L’inno della Wehrmacht a una festa di Zemmour

Lo scorso settembre Vincent Bresson, 27 anni, giornalista freelance per Le Monde e Slate, si è iscritto con il nome di Vincent Carayon al sito della Génération Z, il movimento di giovani sovranisti che sostengono Eric Zemmour alle Presidenziali francesi, chiedendo di poter dare una mano alla campagna. Si era detto che la pelle bianca, gli studi universitari e una buona educazione cattolica lo avrebbero aiutato a entrare nel gruppo. E così è stato. Nessuno ha mai controllato la sua identità. Per quattro mesi Bresson incolla manifesti di campagna con i giovani di Génération Z. Entra nel giro di chat di una dozzina di gruppi Telegram. Si ritrova persino a dormire nel quartier generale di campagna di Zemmour, in rue Jean Goujon, a Parigi, che viene custodito anche di notte per evitare problemi. Insomma, diventa uno di fiducia.

“All’inizio si trattava di realizzare un ritratto dei giovani di Génération Z. Ma poi mi sono ritrovato ad avere accesso a strategie che sarebbero dovuto restare segrete”, ha spiegato. Si sorprende per la mancanza di sicurezza: “Avrei potuto frugare nella scrivania di Zemmour, ma non l’ho mai fatto. Sono un giornalista, non una spia”. Dei quattro mesi di immersione nel mondo di Zemmour ne ha fatto un libro Au coeur du Z (Éditions de la Goutte d’Or), di cui ieri Le Monde ha pubblicato alcuni passaggi. Bresson è stato testimone di scene di quotidiano razzismo. Non è una sorpresa: il polemista, che negli ultimi sondaggi raccoglie il 14-15% delle intenzioni di voto al primo turno di aprile, contendendosi con Marine Le Pen e Valérie Pécresse l’accesso al ballottaggio, è già stato condannato tre volte per incitamento all’odio razziale, l’ultima a gennaio. Zemmour difende la teoria complottista della “sostituzione etnica”: “Ufficialmente sostiene il principio di assimilazione: se sei nero o di origini arabe – dice Bresson – e ti adatti alla cultura francese, allora puoi diventare un francese come gli altri. In realtà, molti suoi seguaci ti vedranno sempre come un francese di serie b”. Bresson racconta di aver sentito usare la parola “negro” senza che “nessuno battesse ciglio” e di aver partecipato a una festa di fine anno in cui si cantava un inno della Wehrmacht.

A dicembre, arrivando in auto a Villepinte, fuori Parigi, per il primo meeting di Zemmour, ha sentito Sophie Clavel, la segretaria di Zemmour, e Gilbert Payet, il consulente finanziario, rivolgersi ai parcheggiatori, tutti giovani di colore, chiamandoli “Mamadou”, un nome africano usato come insulto razzista in Francia. Bresson ha anche scoperto l’esistenza di “WikiZédia”, un gruppo che aveva messo a punto una “strategia segreta” per migliorare l’immagine di Zemmour sul web e della sua pagina Wikipedia, visionata più di 5 milioni di volte nel 2021: “Una lobby digitale – spiega – che riesce a raggirare le regole della web enciclopedia”. Il lavoro di questo “esercito dell’ombra”, guidato da Samuel Lafont, direttore della strategia digitale di Zemmour, consiste a imbellire il ritratto del candidato, aggiungendo elementi a suo favore e eliminando i più imbarazzanti. I “wikizédiani” si introducono poi nei gruppi Facebook e Twitter più vari alla ricerca di potenziali elettori, tra i tifosi della squadra di calcio di Lens, nel nord deindustrializzato della Francia, e i fans di Johnny Hallyday, la rockstar scomparsa nel 2017. Da ieri la pagina Wikipedia in francese di Zemmour presenta un avviso in rosso per avvertire i lettori che l’articolo non rispettava il suo principio di neutralità.

