Renzi ricomincia con le minacce. Ma Conte resiste su Mes e Servizi

Giuseppe Conte ha proposto, aperto, in parte concesso. Ma oltre un certo limite non andrà. Non ha voglia di farsi cuocere a fuoco lento, e il voto è una soluzione che non disdegna. È la lettura che va data alle frasi seminate come paletti dal presidente del Consiglio ieri, a Porta a Porta: “A me interessa trovare soluzioni nell’interesse del Paese, perciò dico che qualsiasi altra proposta o modifica che non sia nell’interesse del Paese non mi riguarda. Dopodiché la crisi non è nelle mie mani. Ma si va avanti se c’è una fiducia non astratta da parte di ciascuna forza che sin qui ha sostenuto la maggioranza. Cioè di tutte le forze”. Traduzione: i segnali pretesi da Matteo Renzi sono sul tavolo.

Ma se Iv continuerà a giocare ancora alla crisi, se ne dovrà assumere il peso. E avere il coraggio di far cadere Conte e la sua maggioranza, in Parlamento. Così confermano fonti di governo, nel giorno in cui Renzi torna a fare se stesso in tv a L’aria che tira, in una sfida a distanza con il premier. “Tutto è ancora sul tavolo” assicura, compreso il ritiro delle sue ministre dal governo. “Noi – continua – abbiamo posto un problema di metodo e merito. Sul metodo ci hanno dato ragione, un passo in avanti. Sul merito dipende se siamo d’accordo o no”. Ergo, l’ex premier vuole ancora tirare la corda.

Così torna a invocare il Mes, la mina per far saltare tutto, visto che i 5Stelle non potranno mai deglutirlo. Ma soprattutto insiste: “Sul tema dei servizi serve un esperto tecnico, che non è il premier. Tutti abbiamo sempre delegato, perché Conte accentra? Anche su questo servono novità”. Dopo i segnali di tregua di martedì, Renzi rialza volentieri la tensione, che per lui fa rima con visibilità. D’altronde non ha molto da perdere. “Io ora ho il 2 per cento, che mi importa?” gli hanno sentito dire. Per questo in un tweet dice no a quelle urne che pure a lui e Iv ad occhio costerebbero carissimo: “Non credo che si andrà a votare, perché in Parlamento una maggioranza c’è”.

E sempre in quest’ottica azzanna Dario Franceschini, capo delegazione dem che ha evocato proprio il voto: “Sta bluffando, il presidente della Repubblica non è Franceschini ma Sergio Mattarella”. Però poi c’è Conte, che nel salotto di Bruno Vespa rivendica di “aver parlato poco in questi giorni, lasciando parlare altri sulle tv”, ed è già una botta ai renziani.

Ma il punto è un altro: “Sulla delega sui Servizi non vorrei ci fossero equivoci: il presidente del Consiglio non si è appropriato di questi poteri, glieli attribuisce la legge e io non posso sottrarmi a questa responsabilità”. Niente passo indietro dunque, anche se l’hanno chiesto anche altri (il vicesegretario dem Andrea Orlando, per esempio). “Sono disposto a discutere di tutto ma per l’interesse generale e non di singole parti delle forze di maggioranza” ribadisce. Ovvero, non pensa ad abiure. Ed ecco perché recapita un’altra risposta a Iv, che martedì aveva celebrato la scomparsa della task force per il Recovery Fund: “La task force, come struttura centralizzata che avrebbe sopravanzato e prevaricato i ministeri, è stata superata perché non è mai esistita. Ma una struttura di monitoraggio ce la chiede l’Europa”. E il Mes? Vira ancora verso il no: “Attivarlo o meno è prerogativa del Parlamento ma i 36 miliardi del fondo ci farebbero accumulare deficit e lasceremmo alle generazioni future un fardello”. Piuttosto, avverte Conte, “non possiamo disperdere le risorse del Recovery Plan, e se non riusciremo in questo intento il governo dovrà andare a casa con ignominia”. Quindi bisogna andare di corsa: “L’obiettivo è chiudere entro l’anno il documento di aggiornamento sullo stato dell’arte (del Recovery, ndr). Dobbiamo mandarlo al Parlamento e avviare un passaggio importante con la società civile e le parti sociali”.

