Se l’élite pretende il potere, son meglio cuoche e cameriere

Dice Vittorio Sgarbi che Virginia Raggi “prima di fare il sindaco faceva la cameriera in uno studio di avvocati”. Solita robaccia misogina. A cui, più diplomatico, risponde Carlo Calenda: “Sgarbi sbaglia” perché non c’è nulla di “poco dignitoso nel fare la cameriera”. “Esiste però una questione che ha a che fare con la preparazione per svolgere una carica pubblica complessa. Sostenere che chiunque senza preparazione possa fare qualsiasi lavoro è un grave errore”.

E qui è tutto un mondo che viene a galla, un nuovo “elitismo” al cui confronto i Gaetano Mosca o Vilfredo Pareto sembrano dei democratici radicali. Perché l’élite dei “preparati” a cui Calenda si onora di appartenere è lì in agguato e non vede l’ora di rimettersi in sella, forte della propria intoccabile, sedicente autorevolezza.

Accampare scrupolicosì sofisticati in realtà è spesso un pretesto. Prima di fare la sindaca, Raggi è stata per una legislatura consigliera comunale. Che altra preparazione avrebbe dovuto avere? Se fosse valso questo principio, i contadini, gli operai, la gente del popolo che irruppe nella vita democratica in seguito all’affermazione dei partiti di massa sarebbe dovuta essere bandita dalla politica attiva.

Mentre Raggi deve dimostrare ogni giorno la propria preparazione, il presunto passato bracciantile di Teresa Bellanova è esibito come un santino. Così come non si mette mai becco sulla totale mancanza di esperienza amministrativa del ministro che ha in mano la salute degli italiani, Roberto Speranza, mentre su Lucia Azzolina si abbattono polemiche che sembrano asce. E chi, a parte Trump, rimprovera ad Alexandria Ocasio-Cortez il suo passato da cameriera?

Nell’attacco all’inesperienza, all’ingenuità, a volte, va detto, mista anche ad arroganza, del Movimento 5 Stelle si vuol in realtà restaurare il primato dei tecnici e dei competenti non solo per un regolamento dei conti contro i populisti. La campagna contro gli “scappati di casa” che accomuna un’intera élite di dirigenti politici, giornalisti di grido, politologi da talk show, serve a ribadire che a guidare un paese, quale esso sia, possono essere solo gli ottimati. I quali, guarda caso, sono dotati di un unico pensiero e di un’unica ricetta da assumere senza protestare in quanto, ipso facto, la giusta ricetta.

La politica, è la tesi di questa importante corrente, deve affidarsi alla sapienza così come, nella pandemia da Coronavirus, ci si affida agli scienziati. Anche perché, in tempi di morte delle ideologie, e delle idee, la politica non è altro che una mera amministrazione operativa. Calenda ha costruito il proprio personaggio solo su questo, in maniera abile, va detto, perché in quanto a esperienza amministrativa non ne ha molta da vantare. Ma si pensi anche all’insistenza quotidiana con cui i giornali si occupano di Sabino Cassese, emerito giurista ma anche “prezzemolino” mediatico, intervistato, blandito e ospitato come editorialista da un po’ tutti i quotidiani italiani con le sue intemerate anti-governative a prescindere. Cassese costituisce la rappresentazione perfetta della “carica dei competenti” venuti a stampigliare sulle dita dei malcapitati politici d’occasione sonore bacchettate inferte dall’alto della propria scienza applicata.

Si dimentica, però, che i “tecnici” sono stati già al governo e che tra il 2008 e il 2012, hanno offerto una misera dimostrazione delle loro capacità. Mario Monti o Elsa Fornero hanno il loro posto nel pantheon del rigetto popolare. Lo stesso Obama, nelle sue memorie, deve ammettere che essersi affidato a Larry Summers come consigliere economico, in chiara concessione a Wall Street, non ha giovato del tutto.

Diceva Lenin che anche una “cuoca” dovrebbe poter condurre lo Stato. E il punto, a parte la vecchia ideologia, rimane ancora quello. Hanno diritto i subalterni a governare lo Stato o devono chiedere il permesso? In passato lo hanno fatto grazie all’azione dei partiti, che hanno rappresentato strumenti di formazione permanente soprattutto quando erano rappresentativi degli strati popolari. Ma i partiti oggi non ci sono. Come rimediare? Intimando a chi ci prova di tornare al proprio posto, sventolandogli sotto il naso l’ultimo, ricco, master di business administration? O magari creando anche in Italia una scuola della Pubblica amministrazione come l’Ena francese, sapendo che a dirigerla ci sarebbe Elsa Fornero?

L’unica soluzione, perciò, è la politica. Esiste lo scontro di idee, esistono competenti di destra e di sinistra, la democrazia funziona così. Se prende i voti, anche una cameriera, o una cuoca, deve poter governare lo Stato. Gli ottimati si rassegnino.

