“Micromega” chiude e nessuno dei “suoi” protesta contro Gedi

Varrebbe la pena di pubblicare l’eccezionale catalogo degli autori, italiani e non, che dal 1986 hanno scritto e discusso animatamente su MicroMega. Nessuna altra rivista culturale italiana può vantare un parterre comparabile. Non posso dimenticare quando mi venne offerta l’opportunità di far da moderatore a una disputa pubblica fra Paolo Flores d’Arcais e il cardinale Joseph Ratzinger che resta negli annali. Era il settembre 2000. Titolo, niente meno: “Dio esiste?”. Civilissima sfida tra un intellettuale ateo e il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, futuro papa Benedetto XVI, ben lieto di cimentarsi alla pari nella palestra della “sinistra illuminista”. Son passate due settimane dacché questo giornale ha riportato le laconiche tre righe di comunicato in cui si annunciava, senza specificare il perché, che “dal 1 gennaio 2021 Gedi Gruppo Editoriale spa cesserà la pubblicazione del periodico MicroMega”. Orbene, mi chiedo: possibile che nessuna fra le illustri firme ospitate dalla rivista, nessuna pagina culturale dei quotidiani che si nutrirono di quei dibattiti, nessun comitato di redazione abbia sentito il bisogno di interrogarsi sul perché della cessata pubblicazione? Non dico per riconoscenza, ma almeno per dar conto della storia di una rivista che ha rappresentato al più alto livello la corrente di intransigenza laica nei campi della filosofia, della scienza e della politica. Posso comprendere la cautela del fondatore Paolo Flores d’Arcais, che a MicroMega ha dedicato tutto se stesso e ora avverte l’urgenza quanto meno di non venir spossessato di un archivio formidabile, nonché dell’anagrafe degli abbonati. A lui possiamo solo augurare che non s’interrompa la missione cui ha dedicato la vita. Ma gli altri? Non hanno niente da dire, sulla sorte della rivista, gli editorialisti, i cattedratici, gli scrittori che in quei fascicoli si sono espressi traendone visibilità e prestigio?

Nel caso di MicroMega non bastano certo ragioni di mercato a spiegare un così improvviso commiato, data l’incidenza marginale dei suoi costi sul bilancio del gruppo. Fin troppo evidente è la relazione tra l’addio a MicroMega e il recente manifesto programmatico sulla missione editoriale di Gedi, in cui si legge tra l’altro: “Chi lavora nel Gruppo… deve evitare ogni forma di militanza”. Quel proposito, “evitare ogni forma di militanza”, deve essere risuonato come avvertimento inequivocabile ai fondatori dell’Espresso che, fin dal 1955, si presentava ai lettori col celebre titolo: “Capitale corrotta=Nazione infetta”. Con lo spazio dedicato ai dissidenti anticomunisti dell’est europeo, l’opposizione ferma a Berlusconi, il rifiuto di ogni sudditanza ai poteri economici anche più prossimi, sempre però nel segno della ricerca culturale, MicroMega ha impersonato proprio quell’impegno militante che oggi il nuovo corso patisce come anomalia da espungere. Un messaggio forte e chiaro, rafforzato dalla soggezione che ingenera tra i suoi destinatari. Paolo Flores d’Arcais, fin dagli anni in cui ruppe con Craxi, che gli aveva affidato la direzione del centro culturale Mondo Operaio, si è conquistato la fama di pensatore rompiscatole; del quale però mai nessuno ha potuto mettere in discussione l’onestà e la levatura intellettuale. Coltivo ancora la speranza che non sia lasciato solo in questo passaggio, finora contraddistinto da un silenzio davvero imbarazzante.

P.S. In questi stessi giorni un’altra testata storica della sinistra, il quotidiano Il Manifesto, sulla soglia dei suoi cinquant’anni, è vittima di una legislazione sulla stampa che penalizza gravemente la sua cooperativa. Anche qui non basta esprimergli generica solidarietà. Se consideriamo la libera informazione un bene comune imprescindibile, bisognerà rivedere le norme che la regolano.

