Un gioco da regnanti: rassicurare i sudditi anche in pandemia

Nell’annus horribilis della pandemia è spettato ai regnanti, nel discorso di fine anno, farsi carico del gravoso compito di alleviare lo stato d’animo dei cittadini piegati dal Covid-19. Con risultati non sempre edificanti, dal Regno Unito, al Belgio, passando per la Spagna.

Il Regno Unito non è mai stato più diviso, e come sempre in questi casi, da una settantina d’anni, ricorre al balsamo infallibile: Elisabetta. La Regina ha un’aura rassicurante che valica confini, generazioni, nazionalità, e se lo dice Lei, che tutto andrà bene, Lei con i capelli d’argento, la foto dell’inossidabile Filippo sulla scrivania, le lucine dell’albero di Natale sullo sfondo, il maglioncino per una volta di un ardito viola acceso, la parure di perle: se Lei, malgrado due guerre mondiali, incalcolabili ministri e parlamenti e una banda di eredi scemi, è ancora lì, a mandare messaggi natalizi di fiducia nel futuro, chi siamo noi per non sperare?

L’ultimo augurio di Natale è particolarmente ecumenico, perché sì, il Paese che governa sta per uscire dall’Europa, manda gli incrociatori a sparare ai barconi nella Manica e ha pure cancellato l’Erasmus, ma che vuoi farci, so’ ragazzi, io resto sovrana del Commonwealth e capo della Chiesa anglicana, e quindi insisto a predicare tolleranza religiosa, apprezzamento per le tante culture del mio ex impero, gratitudine per la solidarietà di questi tempi tristi, senza dimenticare il ruolo cruciale delle infermiere nella pandemia. Il tutto tenuto insieme dal tema della Luce, luce di Gesù, luce dei festival indiano Diwali, luce della speranza collettiva e della sua fiducia personale. “La Bibbia ci racconta di una stella apparsa in cielo, la cui luce ha guidato i pastori e i Re Magi fino alla nascita di Gesù. Che la luce del Natale, lo spirito di sacrificio, amore e soprattutto speranza, ci guidi nel futuro”. Ma soprattutto, Maestà, Lei si riguardi. In Spagna, un presepe scarno, Madonna, san Giuseppe e bambino Gesù è la scenografia ancora più spartana del solito dietro alle spalle del re Felipe VI durante il consueto discorso della Vigilia dal Palazzo della Zarzuela di Madrid. Ad attanagliare il sovrano è un altro guaio, oltre al Covid: gli affari offshore del padre Juan Carlos I in fuga negli Emirati Arabi e solvente con l’Agenzia delle entrate per circa un decimo del dovuto. Una bomba per la monarchia se si considerano “le centinaia di migliaia di posti di lavoro cancellati” dalla pandemia a cui Felipe VI fa riferimento nel suo saluto. Fa appello all’unità del Paese il monarca, allo “spirito forte di un popolo che ha saputo mettere da parte le divisioni e guardare unito al futuro” dopo un periodo ben peggiore di questo, cioè 40 anni di dittatura. “Non sarà facile”, confessa Felipe VI, ma “non è difficile che il 2021 sia meglio dell’anno appena trascorso”. Empatizza con chi ha perso i propri cari per il Covid, elogia lo sforzo dei sanitari e si dice fiducioso nella scienza. La verità è che Felipe non è Juan Carlos, vorrebbe poter dire fidatevi di me, andrà tutto bene. Ma, barba sale e pepe a parte, non ha dalla sua decenni di reggenza né quel carisma da salvatore della patria che ha fatto vivere di rendita per anni il suo predecessore. Eppure ci prova col volto pulito a dribblare il padre. “La Spagna si risolleverà, si rinnoverà e andrà avanti”, “il rinnovamento è lo spirito della mia reggenza”. E poi getta il cuore oltre l’ostacolo: “Siamo tutti obbligati a princìpi morali ed etici, senza eccezioni; princìpi che sono al di sopra di qualunque considerazione, di qualunque natura, sia essa personale o familiare”. Adiós 2020, adiós Covid, adiós Juan Carlos.

“Le sfide restano immense ma i prossimi mesi ci offrono una reale prospettiva di uscita dalla crisi”. La crisi sanitaria è stata al centro anche del discorso di Natale del re Filippo del Belgio: “Che abbiamo appreso da questa crisi? Innanzi tutto che siamo stati in grado di affrontarla. Il nostro sistema sanitario ha tenuto – ha detto il re – grazie allo sforzo ammirevole dei guardiani delle nostre vite. Ci sono stati anche tutti quelli che hanno contribuito a mantenere il Paese a galla assicurando la continuità delle loro attività e del servizio pubblico, o semplicemente fornendo aiuto quando necessario”. Seduto, in abito scuro, davanti al grande abete addobbato del palazzo reale, il re ha ringraziato i belgi per “l’impressionante slancio di generosità” di questi mesi e ha chiesto loro di continuare a rispettare le misure “necessarie” per lottare contro il virus e di “farle proprie” invece di “subirle”. Si è rivolto in particolare ai giovani: “Lo so che i tempi sono duri. Che la vostra giovinezza mi sembra in parte sacrificata. Ma presto potrete di nuovo spiegare le vostre ali e ispirarci per costruire un futuro migliore”. In genere gli auguri di Natale del re sono trasmessi in apertura del telegiornale della sera. Quest’anno hanno invece chiuso una trasmissione speciale in omaggio alle vittime del Covid-19, proprio nel giorno in cui il Belgio ha superato la soglia simbolica dei 19 mila morti.

