarsi senza trucco e vestite normali”.

 

Scienze e lettere. Il tempo non si misura, si vive. Per capire il mondo, meglio i romanzi dei numeri

Sto citando da pagine non facili e non dimenticabili di un libro nuovo e diverso.

“Può il tempo, che non ha direzione – essere definito come una linea retta? Come fa il tempo ad esser tempo se, abitandoci, è sempre fuori dal tempo? Naturalmente non si intende affermare che il tempo in quanto tale è durata. La scienza computante dei numeri, degli spazi, dei normi, non sa nulla della nostra vita interiore, del fluire interno del tempo, come d’altronde nulla conosce degli eroismi, della passione, dell’amore”.

Sto citando dalle pagine belle e difficili di un testo che, dai tempi di Franco Basaglia e dei giovani psichiatri di quella rivoluzione, ha spostato e cambiato pezzi fondamentali della visione e della ricerca psichiatrica.

Il libro è Quando vince l’ombra, problemi di psicopatologia clinica, di Bruno Callieri (Edizioni Universitarie Romane), con introduzione di un altro importante psichiatra e protagonista del cambiamento, Mauro Maldonato, e il contributo di molte voci nuove, giovani e anziani.

Importante, perciò, un’altra citazione, che spiega il vasto orizzonte di queste pagine, dove si rimuovono con coraggio e senso di sfida le incrostazioni di vecchie scuole. “Per comprendere il mondo, più che alla purezza teorica della filosofia e della scienza, è alla potenza evocativa della letteratura che bisogna affidarsi. La gran parte dei romanzi ha per soggetto principale il tempo. Ma l’esperienza del tempo, come dimostra la grandiosa ricerca di Proust, per quanto si cerchi di isolarla, non la si può catturare.

Il tempo è il centro assoluto e insanabile della vita”.

Sono frammenti dal testo che servono a suggerire al lettore la lezione di Callieri e degli altri autori che, come pagando un debito al maestro, partecipano al grande seminario che è questo libro. Poco prima il prefatore aveva indicato Franco Fornari, un grande degli anni Sessanta, per aver posto sulla scacchiera due pezzi essenziali del grandioso gioco, l’io e la mediazione (se sia possibile e come) fra “mondo interno” e “mondo esterno”.

Più avanti il tema diventerà il rapporto incombente e misterioso fra spazio e tempo. E più avanti ancora ci aspetta la domanda: “Che cosa vuol dire accadere? E come accade quel che accade quando io incontro un volto che piange, ride, tace, guarda, si astrae?”.

Comincia qui la ricerca sulla opposizione astratto–concreto, che ci pota a chiederci che cosa sia l’attesa. Ecco un libro che, se i viaggi fossero regolari, non potremmo dimenticare in treno.

 

Grande opera da culto che il Recovery non scalfisce

La notizia è passata un po’ in sordina, eppure illumina meglio di tanti dibattiti la retorica vuota che circonda il Recovery fund e la sua “pioggia di miliardi” per l’Italia. Da mesi grande stampa e commentatori martellano con il mantra che è l’occasione da non sprecare: bisogna “spendere bene” questi soldi. Eppure questo discorso non vale per le grandi opere.

Nei giorni scorsi la Commissione Trasporti della Camera ha approvato all’unanimità (tranne i 5Stelle, che sono usciti dall’aula) il contratto di programma del Tav Torino-Lione. Il testo è essenziale per proseguire l’opera e definisce il perimetro giuridico-amministrativo di ruoli, responsabilità e impegni dei soggetti coinvolti: le Fs, il ministero dei Trasporti e Telt, la società italo-francese incaricata di costruire l’opera. Nelle audizioni sono emersi una valanga di nodi critici: la ministra De Micheli ha ammesso che i lavori sono in ritardo e l’opera sarà conclusa forse nel 2032 (non 2029); l’ad delle Fs Gianfranco Battisti ha spiegato che dei fondi stanziati per il tunnel di base, l’82% è stato messo dall’Italia (il tunnel, peraltro, è per due terzi è a carico dell’Italia, anche se per due terzi è Oltralpe); l’Authority dei Trasporti ha lanciato l’allarme visto che Telt è di diritto francese e qualsiasi contenzioso riguardo allo sfruttamento dell’opera sarà materia dei giudici transalpini (“uno schema sbilanciato a sfavore dell’Italia”). Nei mesi scorsi la Corte dei conti Ue ha stroncato l’opera: costi saliti nel tempo; ritardi; benefici ambientali nulli o negativi per almeno 50 anni; stime di traffico gonfiate e inattendibili; sostenibilità economica assente.