 

Sfidando Renzi al voto sarebbe tutto più chiaro

A fronte del ricatto di Renzi – perché palesemente di questo si tratta – l’istinto sarebbe quello di dare corso al sogno di Padellaro o almeno di assistere al replay della scena indimenticabile cui assistemmo nell’aula del Senato quando Conte sbugiardò e schiaffeggiò Salvini. Non escludo che ci si arrivi. Troppo manifesti sono cinismo e strumentalità. Cinismo da giocatore d’azzardo: Renzi fa conto che, in caso di crisi del governo, non si vada ad elezioni. Come altrimenti potrebbe portarsi appresso la pattuglia di transfughi da lui sottratta al Pd? Strumentalità testimoniata da ultimo dalla lettera al premier in diciannove punti (si dice se ne sia aggiunto un ventesimo: vedi un po’, la Rai!) con in testa il Mes. Diciannove, non tre, quattro, cinque significativi. Ripeto: sarebbe da mandare a quel paese e chiuderla lì, se non fosse in gioco la sorte degli italiani dentro il tornante più drammatico della storia dal dopoguerra.

Dunque, ha fatto bene Conte a convocare i partiti di maggioranza, ad aprire un tavolo sul principale dei dossier, quello del Recovery. Cioè a dare prova di senso di responsabilità anche per porre rimedio all’irresponsabilità di altri. Così da sgombrare il campo dagli alibi, da smascherare la strumentalità dei diktat renziani, da fugare l’ambiguità e le esitazioni del Pd o di una parte di esso, da mettere uno stop alle convulsioni di un M5S dall’identità irrisolta.

In democrazia la forma è sostanza. È giusto esperire tutti i passaggi politici e istituzionali in pubblico. In modo che i cittadini possano giudicare. Se crisi ha da essere, è bene che essa corrisponda ai canoni della democrazia parlamentare. Alla stretta finale con premier e governo che, alle Camere, si sottopongano a un voto di fiducia, nel quale ciascuno si assuma le proprie responsabilità, come usa dire, mettendoci la faccia. Partiti e singoli parlamentari.

Difficile non evocare il caso dei governi Prodi. Tra i pochi caduti in parlamento. Egli, nel suo secondo governo, resistendo a pressioni alte dello stesso Napolitano, fu irremovibile, volle che la sfiducia, ampiamente annunciata, fosse certificata in parlamento. Mi piace ricordare che, tra i più determinati a pretenderlo, fu Padoa Schioppa, ministro dell’economia. Per rispetto della Costituzione, dell’istituzione parlamentare e anche di se stessi. In modo che, come accennato, i cittadini si facessero un’opinione sui comportamenti politici di ciascun soggetto.

Non è fuori luogo il paragone con i giorni nostri: un premier non iscritto ad alcun partito minacciato di sfiducia da frazioni minoritarie della sua maggioranza che esercitano un potere di ricatto. Più che Bertinotti, l’analogia è con Mastella. Sostenuto dal tifo della destra, cui aggiunse i suoi decisivi voti. Ha detto bene Calenda: Renzi emulo di Mastella che si atteggia ad Obama. Utile sarebbero chiarezza e determinazione da parte del Pd – anche qui è istintivo il paragone con l’ambiguità dei Ds al tempo della caduta del primo governo Prodi cui subentrò D’Alema – nel non dare mezza sponda agli attacchi strumentali di Italia Viva e nel mostrarsi coeso e risoluto – non per finta, non tatticamente – nel prospettare le elezioni come la sola soluzione a valle di una sfiducia al Conte 2.

Elezioni concepite come una sorta di referendum, una competizione tra due schieramenti rispettivamente capeggiati da Conte e Salvini, centrodestra sovranista versus centrosinistra europeista imperniato sull’asse Pd-M5S. Un’alternativa chiara e inequivoca che priverebbe di argomenti (e di voti) i terzisti e soprattutto i taglieggiatori specialisti nello sfruttamento della propria micro-rendita di posizione. A cominciare dagli irresponsabili che ci facessero precipitare dentro una crisi al buio. Anche con la brutta legge elettorale vigente, ne sono convinto, la partita sarebbe aperta. A condizione che chi non vuole la crisi tenga una linea di comportamento trasparente, ferma e lineare.

Una sfida elettorale che, nel caso, prendesse il via appunto con una ritualizzazione schietta e solenne della crisi in Parlamento al modo di quella che, nell’agosto 2019, vide protagonisti Conte e Salvini. Un incipit che gioverebbe a chiarire le responsabilità e a impostare un confronto elettorale nel quale risulterebbe chiara la posta in gioco.