Lo scoop vale 27 anni di galera

Come aveva recentemente pronosticato al Fatto, il giornalista turco Can Dündar è stato condannato in contumacia a quasi 27 anni di carcere per “sostegno a un’organizzazione terroristica” e per “aver ottenuto e pubblicato documenti a scopo di spionaggio militare o politico”. Dündar, saggista e autore di documentari televisivi, da 4 anni vive in esilio a Berlino dove si trovava per lavoro quando venne accusato dalla magistratura turca di aver sostenuto il fallito golpe del 2016. L’anno precedente Dündar era già stato condannato per aver pubblicato su Cumhuriyet – il giornale indipendente e repubblicano di cui allora era direttore – video e fotografie da cui risultava evidente il coinvolgimento dei servizi segreti turchi nel conflitto siriano. Mentre il presidente Recep Tayyip Erdogan affermava di non aver mai finanziato e armato direttamente i gruppi islamici che combattevano contro l’esercito lealista del presidente Bashar al-Assad, lo scoop di Dündar lo smentì. La furia del Sultano a quel punto si abbatté su tutta la redazione ma soprattutto sul direttore che fu subito arrestato, passando quattro mesi in carcerazione preventiva.

Rilasciato perché la Corte Costituzionale aveva stabilito che la custodia cautelare dei giornalisti viola i loro diritti, mentre attendeva fuori dal Tribunale il verdetto fu colpito di striscio da un colpo di pistola sparato da un sostenitore di Erdogan. Ma in quel frangente Dündar credeva ancora all’indipendenza della magistratura turca. Fiducia che crollò quando, poco dopo, venne accusato di essere anche un terrorista-golpista. Una accusa assurda per un giornalista laico che aveva sempre criticato l’organizzazione-lobby ‘Feto’ creata dall’ex mentore di Erdogan, Fetullah Gülen, accusato di essere la mente dietro il fallito colpo di Stato. Gülen, che da quasi vent’anni vive negli Stati Uniti, è stato condannato assieme a centinaia di turchi per terrorismo e tentato sovvertimento dello Stato. E ora è arrivata la sentenza per Dündar anche in merito alle accuse di “terrorismo”. Il Centro europeo per la stampa e la libertà dei media (Ecpmf) ha condannato fermamente la decisione. “Questa è una parodia della giustizia che è indicativa dell’uso improprio motivato politicamente del sistema giudiziario per impedire a Can Dündar di svolgere il proprio mestiere di giornalista”, ha affermato il vicedirettore generale di Ecpmf, Andreas Lamm. Dündar così ha commentato: “Questa sentenza è un tentativo del governo di intimidire il più possibile la stampa indipendente. La Turchia sta diventando una nazione autoritaria ma per fortuna c’è una società civile forte che lotta per scongiurare questa deriva, come si è visto dai risultati delle ultime elezioni amministrative”.

Chi butta il cibo paga: Xi lancia l’operazione “Piatto vuoto”

Da domani in Cina i ristoratori dovranno pagare ufficialmente per gli avanzi di fine giornata: Pechino continua la sua battaglia contro gli sprechi e ora ha varato un nuovo emendamento contro quello alimentare. Come le azioni militari, anche questo progetto ha ricevuto un nome di battaglia: le autorità di Pechino hanno dato l’avvio all’operazione “Piatto vuoto”. È stato approvato in via definitiva il progetto di legge presentato dal Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo che obbliga al pagamento di multe e sanzioni per riso, noodle e carne che finiscono nella spazzatura.

“La parsimonia è onore, lo spreco vergogna”. Già alla fine dello scorso agosto il presidente Xi Jinping si era espresso contro “le scioccanti e desolanti quantità di cibo” cinese che finivano nella spazzatura. Secondo i dati dell’Accademia delle Scienze nazionale, Pechino e Shanghai, megalopoli prime nella lista dello sperpero, solo nel 2015 hanno cestinato dai 17 ai 18 milioni di tonnellate di cibo, un volume che avrebbe sfamato 50 milioni di persone. Alcuni media del Paese hanno sintetizzato così i nuovi ordini dall’alto: da domani se si va al ristorante in quattro, bisogna ordinare per tre oppure “ordinate un piatto in meno a testa”. Per chi viola la nuova legge, da pagare ci sono migliaia di yen: le multe arriveranno non solo ai proprietari di bar e ristoranti, ma anche a giornali, tv e canali web che promuovono “la cultura dell’eccesso alimentare”. Vietato il voyeurismo gastronomico: bandita soprattutto la moda asiatica del mukbang, una performance in cui si mangia ininterrottamente in diretta sui social per i follower . Così il governo esorta alla “promozione di uno stile di vita sano, razionale, ecologico, essenziale per rispettare le risorse ambientali e un’economia sostenibile”. Per detrattori e critici invece, Pechino si sta preparando ad affrontare due crisi: quella alimentare e lo shock economico che presto colpirà il Paese per le incrinate relazioni con i partner occidentali.

