Violentando la natura, ci estingueremo come api

Camminate sullo stretto sentiero di un bosco. È scesa la sera, è iniziata la notte. Il buio e il silenzio, abbastanza impressionante per chi viene dalla città, inducono alla meditazione. Ma man mano che procedete e le vostre orecchie si fanno più attente sentite un rumore di sottofondo un po’ inquietante. Che cos’è? Acufene? O venite da una lettura recente di un racconto di Buzzati dove tutto, anche le più normali cose, assume un aspetto angosciante? O è forse il ronzio delle api che, anche nottetempo, stanno organizzando, in modo militare, il loro alveare con ordini precisi e inderogabili che riguardano le operaie, le infermiere, i fuchi destinati alla morte, sia quelli che perderanno la partita sia il solo che riuscirà a fecondare l’Ape Regina soccombendo subito dopo l’amplesso, o l’Ape Regina stessa? Ordini che nessuno ha dato, ma rispondono a quella che l’entomologo Jean-Henri Fabre ha definito “la Legge” e che noi chiameremo più semplicemente l’istinto.

No, quello che sentiamo in sottofondo non è il classico ronzio delle industriose api. È piuttosto un cric, crac, uno sbocconcellare di qualcuno, migliaia di qualcuno, nascosto nel tronco degli alberi o nelle loro radici.

Sono “i divoratori della foresta”, un cerambice eroe, cioè un tarlo, un cervo volante, uno scolito, una saperda, un sirice. Questi insetti, minuscoli, sbocconcellano il legno dell’albero o la sua cellulosa, sia per alimentarsi sia per trovare cavità più profonde dove starsene al sicuro. Sbocconcella un giorno, sbocconcella un altro, l’albero, dai e ridai, cadrebbe stecchito a terra. E in effetti qualche vecchio pioppo, abitato dalla saperda, ogni tanto crolla a terra, come ben sappiamo. Ma in linea di massima i boschi e le foreste rimangono intatti. Com’è possibile? È possibile perché questi insetti, e mille altri che si potrebbero nominare, hanno un antagonista, un parassita chiamato icneumone che distrugge i “distruggitori”. Se non esistesse l’icneumone, le piante, i boschi, le foreste, rase al suolo, non potrebbero mettere in atto la loro vitale funzione dello scambio fra anidride carbonica e ossigeno. E quindi senza il minuscolo icneumone non perirebbero solo le foreste ma anche l’uomo cui l’ossigeno è indispensabile come l’ossigeno.

Questa favoletta, che favoletta non è, ci racconta dello straordinario equilibrio con cui la Natura, di cui l’uomo fa parte, tiene se stessa (“un equilibrio sopra una follia” per dirla con Vasco).

“La Natura ci parla e sa” scrive Fabre. Ma è da quel dì che noi non ascoltiamo più la Natura. Da quando la rivoluzione scientifica del Cinquecento-Seicento (Copernico, Keplero, Galilei, Newton) ha innescato quella industriale di metà del XVIII secolo, razionalizzata poi nell’Ottocento dall’Illuminismo sia in versione liberista che marxista.

Da allora l’uomo è stato preso da una ubris, da un delirio di onnipotenza incontenibile, al cui centro c’è la domanda: che cosa dobbiamo fare per dominare tecnicamente la Natura e la vita? Ma che senso, e quale, abbia questo dominio la Scienza, come già notava Max Weber intorno al 1920 (Il lavoro intellettuale come professione), non ce lo dice, lo dà solo come presupposto, un “a priori” incontestabile. E invece un senso ce l’ha, purtroppo. Ed è quello di portarci il più rapidamente possibile, alterando costantemente i delicati meccanismi della Natura (che in realtà è la Tecnica che sovraintende a tutte le tecniche), verso l’autodistruzione.