 

Quella lentezza che ci mancava

Se si mette in rapporto la dimensione del corpo umano e la massima velocità con cui esso riesce a correre, si capisce che l’uomo è uno degli animali più lenti del pianeta. Forse per questo ha sempre sognato di costruire protesi – dalla ruota al missile – con cui compensare questo suo handicap.

Ma la conquista della velocità non è stata uniformemente accelerata. A quasi duemila anni di distanza l’uno dall’altro, se Giulio Cesare e Napoleone avessero voluto coprire la distanza Roma-Parigi, avrebbero impiegato lo stesso tempo: un paio di settimane a piedi, una settimana in carrozza. A duecento anni da Napoleone, se anche noi volessimo fare lo stesso percorso, ci basterebbero soltanto un paio d’ore, pur senza godere di privilegi imperiali.

È con l’avvento industriale che la sfida della velocità ha accelerato le sue tappe: nel 1903 il primo volo dei fratelli Wright durò 59 secondi su una distanza di 260 metri. Sei anni dopo, nel 1909, Filippo Tommaso Marinetti pubblicò il Manifesto del Futurismo: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”.

Proprio in quegli anni Tuiavii di Tiavea, un capo indigeno delle isole Samoa, ebbe l’occasione di visitare l’Europa e di scrivere, con acuto spirito di osservazione, una sorta di reportage antropologico sulla tribù dei bianchi da lui chiamati papalagi. “Sopra ogni cosa – vi si legge – il papalagi ama ciò che non si può afferrare e che pure è sempre presente: il tempo. I papalagi affermano di non avere mai tempo. Corrono intorno come disperati, come posseduti dal demonio e ovunque arrivino fanno del male e combinano guai e creano spavento perché hanno perduto il loro tempo. Questa follia è uno stato terribile, una malattia che nessun uomo della medicina sa guarire, che contagia molta gente e porta alla rovina”.

Diciotto anni dopo il Manifesto Futurista, nel 1927, Lindbergh riuscì a trasvolare da New York a Parigi in 33 ore. Trentacinque anni dopo, nel 1961, Gagarin andò nello spazio, e otto anni dopo, nel 1969, Armstrong mise piede sulla luna.

Epidemia significa epídemos: il giorno in cui il dio arriva nella città. Prima che il coronavirus arrivasse nella città dell’uomo, la città, punta dal tafano della velocità, produceva sempre più in fretta per consumare, e consumava sempre più in fretta per produrre. Ognuno correva all’impazzata da una parte all’altra nei vasti spazi del pianeta, saltando senza posa da un treno a un aereo, in modo che il tempo non gli bastasse mai. Poi, all’improvviso, il lockdown ha capovolto la situazione: ora, blindati in casa, è lo spazio che manca. Per andare da una parete all’altra della stanza, da una stanza all’altra dell’appartamento, bastano pochi secondi. Abolito il pendolarismo tra casa e ufficio, eliminati incontri con amici e clienti, il tempo si è dilatato e ora ne abbiamo a nostra disposizione molto più di quanto eravamo abituati ad averne; la velocità non rappresenta più un valore; la pausa non è più un lusso e solo chi possiede il dono della lentezza può salvarsi con l’aiuto della saggezza, restando equidistante dalla paranoia dell’andirivieni affollato e dalla depressione della solitudine stanziale.

Alla fine dei conti la lentezza e la velocità, sono sensazioni relative. Nel Fedro Platone descrive Socrate anziano e stanco che, in un assolato pomeriggio estivo, si ristora dalla calura: “Che bel posto per fare una sosta! Il platano copre tanto spazio quanto è alto. In piena fioritura com’è, il luogo non potrebbe essere più profumato. E il fascino senza pari di questa fonte che scorre sotto il platano, la frescura delle sue acque: basta il piede per dirmelo. Ma la più squisita raffinatezza è questo prato, con la naturale dolcezza del suo declivio che permette, quando ci si stende, di avere la testa perfettamente a proprio agio”. Eppure, in quegli stessi anni, Tucidide dice che i Greci “si affannano in difficoltà e pericoli tutti i giorni della loro vita, con piccole occasioni di godimento”. Aristotele disprezza i commercianti per la loro vita senza sosta.

Cinque secoli dopo, ecco come Lucrezio descrive un ricco romano: “Corre alla sua villa di campagna frustando ansiosamente i cavalli neanche la casa stesse andando a fuoco e lui dovesse domarne le fiamme. Dopodiché, appena toccata la soglia, ecco che all’istante sbadiglia e piomba in un sonno profondo cercando l’oblio. O se ne riparte in fretta e furia perché gli manca la città. Così ciascuno fugge se stesso, quel se stesso al quale, ovviamente, non è possibile sfuggire”.

Nessun greco e nessun romano dell’epoca classica ha mai viaggiato a una velocità superiore a quella del cavallo o ha lavorato per più di cinque o sei ore al giorno; mai due greci o due romani si sono potuti vedere e parlare restando a più di cento metri di distanza l’uno dall’altro. Eppure nessun filosofo dopo Platone o dopo Seneca ha mai prodotto riflessioni così vaste e profonde; nessun artista dopo Sofocle o dopo Fidia ha mai creato capolavori così perfetti; nessun uomo ha saputo gestire il tempo e la vita in modo così equilibrato e con una così precisa gerarchia dei valori: “La guerra è in vista della pace – dice Aristotele – il lavoro è in vista del riposo, le cose utili in vista delle cose belle”.