Per questo , “ho chiesto ai partiti di ritrovarci tra Santo Stefano e Capodanno per trovare la necessaria sintesi”. Fuori si riparla di rimpasto, ma a gennaio inoltrato. Dall’esecutivo raccontano che il Quirinale avrebbe fatto sapere che tre ministeri sono intoccabili: Interni, Esteri e Difesa. Mentre l’Economia tornerebbe in gioco se Roberto Gualtiere si convincesse a correre come sindaco di Roma. Più che un’idea, per il Pd.

Risiko Milan, cemento a San Siro. Al club in arrivo 200mln l’anno

Nella pochade del Milan, i proprietari escono ed entrano di scena come in una commedia di Feydeau. Il misterioso imprenditore cinese Yonghong Li è scomparso dopo aver tentato di scalare la squadra che fu di Silvio Berlusconi. Ora sono cancellati con un tratto di penna anche i due finanzieri napoletani Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo, che per qualche tempo sono stati iscritti nei registri delle società lussemburghesi come “bénéficiaires effectifs” (titolari effettivi) della Red Black sarl che attraverso la Rossoneri Sport Investment controlla il Milan spa. Il 3 dicembre 2020, dopo le polemiche sollevate da una puntata di Report, sono stati sostituiti da Paul Elliott Singer in persona, il fondatore del fondo Elliott che ha messo i soldi per comprare la squadra.

Ma chi sono i due finanzieri napoletani e che ruolo hanno giocato in questa partita? E qual è la posta in gioco? Potremmo chiamarla Milano 4: non è un obiettivo calcistico, ma un affare immobiliare da 1,2 miliardi di euro, da realizzare sui terreni di San Siro. Il progetto: abbattere, almeno parzialmente, il Meazza, costruire un nuovo stadio da gestire insieme all’Inter e, attorno, 77 mila metri quadrati di spazi commerciali, 47 mila di uffici, 12 mila di alberghi, 9 mila per intrattenimento, 4 mila di centro congressi, per un totale di almeno 150 mila metri quadrati da edificare su terreni del Comune di Milano, che porteranno a Milan e Inter ricavi di quasi 200 milioni di euro l’anno. L’uomo che sta trattando l’affare con il sindaco Giuseppe Sala, cercando di strappare un indice di edificabilità 0,51 (ben superiore allo 0,35 che sarebbe imposto a Milano dal Piano di governo del territorio) è Paolo Scaroni, ex amministratore delegato di Eni su nomina di Berlusconi e già mediatore tra Berlusconi e il presidente russo Vladimir Putin per gli affari petroliferi e la realizzazione dell’oleodotto Southstream.

Scomparso di scena il cinese Li, arrivano i soldi di Elliott, che raccoglie denaro da migliaia di ricchi e anonimi investitori. Soldi senza nome e senza odore. Ad operare sui veicoli societari dell’operazione sono i due finanzieri offshore Cerchione e D’Avanzo. Il primo, nato a Napoli nel 1971, è residente a Dubai. Il secondo, nato a Napoli nel 1975, è residente a Londra. Entrambi dal luglio 2018 siedono nel consiglio d’amministrazione del Milan presieduto da Scaroni. Cerchione nel suo curriculum esibisce una laurea in ingegneria elettronica conseguita a Napoli e un master in business administration alla Columbia Business School di New York. Nel 1995 entra come project manager in Procter & Gamble. Nel 1998 passa alla società di consulenza Bain & Co. D’Avanzo si è laureato in economia aziendale alla Bocconi di Milano e ha un master in business administration della London Business School. Viene dalle Fiamme gialle: frequenta l’Accademia militare della Guardia di finanza ottenendo il grado di tenente, poi dal 2000 lavora alla Lehman Brothers, dal 2003 al fondo di private equity Bc Partners. Nel 2005 si trasferisce a Londra come vice presidente dell’hedge fund americano Db Zwirn.