La Brexit passa alla storia con l’accordo dell’acciuga

Dopo una trattativa infinita, estenuante, a tratti rabbiosa e che ha messo in evidenza profonde differenze culturali e ideologiche, il Regno unito e l’Unione europea hanno raggiunto ieri pomeriggio una intesa di massima sul futuro dei loro rapporti commerciali: futuro vicinissimo, visto che, sempre che non ci siano veti dell’ultimo minuto e che i rispettivi parlamenti, quello britannico e quello europeo, ratifichino in tempo, l’accordo sarà esecutivo già dal 1° gennaio. Per avere il testo di questo trattato, circa 2000 pagine di linee politiche e tecnicismi per regolamentare un interscambio da 700 miliardi l’anno, bisognerà aspettare oggi, e per districarsi fra i dettagli qualche giorno in più.

Ma il compromesso è stato raggiunto all’ultimo miglio, come nella migliore tradizione di questo negoziato, pesantemente condizionato dall’ideologia da entrambe le parti: per il Regno Unito, la spinta sovranista sopra tutto, la necessità di portare a casa lo scalpo di una vittoria contro una Europa vista da una parte della popolazione e della politica come la reincarnazione burocratica della Germania nazista. Di conseguenza, sia con le pressioni dei falchi “brexiteers” su Theresa May, pm britannico che ha tenuto invano di ottenere un accordo il più vicino possibile allo status quo ed è stata per questo defenestrata, sia con la linea apertamente belligerante del suo successore Boris Johnson, Londra ha infine scelto una Brexit dura, di massima divergenza possibile, almeno nei toni, dalle “catene europee”. Verso una ‘libertà’ politica, economica e commerciale, un rilancio della Great Britain che potrebbe rivelarsi una chimera. Per la Ue, di conseguenza, il mandato è stato quello di mostrarsi uniti e saldi contro la minaccia di analoghe spinte centrifughe di altri stati membri che metterebbero a repentaglio l’intero progetto europeo. Il paradosso è che questo scontro epocale, geopolitico, economico, ideologico, di enorme impatto su entrambe le parti, si è arenato per settimane su una partita largamente simbolica: quella dei diritti di pesca nelle ricchissime acque territoriali britanniche, che grazie alle politiche comunitarie sono accessibili anche a Germania, Irlanda, Spagna, Paesi Bassi, Francia. Il valore di acciughe, maccarelli e frutti di mare? Per il Regno Unito lo 0,1% del Pil, ma una enorme dote di consenso elettorale. Dall’altra parte della Manica il grande ostacolo è stato lo sciovinismo del presidente francese Macron, che ha bisogno dei voti delle regioni costiere, e ha seguito i britannici nel fare di questo braccio di ferro una bandiera nazionale. Il risultato ieri pomeriggio alla notizia che un accordo era in vista lo ha riportato Reuters, con il commento di un diplomatico francese: “I Britannici sono stati costretti ad ampie concessioni sul pesce”. Un accordo, per quanto tardivo, per quanto costellato di voltafaccia da parte britannica, è meglio di un non accordo, che avrebbe precipitato i due blocchi in una terra incognita, dai contorni economici di medio termine disastrosi, almeno per Londra, il tutto centuplicato dalla crisi del Covid. Ma, anche prima di poter leggere il testo, ci sono alcune certezze: questa trattativa ha allontanato le parti fino quasi alla rottura. La gestione britannica del negoziato, con le sue incertezze, la estrema volubilità di due successivi pm britannici alle pressioni delle ali più estreme del partito di governo; la violazione, a settembre, dell’accordo di divorzio siglato a gennaio con una legge approvata dalla Camera dei Comuni che ne riscrive parti cruciali; tutto questo ha molto indebolito la statura internazionale del Regno unito. Dal 1° gennaio capiremo se la scommessa di Londra è un azzardo o una visione.

Bibi disinnesca Gantz ma i suoi nemici hanno una “Nuova Speranza”

Il mancato accordo sul Bilancio ha chiuso in Israele la stagione del governo dei due nemici. Il patto contro-natura fra Benjamin Netanyahu e Benny Gantz è finito nel peggiore dei modi, con una parte dei parlamentari di Likud e Kahol Lavan (Blu e bianco) che si è rifiutata di piegarsi alla disciplina di partito e ha fatto mancare i voti necessari alla fiducia. Tutti a casa e si torna a votare, per la quarta volta in due anni, il prossimo 23 marzo. Per la prima volta nella storia israeliana, le elezioni saranno una battaglia combattuta in modo schiacciante nell’ala destra dello spettro politico. Il partito laburista, che ha guidato l’Israele moderno per i suoi primi tre decenni, quasi certamente scomparirà dalla mappa politica; il suo ultimo leader Amir Peretz si è dimesso ieri. Anche l’alleanza Kahol Lavan, alla quale Benny Gantz ha attirato centinaia di migliaia di elettori di centro-sinistra promettendo ripetutamente che non avrebbe unito le forze con Netanyahu accusato di corruzione, svanirà o quasi. Il generale che ha mancato alla sua parola è, politicamente parlando, un morto che cammina. La Lista Araba Unita (15 seggi) non sembra si presenterà ancora insieme e perderà consensi.