Bombe su asilo e liceo e accuse incrociate Usa-Russia

Cinquecento esplosioni nel Donbass contate dalla missione Osce, scambi d’accuse fra lealisti e separatisti, un asilo e il cortile di un liceo colpiti come numerosi altri edifici, almeno quattro feriti, un drone ucraino abbattuto dalle milizie filo-russe: la pace ucraina resta fragilissima. Nato, Ue, l’Occidente negano che i russi si stiano ritirando: avrebbero anzi rafforzato le linee con 7.000 uomini, stanno costruendo un ponte tra Russia e Bielorussia. Mosca insiste: sono andate via le truppe dalla Crimea. Biden dice che un attacco è possibile “nei prossimi giorni” e che la Russia prepara un’operazione sotto “falsa bandiera”, ovvero cerca un pretesto; Blinken che Mosca “potrebbe simulare azioni terroristiche, attaccare i civili con droni, usare armi chimiche.” Putin e Lavrov bollano come infondati i sospetti, chiedono il ritiro di tutte le forze Nato dall’Europa sud-est e dai Baltici, ricordano che Kiev non applica gli accordi di Minsk, parlano di genocidio nel Donbass. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è un rimpallo di accuse (la Cina è con la Russia). Al Vertice Ue, la linea è esplorare la via diplomatica, chiedere a Mosca fatti non parole, tenere pronte le sanzioni. Di Maio vede Lavrov a Mosca, dove presto andrà Draghi. Domani a Monaco la vice di Biden, Kamala Harris incontra Zelenski.

Il Donbass crede allo Zar. L’Ucraina provincia di Mosca

Agli inizi dello scorso dicembre, quando lungo i confini con l’Ucraina erano già schierati centomila soldati russi dotati di armamenti pesanti, i leader delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, Denis Pushilin e Leonid Pasechnik, si sono recati a Mosca per il congresso annuale del partito del presidente Putin, Russia Unita, sapendo che l’ex premier russo Dmitri Medvedev li avrebbe ufficialmente omaggiati della membership. Prima di diventare membri del partito al governo della Federazione Russa, i due leader del Donbass avevano già ottenuto il passaporto russo, e come loro migliaia di ucraini residenti nelle due repubbliche autoproclamate, che peraltro la Duma questa settimana ha chiesto a Putin di riconoscere ufficialmente. Si è trattata di una richiesta strumentale per dare la possibilità a Putin di rispondere niet mostrandosi in questo modo rispettoso degli accordi di Minsk secondo cui i rappresentanti dei due oblast ucraini separatisti hanno il diritto di prendere parte ai negoziati per pretendere una vera autonomia da Kiev ma non per garantire a Donetsk e Luhansk lo status di repubbliche.

Nei fatti però le due entità sono già diventate parte della Federazione Russa. Due anni dopo la rivoluzione di Euromaidan, nel 2016, il rublo russo ha di fatto soppiantato la grivna, la valuta ucraina, soprattutto nell’oblast di Luhansk e le imprese di queste zone ricche di materie prime sono entrate nella sfera del Cremlino. Con il decreto firmato da Putin che ha abolito i dazi sulle importazioni dal Donbass, il processo di integrazione ha fatto un ulteriore balzo perché ha determinato un riorientamento del flusso delle merci. È stato lo stesso Pushilin a sottolinearlo : “In pratica significa che le nostre aziende possono partecipare agli acquisti statali e locali su un piano di parità con le imprese russe. Inoltre, possiamo essere presenti sul mercato russo senza tasse o quote aggiuntive. Inoltre possiamo importare direttamente le materie prime che mancano alle nostre aziende.” Sono tanti i pendolari del Donbass che si recano ogni giorno oltre confine per lavorare sul suolo russo. Molti di loro sono diventati cittadini russi. Negli ultimi tre anni infatti Mosca ha distribuito lentamente ma costantemente passaporti russi. Ne sarebbero stati rilasciati oltre 650.000.

Questo sforzo per trasformare l’Ucraina orientale occupata in un “protettorato dei passaporti” fornisce una chiara indicazione degli obiettivi a lungo termine della Russia nella sua guerra con l’Ucraina. Le recenti dichiarazioni di alcuni alti funzionari del Cremlino hanno sottolineato l’importanza strategica delle politiche di concessione dei passaporti. Il vice capo di stato maggiore del presidente Putin, Dmitry Kozak, ha avvertito che la Russia “sarebbe stata costretta a difendere” i cittadini russi nell’Ucraina orientale se i combattimenti sulla linea del fronte fossero aumentati. Kozak, che funge anche da rappresentante della Russia nei colloqui di pace con l’Ucraina, ha aggiunto che la ripresa delle operazioni militari su larga scala segnerebbe “l’inizio della fine dell’Ucraina.”