Nella società industriale abbiamo accelerato così tanto i nostri ritmi di vita da considerare lenti quei guerrieri e quei commercianti che ai greci apparivano frenetici. Ma poi è arrivato il coronavirus sterminatore e ci ha inchiodati a mesi di improvvisa, inevitabile lentezza. Niente treno, niente aereo. La turba degli indaffarati, avvezza a compiere le sue turbolente attività materiali, si è trovata costretta a un lento, inusuale seminario a tempo pieno, propizio all’esercizio spirituale della lentezza, in cui si sono trovati involontariamente coinvolti anche gli animi più inesperti e recalcitranti alla ricerca interiore.

La clausura e la calma imposte dal virus ci forzano a esercitare quella riflessione che la convulsa società secolarizzata ci aveva fatto disimparare e che ora svela ai nostri occhi e ci costringe ad ammettere la differenza tra necessario e superfluo, consistente e futile, adulto e puerile. Più lo sguardo si fa pacato, più senso esso coglie nelle cose che vede e che prima, nella fretta, lasciavano indifferenti. Così quelle idee, quegli oggetti finalmente dotati di senso, offrono al nostro pensiero più spazio su cui distendersi perché solo la lentezza è capace di farci cogliere e amare anche le cose minime, quelle che i poeti scovano senza bisogno di un lockdown: “Benedetti siano gli istanti – e i millimetri – e le ombre – delle piccole cose”, invocava Fernando Pessoa.

Purtroppo la lentezza, come l’ozio, non è una questione per principianti. Richiede vocazione e addestramento. Ma è condizione imprescindibile per alimentare lo spirito creativo che, per testimonianza di Le Corbusier, “si afferma solo dove regna la serenità”.

Questa attuale, inedita esperienza di lentezza, di cui non si intravede la fine, forse va vissuta come un’esercitazione corale in vista del futuro prossimo in cui, affidate alle macchine tutte le azioni che richiedono velocità e precisione, agli umani resta finalmente il tempo per assaporare le gioie della creatività e della sensualità, della politica, dell’estetica e della convivialità.

 

Freddo post Natale. Il mondo è scosso dalle burrasche

in Italia – Aria marittima umida e mite ha prevalso intorno al Solstizio d’Inverno prima dell’irruzione fredda di Natale e Santo Stefano. Piogge quotidiane in Liguria, abbondanti sabato 19 e domenica 20 dicembre (83 mm a Rapallo), altrove poco sole si è alternato a nubi frequenti che lunedì sera in molte regioni hanno impedito di osservare la storica congiunzione Giove-Saturno. Nebbie e smog in pianura al Nord, ma tepori fuori stagione, assenza di gelo e 10 °C a 2000 m sulle Alpi. Alla Vigilia, il libeccio tiepido che precedeva il fronte freddo ha scaricato piogge battenti fin sul crinale dell’Appennino tosco-emiliano, poi nel pomeriggio-sera del 25 l’ingresso dell’aria fredda ha innescato inconsueti temporali invernali dalla pianura emiliana al Delta del Po; a Parma e Modena, tra tuoni e lampi, il suolo si è imbiancato di grandine e “neve tonda” (chicchi di ghiaccio opaco e morbido, frequente nelle irruzioni primaverili di aria artica), episodio senza precedenti noti a Natale! Neve sulla pedemontana alessandrina-pavese-emiliana, colline toscane e tutto l’Appennino, bora a Trieste (100 km/h), e il gelo di stamattina in Valpadana prepara il terreno per la nevicata della prossima notte al Nord-Ovest e sulle Alpi.

Nel mondo –Prima di Natale la mitezza tardiva ha interessato tutta Europa, con temperature massime di 14,5 °C a Basilea, 17,0 °C a Tafjord, Norvegia (non lontano dal record nazionale decembrino di 18,3 °C) e 23,0 °C a Bilbao, Paesi Baschi. Tepori notturni da primato in Francia con minima di 13 °C ad Amiens e Roissy, presso Parigi, valore che sarebbe normale a giugno. Poi l’inverno è arrivato improvvisamente alla Vigilia prima di raggiungere anche l’Italia, imbiancando di neve le colline della Germania proprio la notte di Natale. Caso ormai raro, oltre all’Europa sono molte le regioni del mondo che in questi giorni vivono un freddo anomalo: Stati Uniti (punte di -30 °C in Minnesota e -5 °C in Florida), Argentina, Mongolia, Cina, Corea, e anche il Pacifico equatoriale, dove è in corso un evento “La Niña”, periodica controparte fredda del Niño. Ciononostante il 2020 nel suo insieme si chiuderà tra i tre anni più caldi a livello mondiale. L’agenzia meteorologica spagnola segnala inoltre che dei 1509 record termici registrati nel Paese nell’ultimo decennio, quasi tutti sono stati di caldo (95%) e pochissimi di freddo (5%), confermando la supremazia del riscaldamento atmosferico. Nuovo primato islandese di 570 mm di pioggia in 5 giorni sulla costa est dell’isola e conseguente inconsueta alluvione invernale. Diluvi eccezionali anche in Israele, 200 mm nel nord del Paese, a poche settimane dall’analogo episodio di metà novembre. Alluvioni inoltre in Algeria, nello stato brasiliano di Rio de Janeiro (una vittima) e nelle Filippine (8 morti). A Santo Stefano la tempesta battezzata “Bella” dal MetOffice ha colpito le isole britanniche con allagamenti e raffiche di vento a oltre 100 km/h. A proposito di burrasche, a trentasei anni dalla prima uscita è apparsa postuma per Odoya la nuova edizione italiana di Storia del vento del naturalista sudafricano Lyall Watson (1939-2008): un corposo saggio divulgativo che esplora l’universo del vento e il suo ruolo onnipresente nel determinare i fenomeni atmosferici, la storia umana (guerre, esplorazioni e commerci, produzione di energia), e il funzionamento dei sistemi naturali con gli adattamenti di piante e animali e la diffusione anemofila di semi, spore e pollini. La trattazione tecnica degli aspetti meteorologici non sempre è ortodossa ma la vastità dei temi affrontati, con centinaia di aneddoti curiosi e riferimenti bibliografici, ne fanno in ogni caso una lettura istruttiva e consigliabile in questi giorni di pausa invernale e zone rosse.