 

Lunedì l’Unione Europea equipara tutti i religiosi a cartomanti e astrologi

Notizie dal futuro. Da lunedì prossimo entreranno in vigore in tutta Europa controlli restrittivi sui servizi religiosi offerti ai consumatori. Le nuove norme sono contenute in una direttiva dell’Unione europea che equipara per la prima volta i ministri del culto a cartomanti, chiromanti, chiaroveggenti, astrologi, medium, commessi viaggiatori, piazzisti e venditori ambulanti. Lo scopo è impedire che il pubblico possa essere raggirato o confuso da pratiche commerciali scorrette. In base a queste regole, per esempio, “i sacerdoti dovranno dire ai fedeli che ciò che offrono è solo una forma di intrattenimento, non provata scientificamente”. Ciò significa, spiega Le Figaro, che all’ingresso dei luoghi di culto dovranno essere affissi cartelli per avvertire i potenziali fedeli di non prendere la religione troppo sul serio. Avvertimenti analoghi dovranno comparire su pubblicazioni religiose e siti web, nonché su depliant e pubblicità in favore dell’8 per mille. Ai fedeli, inoltre, si dovrà spiegare in modo chiaro che le leggende religiose non sono che allegorie astrologiche del transito del Sole nel cielo. Non a caso, millenni prima di Cristo, gli antichi egizi veneravano Horus, il dio Sole, la cui biografia è simile a quella di Gesù: nascita il 25 dicembre; madre vergine ingravidata da uno spirito sacro; miracoli vari, crocifisso, sepolto per tre giorni, poi risorto.

La direttiva minaccia di scatenare polemiche furiose da parte dei religiosi che non si sentono dei millantatori, per non parlare dei milioni di persone che pregano quotidianamente, o si fidano più del Papa che della scienza medica. “Chiederci di esporre cartelli che avvertano il pubblico che ciò che diciamo non è scientifico è contrario alla nostra fede!” protesta un vescovo che preferisce restare anonimo. “E trasmette ai fedeli l’idea falsa che non crediamo in quello che diciamo! Regolamentare una simile materia è come pretendere di imporre regole a Dio!” I violatori rischiano una multa fino a un milione di euro, e fino a due anni di prigione per i casi recidivi dibattuti in sede penale; ma il modo in cui verrà fatta rispettare la nuova normativa non è ancora chiaro. Commenta l’avvocato Heinz Felfe, dello studio legale David, Foster, Wallace & Gromit di Bruxelles: “Queste direttive spingono verso la criminalizzazione di azioni che in passato sfuggivano a una censura legale. Non è colpa della religione se dietro questa pratica antica, nata agli albori dell’umanità, sono fiorite tutta una serie di attività che hanno più a che fare con la circonvenzione di incapace che con la fede. E poi chi l’ha detto che c’è verità solo nel positivismo? Mettiamolo alla scienza, il cartello che può essere una truffa: la scienza che asservita al tecnologico e all’economico sta distruggendo il pianeta. O tutti o nessuno.” Di parere diverso Alma Roodedraat, la scienziata olandese che da sempre si batte contro i raggiri a base di irrazionale: “Un cartello per avvertire che le religioni sono pura fantasia? Mi sembra giusto. La gente va tutelata, c’è una responsabilità diffusa. Per esempio i telegiornali in Italia danno spesso notizia delle gesta del Papa. In questo modo si fa credere allo spettatore che nella religione ci sia qualcosa di fondato. La verità è che gli interessi economici in gioco sono enormi. A New York, qualche anno fa, la Chiesa cattolica costrinse una galleria d’arte a chiudere una mostra in cui era esposto un Gesù di cioccolata. L’arcivescovo di New York disse che era oltraggioso fare Gesù con del cibo. E le ostie allora? I cattolici in tutto il mondo mangiano ostie. La Chiesa vuole forse il monopolio degli snack?”

 

Tante domande e una certezza: le rotture di IV

Navighiamo a vista, del doman non v’è certezza ma queste Festività uniche, e speriamo irripetibili, sono accompagnate da alcuni interrogativi, e da una certezza.

Virus. Allenterà gradualmente la morsa, oppure nel cuore dell’inverno saremo investiti da quella Terza ondata che certi virologi continuano a preannunciare con la stessa voluttà con la quale il dottor Stranamore cavalcava la bomba della Terza guerra mondiale?