Alcuni degli elettori abbandonati da Gantz rimarranno nel centrosinistra, votando per Yesh Atid di Yair Lapid (13 seggi). Ma la maggior parte dei sondaggi indica che molti tra coloro che in queste 28 settimane hanno manifestato ogni sabato contro Netanyahu si stanno dirigendo verso gli ultimi campioni del movimento “chiunque tranne Bibi”: la rinascente Yamina del nazionalista ortodosso Naftali Bennett e il falco ribelle del Likud Gideon Sa’ar, con la nuova e straordinariamente popolare New Hope. Entrambi sono in grado di spodestare il Likud dal primato nella destra. Bibi stavolta potrebbe non farcela, e non perché la sinistra ha pescato l’ennesimo generale come frontman ma perché a destra ci sono altre due valide alternative. I loro argomenti per sostituire Netanyahu non sono ideologici. Né sono clamorosamente morali. I suoi due principali sfidanti non hanno appoggiato l’inesorabile assalto di Netanyahu alle gerarchie delle forze dell’ordine che lo perseguono, ma non hanno nemmeno guidato la difesa di una polizia oltraggiata e di una magistratura accusata da Netanyahu di “essere di sinistra”. Questi sono due politici molto ambiziosi che vedono un’opportunità per fare ciò per cui i politici sono programmati: acquisire potere. Sa’ar ha promesso di non dare una mano alla distruzione della democrazia israeliana. Bennett ha fatto lo stesso lunedì sera. I puristi di sinistra che sono costernati dall’aumento del numero dei sondaggi della coppia (25-27 seggi su 120) farebbero bene a prestare attenzione anche a questo.

Il primo ministro supplente Benny Gantz di Kahol Lavan si sta dirigendo alla sua quarta elezione al fondo della sua popolarità. Avrebbe potuto mantenere la sua dignità e la sua postura eretta di ex soldato se avesse respinto le richieste prepotenti e sfacciate di Netanyahu: richieste il cui scopo era quello di rompere le ossa del ramo giudiziario, svuotare il posto del ministro della giustizia della sua sostanza e consegnare al premier-imputato una scala sicura con cui scappare dal carcere che lo attende. Nella sua personale ricostruzione Gantz sembra arrivare da un altro pianeta: sostiene di essere l’unico candidato nel centrosinistra che potrebbe formare il prossimo governo con il sostegno dei partiti ultraortodossi. Se bisogna credere ai sondaggi, i partiti che sostengono la cacciata di Netanyahu hanno attualmente l’appoggio di quasi due terzi dell’elettorato; la battaglia di Bibi per sopravvivere questa volta potrebbe essere davvero più difficile che mai. Ha già lanciato la sua campagna elettorale, che si concentrerà sugli accordi di normalizzazione con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco. Il premier sosterrà anche di aver portato personalmente in Israele i vaccini contro il coronavirus. Benjamin Netanyahu si è abituato a condurre una campagna contro un unico principale rivale del centro-sinistra. Trovava facile lanciare accuse malvagie e false, al limite del tradimento, contro i suoi rivali e il razzismo espresso nei confronti degli “arabi che vogliono il nostro sangue”. È così che ha attirato gli elettori di destra, che sono stati presi dal panico all’idea di un “governo di sinistra”. Ma ora, con Gideon Sa’ar come principale rivale e Naftali Bennett come sfida secondaria, la tattica che lo aveva servito così bene non è più rilevante: sarà difficile per lui dipingerli come “collaboratori della sinistra”.

Natale nella boccia del lockdown

Un piccolo pesce rosso s’aggira nel cristallo limpido, sospeso a mezz’acqua, coi grandi occhi stupiti. Chi di noi non ha mai avuto un piccolo pesce rosso in una boccia? Povero pesciolino, vittima delle nostre cure! Vedere il suo colore rosso oro (goldfish è il suo nome in inglese) ci mette allegria. Ma i suoi occhi? I suoi movimenti?

Cosa vedrà un pesce rosso che si sposta di pochi centimetri dentro una boccia d’acqua? Il cristallo limpido del vetro e dell’acqua sembrano rendere ancor più freddo il suo nuotare senza direzione. Non ci sono scosse né onde nell’abisso di una boccia di cristallo, che sembra però richiamare quelle profondità che vivono dentro ciascuno di noi e in cui brillano, come se fossero fosforescenti, i brividi delle nostre domande, delle nostre inquietudini.

Scorgiamo quei due punti neri, gli occhi neri del pesce rosso. Sono occhi che non si chiudono e che restano spalancati verso l’oltre che si apre oltre quel cristallo impenetrabile più di un muro di cemento. Quegli occhi sono lì stupiti, inebetiti, aperti e grandi, pronti a sbattere sul vetro, pur di affermare che altrove c’è uno spazio aperto, un oceano, un mondo al di là.