La biodiversità (come peraltro ogni diversità) è fondamentale per la sopravvivenza dell’intero ecosistema. È stato calcolato, in modo ovviamente approssimativo, che le specie vitali, non solo animali evidentemente (perché tutto ciò che è vivo, che non è minerale, fa parte dell’ecosistema) fossero circa 11 milioni. Negli ultimi cinquant’anni ne abbiamo distrutto l’83 per cento. Finora la Natura è riuscita a metterci, in qualche modo, una pezza. Di questo ciclo vitale le industriose api sono un elemento fondamentale e le api stanno via via scomparendo a causa delle pratiche agricole intensive, l’uso dei fertilizzanti, l’inquinamento e le elevate temperature dovute al cambiamento climatico. Tout se tient. Diceva Albert Einstein che il giorno in cui non ci saranno più le api sarà anche l’ultimo giorno della vita dell’uomo sulla Terra.

 

Il vietnam pre-americani, Rebecca affamata di Sesso e il divorzio dei cattolici

In un Paese dove tutto va a commedia, niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

Rebecca era affamata di sesso, come scoprii la prima notte che finimmo a letto. Non riuscivo a staccarmela di dosso: “Daniiiii!” Due, tre, quattro volte: un’idrovora. Sul comodino c’è la bottiglia di plastica della minerale: è vuota. Senza fermarmi, allungo la mano, l’afferro, do un colpo di lombi e quell’istante stringo la bottiglia: CRAC! Mi metto a urlare. Il pronto soccorso è a due passi da casa mia, lei mi accompagna, e l’infermiere: “Lo lasci a noi, signorina. Frattura del pene. È un’emergenza seria”. Continuo a fingere un dolore immane: “Ti telefono”. L’infermiere chiude la porta, si gira e mi fa: “Cazzo, Daniele, un’altra ninfomane? Ma dove le trovi?”.

Il suo eufemismo per le mestruazioni era: “Oggi il Milan gioca in casa.”

Ai tempi della regina Anna, racconta Swift, le damigelle d’onore si divertivano con questo scherzo: una entrava spaventata nella stanza della servitù, esclamando: “È bianco e mi segue!” L’ingenua domandava: “Chi è?” E lei: “Il mio culo”.

La bambina educata: “Sono stata brava tutto il giorno, mamma. Posso andare a letto senza vedere Bruno Vespa?”.

Idea x film: il trauma subito da una giovane donna negli anni 60 quando il suo apprendistato dentistico in una scuola medica vietnamita viene interrotto dall’invasione americana. Le cene romantiche e spensierate della donna che fa surf, prende il sole e tura carie con un amalgama al piombo contrastano drammaticamente con le perversioni che improvvisamente le vengono imposte: code interminabili alla cabina telefonica per chiamare la sua famiglia a Parigi, nessun posto dove riscuotere un assegno, ceretta col napalm. Gag: il dentista, innamorato di lei, soprappensiero cava tutti i denti a un tizio pensando: “M’ama… Non m’ama…”. Altra gag: la donna legge al dentista la scheda del paziente a cui sta per estrarre un molare: “L’ultima volta non si è presentato all’appuntamento, le ha fatto perdere l’ora di tennis e non si è scusato in alcun modo”. Il paziente seduto in poltrona, la bocca divaricata da un aggeggio, ha gli occhi sbarrati dal terrore. Colonna sonora di Ennio Morricone, eseguita interamente con strumenti odontoiatrici. (Proporre a Spielberg?)

Non mi piace parlare della mia vita privata. Se avessi voluto che la mia vita privata finisse spiattellata sui giornali, mi sarei messo con Belen. Non ho forse diritto alla mia privacy? A chi importa se all’orgasmo il mio pisello emette ultrasuoni che fanno abbaiare i cani?

I divorziati cattolici che si risposano senza l’annullamento della Sacra Rota devono astenersi dal sesso. Ottenere l’annullamento costa. Quindi, se sei cattolico, la Chiesa vuole in pratica una tassa sulla ripresa della tua attività sessuale. Soldi in cambio di sesso. Pensate che modo tortuoso per dare alla tua nuova donna della puttana.