 

Anno nuovo. Progettando il futuro lasciamo spazio alla volontà di Dio

Alla fine di un anno viene spontaneo fare bilanci del passato e progetti per il futuro. Soprattutto alla fine di questo anno segnato da una pandemia che forse non ci ha resi più umili ma certamente più fragili e più consapevoli della nostra vulnerabilità. Abbiamo capito meglio che i nostri comportamenti hanno delle conseguenze, ma forse non altrettanto bene quanto dobbiamo avere più cura responsabile di noi stessi e del nostro prossimo e quanto dobbiamo avere più capacità di visione del futuro. Comunque, si fanno buoni bilanci e progetti se si valutano tutti i fatti e gli eventi, le risorse disponibili e le eventualità, e se si prevede anche una certa dose di “imprevisti”.

“L’uomo fa molti progetti, ma il Signore ha l’ultima parola” dice il libro dei Proverbi (16,1 secondo la Traduzione interconfessionale in lingua corrente-Tilc) nell’Antico Testamento; “voi che dite: ‘Oggi o domani andremo nella tale città, vi staremo un anno, trafficheremo e guadagneremo’; mentre non sapete quel che succederà domani! Che cos’è infatti la vostra vita? Siete un vapore che appare per un istante e poi svanisce. Dovreste dire invece: ‘Se Dio vuole, saremo in vita e faremo questo o quest’altro’” dice la Lettera di Giacomo (4,13-15) nel Nuovo Testamento. Questi testi ricordano a chi crede che Dio non è un’appendice dei nostri progetti, non è una frase fatta, da ripetere per convenzione o scaramanzia, ma è il riferimento critico dei nostri affari e delle nostre scelte: c’è Dio, con la sua volontà, nei momenti cruciali, importanti della nostra vita? O Dio c’è solo nei momenti marginali, “religiosi”, o di pericolo e bisogno estremi? Quando facciamo dei progetti, quando ci prepariamo a fare delle scelte, ci preoccupiamo che non contraddicano Dio o che, in qualche misura, gli corrispondano? Insomma: Dio c’è e conta nella nostra vita o è solo un optional?

Spesso noi agiamo come eterni adolescenti che pensano di possedere il segreto dell’immortalità, e nonostante la pandemia abbia dato un duro colpo alle nostre certezze, continuiamo a vivere e a pensare che tutto debba procedere per vie prevedibili. Per carità è anche giusto così, è nostra responsabilità non farci cogliere impreparati. Le conoscenze che abbiamo acquisito in molti campi hanno tolto quasi ogni giustificazione all’impreparazione di fronte a eventi prevedibili. Ma se fosse Dio il nostro “imprevisto”? Se fosse Dio a sorprenderci? Non necessariamente per qualcosa di spiacevole, ma, per esempio, per chiederci di fare qualcosa per gli altri; per chiederci di modificare un nostro progetto perché sia più conforme alla sua volontà; per chiederci di modificare l’uso delle nostre risorse. Perché non lasciare ogni tanto a Dio la possibilità di interrogarci sul senso, ultimo e penultimo, dei nostri progetti e delle nostre speranze, cioè dell’esistenza che conduciamo?

“L’uomo fa molti progetti, ma il Signore ha l’ultima parola”, “Se Dio vuole”, questi testi ci ricordano che Dio ci viene incontro e che vuole qualcosa da noi e per noi. “Se Dio vuole” significa che c’è una volontà di Dio da ricercare e da compiere. Vuol dire che c’è un disegno, un pensiero di Dio che consente una vita nuova e significativa, una vita piena, abbondante. Perché Dio vuole, perché Dio ha una volontà sulla nostra vita. Se riconosciamo valore a queste parole bibliche, possiamo comprendere che noi non siamo solo l’elenco delle cose che abbiamo fatto, facciamo, o ci proponiamo di fare ma che possiamo mantenere aperto almeno uno spiraglio nella nostra vita in cui Dio possa intromettersi, chiamarci, parlarci e condurci là dove Lui vuole.

*Già moderatore della Tavola Valdese

 

Trump va via: messa finita per Meloni, Salvini & c.