Vaccino. Dobbiamo essere fiduciosi sul cronoprogramma annunciato al Fatto dal commissario Domenico Arcuri, secondo cui “in 9 mesi saranno vaccinati il 70% degli italiani”? O, al contrario, dobbiamo dare retta al titolo della Stampa: “Pochi medici e zero formazione: ‘Non sappiamo preparare le dosi’”? (per spirito natalizio di testata voglio credere ad Arcuri, speriamo bene).

Recovery fund. Dai giorni nei quali Giuseppe Conte ritornò raggiante da Bruxelles annunciando i 209 miliardi ottenuti dall’Europa, dopo averli strappati ai cosiddetti Paesi frugali, non abbiamo smesso: a) di associare l’Olanda ai gol di Johan Cruijff, piuttosto che al ghigno del premier Mark Rutte. b) di considerare tutti quei soldi già al sicuro nelle casse del Tesoro. Su Cruijff continuiamo a non avere dubbi mentre sui quattrini siamo proprio sicuri che arriveranno? Oppure, come nella nostra migliore tradizione, li abbiamo già spesi prima ancora di averli in tasca?

A proposito, il governo è consapevole che con gli aiuti a pioggia (e le marchette distribuite qua e là) non si farà che allargare l’ingiusta voragine tra i garantiti (che il 27 del mese possono, comunque, ritirare la busta paga), e i non garantiti (autonomi, partire Iva, commercianti, negozianti) i cui introiti dipendono dal mercato, che non c’è? Prima che tale disparità si trasformi in una drammatica questione nazionale, come s’intende correre ai ripari?

Virginia Raggi. Adesso che dopo anni di calvario è stata assolta nei processi, i 5stelle intendono appoggiare, al più presto e nel modo più convinto, la sua ricandidatura al Campidoglio? Oppure si vuole, da parte dei vertici grillini, ciurlare nel manico dando spazio ai candidati chiacchiere e distintivo, tipo Carlo Calenda?

Queste sono alcune delle tante domande senza risposta che rendono il nostro futuro più incerto che mai. Eppure, nella fitta nebbia che ci avvolge vediamo una luce brillare sicura, una stella polare che ci guiderà nel periglioso cammino. Matteo Renzi non smetterà di rompere.

Il piano pandeminco non è l’unico da rifare

Qualche giorno fa si è parlato del piano pandemico che l’Italia non ha (ancora!), qualcuno si è sbilanciato a quantificare i morti che avremmo potuto risparmiare. Il vice ministro Sileri (chapeau alla sua onestà intellettuale) ha chiesto le dimissioni di un funzionario ministeriale. Ma è comunque tardi, il ritardo è di 14 anni! L’ultimo piano è del 2006. L’occasione non è solo un piano pandemico che auspichiamo venga presto completato e pubblicato, ma anche un piano, sia informativo che organizzativo, sul prossimo problema, l’antibiotico-resistenza. È noto che io non sia catastrofista ma ritengo meglio prevenire con calma che intervenire poi in emergenza. Oggi ne abbiamo l’occasione.

Sul sito del Ministero della Salute è pubblicato il Piano Nazionale di Contrasto dell’Antimicrobico-Resistenza (PNCAR) 2017-2020. Si sta aggiornando? Non vorrei trovarmi a discutere fra qualche anno di nuovo di un piano mancato e di vite sprecate. Malgrado il documento attuale sia completo, a parte qualche dovuto aggiornamento, come al solito, la sua applicazione è poi affidata alle le regioni. Nessuno a quantificato quante vittime avremmo potuto evitare se non ci fossero state le regioni… Ma questo è un altro discorso.

La realtà è molto preoccupante. Solo in poche realtà i CIO (Comitati Infezioni Ospedaliere) che hanno il compito di controllare i fenomeni di infezioni nosocomiali (acquisite durante il ricovero in ospedale) e la diffusione dei germi resistenti, funzionano a pieno regime. È uno spreco di tempo che pagheremo. Le tecniche oggi a disposizione danno la possibilità di tracciare con metodi biomolecolari i batteri, in modo da seguire i percorsi che fanno in ospedale, attraverso il movimento dei pazienti e dello stesso personale sanitario.