Subito dopo l’addetto stampa di Putin, Dmitry Peskov, ha ribadito l’impegno di Kozak a proteggere i cittadini russi in caso di escalation. Nessuno di loro ha spiegato che questa nuova popolazione è il risultato di politiche deliberate in materia di passaporti attuate dal Cremlino dal 2019. I commenti di Kozak e Peskov sembrano indicare che la Russia intenda utilizzare i suoi cittadini appena coniati per giustificare un intervento militare nel Donbass. Da quando hanno avuto il passaporto molti ucraini sono diventati elettori russi. Nelle parlamentari dello scorso anno, 230.000 abitanti del Donbass hanno contribuito a far rieleggere il partito di Putin a Rostov. Il presidente russo ha formato il suo collegio elettorale proprio all’interno dell’Ucraina. Le recenti elezioni hanno anche visto figure chiave della guerra in Ucraina orientale elevate ai ranghi dell’establishment politico russo, uno di questi è Alexander Borodai divenuto parlamentare di Russia Unita dopo essere stato il primo leader della Repubblica di Donetsk nel 2014.

Raffai, il giallo impronta di vita

I conduttori passano, i programmi restano, così è la vita e così è la televisione, con le uniche eccezioni dei memorabili programmi-autoritratto, perché perfino nell’etere si può lasciare il segno. La Corrida non è sopravvissuta a Corrado nonostante la buona volontà di Gerry Scotti, Portobello non è sopravvissuto a Enzo Tortora (purtroppo nemmeno Tortora a Portobello), Fabio Fazio ha ricostruito mattone per mattone il Rischiatutto, e quando ha finito la casa si è accorto che mancava l’inquilino, ovvero Mike Bongiorno.

Ma il caso più curioso, degno di essere indagato, è quello di Donatella Raffai, sopravvissuta a Chi l’ha visto? non con la sua presenza, ma con la sua assenza. Unico format originale superstite della “tv verità” teorizzata da Angelo Guglielmi (chi l’ha più vista?), Chi l’ha visto? nasce su Rai3 nel 1989 da un’idea di Lio Beghin; Raffai lo conduce con il piglio narrativo che rese Indro Montanelli un suo dichiarato fan e una certa improntitudine, “grondante umanità da tutti gli artigli” (copyright Antonio Ricci). Dopo quattro stagioni il programma vira dal giallo al nero, cominciando a indagare non solo su persone sparite ma anche uccise, come accade a tutt’oggi con la conduzione di Federica Sciarelli; in disaccordo con questo cambio di linea, Donatella Raffai abbandona il programma, e poco dopo scompare lei stessa, dando origine a diverse leggende metropolitane. Chi la dava all’estero, chi la dava per morta, chi ancora attiva, in segreto, dietro le quinte.

Chi l’aveva vista? È come se fosse trasmigrato in lei lo spirito del programma, dove il suo fantasma ha continuato ad aggirarsi fino alla recente, effettiva scomparsa. Morire è non essere visti, è aver voltato l’angolo, dice Pessoa, mentre l’invisibilità è negata ai vivi anche quando la desiderano. Morire è da tutti, sparire in vita quasi da nessuno. Prima o poi ti vengono a prendere. Ma se ci riesci, il tuo ricordo non sparisce più, e il giallo continua.

L’esperta di Putin con vista sull’Eni

Nel magico mondo degli opinionisti televisivi, in tempi di presunta terza guerra mondiale, sta iniziando a brillare il carisma di una nuova stellina catodica. Si chiama Nathalie Tocci e l’altro giorno ha spiegato in prima serata, su La7, ospite di Lilli Gruber, che i cannoni stanno per tuonare: è ormai quasi inevitabile. Il curriculum di Tocci è oggettivamente scintillante: laurea a Oxford, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, professore onorario dell’Università di Tubingen. Grazie a questa nuova esposizione mediatica, in tv e sui quotidiani, ci ammonisce sulle conseguenze di questo conflitto armato che ritiene probabilissimo: sarebbero devastanti anche per l’Italia e per la sua ripresa economica, in termini di costi energetici. Eppure le argomentazioni dell’esperta non è che siano poi così limpide e illuminanti: “Immaginare che lo sforzo della diplomazia faccia diminuire le probabilità della guerra – ha detto – sarebbe molto bello, ma non credo sia questo il caso. Il rischio della guerra è sempre più alto. Ci sono 130mila soldati schierati, difficile che Putin dica che stava scherzando. Non è questa la dinamica di Putin”. In attesa di conoscere quale sia la dinamica di Putin, speriamo vivamente si sbagli. E registriamo che le competenze di Tocci in materia di energia le hanno fatto meritare la nomina nel cda di Eni. Un piccolo conflitto d’interessi, se vogliamo, per un’analista già sulla cresta dell’onda mediatica.