Persino Cesare Pavese in una sua poesia ci ha descritto il pesce rosso in boccia per parlare della nostra inquietudine. E questo ci aiuta a meditare sul nostro Natale nella boccia del lockdown. Scorrono nella mente le immagini dei mesi scorsi: il distanziamento fatto di distacchi penosi, gente alla finestra, strade silenziose, affetti tranciati e volti mascherati. Una voglia incontenibile di vita si è levata da quella boccia.

In tempo di pandemia i nostri ritmi folli si sono infranti e abbiamo imparato ad attendere qualcosa al di là del cristallo della boccia: una telefonata, una passeggiata, un’attività ricreativa nel chiuso della nostra casa. Abbiamo fatto i conti con la perdita di tempo. E soprattutto con l’attesa di un incontro, di un abbraccio, oltre che di una boccata d’aria. Ma forse tutto questo è anche metafora della vita di tante persone che sembra destinata a essere un lungo “avvento”, una continua attesa, una domanda la cui risposta tarda a venire.

Il Natale in tempo di pandemia in “zona rossa”, da pesci rossi, allora sarà un Natale di attesa, di desiderio. Al contrario del tempo della nascita di Gesù, quando le leggi dell’epoca imponevano di viaggiare per un censimento, oggi dobbiamo star fermi.

Questo Natale sarà una grande scenografia spirituale che ci riporterà all’essenziale, e al mistero di affetti che non si nutrono di acquisti e festini, ma di grotte e architetture interiori, schiette, sincere, semplici: la nostra boccia che vivremo in modo nuovo.

Questo Natale sarà certamente un momento di incontro non con chi vogliamo, superando le distanze domestiche o esotiche, ma con chi abbiamo accanto ogni giorno, probabilmente: il nostro acquario. Riscopriremo i “congiunti” come compagni di festa. Solamente con loro potremo condividere gli scampoli di consumismo che riusciremo a vivere. E forse ci arrenderemo alla sobrietà e riscopriremo la profondità dei legami.

Questo Natale sarà un tempo di raccoglimento, dunque. Non di isolamento o di intimismo decorativo: di “raccoglimento”. E questo non vuol dire evadere dalla realtà. Sarà il momento opportuno per spalancare i nostri occhi e “raccogliere” le gioie e i dolori, le speranze e le angosce dell’umanità e nostre personali. Sarà il tempo opportuno per riconoscere chi accanto a noi è solo, sta male, ha problemi.

Il Natale ci chiama a un tentativo sempre nuovo di rinnovarci, di sentirci solidali e partecipi, al di là della devozione convenzionale. Sarà il tempo per scoprire una fratellanza, come ci chiede papa Francesco. Persino il rispetto delle norme – che ci piacciano o no, e con tutte le loro contraddizioni – sarà un modo per voler bene, per capire che siamo responsabili di come vanno le cose, di un futuro prossimo migliore e libero dalla pandemia. Nessuno si salva da solo, ci si può salvare unicamente insieme: siamo tutti sulla stessa barca.

E allora capiremo il vero senso del Natale: l’incarnazione, cioè Dio onnipotente che si incarna in una stanza, come ben immagina sant’Ignazio di Loyola, quella di Maria. Nel chiuso di una stanza. L’infinito ridotto in uno spazio ristretto. Se litighiamo su come si deve celebrare il Natale rischiamo di perdere di vista il suo significato: la nascita di Dio, che è “umano”. E il fatto che questa nascita sia avvenuta, allora come oggi, in un contesto di totale precarietà e senza feste, perché negli alberghi non c’era posto: tutto è già chiuso.

Allora diciamocelo: non siamo preparati a tutto questo. Sulla condizione di lockdown – reale e simbolico – scende il Natale, al quale non siamo preparati. Se pensiamo davvero che l’incarnazione deve essere celebrata con un cronometro, allora non ne abbiamo capito il senso. È mondanità spirituale. È inutile che ci giriamo attorno parlando di feste e festini, di spese e regali, di Dpcm, orari e cenoni: alla nascita di Cristo il mondo non è pronto. E anche per questo ce ne vogliamo andare sicuri, spavaldi a festeggiare col botto. E invece il Covid ha messo in luce le nostre false sicurezze e ha fatto stonare il nostro concerto di Natale.

Possiamo accogliere l’appello del Papa: “Non c’è pandemia, non c’è crisi che possa spegnere questa luce” del Natale. Ci attendono, sì, restrizioni e disagi, ma “pensiamo al Natale della Vergine Maria e di San Giuseppe: non furono rose e fiori! Quante difficoltà hanno avuto! Quante preoccupazioni! Eppure la fede, la speranza e l’amore li hanno guidati e sostenuti. Che sia così anche per noi! Ci aiuti anche – questa difficoltà – a purificare un po’ il modo di vivere il Natale, di festeggiare, uscendo dal consumismo: che sia più religioso, più autentico, più vero”.