Purtroppo la situazione attuale, con batteri sempre più resistenti agli antibiotici, ci dà solo la possibilità di procedere con un isolamento, ma ci consente di prevenire altre infezioni e di salvare vite. Per questo fenomeno, determinato in tutto il mondo dall’uso indiscriminato degli antibiotici, anche nel mondo veterinario, non esistono vaccini e, ormai, anche gli antibiotici mostrano le armi spuntate. È un fatto di cultura. Non c’è adeguata informazione. Ancora sono molti i clinici che pensano che con gli antibiotici il problema si risolva sempre. Ed invece contribuiscono a peggiorare la situazione. Abbiamo imparato dalla pandemia che, oltre ai mezzi fisici ed economici, quello che fa la differenza è proprio la cultura. I corsi educazionali sull’antibiotico-resistenza, fatti agli operatori sanitari, erano già quasi scomparsi prima della pandemia. Eppure, in una sanità che serve una popolazione sempre più anziana e con malattie croniche, il problema dovrebbe essere centrale.

Per dare una dimensione del problema, in Italia ogni anno muoiono 50.000 pazienti per infezioni contratte in ambiente ospedaliero. 10.000 i decessi per infezioni da batteri antibiotioco-resistenti. Vogliamo occuparcene in tempo?

 

Il contratto Ok bipartisan al tav Contrario solo il m5S

Alla fine solo i deputati M5s nella commissione Trasporti della Camera non hanno votato lo schema di parere favorevole al contratto di programma tra ministero dei Trasporti, Ferrovie dello Stato e Telt per il finanziamento, la progettazione e la realizzazione della Torino-Lione (Tav). O meglio, della sezione transfrontaliera, il tunnel internazionale di 56 km a doppia canna, per due terzi in territorio francese ma per due terzi a carico dell’Italia. Il parere è stato approvato ieri in commissione con il voto dei commissari di tutti i gruppi tranne che di quelli del M5s che, al momento del voto, sono usciti dalla commissione. Una mossa che non potrà ripetersi al Senato (dove l’astensione vale come voto contrario) quando il testo arriverà la prossima settimana. Lì i senatori pentastellati dovranno scegliere. Pd e centrodestra hanno attaccato ieri i 5Stelle con una sfilza di dichiarazioni irridenti.

Il testo è un passaggio fondamentale per la realizzazione dell’opera. L’ok è arrivato nonostante le numerose criticità emerse nelle audizioni. La ministra Paola De Micheli, per dire, ha ammesso che i lavori sono in ritardo e non sarà completata prima del 2032 (e non 2029). L’ad delle Fs Ganfranco Battisti ha spiegato che dei 3,6 miliardi stanziati finora (su 6,4 miliardi del tunnel) l’82% li ha messi l’Italia e la Francia non ha praticamente ancora messo fondi, nonostante i due terzi dei lavoratori saranno impegnati oltralpe. L’Authority dei Trasporti ha lanciato l’allarme visto che Telt (la società incaricata di realizzare l’opera) è di diritto francese e qualsiasi contenzioso riguardo allo sfruttamento dell’opera sarà demandato ai giudici transalpini. Insomma “uno schema sbilanciato a sfavore dell’Italia”, ha spiegato il presidente Nicola Zaccheo. E questo a tacere della stroncatura dell’opera arrivata pochi mesi fa dalla Corte dei conti Ue: lavori in ritardo, stime di traffico gonfiate, impatto ambientale minimo e perfino negativo per i primi 50 anni, costi esplosi etc. “Nel contratto mancano sia l’impegno nel Bilancio dello Stato francese che i contributi dell’Europa. Inoltre i tempi di realizzazione sono del tutto indefiniti. La Commissione del Senato ora non può approvarlo, deve rimandare indietro”, commenta Alberto Poggio, esperto della Commissione tecnica Torino-Lione.

Manovra, il voto finale slitta a domenica

Da anni la manovra è ridotta a una maratona contro il tempo, mai come quest’anno: non era ancora successo che si arrivasse a 4 giorni dalla scadenza del 31 dicembre per evitare l’esercizio provvisorio. Tra l’emergenza Covid, le marchette per accontentare tutti rendendo scorrevole il passaggio parlamentare e la solita coperta troppo corta, solo ieri mattina è arrivato il via libera della commissione Bilancio della Camera alla manovra, poi approdata in aula a Montecitorio all’ora di pranzo, dopo una serie di rinvii, per strappare la fiducia nel pomeriggio. Ora il testo passerà al Senato, blindato, dove non sarà di fatto discusso ma approvato, così si spera, il 27 dicembre.