I due si trovano insieme in Beta Skye, poi trasformata in Beta Stepstone, società di factoring del gruppo Fortress che nel 2017 passa a Banca Sistema. Fanno affari a Napoli, dove gestiscono i crediti sanitari della Regione Campania. Realizzano diverse operazioni finanziarie: alcune a Venezia, dove si occupano della compravendita dell’Hotel Bauer e della Cipriani, la società dell’Harry’s Bar.

Nel 2018, come abbiamo visto, entrano nel cda del Milan. E la pochade si trasferisce dalla Cina al Lussemburgo. Cerchione e D’Avanzo controllano al 50 per cento la società Blue Skye che controlla al 50,01 per cento la lussemburghese Project Red Black sarl, che per il restante 49,99 per cento è controllata da Paul Elliott Singer. Poiché la Red Black controlla il Milan, i “padroni” della squadra risultano essere i due finanzieri partenopei, con il magnate Usa. Sul registro delle società lussemburghesi era scritto infatti che dal 16 settembre 2020 i titolari effettivi della Project Redblack, e dunque del Milan, erano Salvatore Cerchione, Gianluca D’Avanzo e Singer. Quando Report racconta questa storia, i registri vengono aggiornati e come “bénéficiaire effectif” (titolare effettivo) della società resta il solo Singer: perché la Blue Skye ha sì la maggioranza, ma di azioni di classe B (4,27 per cento) e C (45,74 per cento). Quelle di classe A sono tutte di Singer, che ha il potere di nominare due dei tre membri del consiglio d’amministrazione e quindi ha il controllo.

Problema risolto? No, per due motivi. Il primo è che comunque Cerchione e D’Avanzo non sono lì per caso, ma rappresentano una fetta dei soldi prestati al cinese Li e finiti nel Milan. Il secondo è che le azioni di Singer (e dunque il resto dei soldi finiti nel Milan) sono in realtà custodite in due cassaforti anonime del Delaware: King George (34,99 per cento) e Genio (15 per cento). Singer dunque ci mette la faccia per tutti, ma chi siano i veri proprietari del Milan continuiamo a non saperlo. Non sappiamo chi rappresentino Cerchione e D’Avanzo con la loro Blue Skye e non sappiamo chi ha messo i soldi nei due salvadanai del Delaware.

Sappiamo però che Cerchione, D’Avanzo e soprattutto Scaroni sono in ottimi rapporti con Silvio Berlusconi. E sappiamo che fin dall’inizio di questa oscura partita il calcio si è intrecciato con l’immobiliare: il grande affare in corso del Milan (alleato per l’occasione con la squadra avversaria e altrettanto poco chiara nell’assetto proprietario, l’Inter) è la speculazione sui terreni di San Siro. Milano 4 è in arrivo. D’Avanzo siede anche nel cda di Asansiro, la società di Milan e Inter che ha per oggetto lo “sviluppo” dell’area dello stadio. Dopo quattro anni (!) di richieste del presidente della Commissione comunale antimafia David Gentili, il 10 dicembre il Comune ha mandato ai due club una lettera in cui chiede chiarimenti (finalmente) sull’“effettiva titolarità delle azioni delle società proponenti”. La risposta ora arrivata è: il Milan è di Elliott. Ora Sala dovrà decidere come procedere.