“Oddio, Trump fa sul serio. L’altra sera, in tv, l’ex direttore dell’Unità Furio Colombo, aveva un diavolo per capello cotonato. Senza che il povero conduttore del programma riuscisse ad arginare lo sfogo, l’uomo che per una vita è stato il rappresentante della Fiat in America, ha elencato tutte le malefatte del nuovo presidente degli Stati Uniti (dal muro col Messico alla caccia agli immigrati, al respingimento dagli ospedali degli ammalati poveri, ndr). Una cosa è certa, nonostante l’angosciato stupore di Furio Colombo, Donald Trump si appresta davvero a cambiare l’America e, per riflesso, la storia. (…) Ma se gli USA cambiano marcia, cambia marcia anche il resto del pianeta. Trump sta dando un duro colpo alla globalizzazione. Anzi si appresta a seppellirla. ‘Prima gli americani’, ha assicurato durante le migliaia di comizi in giro per la provincia a stelle e strisce. The Donald sta approvando misure a tutela degli americani e dei loro interessi proprio come promesso (…) Insomma, tra urla della intellighenzia di sinistra, rappresentata dai vari Furio Colombo, Trump sta attuando ciò che noi desideriamo si facesse in Italia. E, a proposito del nostro Paese, ieri Giorgia Meloni, Matteo Salvini, insieme a Giovanni Toti, Giulio Tremonti, Daniela Santanchè, si sono dati appuntamento di fronte a Palazzo Chigi proprio per dire ‘Prima gli italiani’”. Prima di chi?

Non sono un collezionista delle copie arretrate de La Verità, il giornale diretto, e in parte abbondante scritto (neanche male) da Maurizio Belpietro. Ma in questo caso l’ho fatto, confidando nella tenacia e nella ostinazione degli americani che sono sempre stati capaci di cancellare i loro momenti bui. È successo dopo i giorni tragici dell’Anti American Committee di Joseph Mc Carthy, strumento di persecuzione neofascista. È successo dopo le uccisioni di John Kennedy, Martin Luther King, Robert Kennedy: tornare a essere e a dichiararsi un Paese normale. Un Paese normale non dice “America First”, condannandosi a un totale isolamento economico e a una grandissima solitudine politica, situazione che descrive bene la Russia di Putin ma è attentamente evitata dalla Cina di Xi. E l’Italia farebbe bene a non far girare quello slogan, che stronca il nostro interesse mondiale (turistico, culturale, storico, religioso), e contraddice, anzi nega, la natura dell’Italia come libero luogo di scambio e di mercato. Perché dovrei andare a operare in un Paese non per la qualità delle sue merci e l’affidabilità dei rapporti, ma dove la nazionalità privilegiata dei nativi può sempre spingermi indietro e togliermi ciò che ho meritato, perché “gli italiani vengono primi”?

Con l’esito delle elezioni americane è stato abbattuto un capofila tra i più folli (non tra i più potenti, che ancora non si sono rivelati) della destra del mondo, al quale si erano affidati, con strana cecità, i politici italiani detti “l’opposizione”. Volevano, in quanto italiani, già respinti indietro dallo slogan trumpiano, essere primi rispetto a se stessi e, allo stesso tempo, contro se stessi. L’insensata parola d’ordine respinge gli amici e non sa indicare i nemici. Contro chi, perché, quando, e a causa di che cosa le Meloni, i Salvini, le Santanchè, i Tremonti (che non so spiegarmi perché compaia in questa lista) vogliono vincere in quanto italiani, in un Paese che hanno governato e indirettamente governano? Perché un gruppetto di politici che hanno molto e vogliono di più, pensano che sia onorevole, per un Paese di 60 milioni di persone, terza o quarta potenza del mondo, arrivare prima di un barcone di profughi e godere per diritto automatico a piazzarsi davanti. E tutti gli altri primi di tutti gli altri Paesi del mondo che si erano accodati a Trump? Nessuno, nella destra esaltata dal breve trionfo Trump e dalla ebrezza per quella vittoria, sembra essersi accorto che “America First” o “prima gli italiani” o gli ungheresi o i polacchi, nega il capitalismo e cancella la libertà perché non promette ma impone la vittoria di una parte. Come non vedono che la affermazione apparentemente roboante è in realtà autodenigratoria, tu, vittorioso fra i popoli, perché trumpiano o perché erede fortunato dei Meloni-Salvini, non ti sei conquistato nulla. Sei il primo della fila perché italiano o ungherese o polacco (aggiungete le decine di nomi che si sono intruppate in questa finzione di diritto naturale in cui ciascun privilegiato nega l’altro). Non potranno dire, anche impugnando i rosari, che il diritto di primogenitura nazionale viene da un Dio che, in tutte le religioni, si ostina a verificare il merito di ciascuno. Ma adesso, salvo ribellione sulla porta della Casa Bianca, Trump se ne va, liberando il mondo dai suoi disturbi mentali. Capiranno i suoi assistenti al rito un po’ folle dei popoli “prima noi”, che la messa è finita?

 

Chi tiene nel cuore un soffio d’amore

“Pietro mi ha fatto pena, piangeva. Con la madre di Camilla abbiamo pensato di dargli una carezza, perché durante il processo è sempre stato solo”.