 

La sentenza di Mani Pulite fu nelle urne

Trent’anni dopo c’è il giornalista pentito (Michele Serra) che non rifarebbe più quel titolo (“Pensiero stupendo”, con Craxi dietro le sbarre). C’è il magistrato (Gherardo Colombo) che racconta il proprio disgusto nell’apprendere del leader socialista bersagliato dalle monetine. C’è lo storico (Giovanni Fiandaca) che osserva Mani Pulite e vede “giornalismo tossico e aggressioni allo Stato di diritto”. Trent’anni più tardi, con la scusa di rievocare i trent’anni che furono, si continuano a regolare i conti di sempre. Con i cosiddetti garantisti che accusano i cosiddetti giustizialisti di avere partecipato alla cancellazione di un’intera classe politica, per pura libidine del cappio e della gogna. Ricambiati con la qualifica di protettori dei ladri e dei corrotti. Poi ci sono i conti aperti con se stessi (da rispettare quando sinceri) poiché, trent’anni fa, quei giornalisti, quei magistrati, quegli storici, avevano trent’anni di meno, e col tempo, fatalmente, gli incendiari tendono a riscoprirsi pompieri. Tutto ciò in una sarabanda di rievocazioni e processi postumi, sulla carta e in tv, dove l’Italia e gli italiani di trent’anni fa non compaiono mai, non parlano mai, non pensano mai. Presenze astratte, inconsistenti, tutti assenti ingiustificati, trattati come 60 milioni di figurine finite nello scantinato della Storia. Di questo imbelle popolo bue interessa solo estrapolare le violenze verbali, gli eccessi, le “monetine”, brutte cose signora mia. Ma che le cronache del tempo attribuiranno a una minoranza rumorosa, probabilmente ispirata dall’estremismo missino e da quello leghista. Gente che non risulta arruolata dalla junta

dei giudici colonnelli. Si continua ad alimentare la comoda vulgata dei giornali succubi dei pm manettari tralasciando il piccolo particolare del boom della carta stampata, delle edicole prese d’assalto. Non certo dai parenti di Di Pietro, ma dai lettori affamati di notizie e, mi si passi la parolaccia, di giustizia. L’altra fake news

propalata da un trentennio è che i poveri partiti della Prima Repubblica siano stati sgozzati dalla magistratura “politicizzata”. Infatti non furono gli elettori a cancellare a furor di popolo quei contenitori di tangenti, ma il pool di Milano che, come è noto, presidiava i seggi con i blindati.

Taxgate Gucci, la ex manager: “L’input fu del numero 1 Pinault”

“Attorno al 2011-2012, su volontà di Di Marco e input di Kering Francia (François Pinault e Jean-François Palus), c’è stata la decisione di allocare funzioni aziendali mondo in Svizzera”. Le parole pronunciate davanti agli inquirenti italiani da Micaela Le Divelec, ex manager Gucci, mettono per la prima volta al centro del caso taxgate, François Pinault, il grande capo di Kering. Sarebbe stato lui, secondo Le Divelec, a dare l’input per creare il sistema che ha permesso a Gucci – marchio principe del gruppo leader nel lusso – di sottrarre al Fisco italiano tasse per 1,5 miliardi di euro. “Allocare funzioni aziendali mondo in Svizzera”, come ha detto Le Divelec, è la traduzione di quello che Kering ha fatto dal 2011 al 2017, fino a quando gli investigatori italiani non hanno scoperto il “trucco”: i profitti incassati per la vendita di una borsetta Gucci a Roma non venivano tassati in Italia, ma nella più economica Confederazione elvetica. Micaela Le Divelec è uscita da Gucci nel 2015. Ha lavorato per quasi vent’anni ai vertici, fino a diventarne chief consumer officer, il numero due dell’azienda. L’idea di utilizzare una società svizzera per incassare gli utili prodotti altrove da Gucci è nata – ha detto Le Divelec davanti alla Guardia di Finanza – su input di Pinault e del suo più fedele collaboratore, il direttore generale Jean-François Palus.