Ieri mattina la manovra da 40 miliardi è dovuta tornare in commissione Bilancio per le modifiche necessarie dopo i molti rilievi posti dalla Ragioneria generale dello Stato su ben 79 modifiche al testo, quasi un terzo del totale, tra alcune norme scritte male, alcune non coperte, ma anche una eccessiva severità degli stessi tecnici del Tesoro. Una scure che ha aumentato il caos delle ultime ore. “Alcuni emendamenti non li avrei fatti, sono troppo settoriali e specifici”, ha detto il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. In commissione sono state accolte la gran parte delle obiezioni rilevate dalla Ragioneria. Le risorse a decine di emendamenti finiti in extremis in manovra non erano state trovate. Ma che tra le norme da rivedere finissero anche il taglio dell’Iva su vaccini e tamponi e la bocciatura alla nona salvaguardia per gli esodati in pochi se lo aspettavano. Ieri mattina, la priorità in commissione è stata data così a queste due misure. Sono stati reperiti i fondi necessari per coprire il taglio dell’Iva ed è stata riformulata la norma per coprire la maggiore spesa pensionistica per 2.400 persone che non hanno potuto accedere al pensionamento a causa la riforma della Fornero del 2011. La Ragioneria aveva spiegato che si sarebbe riaperta una questione già definita e che, allo stesso tempo, avrebbe comportato un aumento della spesa pensionistica, mettendosi anche in contrasto con l’Ue per l’accesso al Recovery Fund. Una contestazione abbastanza pretestuosa, e rientrata dopo che l’Inps ha chiarito alcuni punti.

L’impianto della manovra non è stato toccato: restano la proroga della Cig Covid, il blocco dei licenziamenti fino a marzo, 10 miliardi per scuola e sanità, una raffica di incentivi (dal superbonus 110% al bonus auto) e l’assegno unico familiare.

Salta lo stop alle trivelle: “Problemi con i partiti…”

Come non detto. La norma che bloccava le nuove ricerche di petrolio e gas in tutta Italia è saltata dal decreto Milleproroghe approvato ieri dal governo. Di quella norma, presente nella bozza di testo entrata nel pre-Consiglio dei ministri, avevamo scritto ieri sul Fatto: prevedeva fosse vietato “su tutto il territorio nazionale il conferimento di nuovi permessi di prospezione o di ricerca ovvero di nuove concessioni di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi”; statuiva poi che il ministero dello Sviluppo avrebbe dovuto rigettare tutte le istanze pendenti alla data di entrata in vigore del decreto e non prorogare le concessioni in essere. Infine, “le attività di prospezione o di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi, già sospese” dal decreto Semplificazioni del 2018, “sono definitivamente interrotte, fermo restando l’obbligo di messa in sicurezza dei siti interessati”.

E qui c’è un punto interessante: quel testo sospendeva le trivellazioni dando due anni di tempo al governo (all’epoca gialloverde, poi giallorosa) per produrre un “Piano delle aree idonee” alla cosiddetta “coltivazione degli idrocarburi”. Il piano non è mai arrivato e la moratoria scade a febbraio.

Per questo nel decreto Milleproroghe arrivato alla riunione tecnica di Palazzo Chigi, il ministero dello Sviluppo economico guidato da Stefano Patuanelli (M5S) aveva inserito – col sostegno di quello dell’Ambiente di Sergio Costa (M5S pure lui) – lo stop definitivo alla trivellazione del territorio in cerca di petrolio e gas: d’altra parte, è il ragionamento, dovremo impiegare almeno il 37% del Recovery Fund per la transizione verde e ci siamo impegnati ad azzerare le emissioni climalteranti entro il 2050, perché puntare su nuovi giacimenti di idrocarburi?

Dubbio legittimo, che si è però infranto sul muro della realpolitik. Proprio durante il pre-Consiglio dei ministri, il sottosegretario Riccardo Fraccaro (M5S) – che gestisce i lavori – ha chiesto di togliere lo stop alle trivelle dal Milleproroghe: quel decreto non sarebbe la sede giusta per una decisione di questo genere. I tecnici del Mise hanno opposto un argomento abbastanza solido: la moratoria sulle trivellazioni arriva proprio da un decreto Milleproroghe, l’ultima giusto in quello dell’anno scorso. Fraccaro non se n’è dato per inteso: non possiamo permetterci di fare una forzatura, soprattutto perché ci sono problemi nella maggioranza, la sua tesi.