La Corte Ue dà torto ai 49 ex eurodeputati italiani in guerra contro il taglio dei vitalizi

Luciana Castellina (Pdup, Pci, Rifondazione), Diego Novelli (Pci), gli eredi di Giulietto Chiesa. Ma anche Jas Gawronski (Pri, Forza Italia), Vito Bonsignore (Pdl), Mario Mantovani (Fi), Raffaele Lombardo (Udc). E poi Francesco Speroni (Lega), Romano La Russa e Cristiana Muscardini (An). Sono 49 gli ex eurodeputati italiani di tutti gli schieramenti o i loro eredi che il 15 ottobre hanno perso davanti alla Corte di Lussemburgo le rispettive cause intentate contro il Parlamento europeo nell’estate del 2019 per il taglio dei vitalizi. I loro ricorsi contro i tagli, unificati in un solo procedimento, sono stati respinti integralmente nel giudizio di primo grado dai cinque giudici dell’Ottava sezione, che li hanno anche condannati a pagare le spese. Ora gli eurodeputati potranno tentare un ricorso eccezionale alla Corte di Giustizia Ue, la cui decisione è equiparata a quella della Cassazione, ma la strada pare impervia.

Gli eurodeputati, in base alla “regola di pensione identica”, percepiscono lo stesso stipendio e, dopo un anno di mandato, la stessa pensione dei deputati dei rispettivi Paesi. In base alla delibera 14 del 12 luglio 2018 votata dall’ufficio di presidenza della Camera, retto da Roberto Fico, gli assegni vitalizi e i trattamenti di reversibilità dei deputati per i mandati svolti fino al 31 dicembre 2011 sono stati rideterminati con il sistema contributivo, equiparandone a partire dal 2019 il trattamento previdenziale a quello ordinario dei dipendenti pubblici. Così l’11 aprile 2019, con effetto retroattivo dal primo gennaio, il Parlamento europeo ha adattato le pensioni degli eurodeputati riducendole in modo analogo a quelle erogate ai deputati italiani. Il taglio di circa il 60% degli importi percepiti nel 2020 ha permesso di risparmiare 46,2 milioni sui costi della Camera.

La decisione del Tribunale Ue, che ha respinto una per una tutte le argomentazioni giuridiche delle cause, non depone a favore di altri 23 ricorsi presentati da altrettanti eurodeputati italiani che veranno discussi in futuro. Tra i promotori di queste altre vertenze spiccano i nomi di Claudio Martelli e Carlo Tognoli (Psi), Guido Podestà (Fi), Mario Forte (Dc, ex sindaco di Napoli). Nei mesi scorsi, con una serie di sentenze a sezioni unite, la Corte di Cassazione ha poi stabilito che per i parlamentari o i loro eredi non è possibile “smontare” nei tribunali ordinari i tagli ai vitalizi. La Suprema Corte ha ribadito infatti che la competenza in materia è solo di Montecitorio.

Giacomo Mancini jr e la campagna del 2018. “Non tutti vogliono fare le cose tracciabili”