“Mani pulite”: dopo vennero le destre e i corrotti

Prima di archiviare le commemorazioni del trentennale di Mani Pulite, sommovimento in cui si è forgiata anche la generazione dei fondatori di questo giornale, un ultimo sguardo va pur gettato sull’esito politico di quello scossone inflitto al sistema italiano. Il pool milanese faceva il suo lavoro e non avrebbe avuto senso chiedergli di valutarne in anticipo le conseguenze sugli assetti governativi e parlamentari. Ma ora possiamo dirlo: due anni dopo il memorabile 1992 che vide crollare i partiti della Prima Repubblica, quel vuoto venne riempito dal partito personale di Silvio Berlusconi, capace di tirarsi dietro nel governo anche i secessionisti padani della Lega e i post-fascisti missini. Come ciliegina sulla torta, da esperto propagandista, B. tentò invano di coinvolgere nel governo due magistrati assai popolari, Di Pietro e Davigo, sì da camuffare la sua ascesa al potere quale epilogo vittorioso di Mani Pulite.

Questi sono i fatti. Poi ci sono le opinioni, anzi, gli opinionisti. Oggi stentiamo a crederci, ma Vittorio Feltri, Emilio Fede, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, giù giù fino a Paolo Brosio, furono i più entusiasti cantori delle manette per i politici e chi li foraggiava. Intanto che i leghisti sventolavano un cappio da forca a Montecitorio, invocando la pena di morte per i corrotti. Sì, proprio loro, quelli che ora promuovono i referendum contro i magistrati. Poi sappiamo com’è andata: bastò che le inchieste sfiorassero Sua Emittenza divenuto anche premier e subito i giudici vennero accusati di golpismo dagli stessi che prima li adulavano.

Morale della favola, valida per chi oggi denigra Mani Pulite in quanto la piaga della corruzione le è sopravvissuta: non esiste soluzione giudiziaria a fronte di una patologia di sistema. Ai giudici tocca perseguire le illegalità senza fare calcoli di natura politica. Ma quando l’illegalità è così pervasiva e generalizzata, richiede una soluzione politica. Altrimenti si ripresenteranno i corrotti, sotto mentite spoglie, a occupare quel vuoto.

Mail box

 

Il revisionismo storico del Tg1 su Mani Pulite

Al Tg1, nel servizio sul trentennale di Mani Pulite, ho sentito definire Antonio Di Pietro “un ex commissario di polizia dalle manette facili”. Pochi secondi dopo è seguita un’intervista con Claudio Martelli, in cui diceva che ci fu una violenza giudiziaria inaudita. Io non ho parole.

Attilio Luccioli

 

Io invece ne ho: chi ha firmato il servizio ignora persino che Di Pietro era un pm e che le “manette” (per nulla “facili”, ma dovute in quanto previste dalla legge) le disponeva il gip Italo Ghitti e le rivedevano (quasi sempre confermandole) il Tribunale del Riesame e la Cassazione. Complimenti vivissimi al “nuovo” Tg1 per il “servizio pubblico”.

M. Trav.

 

Per fortuna c’è “Il Fatto” che si occupa di legalità

Ormai per tutto ciò che riguarda la legalità, la giustizia, i diritti, la lotta alla corruzione, l’evasione, la lotta ai privilegi e tutto quel che c’è di tossico nel nostro panorama politico, ci sono rimaste soltanto queste “quattro pagine in croce” che si chiamano Il Fatto Quotidiano. Che altro si può fare?

Andrea Castagnini

 

Si continua a combattere su quelle “4 pagine in croce”, che poi sono 20 o 24!