Il sottosegretario non ha specificato a chi o a cosa si riferisse, ma gli unici a festeggiare il dietrofront pubblicamente – Confindustria a parte – sono state quelli di Italia viva: “Aspettiamo il testo definitivo per tirare un sospiro di sollievo. Ci sono migliaia di posti di lavoro e investimenti ingenti che sarebbero compromessi da uno stop”, ha detto il deputato Marco Di Maio. Giova ricordare che Matteo Renzi si batté con tutte le forze per far mancare il quorum al referendum contro le trivelle dell’aprile 2016, quello dopo il quale il renziano Ernesto Carbone irrise con un “ciaone” via Twitter i 15,8 milioni di italiani (31,2% degli aventi diritto) che si erano recati alle urne.

Salvini di nuovo fregato dall’altro Matteo: B. gode

I suoi fedelissimi, tra quelli che osano dirgli anche qualche no, in questi giorni ripetono che Matteo “si fida troppo”. Perché può succedere una volta – ai tempi del Papeete quando Salvini e Zingaretti si accordarono per andare al voto ma poi nacque il governo giallorosa –, può succedere due volte con il “patto del Chianti” a casa Verdini in cui Renzi promise a Salvini di far cadere Conte sulla prescrizione in cambio di un candidato debole in Toscana (tutto saltato), ma prima che accadesse una terza volta, quando Renzi ha iniziato a minacciare la crisi del governo, avevano avvertito il leghista: “Quello è così – gli avevano detto riferendosi al senatore di Scandicci – prima ti fa annusare il bottino e poi ti frega”. E così è andata.

Ché Salvini, pur continuando a dire pubblicamente che “nemmeno gli italiani credono più a Renzi”, di lui si è fidato eccome. O almeno si era convinto – anche dopo qualche sms “goliardico” e dopo un breve scambio di battute al Senato – che l’ex premier stavolta facesse sul serio facendo cadere il governo per far posto a un esecutivo di larghe intese che permettesse alla Lega di accreditarsi in Europa, gestire i 209 miliardi del Recovery ed eleggere il prossimo capo dello Stato. E così, ora che Renzi sembra fare marcia indietro, Salvini si sente “fregato” un’altra volta e nella Lega si parla di un leader “tramortito”: i sondaggi fanno paura toccando il minimo dalla primavera 2018 (l’ultimo di Swg dava la Lega al 23,4%, meno 10 punti in un anno), lui è iper-presenzialista su tv e social ma non ha toccato palla sulla manovra (rispetto a Berlusconi) e ha il fiato sul collo di Giorgia Meloni che gli sta soffiando la leadership dopo avergli negato l’idea di una “federazione del centrodestra”.

Sui territori non va meglio: se ieri Salvini è riuscito a nominare otto segretari regionali inserendo Siri e Zicchieri nella segreteria, nel centrodestra è tutti contro tutti sulle candidature nelle città. A partire da Roma dove lui e Berlusconi vorrebbero Guido Bertolaso mentre Meloni punta sul presidente della Croce Rossa Francesco Rocca. Stessi problemi a Torino (Salvini sostiene Paolo Damilano ma gli alleati nicchiano) e a Bologna e Milano dove la situazione è in alto mare.

Nel frattempo in Forza Italia la situazione è ondivaga: si passa da momenti di esaltazione ad altri di abbattimento. Lunedì lo stato maggiore ha esultato per il sondaggio Ipsos che dava il partito al 9,3% ma la sera Swg riportava gli azzurri al 6,2%. Anche per questo motivo Berlusconi, che ieri ha detto sì al Mes, nei saluti di Natale con i gruppi di FI ha calibrato bastone e carota con gli alleati: “Il 9,3% è un risultato esaltante che ripaga la linea della responsabilità ma il centrodestra è unito e non si dividerà”. Ma che la partita per FI si giochi al centro lo si evince, secondo i berluscones, dalla crescita azzurra a fronte dello stallo di Iv. “Renzi era partito con l’obiettivo di prosciugare l’elettorato forzista e invece sta avvenendo il contrario” fa notare sorridendo un deputato berlusconiano.