“In questi giorni lo ha convocato Verdini! Hai capito?”. “Quanto molla questo? Una venti?”. “Gli ho detto a Giacomo, vedi che noi cappottiamo a tutti… ci vogliono dai 40 ai 50 mila”. A parlare è Mario Tursi Prato, ex consigliere regionale calabrese Psdi, già condannato per concorso esterno con la ’ndrangheta. La campagna elettorale, invece, è quella di Giacomo Mancini jr, ex assessore regionale del centrodestra candidato del Pd alle politiche del 2018. Ex deputato Ds e Rosa nel Pugno, in carriera ha attraversato tutto l’arco costituzionale. Alle ultime politiche in Calabria Mancini era l’uomo di Verdini, all’epoca stampella del Pd. “Stasera sono partiti 11/10 mila euro… non tutti vogliono fare le cose in maniera tracciabile”. Non dovendo raccogliere i voti per la moglie (Enza Bruno Bossio candidata in un “collegio sicuro”) l’ex parlamentare Ds Nicola Adamo ha puntato sul “cavallo di razza” Giacomo Mancini, nipote omonimo del “Leone socialista”. “Come abbiamo fatto io e tuo padre, compà che entravano (soldi) e uscivano tutti i voti a Giacomo”. Tursi Prato parla con Pietro Mancini, padre del candidato per il quale, secondo la Finanza, ha organizzato una campagna elettorale “con la collaborazione di organizzazioni ’ndranghetistiche e con un rilevante impegno economico”. “Te lo dico a te ma non devi parlare con nessuno”. Tursi Prato spiega come si sta muovendo negli ambienti criminali: “A capo di tutto ci sono un italiano e uno zingaro. Lo chiamano ‘Banana’”. Per gli investigatori è un esponente del clan Abbruzzese: “Aspettano che gli do il via. Loro hanno già preparato tutto”. Il meccanismo era semplice: “Vanno in una famiglia… ‘e ma io ho un problema con la luce (pagare le bollette, ndr)’… ‘dammi ste bollette te le pago io’”. Mancavano pochi giorni al 4 marzo quando Tursi Prato spiega a Pietro Mancini “che Verdini – scrive la Finanza – ha convocato Giacomo probabilmente per finanziare parte della sua campagna elettorale, il finanziamento non è di quelli regolari in quanto non passa per i canali ufficiali ma deve essere ritirato direttamente dal candidato a Roma”. “Sa già il plafond, – dice il faccendiere – quello gli da quello che cazzo vuole… gli ho detto a Giacomé tu gli devi parlare chiaramente (si riferiscono a Verdini), siccome io sono un tuo uomo che viene qua… o no? O come funziona?”. Il padre del candidato si preoccupa: “Se Denis non paga, qua non abbiamo niente”.

Arma, il nuovo comandante è Teo Luzi

L’eredità che si ritrova a raccogliere non è delle più semplici. Quella di un’Arma dei carabinieri lacerata nei fatti dalle vicende di Piacenza, per citare uno tra gli ultimi casi in cui sono coinvolti i carabinieri. Il generale di corpo d’armata Teo Luzi è il nuovo comandante generale dell’Arma, designato ieri dal Consiglio dei ministri. È stato capo di Stato Maggiore del precedessore Giovanni Nistri. Per questo la scelta non sembra di totale discontinuità, ora toccherà a lui dimostrarla. Nato a Cattolica (Rimini) il 14 novembre 1959, ha intrapreso la carriera militare nel 1978 con la frequenza del 160° Corso dell’Accademia Militare di Modena, completando gli studi militari presso la Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma nel biennio 1980-1982. Ha frequentato il 117° Corso Superiore di Stato Maggiore presso la Scuola di Guerra dell’Esercito di Civitavecchia, il 1° Corso Issmi (Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze) e lo Iasd (Istituto Alti Studi per la Difesa) presso il Centro Alti Studi della Difesa di Roma. Ora la nomina a comandante generale dell’Arma.

Chico Forti torna in Italia: in carcere Usa da vent’anni

“Ho una bellissima notizia da darvi: Chico Forti tornerà in Italia. L’ho appena comunicato alla famiglia e ho informato il capo dello Stato e il premier. Il governatore della Florida ha accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia”. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato così il prossimo rientro in Italia dell’ex produttore televisivo ed ex velista italiano, detenuto negli Usa da 20 anni. L’imprenditore trentino, che si è sempre dichiarato innocente, era stato arrestato dalle autorità Usa nel 1998 e condannato all’ergastolo nel 2000 da un tribunale della Florida, con l’accusa di omicidio premeditato. Per risolvere il suo caso si era pensato anche di chiedere la grazia giusto un anno fa. Forti è stato ritenuto colpevole dell’omicidio di Dale Pike, 40enne australiano figlio di Tony, patron del Pike Hotel. Forti incontrò l’uomo appena atterrato all’aeroporto di Miami. Dopo 24 ore l’australiano viene ritrovato senza vita con due colpi di pistola calibro 22 alla testa in spiaggia.

