Lo scorso settembre Vincent Bresson, 27 anni, giornalista freelance per Le Monde e Slate, si è iscritto con il nome di Vincent Carayon al sito della Génération Z, il movimento di giovani sovranisti che sostengono Eric Zemmour alle Presidenziali francesi, chiedendo di poter dare una mano alla campagna. Si era detto che la pelle bianca, gli studi universitari e una buona educazione cattolica lo avrebbero aiutato a entrare nel gruppo. E così è stato. Nessuno ha mai controllato la sua identità. Per quattro mesi Bresson incolla manifesti di campagna con i giovani di Génération Z. Entra nel giro di chat di una dozzina di gruppi Telegram. Si ritrova persino a dormire nel quartier generale di campagna di Zemmour, in rue Jean Goujon, a Parigi, che viene custodito anche di notte per evitare problemi. Insomma, diventa uno di fiducia.
“All’inizio si trattava di realizzare un ritratto dei giovani di Génération Z. Ma poi mi sono ritrovato ad avere accesso a strategie che sarebbero dovuto restare segrete”, ha spiegato. Si sorprende per la mancanza di sicurezza: “Avrei potuto frugare nella scrivania di Zemmour, ma non l’ho mai fatto. Sono un giornalista, non una spia”. Dei quattro mesi di immersione nel mondo di Zemmour ne ha fatto un libro Au coeur du Z (Éditions de la Goutte d’Or), di cui ieri Le Monde ha pubblicato alcuni passaggi. Bresson è stato testimone di scene di quotidiano razzismo. Non è una sorpresa: il polemista, che negli ultimi sondaggi raccoglie il 14-15% delle intenzioni di voto al primo turno di aprile, contendendosi con Marine Le Pen e Valérie Pécresse l’accesso al ballottaggio, è già stato condannato tre volte per incitamento all’odio razziale, l’ultima a gennaio. Zemmour difende la teoria complottista della “sostituzione etnica”: “Ufficialmente sostiene il principio di assimilazione: se sei nero o di origini arabe – dice Bresson – e ti adatti alla cultura francese, allora puoi diventare un francese come gli altri. In realtà, molti suoi seguaci ti vedranno sempre come un francese di serie b”. Bresson racconta di aver sentito usare la parola “negro” senza che “nessuno battesse ciglio” e di aver partecipato a una festa di fine anno in cui si cantava un inno della Wehrmacht.
A dicembre, arrivando in auto a Villepinte, fuori Parigi, per il primo meeting di Zemmour, ha sentito Sophie Clavel, la segretaria di Zemmour, e Gilbert Payet, il consulente finanziario, rivolgersi ai parcheggiatori, tutti giovani di colore, chiamandoli “Mamadou”, un nome africano usato come insulto razzista in Francia. Bresson ha anche scoperto l’esistenza di “WikiZédia”, un gruppo che aveva messo a punto una “strategia segreta” per migliorare l’immagine di Zemmour sul web e della sua pagina Wikipedia, visionata più di 5 milioni di volte nel 2021: “Una lobby digitale – spiega – che riesce a raggirare le regole della web enciclopedia”. Il lavoro di questo “esercito dell’ombra”, guidato da Samuel Lafont, direttore della strategia digitale di Zemmour, consiste a imbellire il ritratto del candidato, aggiungendo elementi a suo favore e eliminando i più imbarazzanti. I “wikizédiani” si introducono poi nei gruppi Facebook e Twitter più vari alla ricerca di potenziali elettori, tra i tifosi della squadra di calcio di Lens, nel nord deindustrializzato della Francia, e i fans di Johnny Hallyday, la rockstar scomparsa nel 2017. Da ieri la pagina Wikipedia in francese di Zemmour presenta un avviso in rosso per avvertire i lettori che l’articolo non rispettava il suo principio di neutralità.