Imprese, “green” e superbonus ’22: task force rinviata

Potrà non piacere, ma una “visione” il Recovery prova a definirla. Anche nella versione “reloaded”, cioè la bozza non definitiva che il governo ha presentato ai partiti di maggioranza per la verifica e che lunedì al Mef entrerà nel vivo della discussione finale. E che quindi può cambiare ancora. Il piano, da cui scompare al momento la task force e che dettaglia 52 interventi mirati, è imperniato su corposi incentivi alle imprese, un grande blocco centrale costituito dall’ambiente e dall’economia circolare, la digitalizzazione e una parte sociale che oltre ai 9 miliardi alla Sanità conferma la parità di genere.

Il totale è sempre di 196 miliardi che al momento si distribuiscono in 6 missioni con 48,7 miliardi alla “digitalizzazione e innovazione”, 74,3 miliardi alla “transizione ecologica”, 27,8 miliardi alle “infrastrutture per una mobilità sostenibile”, 19,1 miliardi al capitolo “istruzione e ricerca”, 17,1 miliardi alla Parità di genere e 9 miliardi al settore Salute.

Tra le novità più rilevanti c’è il prolungamento del Superbonus al 110% anche al 2022. Si tratta di un intervento da 22,4 miliardi che riguarda gli incentivi all’efficientamento energetico e all’adeguamento antisismico degli edifici privati. Le risorse si aggiungono ai 17,7 miliardi a favore dell’efficientamento degli edifici pubblici.

Significativo l’intervento a favore delle imprese con la “Transizione 4.0”, frutto delle richieste di Carlo Bonomi, presidente di Confindustria. Ma saranno apprezzati dal mondo imprenditoriale anche i 21,7 miliardi per opere ferroviarie per la mobilità e la connessione veloce del Paese. Qui la “visione” sembra ancora legata al classico sistema delle Alte velocità con progetti che andranno valutati nel dettaglio. Ci sono comunque 8,68 miliardi per le energie rinnovabili che si aggiungono ai 4,5 all’economia circolare. Il cuore ecologico del piano, come definito dalle indicazioni generali della Commissione europea è qui.

C’è poi l’altra gamba decisiva del Next Generation, 48,7 miliardi di risorse alla “Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura”. Nella Pubblica amministrazione vengono investiti 10,1 miliardi; nella Innovazione 4.0 e internazionalizzazione vengono investiti 35,5 miliardi di euro; in Cultura e Turismo vengono investiti 3,1 miliardi. Questo è il punto conteso da Matteo Renzi che però, artatamente, aggira il fatto che la Cultura e il turismo vengono finanziati anche dalle altre voci che indirettamente la riguardano.

Alla “Vulnerabilità, inclusione sociale, sport e terzo settore” vanno 6,3 mld, di cui 400 milioni a interventi per studenti universitari e Afam con disabilità, 700 milioni a servizi sociali integrati, 450 milioni all’housing temporaneo e stazioni di posta, 2,8 mld alla rigenerazione urbana, 2,3 per l’housing sociale, 700 milioni alle cittadelle dello sport.

Ci sono ancora 4,5 miliardi destinati alla Parità di genere e al sostegno alla genitorialità di cui 100 milioni al sistema di certificazione della parità di genere, 2,4 miliardi al piano per gli asili nido, 400 milioni alle politiche sociali a supporto delle donne lavoratrici, 1,7 miliardi come sostegno all’imprenditoria femminile (e tornano quindi aiuti all’imprenditoria).

Ai giovani e al lavoro vanno 2,4 miliardi: 1,3 miliardi alle politiche attive, 200 milioni al contrasto al lavoro sommerso, 100 milioni alla salute e sicurezza del lavoro, 500 milioni al piano strategico nazionale per le nuove competenze, 250 milioni al servizio civile universale.

I 9 miliardi alla Sanità prevedono 5 miliardi per la medicina del territorio, ma come ha ribadito ancora Giuseppe Conte, considerando anche altre voci, la cifra dovrebbe ammontare a 15 miliardi. Oltre alla task force, scompare anche la Fondazione per la “cyber-security” sostituita da un Centro nazionale di ricerca e sviluppo e un “rafforzamento del Perimetro di Sicurezza Nazionale Cibernetica attraverso interventi tecnologici, di processo, di governance e di awareness che incrementino le difese cibernetiche ed il grado di resilienza del Paese”.