Gabriella Saracino, la madre di Gaia travolta e uccisa insieme all’amica Camilla Romagnoli dall’auto condotta da Pietro Genovese, un anno fa a Corso Francia

L’annus horribilis 2020 si conclude con una carezza. Un gesto di compassione che assume un valore inestimabile perché generato in un attimo squassante di una tragedia indicibile. Troppi aggettivi? Forse, ma non è una letterina di Natale ma l’esatto momento nel quale il giudice legge la sentenza che condanna a 8 anni di carcere Pietro Genovese, figlio del regista Paolo. No, non è perdono, quella espressione un po’ oscena che si tenta di strappare ad uso dei microfoni, o di un titolo sul giornale a chi ha perduto una figlia, un figlio, tutto. No, non può essere perdono dice la mamma di Gaia, è troppo presto, è un percorso lungo e difficile. Per la mamma di Camilla non crediamo sia diversamente. Una carezza è altro dal perdono: molto di più come slancio del cuore, molto di meno come sigillo umano e legale di una perdita irrecuperabile. La distanza che separa i tre ragazzi è infinita. Gaia e Camilla, innocenti e gioiose mentre attraversano quella strada, non ci sono più. Pietro piange, schiacciato dal rimorso e dalla pena, ma è vivo. I suoi genitori, i suoi amici, le persone a lui care e che trepidano per lui sanno che, giovanissimo com’è, prima o poi ricomincerà a vivere, avrà tutta una vita davanti, è solo una questione di tempo. Mentre Gabriella e Cristina sanno che per Gaia e Camilla il tempo è finito, quando stava appena cominciando. Le due madri vivono un dolore implacabile, incommensurabile, eppure di fronte alla sofferenza di colui che la giustizia ha punito per ciò che a loro è stato tolto conservano nel cuore un soffio d’amore. Non indugeremo sul mistero di quell’atto. Ma vorremmo che assumesse un valore complessivo, universale. L’antidoto più forte di qualunque odio. Il miracolo che scaccia le nuvole gonfie di rancore che ci sovrastano. La carezza che sconfigge il pugno.

 

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Rinnovo l’abbonamento anche quest’anno

È stato un anno molto duro per me, e lo sarà anche il 2021.

Nonostante ciò ho deciso di continuare a supportare il vostro giornale perché è il minimo che possa fare per ringraziarvi del grande servizio che fornite.

Rosanna Busetto

 

Fondo d’emergenza: facciamolo per davvero

L’idea di Natale Ghinassi a proposito della creazione di un fondo d’emergenza, per coprire gli eventuali risarcimenti derivanti dall’esito delle famigerate cause legali, mi trova d’accordo. Pensateci, studiate un modo.

Franco Montanari

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo “Giacomo Mancini jr e la campagna del 2018. ‘Non tutti vogliono fare le cose tracciabili’” pubblicato a pagina 14 del Fatto Quotidiano del 24 dicembre scorso chiedo la pubblicazione della seguente rettifica. Nel febbraio del 2018 ho risposto positivamente alla richiesta che mi è pervenuta dai dirigenti del Pd della Calabria a candidarmi nel collegio uninominale di Cosenza. Quel collegio era considerato, da tutti i sondaggi diffusi sui media nazionali e regionali, perdente per il centrosinistra. Era noto a tutti quale sarebbe stato il risultato finale: vittoria schiacciante del M5S. Immagino che fosse noto anche alle cosche, che come viene ribadito da autorevoli magistrati inquirenti, volta per volta sostengono lo schieramento considerato vincente. Certamente ne ero consapevole io che accettai la candidatura per puro spirito di servizio. La mia prima dichiarazione da candidato fu di chiedere solo voti puliti e di rifiutare anche un solo voto non limpido o proveniente dalla criminalità organizzata. E su questa linea, che contraddistingue tutto il mio impegno in politica, ho condotto la campagna elettorale. Che si è conclusa con la nettissima affermazione della candidata del M5S. Come da previsioni. Quella campagna elettorale, come tutte quelle che ho affrontato, l’ho pagata con risorse personali. Tutte le spese sono documentate per come da legge. Non ho richiesto contributi economici a dirigenti politici, a imprenditori o a chicchessia. Né li ho ricevuti. In particolare non sono mai stato convocato e mai sono andato a Roma per richiedere un contributo economico al senatore Denis Verdini. E di conseguenza mai l’ho ricevuto. E mai ho pronunciato la frase “Non tutti vogliono fare le cose tracciabili” che mi viene attribuita dal Fatto nel titolo dell’articolo. Affermare il contrario significa dire il falso. E di conseguenza commettere il reato di calunnia. È evidente quindi che ogni parola pronunciata o diffusa che leda la mia reputazione è e sarà oggetto di querela da parte mia. Senza sconti per nessuno.

Giacomo Mancini

 

Prendiamo atto della replica di Mancini e della sua teoria secondo cui le cosche hanno appoggiato il M5S alle politiche del 2018 quando lo stesso era candidato con il Pd. Se dovesse avere elementi in merito, non esiti a recarsi in Procura a Catanzaro dove, nel fascicolo “Farmabusiness”, troverà pure le intercettazioni riportate dal Fatto. Mancini scoprirà che la frase “Se Denis non paga? Qua non abbiamo niente (intende di soldi)”, secondo la guardia di finanza è stata pronunciata da suo padre, Pietro, parlando con l’ex consigliere regionale Pino Tursi Prato, già condannato per concorso esterno con la ‘ndrangheta. Lo stesso Tursi Prato che, in compagnia di suo padre, avrebbe detto che “Verdini ha convocato Giacomo presumibilmente per finanziare parte della sua campagna elettorale”. Come si evince dal nostro articolo, infine, la frase “Non tutti vogliono fare le cose tracciabili” è addebitata all’ex deputato Nicola Adamo e non a Mancini.