Tutto questo non importa, il Tav proseguirà imperterrito, anche perché il contratto serve a negoziare con Bruxelles l’aumento – ma per ora è solo un annuncio – dei fondi Ue fino al 55% dei costi. Maggioranza e opposizione hanno gridato all’“autolesionismo” del M5S, come se l’aumento dei fondi Ue fosse un regalo. Nel Recovery Plan italiano c’è molta Alta Velocità ferroviaria (dalla Napoli-Bari a quella siciliana). Quello per la grandi opere è un culto laico che resiste al tempo. E che il Recovery forse non scalfirà neppure.

“Eja, eja, ballalà” la duciona danzerina lascia la politica

 

PROMOSSI

Il cervello è mio. Elisabetta Canalis interviene nella querelle Wanda Nara-Luciana Littizzetto, a proposito della “censura buonista del politicamente corretto” che sta arrivando anche in Italia. “Lo dico vivendo in Usa, un Paese vittima di questa ipocrisia in cui fare una battuta e avere un’opinione che sia diversa da quella del gregge equivale a essere tacciati di razzismo, omofobia o misoginia. Sono stata ‘vittima’ e oggetto di diverse battute di Luciana Littizzetto e ne sono onorata perché la considero una grande attrice comica ed un personaggio televisivo irriverente e mai volgare. Mi sono fatta delle gran risate e mai ho pensato di essere stata offesa come donna”. La parte interessante è questa: “Smettiamola di omologarci al pensiero delle star di Hollywood o di chi ci impone di pensarla a senso unico. Abbiamo un cervello e un senso dell’ironia che non possiamo reprimere in nome delle etichette che gli altri ti vogliono dare. State attenti ai modelli che ci vengono imposti e siate sempre dei pensatori liberi”. Velina a chi?

Sale e scende la marea. La casa di produzione Lux Vide ha annunciato un ambizioso progetto per il 2021: il remake di Sandokan. La serie diretta da Sergio Sollima, e tratta dal Ciclo dei pirati della Malesia di Emilio Salgari, nel 1976 fu uno dei più grandi successi della storia della nostra tv. Ora la star turca Can Yaman avrà il difficile compito di interpretare Sandokan e Luca Argentero sarà Yanez de Gomera, ruolo che fu di Philippe Leroy. Il remake sarà un libero adattamento in chiave moderna dei romanzi di Salgari che, dicunt, darà maggiore spazio al punto di vista femminile con eroine come la perla di Labuan, lady Marianna (non si sa ancora chi prenderà il posto di Carole Andrè). La cosa non ci dispiace e probabilmente non dispiacerebbe nemmeno a Salgari, le cui protagoniste (specie nel ciclo dei Corsari), sono tutte straordinariamente ardimentose: basta pensare a Honorata, la duchessa di Weltrendrem che diventa “La regina dei Caraibi”, dopo essere stata abbandonata dal Corsaro nero in mezzo al mare perché si scopre è che la figlia del perfido Wan Guld. E Jolanda, l’intrepida figlia del conte di Ventimiglia che salva Morgan nell’isola infestata dai cannibali. O alla Marchesa di Montelimar, l’ardente e ardimentosa innamorata del Corsaro Rosso. Aspettiamo con ansia: si deve sapere da subito che l’aitante Can Yaman, possibilmente mezzo svestito come il vecchio Kabir, non si potrà esimere dall’uccidere la tigre.

 

BOCCIATI

Mussolini ballerini. Alessandra Mussolini è entusiasta della danza, scoperta grazie alla partecipazione a Ballando con le stelle: “È stata è stata un’esperienza fantastica”, ha detto in un’intervista al Tempo, “non avevo mai ballato prima e non è che avessi fatto corsi di danza. È stata un’esperienza anche estrema, a suo modo, perché dovevi imparare una coreografia da professionista. Mi ha fatto conoscere tanti aspetti della mia personalità che ancora non conoscevo o magari erano rimasti nascosti”. La nipote del Duce dice che la sua lunga carriera politica finisce qui: “Si chiude un ciclo: farò cose nuove”. Dunque addio alla politica e “senza rimpianti”. Nemmeno da parte nostra, va detto con sincerità. Dunque: Eja, eja ballalà! (ps: se ai tempi del nonno ci fosse stata la trasmissione della Carlucci …)

Pride&Prejudice L’ultima serie firmata Shonda Rhimes, “Bridgerton”, è il regalo di Natale di Netflix ai suoi abbonati. La saga è ispirata ai “romanzi” regency di Julia Quinn (vabbé, non è Georgette Heyer) e racconta un’improbabile Inghilterra multietnica nei primi decenni dell’Ottocento. Protagonisti conti, marchese e duchi di colore: financo la regina è nera! Poveri noi.