I Pinault sono oggi la trentaduesima famiglia più ricca al mondo: il loro patrimonio vale 44,6 miliardi di dollari, dice Forbes. In mezzo secolo il padre 86enne e il figlio 60enne si sono passati di mano un’azienda che è diventata un impero. Prima la produzione di legno a Rennes, poi il settore delle costruzioni in tutta la Francia, fino alla decisione di investire nel lusso. Da quando il padre ha passato la mano al figlio, negli anni 90, sono iniziate le acquisizioni a raffica. A partire proprio da Gucci. Così oggi i Pinault hanno interessi nei più svariati settori. Collezionisti d’arte, proprietari della casa d’aste Christie’s, di Palazzo Grassi e Punta della dogana a Venezia. E sono interlocutori riconosciuti dalla politica.

Il motore economico della famiglia resta però sempre il gruppo Kering, che controlla marchi come Yves Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga. E Pinault non avrebbe solo deciso di trasferire in Svizzera i profitti generati dalla vendita di questi marchi nel mondo (secondo lo schema raccontato ieri, nella prima puntata della nostra inchiesta). Ma sarebbe stato anche al corrente delle finte residenze svizzere dei manager del gruppo, accertate dagli inquirenti italiani. Come quella di Marco Bizzarri, l’uomo scelto per guidare Gucci.

C’è una email inviata a Bizzarri da Palus, il direttore generale di Kering. È riportata nel verbale con cui la Guardia di Finanza di Milano ha concluso la sua ispezione. In copia alla email c’è François-Henri Pinault. Si discute dello stipendio che prenderà il manager, allora appena arrivato a guidare la maison toscana. Scrive Palus: “Caro Marco, faccio seguito al tuo colloquio con François-Henri, mi ha parlato di un tuo compenso annuo netto (a obiettivi raggiunti) di 8 milioni di euro”. Il braccio destro di Pinault spiega a Bizzarri che il compenso verrà erogato in parte dall’italiana Guccio Gucci Spa e in parte dalla lussemburghese Castera. “Considerando il tuo stato di non residente in Italia – chiosa – portano a una stima di un totale di 8 milioni di euro come compenso netto”.

La chiave del meccanismo sta proprio in quello “stato di non residente in Italia”. Dal 2011, i dirigenti più importanti della varie società del gruppo Kering sarebbero stati infatti invitati dall’azienda a trasferire in Canton Ticino la residenza. Bizzarri l’ha spostata a Vico Morcote, 300 anime affacciate sul Lago di Lugano, e ha iniziato a percepire buona parte della retribuzione da una società lussemburghese (Castera), sempre appartenente al gruppo. Perché? Il Lussemburgo non tassa il reddito se prodotto all’estero, come quello di Bizzarri. E la Svizzera concede ad alcuni cittadini stranieri, tra cui lui, di beneficiare di un regime fiscale speciale. Queste persone non pagano le tasse sul reddito ma sulla cifra che promettono di investire in Svizzera. Per Bizzarri erano 300mila franchi. Molto meno degli 8 milioni di euro che avrebbe dovuto dichiarare da residente italiano, e per cui sono scattati i controlli delle autorità fiscali italiane.

Come abbiamo raccontato ieri, alla fine Bizzarri ha chiuso la sua pratica con il Fisco nel 2017, ricorrendo alla voluntary disclosure e garantendosi così anche l’immunità penale. Ha pagato 16 milioni di euro per regolarizzare le tasse non versate nel periodo 2009-2015, oltre alle imposte per gli anni seguenti. Ma il conto è come se fosse stato saldato direttamente da Kering, visto che proprio nel 2017 la società francese gli ha versato un extra bonus da 40,6 milioni di euro.

Alle domande del consorzio di giornalismo investigativo Eic sulla responsabilità di Pinault nella strategia fiscale del gruppo, Kering non ha risposto.

Roma, l’amico del boss “cancellato” dai Dem

Adriano Burgio non è più un iscritto al Pd. È stato rimosso con una delibera della commissione di garanzia del Pd Roma, dopo le sue interviste in cui confermava la “fascinazione” nei confronti del boss siciliano Giuseppe Guttadauro, imparentato con Matteo Messina Denaro e arrestato nei giorni scorsi a Roma. L’ormai ex capogruppo del Pd del Municipio 9 Eur non risulta indagato, ma nell’ordinanza di custodia cautelare è definito “a disposizione” – in un periodo precedente al suo ingresso nella politica locale – del boss. Burgio al Fatto e alla stampa locale ha confermato il suo legame di “stima” con Guttadauro, pur specificando di non aver commesso alcun reato.