In questo Natale in boccia faremo i conti con noi stessi, il nostro piccolo mondo, la nostra capacità di celebrare nel nostro spazio ordinario, nel privato. Così rifletteremo su come stiamo vivendo, su come vogliamo vivere, su che cosa sia festa e con chi è davvero festa per noi. Questo Natale ci farà bene, se vogliamo.

 

Esodati, Ragioneria e letterine

Tutto è benequel che finisce bene, per carità: alla fine nella legge di Bilancio che sarà approvata dopo Natale c’è la cosiddetta “nona salvaguardia” per gli esodati: si tratta, come ricorderete, di quei lavoratori rimasti senza lavoro né pensione dalla sera alla mattina per via dell’enorme aumento dell’età pensionabile inserito nella “riforma Fornero” di fine 2011. Con questi ultimi 2.400 siamo arrivati alla ragguardevole cifra di circa 145mila “salvaguardati”: un errorino non da poco, peraltro chiaro a tutti fin dal passaggio parlamentare di quel decreto, che non impedisce ai suoi autori di continuare a pontificare sulla rava e la fava. Tutto è bene quel che finisce bene perché sulle agenzie martedì e ieri sui giornali avevamo letto “salta la norma sugli esodati”. E perché sarebbe dovuta saltare? Così voleva la Ragioneria generale dello Stato, che involontariamente finisce per spiegarci qual è il problema del Recovery Fund. Questa la critica della Rgs: manca “una adeguata Relazione tecnica, che si limita a quantificare gli effetti connessi a un limite numerico indicato in norma”. Critica aggirabile se è vero che alla fine il testo è passato. Poi però i famosi tecnici scrivono il motivo vero, ideologico, del loro rifiuto: tutelare gli esodati è “in contrasto con le Raccomandazioni Ue 2019 e 2020 e foriero di precostituire richieste emulative (…) riaprendo termini (che pertanto si prestano naturalmente a proroghe successive) e creando nuovi bacini (attualmente insussistenti)” (corsivi nostri, ndr). Insomma questa norma sarebbe solo “una disapplicazione della riforma pensionistica in contrasto con le raccomandazioni Ue”. Ecco, va ricordato che le regole di bilancio sottese a quelle “raccomandazioni Ue” per cui la Ragioneria chiede di non tutelare 2.400 esodati sono sospese, ma c’è gente – non solo a Berlino, ma pure al ministero dell’Economia – che non vede l’ora tornino in vigore. Siccome l’erogazione dei fondi Ue per la ripresa è legata al rispetto di quelle “Raccomandazioni”, la Ragioneria svela il giochino perverso della solidarietà europea e ci ricorda che le letterine al governo italiano – tipo quella della Bce dell’agosto 2011 da cui nacquero gli esodati – magari arrivano da Francoforte, ma sono scritte a Roma.

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Camuffare gli sprechi con auguri e luminarie

“Dare aiuto e sostegno alle attività commerciali del territorio per contribuire a creare l’atmosfera calda e festosa di Natale nonostante questo difficilissimo anno che sta per concludersi”. Questa è la motivazione dell’amministrazione comunale del mio paese, Palanzano Appennino Parmense. Motivazione a giustificare la spesa di 10.000 euro che il governo ha inviato in via straordinaria per emergenza virus e utilizzati per luminarie e pacchi regalo finti appesi in ogni luogo lungo il paese capoluogo e le relative frazioni. Figuriamoci che fine potranno fare i fondi europei per i quali “orribili favelle” detto alla Dante Alighieri si odono da ogni classe di governo e per i quali ognuno sempre di più è “lupus in fabula”. Ma l’anno difficilissimo sta concludendosi, la certezza sottintesa di coloro sopra è che sarà migliore. Così speriamo tutti. Che lo dicano i luminari delle luminarie dà ancora più fiducia.

Alfonso Boraschi

 

Il Mes è ormai una sigla fastidiosa per colpa di Iv

Questi sali-scendi di Italia Viva, con la complicità di chi nasconde la mano, sono giochi politici per ricorrere, tra l’altro, al Mes. Il Mes ormai è divenuto un suono che fa male alle orecchie. Il M5s non è come questi, deve lasciare la compagnia se non vuole sorreggere il moccolo. Andare avanti così, fino alla fine della legislatura, e avremo tempo di vedere, in modo definitivo, le ultime rovine del tempio.

Vincenzo Mazzà

 

Non ho visto un Cacciari lucido a “Otto e mezzo”

Ho seguito la trasmissione della Gruber in cui il professor Cacciari ha assunto la figura di Sior Todaro Brontolon, tipico personaggio benpensante tra i cittadini veneziani, che svolge il ruolo del solito bastian contrario. E così ha fatto quando ha risposto a Scanzi sul ruolo di Renzi. Ha affermato che se il governo adottasse determinati provvedimenti, a dir poco fantasiosi e di dubbia costituzionalità, l’Innominabile verrebbe neutralizzato. Il nostro si dimentica che Renzi dirà sempre no a qualsiasi riforma, perché a lui interessa un governo che comprenda lui stesso, così potrebbe fare quello che gli pare in barba al presidente del Consiglio, e la Boschi così potrebbe riprendere la sua partecipazione alle feste delle varie ambasciate.