“Palamara colpì i colleghi per l’interesse personale”

Una sentenza di 106 pagine. È il documento che spiega perché Luca Palamara è stato rimosso dalla magistratura. Innanzitutto – ed è il primo capo d’incolpazione – il Csm condanna Palamara perché ha perseguito la finalità di “colpire” alcuni colleghi (l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’attuale procuratore aggiunto Paolo Ielo). E l’ha fatto anche per “ragioni pratiche di interesse personale”. Ha infatti perseguito la finalità di “favorire” la propria posizione – ambiva al ruolo di procuratore aggiunto di Roma – al “prezzo del sacrificio” di “altre meritevoli posizioni”. “Il tutto”, si legge negli atti, “in una prospettiva strategica (…) avvertita” da Palamara “come assolutamente normale, usuale e finanche lecita”.

Una prospettiva strategica che Palamara ha percepito “alla stregua di un dialogo necessario con il ‘mondo esterno’” e della “possibile e lecita (se non, addirittura ‘scontata’) interlocuzione tra ‘magistratura’ e ‘politica’”. Il riferimento è al dopo cena del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma durante il quale, in compagnia di altri 5 consiglieri del Csm, e dei parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, all’epoca entrambi nel Pd, Palamara discuteva del futuro della procura di Roma. È altrettanto noto che Palamara puntava sulla nomina di Marcello Viola (attualmente procuratore generale di Firenze, che nulla sapeva né degli incontri notturni né delle strategie messe in campo in quelle ore) a discapito delle candidature di Giuseppe Creazzo (oggi procuratore di Firenze) e del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. Tutti magistrati – incluso lo stesso Viola – che il Csm ritiene danneggiati dalla condotta di Palamara. Il cuore della vicenda è racchiuso proprio nell’incontro all’hotel Champagne di Roma. La sentenza ricorda che Palamara non era peraltro un magistrato qualunque ma “leader notoriamente riconosciuto di una ‘corrente’ (Unicost) particolarmente radicata e rappresentativa”. All’epoca contava ben 5 componenti elettivi sui 16 togati. L’unico, quella sera, a non aver indossato la toga era Lotti che “ha potuto prender parte” all’incontro “proprio attraverso l’intermediazione” di Palamara che l’ha introdotto facendo leva “sulla propria speciale posizione rappresentativa all’interno del corpo di appartenenza”. Non c’è dubbio, secondo la sentenza, sul fatto che Palamara abbia condizionato delle funzioni che la Costituzione ha attribuito al Csm: “La riunione si è strutturata alla stregua di un illecito ‘condizionamento dell’organo nella misura in cui’ la stessa ‘predetermina, secondo una strategia [ … ] occulta, le scelte, le anticipa e le pone in condizione di incanalarsi nella direzione voluta e le mette in sicurezza’”. La sezione disciplinare – composta da Fulvio Gigliotti, Emanuele Basile, Piercamillo Davigo, Elisabetta Chinaglia, Paola Maria Braggion e Antonio D’Amato – sostiene che non si è trattato peraltro di “episodi occasionali né, ancor meno, isolati”. E ancora: Palamara “ha agito principalmente, se non unicamente, sotto la spinta di ragioni personali variamente calibrate tra la soddisfazione di aspirazioni rancorose in confronto di taluni soggetti e, più radicalmente, obiettivi egoistici di affermazione professionale”. L’ex presidente dell’Anm “aspirava alla collocazione come Procuratore Aggiunto presso la Procura di Roma” e la sua condotta “non è mai stata sorretta dal nobile proposito (sia pure perseguito attraverso accordi e metodi gravemente scorretti e giuridicamente illeciti) di procurare la ‘collocazione’ negli Uffici giudiziari di quelle professionalità soggettive che (…) gli apparivano come le più idonee (…) agli incarichi da assegnare; piuttosto (…) è stata determinata esclusivamente da non commendevoli ragioni individuali”.