Focolaio al Billionaire: pm chiedono processo

Non avrebberogarantito le misure di sicurezza anti Covid, nell’estate 2020, scatenando decine di contagi tra i dipendenti e i turisti della Costa Smeralda. La Procura di Tempio Pausania ha chiesto il rinvio a giudizio degli amministratori del Billionaire di Porto Cervo, del Phi Beach di Baja Sardinia e del Country Club di Porto Rotondo. All’amministratore del locale di Flavio Briatore, Roberto Antonio Pretto, sono contestati i reati di epidemia colposa e lesioni personali colpose. Secondo le accuse, ai lavoratori del Billionaire sarebbe stato fornito un numero insufficiente di mascherine o dispositivi in stoffa non adeguati per la protezione dal virus, e non sarebbero state adottate le misure per isolamento e tracciamento.

Mps, pm Natalini smentisce Aglieco: “Non era in stanza”

“Il colonnello Pasquale Aglieco non era nella stanza di David Rossi durante il sopralluogo”, “nessuno ha rivoltato il cestino sulla scrivania”, “il mio collega Antonino Nastasi non ha risposto alla telefonata di Daniela Santanchè sul telefono di Rossi”. Non sono finiti i colpi di scena nelle audizioni della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte dell’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi, volato da una finestra il 6 marzo del 2013. Ieri è stato sentito fino a notte fonda Aldo Natalini, uno dei pm che archiviò il caso come un suicidio: “Sono inaccettabili tutti questi non ricordo”, ha commentato Antonella Tognazzi, vedova di Rossi. Natalini ha risposto anche sui fazzolettini intrisi di sangue trovati nel cestino sotto la scrivania, distrutti senza che venissero analizzati: “Il perito non ci chiese approfondimenti, per noi erano segni di autolesionismo”. Il pm quindi smentisce Aglieco, ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, secondo cui i tre pm presenti nell’ufficio – Natalini, Nastasi e Nicola Marini – inquinarono la scena. Uno scontro frontale dunque tra la Procura di Siena (di allora) e l’Arma, presente in modo massiccio sebbene il caso fosse della polizia. La Procura di Genova – competente su eventuali reati commessi da magistrati toscani – sta provando a fare chiarezza. Altro dettaglio non irrilevante: Nastasi, trasferitosi a Firenze, si occupa oggi dei finanziamenti illeciti di Open: le dichiarazioni di Aglieco sono state un assist colto al volo da Matteo Renzi per accusare i suoi accusatori.

Pivetti, sequestro da 3,4 mln: “Voleva evadere il fisco”

Una “interposizione” fittizia di uno “schermo societario”. Così, per i pm di Milano, Irene Pivetti avrebbe raggiunto l’obiettivo “fraudolento di evasione fiscale” tra il 2016 e il 2017, “avvalendosi di documenti falsi e di altri mezzi fraudolenti”. Ritenuti quindi sussistenti i reati di autoriciclaggio e riciclaggio” nei confronti dell’ex presidente della Camera e del suo consulente. Così i giudici del Riesame hanno accolto il ricorso del pm, i cui contenuti ricalcavano il decreto di sequestro eseguito a novembre e poi non convalidato dal gip. Una decisione “immediatamente esecutiva” che ieri ha portato, nell’inchiesta condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf, ad eseguire nuovamente il sequestro da 3,4 milioni di euro a carico dell’ex esponente leghista e del consulente Pier Domenico Peirone, tra gli indagati per riciclaggio, autoriciclaggio e reati fiscali, per reati tra cui la compravendita di tre Ferrari Gran Turismo. Per il Riesame, si legge, “la Only Italia Hong Kong” è stata nella vicenda al centro delle indagini “un mero schermo giuridico”.