Lu. mu.

 

In merito all’articolo “Salta lo stop alle trivelle” si smentisce seccamente ogni ipotesi relativa a una presunta richiesta del Sottosegretario Riccardo Fraccaro di togliere la norma sugli idrocarburi dal decreto Milleproroghe. Si tratta di una ridicola falsità frutto della fantasia dell’autore dell’articolo. Il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio non può decidere quali norme vadano inserite o meno in un provvedimento. Inoltre Fraccaro ha sempre sostenuto, pubblicamente e nelle sedi istituzionali, la necessità di bloccare le ricerche di fonti fossili per avviare una transizione energetica del Paese. È promotore del Superbonus e del Reddito energetico, due misure che promuovono crescita economica e tutela ambientale. Sostenere che abbia voluto cancellare lo stop alla coltivazione di idrocarburi è una gravissima falsità priva di fondamento, che l’autore dell’articolo ha pubblicato senza procedere alla minima verifica derogando in maniera inaccettabile alle regole del buon giornalismo. È intenzione del M5s porre il tema dello stop alle trivelle nel primo provvedimento utile per garantire lo sviluppo sostenibile del Paese.

Ufficio Stampa di Riccardo Fraccaro

 

Prendiamo atto della smentita, ma non possiamo che ribadire il contenuto dell’articolo, frutto di due diverse fonti dirette: le regole del buon giornalismo non le decidono i politici, né i loro staff. Spiace, poi, dover spiegare l’ovvio. Nell’articolo viene raccontato che esiste un problema all’interno della maggioranza su quella misura ed è nella sua veste istituzionale, non certo come sostenitore del petrolio, che Fraccaro è tenuto a intervenire: coordinare l’agenda del governo è il suo lavoro. Facciamo infine notare che “il primo provvedimento utile” per lo stop alle trivelle era il dl Milleproroghe: infatti nella bozza entrata a Palazzo Chigi c’era, nel testo finale no. Sarà uscito senza autorizzazione nonostante il lockdown?

Ma. Pa.

Storia del tassista russo a Parigi, che un tempo era ministro dell’Interno

Dai racconti apocrifi di Arthur Adamov. A Parigi, in un processo penale, i giudici assolsero da accuse infondate il mio assistito, un tassista russo. “Anche in Russia faceva il tassista?” “No, signor Presidente.” “Che mestiere faceva?” “Sotto Guchkov ero ministro dell’Interno.” Mi invitò a pranzo in un ristorante di lusso, il Petrograd. Entrammo, e alcuni avventori, levatisi di scatto, lo omaggiarono battendo i talloni e appoggiando il mento al petto. Sedette con gravità, e in un’occhiata semicircolare prese nozione del pubblico. Dal tavolo accanto, una signora elegante, in un vestito austero di seta nera, rispose al suo cenno di saluto con un misuratissimo sorriso protocollare. “La granduchessa Militza di Montenegro”, mi spiegò. “È la proprietaria. Prepara personalmente gli antipasti che hanno reso celebre questo posto. Va lei stessa al mercato a fare gli acquisti, alle cinque del mattino, guidando un furgoncino Citroën. E la sera, nel suo studio a Montparnasse, riceve Picasso, Boldini, Colette, la principessa Bibescu, re Ferdinando di Romania, i fratelli Goncourt e Marcel Proust. Come le sembra questo coulibiac?” “Eccellente.” “Mio padre era lo chef del Lusitania,” aggiunse. “Allievo di Escoffier, morì nel naufragio. Mi insegnò che non si deve arrivare tardi nei ristoranti.” “Perché?” “Perché se arrivi verso la fine del servizio, nel tuo Stroganoff ci saranno invariabilmente gli sputi del personale che è stato costretto a trattenersi per cucinartelo e servirtelo. Lo sputo è uno strumento della lotta di classe, come lo sciopero e il sabotaggio. E dato che la granduchessa maltratta il personale” proseguì “io mangio solo gli antipasti preparati da lei. Qui è rischioso affrontare i misteri di un borscht: ogni volta che la granduchessa alza la voce, in cucina parte uno sputo proletario.” Non ci tornai più. Mangiavo alla Trattoria Odessa, una bettola russa frequentata da operai. Una parete era occupata da una riproduzione del manifesto di Marx del 1848, quella di fronte dai ritratti di Lenin e di Proudhon. Un grammofono alternava canzoni di Aristide Bruant all’Internazionale. I clienti chiamavano “compagno” il cameriere, il cameriere chiamava “compagni” i clienti. Niente lotta di classe: una garanzia di igiene. Col tempo, il tassista mi introdusse nell’ambiente russo di Parigi, dove conobbi letterati, poetesse, pittori, altre granduchesse, e il generale Kaledin, uno che scattava sull’attenti ogni volta che nominava lo Zar. Calvo come un ginocchio, il naso rosso popolato di pallottoline, era convinto che presto sarebbe tornato in patria con tutti gli onori, per riprendere il comando del suo reggimento di cosacchi del Don con cui avrebbe riportato la Russia allo splendore di Pietro il Grande. Una sera, il generale Kaledin mi invitò a cena nel suo alloggio, una soffitta modesta e fredda in un caseggiato squallido. Mi mostrò le decorazioni, i giornali ingialliti con la sua fotografia, cantò le canzoni del suo reggimento. “E ora eccomi qui,” disse, con un gesto panoramico. “Ecco a cosa è ridotto Alexey Kaledin, generale dei cosacchi del Don. Sa come vivo in esilio? Glielo dico: faccio il cuoco alla Trattoria Odessa, la più lercia delle bettole russe, frequentata da comunisti e anarchici, quelli che hanno rovinato il mio Paese. Tutta gente che odio, e che un giorno farò finire davanti al plotone di esecuzione. Per il momento non ho altra soddisfazione che quella di sputare in quelle loro minestre popolari, fatte di patate, aglio e cipolle. È la mia vendetta contro i debosciati che hanno ucciso lo Zar.” E qui scattò sull’attenti, intonando un accorato “Dio salvi lo Zar” fino alle lacrime.