M. Trav.

 

Quelli che si lamentano dei tribunali italiani

Mi capita di sentire spesso alcuni cosiddetti “giornalisti” dire: quello che vuole la gente è una giustizia che funzioni! Ma io mi chiedo, a quale gente si riferiscono? Perché io andando in giro non ho mai sentito parlare di giustizia finora. Piuttosto sento lamentele che da un giorno all’altro qualcuno è stato licenziato, oppure che pur lavorando non riesce ad arrivare a fine mese; in passato c’erano pure quelli che con la riforma Fornero restarono senza lavoro e senza pensione, ma potrei continuare per ore, descrivendo quelli che sono i reali problemi che vivono le persone comuni. Mi viene il sospetto che questi “giornalisti” quando dicono “gente” si riferiscono probabilmente a una certa parte politica e imprenditoriale: quelli che qualche problemino con la giustizia ce l’hanno eccome. Spesso, molti di questi, sono proprio i loro padroni.

Antonio Di Pietro

 

Caro Antonio, di solito chi chiede che la giustizia funzioni pensa che sia molto meglio che continui a non funzionare.

M. Trav.

 

L’unico quesito respinto è quello del Cazzaro

Salvini è apparso trionfante su tutte le televisioni per l’ammissibilità dei referendum sulla giustizia: peccato che l’unico quesito su cui aveva fatto stampare manifesti, striscioni e magliette con lo slogan “chi sbaglia paga”, sia proprio l’unico non ammesso!

Claudio Bernardis

 

Più che Radio Leopolda mi pare Disneyland

Ascoltando Radio Leopolda (masochismo puro, lo so), ho sentito l’Innominabile cimentarsi con Giachetti nella sua specialità preferita: la denigrazione di quelli che non la pensano come loro (“sembrano Qui, Quo e Qua” han detto riferendosi alla conferenza stampa di Letta, Conte e Speranza). Il bello è che il babbo dell’Innominabile paragona il Giglio magico alla Banda Bassotti. Può uno vicino alla Banda Bassotti prendere in giro Qui, Quo e Qua?

Andrea Finotti

 

Amato, un presidente politico a capo del Csm

Nello stesso giorno della rielezione di Mattarella a capo dello Stato si è verificato uno strappo istituzionale ancora più grave: la nomina di Amato a presidente della Corte costituzionale. Si è chiuso un cerchio: l’altro giorno abbiamo visto i primi effetti, con l’ammissione dei 5 referendum sulla Giustizia che sono una marchetta elettorale a favore del centrodestra, e l’esclusione di due referendum promossi dai Radicali. La vera, e a quanto pare impossibile riforma della Giustizia, sarebbe liberarla dalle contingenze politiche: quando le leggi e i codici vengono pensati nell’interesse di una parte, da cui deriva la parola “partito”, i piatti della bilancia (simboli della “giustizia”) non possono in nessun modo essere equilibrati.

Angelo Testa

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, a pagina 7, abbiamo pubblicato la foto di Ignazio Abrignani anziché quella – corretta – di Sergio Abrignani, immunologo del Cts. Ce ne scusiamo.

FQ

Dalla Puglia “Addio caro Cosimo, soldato coraggioso anche nella vita”

Buongiorno, forse chiedo troppo, ma sento di farlo. Avremmo piacere che il vostro importante e attento quotidiano “parlasse” pubblicamente del ragazzo che vi presenterò subito…

È un ragazzo dal triste destino, nato e cresciuto a Monopoli, bello come il sole, con un dolce sorriso, con un modo di fare semplice e garbato: il suo nome è Cosimo. Lo scorso 31 ottobre gli viene diagnosticato il “male del secolo” e in soli tre mesi il “maledetto” lo aggredisce con tanta ferocia, facendogli conoscere le sofferenze e i dolori più atroci e strappandolo definitivamente alla vita il 5 febbraio. Cosimo, umile, generoso e altruista è stato un figlio dedito e pronto per i suoi genitori, fratello adorato, marito speciale, padre esemplare, militare con elevato senso del dovere. La sua è stata una storia molto particolare, fatta di momenti difficili che lo hanno visto protagonista di imprese rischiose, davanti a cui non si è mai sottratto, come per esempio le diverse missioni di pace in Bulgaria, Albania, Iraq, Kosovo… Quando ha deciso, con fermezza, in giovane età, di intraprendere la carriera militare, ha messo in conto i rischi che tale attività comportava. Dopo diversi anni di servizio prestati presso la caserma di Remanzacco, ai confini dell’Italia, ha pianto per il distacco dalla sua Puglia; con sacrificio ha continuato il suo servizio a Roma perdendo parte della crescita del suo bambino Antonio che oggi, a soli 6 anni, è destinato a non vedere più il suo papà. Solo meno di un mese fa ha avuto trasferimento militare definitivo in una base dell’esercito nella sua provincia di origine, ma purtroppo non ha mai potuto godere di questa gioia. È noto, praticamente a tutti i suoi compaesani, un gesto eroico da lui compiuto nel maggio del 2021, quando, incurante del pericolo e mosso dal suo spiccato senso di responsabilità, si è tuffato nelle acque portuali per salvare un anziano caduto accidentalmente in mare. Un gesto che successivamente gli è valso anche una pergamena d’onore da parte del Comune di Monopoli. Ha sempre messo a rischio la sua vita per salvare quella degli altri…