Buco da 800 mln: la virtuosa Emilia paga il conto-virus

Lo scontro è stato violentissimo, un braccio di ferro che ha portato la Regione ad avviare un procedimento disciplinare nei confronti della dirigente dell’assessorato alla Sanità, Licia Petropulacos, sospesa per 30 giorni. La sanità emiliana è scossa dal conflitto istituzionale tra la super manager e l’assessore alla Salute, Raffaele Donini. La miccia è esplosa quando Donini ha sconfessato la dirigente, che aveva sospeso lo screening anti-Covid tra gli operatori sanitari facendo insorgere i sindacati. Uno strappo che difficilmente potrà essere ricucito. E che è solo l’ultimo atto di una guerriglia direttamente collegata alla pandemia. Sì, perché la frattura è avvenuta sullo sfondo di una condizione assolutamente inedita per il sistema sanitario emiliano-romagnolo, considerato da sempre una eccellenza: un disavanzo di ben 800 milioni di euro, emerso all’inizio dello scorso autunno. “Praticamente tutto da attribuire alle spese straordinarie sostenute per fronteggiare la pandemia”, dice Donini. Da allora, dall’autunno scorso, attingendo ad altre voci di bilancio, la Regione è riuscita a coprire quasi 500 milioni. Ne restano, ora, 320. Ma quel disavanzo porta diritti verso un’altra questione di fondo che riguarda tutte le Regioni: l’impennata della spesa sanitaria spinta dall’emergenza, impossibile da assorbire con i bilanci ordinari. Da qui la richiesta di cui si è fatto portavoce Donini, che nell’ambito della Conferenza delle Regioni è coordinatore della commissione Salute. Ha chiesto al governo (ieri il presidente della Regione Bonaccini è stato avvistato a pranzo con il ministro Speranza) 2,2 miliardi di euro per rimettere in equilibrio i conti. “E si tratta solo di una prima valutazione – spiega Donini –. Ma finora da Roma è arrivato solo 1 miliardo”. Gli ultimi dati disponibili sulla spesa sanitaria (Ragioneria dello Stato) sono riferiti al 2020, primo anno della pandemia (per avere quelli relativi al 2021 bisognerà attendere probabilmente ancora qualche mese ma certamente certificheranno un ulteriore aumento della spesa). Complessivamente i costi sono cresciuti del 5,6%, passando dai quasi 117 miliardi del 2019 a oltre 123,4. Ne hanno pagato il prezzo quasi tutte le Regioni. Anche quelle del Centro e del Mezzogiorno risparmiate dalla prima ondata pandemica. In quelle maggiormente virtuose, non sottoposte a piano di rientro – vale a dire Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Basilicata – la spesa ha avuto un balzo superiore al 6%. In quelle che devono sottostare ai piani – Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Sicilia e Puglia – ha avuto un incremento del 4,8%. Poi ci sono le autonomie speciali – Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Province di Trento e di Bolzano, che provvedono direttamente al finanziamento dell’assistenza sanitaria sul loro territorio – dove la spesa è aumentata del 5,6%. L’Emilia-Romagna è passata dagli oltre 9,2 miliardi del 2019 agli oltre 10 miliardi del 2020. La Lombardia da poco più di 20 a oltre 21, il Veneto da oltre 9,4 a 10,1, il Piemonte da 8,5 a circa 9. La spesa, anche se in maniera più ridotta, è aumentata anche in Campania, Puglia, Sicilia, Calabria, Sardegna. Due sole Regioni sono andate in controtendenza, con una leggera diminuzione: il Lazio e il Molise.

Obbligo vaccinale, ultimo flop E cresce il partito “basta Pass”

Se già l’annuncio, a suo tempo, non aveva avuto un grande effetto, l’effettiva entrata in vigore dell’obbligo di super green pass, da esibire sul luogo di lavoro per gli over 50 tenuti per legge a vaccinarsi, lo ha avuto ancora meno. I nuovi vaccinati ultracinquantenni sono infatti scesi – di molto – anche nella settimana precedente al fatidico 15 febbraio: 27.103, quasi la metà (-43,8%) rispetto alla settimana precedente. È quanto emerge dal monitoraggio settimanale della Fondazione Gimbe.