Marco Olla

 

Le mie poche proposte per ripulire la politica

Abbiamo da troppi anni una classe politica vergognosa, scarsamente interessata al bene del Paese e fortemente interessata al personale rendiconto. Propongo: il dimezzamento degli stipendi e delle pensioni dei politici fino a quando non venga ridotto al minimo il debito italiano; l’abolizione definitiva dei loro privilegi e dei vitalizi (definitiva perché chiunque vada poi al governo non possa ripristinarli); il divieto di voto a coloro che risultassero collusi con la malavita e ovviamente l’uscita di scena definitiva dei politici che abbiano avuto problemi con la giustizia (tipo B., non è possibile che ce lo troviamo sempre tra i piedi); un politico che si candida e viene eletto con un partito non può e non deve cambiare bandiera a seconda di come gira il vento o della convenienza. Bisogna difendere con i denti la nostra democrazia. Non regaliamo il nostro paese a Salvini &C..

Flavia Scognamiglio

 

DIRITTO DI REPLICA

Ho letto con attenzione l’articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano in data 22 dicembre a pag. 4 dal titolo “Presepi, suini e consorzi: mancette bipartisan à gogo”, nel quale vengono riportate alcune presunte mancette inserite nella legge di Bilancio e destinate a deputati di maggioranza e opposizione.

Non nascondo il mio sincero rammarico nel notare come in questo articolo venga inserito anche un mio emendamento che destina due milioni di euro per la messa in sicurezza di un tratto della via Salaria, strada statale che ha la più alta percentuale di mortalità in Italia.

Come molti sanno, la via Salaria è anche la strada che porta ad Amatrice, ad Accumoli e dove viaggia lenta la ricostruzione post terremoto.

Dal momento della mia elezione a deputato, ho sempre cercato di porre all’attenzione di governo e maggioranza le difficoltà dei territori colpiti dal sisma: l’ho sempre ritenuto un dovere nei confronti di quelle comunità che da anni vivono sulla loro pelle la burocrazia che impedisce la ripartenza economica e sociale del territorio.

Per questa ragione, con tutta franchezza, penso che attaccando questo emendamento il quotidiano non abbia fatto un buon servizio ai cittadini.

Cordiali saluti.

Paolo Trancassini. Capogruppo FdI Commissione Bilancio Camera

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’intervista a Domenico Arcuri pubblicata sul Fatto Quotidiano di ieri per un’evidente svista ho virgolettato al commissario la frase: “A partire dal secondo (invio) del 30 gennaio la Pfizer porterà le dosi nei trecento centri regionali”. Ovviamente, come evidente dal resto dell’intervista, il commissario ha detto “30 dicembre”. Mi scuso con l’intervistato e con i lettori per l’equivoco e il timore di ritardi sulla distribuzione dei vaccini eventualmente generati.

Giampiero Calapà

Tasi. Cancellare la tassa sarebbe discriminazione per i proprietari?

 

In tutti i comuni di Italia è stata abolita la Tasi, inglobata nell’Imu. L’acronimo Tasi sta per “tassa servizi indivisibili”. Faccio una riflessione: se la Tasi è inglobata nell’Imu vuol dire che viene pagata dai proprietari dell’immobile. Considerando che serve al mantenimento delle strade, dell’illuminazione e altro, gli inquilini non ne usufruiscono come i proprietari? Mi sembra discriminante nei confronti dei proprietari e non lo trovo assolutamente giusto.

Verino Pesolillo

 

Gentile Pesolillo, si può supporre che lei sia il proprietario di un immobile e che quest’anno abbia scoperto che la quota tra il 10 e il 30% di Tasi che solitamente pagava il suo affittuario a partire dal 1° gennaio 2020 se la sia dovuta accollare lei. L’unificazione di Imu e Tasi entrata in vigore quest’anno ha, infatti, fatto venir meno l’obbligo di pagamento di una quota dell’imposta sui servizi indivisibili per gli affittuari, scaricando l’intero peso della patrimoniale sui proprietari delle case. Ma qui la discriminazione c’entra poco: è solo una questione squisitamente burocratico/amministrativa. Ora il presupposto della nuova Imu è il possesso degli immobili (escluse le prime case), non la loro detenzione. La Tasi è stata cancellata per tutti, proprietari e inquilini, per semplificare la gestione dei tributi locali. Tant’è che per forza di cose la nuova formulazione dell’Imu ha causato una riduzione di entrate per gli enti locali. Il governo per questo ha dato facoltà ai comuni di ritoccare in aumento le aliquote Imu per recuperare in parte ciò che si è perduto con l’abrogazione della Tasi. Ma quest’anno sono pochissimi i comuni che avevano già deliberato prima del saldo del 16 dicembre le aliquote definitive (hanno tempo fino al 31 dicembre). Così per la maggior parte dei proprietari di casa ci sarà un conguaglio da versare entro il 28 febbraio 2021, quando andrà pagata la differenza in eccesso rispetto al versamento del 16 dicembre calcolato sulla base delle aliquote 2019. Solo per 6 anni (dal 2014 al 2019) la Tasi è stata applicata anche agli inquilini a condizione che il contratto d’affitto durasse almeno sei mesi. Con un importante distinguo: inquilino e proprietario non sono mai stati responsabili in solido: se l’inquilino non pagava il proprietario non era responsabile, né viceversa.