Cosimo caro, fino all’ultimo dei tuoi giorni, hai continuato a essere attento più agli altri che a te stesso, ringraziando sempre tutti anche quando il grazie lo meritavi tu! Hai sognato negli ultimi anni di riavvicinarti alla tua amata Puglia, ma mai avremmo voluto averti qui con noi in questo modo. Cosimo… ti chiedo un’ultima cosa: trasmettici la tua forza, il tuo coraggio e sii orgoglioso di tutto quello che hai fatto nella tua breve, ma intensa vita proprio come lo siamo noi di te. Il mondo ora è più povero senza un valoroso come te, il cielo sarà in festa per un nuovo e speciale Angelo in Paradiso. Tu, però, con i tuoi esempi di vita donaci la forza della tua umile superiorità.

 

La vecchia leggenda dello scontro magistratura-politica

Niente, in Italia c’è lo scontro magistratura-politica. Dicono. Iniziato 30 anni fa, con Mani Pulite. Funziona così: 1. Il politico compie un reato; 2. Il magistrato lo indaga perché in Italia c’è l’obbligatorietà dell’azione penale; 3. Il politico strilla e attacca la magistratura; 4. Dunque c’è lo scontro magistratura-politica!!! 5. Quindi bisogna fare la Riforma della Giustizia (cioè rendere più difficile perseguire i reati dei potenti). Lo sentiamo ripetere da 30 anni. E invece, smettere di compiere reati, no?

Naturalmente bisogna chiarire cose ovvie, tipo che il politico che viene indagato non è colpevole fino a sentenza definitiva. Ma intanto il magistrato lo deve indagare, una volta venuto a conoscenza della notizia di reato, e se non lo facesse compirebbe lui un reato. Poi per lo più il reato contestato cade in prescrizione (e ora arriverà la sua brutta copia, l’improcedibilità), ma non importa: in Italia c’è la guerra magistratura-politica.

Questa storia dello scontro tra magistrati e politici mi affascina da anni, mi sprofonda in un labirinto di pensiero che annoda il diritto, la politica, la sociologia, ma finanche la psicologia, la logica, la retorica, la psichiatria: perché se capisco i politici che difendono se stessi, mi danno le vertigini quelli che li difendono gratis, forse solo per sindrome di Stoccolma. Mi chiedo: se i ladri d’auto attaccassero i giudici che li incriminano, parleremmo di uno scontro magistratura-ladri d’auto? No. Diremmo, come suggeriscono logica e buon senso, che la magistratura è attaccata perché fa il suo mestiere, perseguendo (non sempre, purtroppo, e non abbastanza) i ladri d’auto. Ma se a essere indagati sono i politici, allora è guerra magistratura-politica. Eppure la guerra si fa in due, l’un contro l’altro armato. Qui invece la magistratura fa il suo lavoro, cioè perseguire i reati (non sempre, non abbastanza e non sempre bene): reati che oltretutto sono stabiliti dalla politica, con leggi votate dal Parlamento, non dalla magistratura; e trova un potere, quello politico, ma anche quello economico-finanziario, che reagisce attaccando i magistrati e ripetendo che fanno “giustizia a orologeria” (in Italia c’è sempre un’elezione in vista), che sono “toghe rosse”, che vogliono fare “un golpe giudiziario”, che vogliono sostituirsi al potere politico.