Se non bastasse, a peggiorare la situazione, c’è anche il fatto che la “straordinaria gravità” e “l’enorme risonanza mediatica delle vicende disciplinari” ha “inciso in maniera irrimediabile sulla credibilità funzionale e sul prestigio personale” dello stesso Palamara: “La vicenda ha occupato quasi ininterrottamente, da quando è emersa, le pagine di quotidiani e mezzi di informazione, formando oggetto di censure e commenti preoccupati se non addirittura sgomenti e sdegnati; inoltre ha sollecitato iniziative associative (il riferimento è alle procedure interne alla Anm, ndr) e propositi di riforma legislativa, oltre che un intenso dibattito, scientifico e mediatico, sulle implicazioni da essa prospettate”. In altre parole: non v’è dubbio che “la ‘fiducia’ pubblica nel profilo istituzionale” di Palamara come magistrato “sia venuta radicalmente a cessare”. E quindi: “Solo la rimozione risulta sanzione proporzionalmente adeguata alla gravità dei fatti”.

La guerra di secessione delle “toghe rosse”

La fuoriuscita, nei giorni scorsi, di 26 toghe (nel frattempo si è dimessa pure la pm Lucia Musti) da Magistratura Democratica, la storica corrente di sinistra, parte da lontano. Almeno dal 2016, quando Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, promuove il referendum per cambiare la Costituzione. Fallendo.

Ed Md cosa ha a che fare con tutto questo? Una parte della corrente, maggioritaria, si schiera per fare campagna in prima linea per il No a quella riforma e una minoranza, ma di peso, critica quella scelta. Da un lato c’è la cosiddetta ala “identitaria”, quella che non vuole rinunciare “alla sua esistenza di corrente di pensiero della magistratura”, e dall’altra c’è l’ala che vuole sciogliere Md, affinché il cartello elettorale di Area, costituito da Md e Movimenti per la Giustizia, diventi una realtà unica. È l’ala “purista” di cui fanno parte i dimissionari, accusati dagli identitari anche di non aver preso posizioni forti verso le toghe di Area che andavano a braccetto con Luca Palamara, ex dominus delle nomine al Csm. Tra gli identitari 2.0 (fino a pochi anni fa gli schieramenti erano diversi) ci sono Maria Rosaria Guglielmi e Riccardo De Vito, segretaria e presidente di Md, Rita Sanlorenzo, ex segretaria di Md, Ezia Maccora, ex consigliera Csm, Silvia Albano, giudice civile a Roma, Fabrizio Vanorio, pm di Napoli e prima di Palermo, Nello Rossi, ora in pensione, ex avvocato generale della Cassazione e attualmente direttore della rivista di Md, Questione Giustizia. È colui che si è schierato per la decadenza dal Csm di Piercamillo Davigo, perché in pensione da magistrato mentre Giuseppe Cascini e gli altri consiglieri di Area al Csm erano per la permanenza, salvo astenersi (3 su 5) dopo la decisione del Comitato di presidenza di votare per la decadenza. Cascini e Ciccio Zaccaro, altro togato Csm di Area, si sono dimessi da Md nei mesi scorsi, senza clamore. Tra i 26 “puristi” di Area che, invece, nei giorni scorsi hanno firmato una lettera di dimissioni contro la dirigenza di Md, accusata di essere fuori dalla realtà, ci sono: Eugenio Albamonte, segretario di Area ed ex presidente dell’ Anm; Luca Poniz, presidente dell’Anm fino a poche settimane fa; Anna Canepa, ex segretaria di Md, pm della procura nazionale antimafia; Lia Sava, procuratore generale di Caltanissetta.