Patrizia De Rubertis

Milano non è più prima in Italia, colpa solo del virus?

Dodici mesi fa, quando Milano si era confermata, per il secondo anno consecutivo, prima nella classifica italiana della qualità della vita, erano squillate le trombe e le trombette, erano rullati i tamburi e i tamburelli. Il sindaco Giuseppe Sala si era detto “soddisfatto e fiero”, intestandosi di fatto il merito dell’ottimo risultato. Intendiamoci: le classifiche dipendono da come sono raccolti i punteggi, dai criteri con cui sono organizzate le valutazioni; ma restano comunque un’indicazione che può essere utile per capire la realtà. La classifica in questione è quella realizzata ogni anno dal Sole 24 Ore, che nel 2018 e nel 2019 aveva decretato Milano migliore città d’Italia per qualità della vita. Quest’anno, la stessa classifica, realizzata con gli stessi criteri, ci dice che il capoluogo lombardo è precipitato al dodicesimo posto. Giù dal podio. Fuori anche dalla top ten. Reazioni? Trombe e tamburi silenziosi, sindaco taciturno. Un anno fa il giornalismo ciarliero, la politica d’asporto e gli intellettuali da compagnia erano tutti un cinguettare di dichiarazioni soddisfatte e felici. Oggi: tutti zitti. Eppure giornalismo, politica e intelligenza dovrebbero servire a capire, più che le vittorie, le crisi e le sconfitte. Non siamo felici per questo crollo: Milano è una città che si ama quando è grigia e dolorante, ancor più di quando è luminosa e scintillante. Ma fa male vedere le sue luci spente, i locali chiusi, tante attività ferme, le code che si allungano fuori dalle mense per i poveri. Che cosa è successo? La pandemia ha spento per mesi la città. Le sirene delle autoambulanze hanno sostituito la musica dei locali. La prima ondata del virus ci ha lasciato silenziosi e attoniti; la seconda ci ha trovato ancora impreparati e ha fatto più danni della prima, più contagi, più morti. Il Pil pro capite – la ricchezza media prodotta da ciascun milanese – è crollato. Si è ridotto lo spazio abitativo medio a disposizione, diventato 51 metri quadrati per famiglia. È aumentata la cassa integrazione. E Milano è diventata la capitale dell’area più colpita d’Europa dal virus. Ancora peggio è andata nell’altra classifica delle città italiane, quella compilata, come ogni anno, da Italia Oggi. Ha introdotto questa volta tre indicatori per rilevare l’incidenza della pandemia nella qualità della vita, i contagi registrati, l’aumento della mortalità: ed ecco Milano finire addirittura al quarantacinquesimo posto. Sedici gradini più giù del risultato dello scorso anno.

Non ci può consolare l’argomento: è tutta colpa del virus. Il virus c’è (purtroppo) anche nelle altre 11 (o 44) città che quest’anno hanno superato Milano. Dobbiamo capire che cosa è successo, perché tanta retorica dell’eccellenza si sia dimostrata così fragile, perché il “place to be” magnificato dalla politica si sia rivelato così friabile. Se il crollo è stato davvero così clamoroso, significa che i successi esibiti erano incerti, che la spocchia della metropoli cool nascondeva già i segni della fragilità. Milano aveva nel suo corpo un virus che si era sviluppato silenziosamente molto prima dell’arrivo del Covid-19: il virus della disuguaglianza. Il lunapark del successo esibiva le sue luci colorate, intanto però i ricchi diventavano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Poi è arrivato il Covid, e il gioco di specchi non ha retto più. Il sindaco, nel momento glorioso della riconferma di Milano capitale del buon vivere, un anno fa, aveva dichiarato: “Dopo la gioia, viene il dovere, quindi c’è da lavorare affinché i benefici si allarghino a più parte della cittadinanza. Sto parlando di maggiore equità sociale e sono consapevole che ciò si intreccia con la differenza della qualità di vita fra centro e periferie. Stiamo lavorando su tutti i quartieri della città, per cambiare radicalmente le cose”. Obiettivo mancato. Oggi Milano deve ripartire: meno retorica, meno marketing politico, più fatti.