Insomma, chi era disposto a farsi convincere si è vaccinato, gli altri (tranne qualche ultima sparuta retroguardia) non lo faranno né ora né mai. E sono ancora parecchi. Secondo il report settimanale dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica di Roma, nella fascia 50-59 anni i no-vax (compresi gli esentati, il cui numero con esattezza non si è ancora mai saputo) sono ancora 1.074.948, pari all’11,4%.

Il calo dei nuovi vaccinati, tuttavia, riguarda tutte le fasce di età e anche le dosi booster: nell’ultima settimana le prime dosi sono diminuite del 40,8% rispetto ai sette giorni precedenti (da 187.037 a 110.791), il 41,2% delle quali riguarda la fascia 5-11 anni, anch’essa peraltro in forte calo (-41,7%). Al 15 febbraio – sempre in base al report Gimbe – sono ancora 7,1 milioni gli italiani vaccinabili senza nemmeno una dose, di cui due milioni circa guariti dall’infezione da meno di 180 giorni, dunque temporaneamente protetti. Lo zoccolo duro (al lordo della quota di esentati) rimane intorno ai 5 milioni.

Il report settimanale Gimbe certifica anche ciò che appare evidente dai bollettini giornalieri: la quarta ondata nell’ultima settimana è arretrata piuttosto velocemente: -32,3% di nuovi contagi (ma anche -27,8% di tamponi), -14,9% di ricoveri in area medica, -18,7% di di ricoveri in terapia intensiva (la media degli ingressi giornalieri passa da 99 a 88). E per la prima volta da tempo diminuiscono anche i decessi: -16,2%.

Numeri che giustificano un cauto ottimismo e che, soprattutto, portano nuovi consensi al partito degli scettici sul green pass, che inizia a travalicare il tradizionale perimetro destrorso Lega-FdI (e da ultimo parte del M5S) per abbracciare anche chi, in passato, certo non poteva tacciarsi di simpatie filo no-vax o no-pass: “È entrata in vigore la più discussa e obiettivamente discriminatrice delle misure – ha detto il 15 febbraio nella sua striscia quotidiana su Rds il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana –. È la coda della grande campagna vaccinale, della persuasione dell’opinione pubblica, però arriva in un momento in cui è chiaro a tutti che la pandemia sta allentando la morsa, e per questo sono in molti a sperare che sia almeno un provvedimento transitorio. È più utile avere ranghi completi sui posti di lavoro – conclude Mentana – o andare avanti con questa discriminazione, che è ben motivata ma è ingestibile nel lungo periodo?”.

Analoga la posizione del virologo Matteo Bassetti, secondo cui “il green pass oltre il 31 marzo non sarebbe più una misura sanitaria, che peraltro ha già esaurito la sua efficacia, ma un mostrare i muscoli in un gioco che non vale la candela”, cui fa eco il presidente della Società italiana di virologia Arnaldo Caruso: “Non sono d’accordo – ha detto – con la proposta di estendere la durata del green pass a tutto il 2022 avanzata dal consigliere del ministro della Salute, Walter Ricciardi”.

E non è certo passata inosservata la lunga lettera che la scrittrice Susanna Tamaro ha “spedito” via Corriere della Sera al premier Mario Draghi: “La scienza – scrive Tamaro – ci dice che vaccinati e non vaccinati ci scambiamo comunque tutti allegramente il contagio. In quest’ottica risulta anche difficile capire l’attribuzione taumaturgica del green pass”.

Il governo, tuttavia, non sembra, almeno per ora, disposto a cambiare idea: il green pass rimarrà in vigore anche dopo il 31 marzo, data della probabile cessazione dello stato di emergenza, anche se sarebbero allo studio alcuni allentamenti. Già da metà aprile potrebbe non servire per bar ristoranti all’aperto e per tutte le attività all’esterno, mentre è stato accolto un ordine del giorno della Lega in base a cui, se la curva pandemica continuerà a scendere, si valuterà la possibilità per gli studenti con più di 12 anni di salire sugli autobus anche con il solo tampone negativo.