 

Boschi & Bellanova: le dark lady di Iv protagoniste a Chigi di un fumettone pulp

È il noir di Natale, con tutti i crismi dell’hard boiled. Ci sono le dark lady, il poliziotto grullo, l’aiutante scemo ma sincero; e poi c’è lui, l’eroe, il detective geniale che lavora nell’ombra, con la carriera finita per aver rifiutato di piegarsi alla disciplina. Andate a cercarlo: è un “retroscena” del Corriere sull’incontro tra Conte e la delegazione di Italia Viva, ovvero l’antimateria della politica che per tigna sta condizionando i destini della Nazione. La “regia dell’incontro” studiata dal detective eroe è una tagliola psicologica. “Ettore (Rosato ndr) cominci tu e rimetti subito a posto Giuseppi” (sic).

Conte chiede ingenuamente (è grullo) di presentare il piano di Iv per il Recovery. Ma lì, appostata come l’anaconda, fredda, sicura di sé, lo incenerisce Boschi: “Guarda che noi adesso abbiamo la manovra di cui occuparci”. Conte (poveraccio, non sa con chi ha a che fare): “Ma così rischiamo di ritardare troppo”. Boschi: “Chi rallenta sei tu, non noi”. Il fumettone pulp regala brividi caldi: la femme fatale

accusa Conte di aver mandato un emendamento alle due di notte. La cronista, che deve aver letto Chandler e Capote (del resto accompagnò l’eroe nel tour per l’Italia a bordo di un treno personale a scopo di propaganda), alza la tensione: “Ed ecco subentrare l’altra grande protagonista dell’incontro. Bellanova: ‘Ma ci state prendendo in giro!’. Conte: ‘Ma no, non era un emendamento’. Boschi: ‘Guarda che sappiamo come si scrive un emendamento (la bionda inizia tutti i suoi discorsi con “Guarda che”, ndr). Bellanova: ‘Va bene allora se non sapete nemmeno che cos’era vuole dire che questo è un governo non inutile ma pericoloso’”. È un massacro. Il sangue imbratta il bianco e nero della scena. Conte viene smentito da Gualtieri e Fraccaro, appuntati balbettanti: “Ehm, presidente sì, effettivamente è così, era un emendamento”. Il racconto prende una piega perturbante: “Boschi, con la matita blu e rossa” corregge il presidente. C’è del sadomaso. La più anziana delle due lady, più verace e colorita dell’algida bionda, scende gridando le scale: “È un ipocrita!”.

Su Twitter gongolano ipersalivando gli elettori di Italia viva (stanno tutti lì sopra, peraltro: fuori sono stati cercati con radiotelescopi, antenne, strumenti in grado di rilevare firme biologiche come ossigeno, metano e azoto: niente). Si divertono così. E un po’ li invidiamo: lungi dal poter prendere sul serio il fogliettone, ne vediamo solo l’aspetto comico. L’eroe che nell’ombra detta alla cronista i punti salienti della scena hard è un personaggio fantastico: se scende ancora un po’ nei sondaggi finisce nei numeri irrazionali.

Il mangime per i flash e l’amnesia sui 49 milioni

Fare la carità con il fotografo al seguito è uno dei gesti più miserabili che un politico possa inventarsi per rastrellare qualche spicciolo di voto e un po’ di falsa identità. Matteo Salvini, leader della Lega, stavolta travestito da Babbo Natale, l’ha appena fatto approfittando dell’indole dei suoi elettori, allenati all’egoismo sociale durante la settimana di lavoro, ma disponibili alla compassione nelle feste comandate. Il fatto che nella sua sceneggiata – molestando per una intera mattina i passanti di Milano – abbia persino sbagliato persona, consegnando un pacco viveri a una signora di colore credendola una senza tetto, ci dice quanto sia automatico il suo buonismo razzista. Fa ridere e insieme fa piangere.

Ma il dettaglio peggiore di quelle immagini è il furto vigliacco che il gesto contiene. Quello di rubare in pubblico ai più poveri la loro storia, l’ultima cosa che ancora posseggono, per appropriarsene. Usare i loro volti, dove quella storia è inscritta, per farli fruttare nel proprio tornaconto politico. A Salvini vivere al caldo non basta mai. Da anni ci deve 49 milioni di euro, ma preferisce parlare d’altro e cavarsela con un po’ di mangime per gli ultimi della fila.