Ora, se un bullo mena un ragazzino nel cortile della scuola, non è in atto una guerra tra bullo e ragazzino, ma un attacco del bullo al ragazzino. Ecco, la politica italiana da 30 anni compie atti di bullismo nei confronti di un potere dello Stato, quello che la Costituzione vuole impegnato nel controllo di legalità, affinché la legge sia uguale per tutti. Ma niente da fare: i politici e i loro (per me incomprensibili) follower dicono che c’è lo scontro magistratura-politica. Intendiamoci: molti magistrati non fanno bene il loro lavoro, alcuni sbagliano, altri per non sbagliare stanno fermi, altri ancora sono ormai così “educati” dal bullismo delle classi dirigenti da stare alla larga dai potenti, per non rovinarsi la vita. Ma la politica attacca non i magistrati inetti o mascalzoni (che pure ci sono), bensì quelli che tentano di far valere il principio fondamentale della democrazia, che la legge è uguale per tutti. Buoni sono invece, per molti politici, i magistrati morti, o quelli obbedienti al potere, o quelli che si candidano in Parlamento per poi mazzolare i loro ex colleghi. Perfino Palamara, reo confesso di aver ridotto il Csm un mercato delle vacche dove spartire le poltrone, è diventato un eroe per i teorizzatori della guerra tra magistratura e politica; invece negli anni si era trasformato in un infiltrato della politica nella magistratura, per aiutare la (cattiva) politica a raggiungere il fine di sempre: non essere soggetta al controllo di legalità, ma avere magistrati “amici”, obbedienti non alla legge, ma al potere.

 

Sul Referendum anti-custodia cautelare, è Salvini o un altro?

Roba da non credere. Matteo Salvini, l’uomo politico che predica “legge e ordine” (forse più ordine che legge…); l’uomo politico che la difesa è sempre legittima a prescindere; l’uomo politico che ha raccolto firme per la castrazione chimica di pedofili e stupratori; l’uomo che citofona personalmente per verificare se lì abitano degli spacciatori; l’uomo che denuncia il tentativo di sostituzione etnica dei nostri lavoratori con dei disperati, nullafacenti o delinquenti che non scappano dalla guerra ma la stanno portando in casa nostra; in sostanza, un uomo politico “muscolare”, duro fra i duri. Ebbene, proprio lui adesso mi scivola su una buccia di banana.

Ha sostenuto e propugnato, fra gli altri referendum, anche quello sulla custodia cautelare, che può causare non pochi guai alla sicurezza dei cittadini. Quando la Consulta lo ha ammesso ha coerentemente esultato, incurante dei pericoli che molti segnalano. Roba da non credere, appunto. Perché è un dato di fatto che fior di illustri studiosi hanno lanciato, con motivazioni robuste, l’avvertimento di una clamorosa falla. Nel senso che il quesito referendario è formulato in maniera che agli autori di gravi delitti, se non commessi con violenza, non è più applicabile la misura della custodia cautelare motivando con la prognosi di ripetizione degli atti criminosi per cui si procede. Questa rilevante limitazione riguarda una fascia molto ampia di reati che provocano un sensibile allarme sociale: quelli contro la pubblica amministrazione , l’economia e il patrimonio, nonché quelli contro la libertà personale e sessuale potrebbero beneficiarne ad esempio tutti gli stalking non violenti), fino alle truffe in danno degli anziani. Un risultato decisamente improponibile. Rifiutato da associazioni tipo “Telefono rosa” e da parlamentari come Mara Carfagna e Giorgia Meloni (la quale, momenti di concorrenza elettorale a parte, si è trovata spesso in sintonia con le proposte di Salvini).

Adesso sono davvero curioso di leggere le motivazioni della Consulta, per vedere dove e come hanno sbagliato (se hanno sbagliato) quegli studiosi e quei politici che hanno visto nel referendum sulla custodia cautelare un possibile boomerang. Ma non finisce qui: perché se il referendum dovesse essere approvato, alla prima decisione giudiziaria di un certo rilievo che applichi la nuova legge farà seguito – c’è da scommetterlo, sicuri di vincere facile – un’ondata di malcontento e indignazione popolare contro questa magistratura troppo lassista (l’intramontabile “polizia arresta, giudici scarcerano”….). Con il corollario di politici che cavalcheranno l’onda per raccogliere qualche voto in più. Magari proprio alcuni di quelli che hanno voluto e si sono intestati il referendum. Si riproporrebbe un copione purtroppo non nuovo, al quale siamo ormai assuefatti. Anche se rasenta il teatro dell’assurdo.