Per capire come si è arrivati a tutto ciò però bisogna prima raccontare l’inizio della fine. Sia il conflitto interno sul referendum di Renzi sia sulle nomine al Csm, infatti, si materializzano al Congresso di Md a Bologna già nel novembre 2016. È lì, per esempio, che ci sono interventi critici verso Valerio Fracassi, capogruppo di Area al Csm (di provenienza Movimenti). Quel Fracassi che sarà tra i protagonisti delle chat con Palamara tre anni dopo. Restando al 2016, una parte di Md non ha mai digerito, per esempio, per la mancanza di titoli, la nomina a primo presidente della Cassazione di Giovanni Canzio, con i voti della maggioranza di Area: Canzio non era neppure consigliere di Cassazione e se non ci fosse stata la legge ad personam del governo Renzi, sarebbe stato, per età, presidente della Cassazione per soli 8 mesi, e non due anni. Gli allora due unici componenti di Area in “quota” Md, Lucio Aschettino e Piergiorgio Morosini in plenum si astennero con motivazioni al vetriolo. Fin qui le prime grosse crepe degli anni scorsi.

Tornando al presente, le critiche degli identitari sono diverse, a cominciare dalla scelta dei consiglieri di Area di votare Raffaele Cantone a procuratore di Perugia nonostante venisse da un lungo fuori ruolo, alle “strategie” di alcuni fuoriusciti, questa l’accusa, per non far eleggere al Csm l’identitario Vanorio. Ma nel documento dei fuoriusciti la lettura di quanto succede nella corrente delle “toghe rosse” è un’altra: “Un luogo escludente, autoreferenziale, assente dal dibattito politico reale, opaco e ambiguo rispetto al progetto politico di Area e che seppellisce nel silenzio il dissenso interno“. I fuoriusciti bollano “le recenti, continue critiche all’operato di Area e delle sue rappresentanze al Csm e in Anm” come “quasi sempre postulati privi di contenuto”. Forse è proprio per questa analisi che, dopo il ritiro di Luca Poniz (il più votato di tutte le correnti) da candidato presidente dell’Anm dalla vincitrice Area, diventa presidente Giuseppe Santalucia, candidato di Albamonte, ex capo del legislativo al ministero della Giustizia guidato da Andrea Orlando.

Esclusa l’identitaria Silvia Albano, la seconda più votata di Area. A un’assemblea degli eletti di Area nel parlamentino dell’Anm, ci risulta che la Albano abbia accusato proprio Albamonte di averla tagliata fuori. Quali ora gli scenari possibili? Un tentativo di Area di cambiare lo statuto per vietare la doppia iscrizione. Quindi chi è di Md si troverebbe a dover scegliere: o fuoriuscire da Area o da Md. Oppure, potrebbe essere Md a decidere di uscire da Area. D’altronde nel coordinamento di Area non c’è nessun membro dell’ala “identitaria”.

Astronave, non solo Moncler: Invernizzi ritira i 4 mln donati

Dopo quella di Moncler, un’altra donazione milionaria a Regione Lombardia per l’Ospedale in Fiera riprende la via di casa. Si tratta dei 4 milioni di euro della potentissima Fondazione Romeo ed Enrica Invernizzi del 2 aprile 2020. Assegni staccati da tre società riconducibili alla Fondazione: la Finnapo S.r.l. (2,8 milioni bonificati il 6 aprile 2020); l’Immobiliare Mongesu S.r.l. (700 mila euro bonificati il 3 aprile); la Bina S.r.l. (che, sempre il 3 aprile, dona altri 500 mila euro). Totale: 4 milioni tondi. Fondi vincolati a uno scopo, la costruzione della struttura ospedaliera. Ma che si riveleranno non necessari, considerati i 21 milioni raccolti dalla Fondazione Fiera. Così Fondazione Invernizzi, come Moncler, ha dovuto scegliere se lasciare i fondi al Pirellone oppure prenderli indietro.

Il 21 giugno 2020 Fondazione Invernizzi, come testimonia la delibera di giunta n. 3982 del 14 dicembre, ha reclamato il denaro con una motivazione chiara: “Destinare le donazioni per due importanti progetti (di ricerca, ndr) individuati dalla stessa Fondazione con l’Università degli Studi di Milano”. E, visto che la legge regionale n. 4/2020 prevede l’obbligo di “destinare i proventi delle donazioni” solo “per iniziative di carattere emergenziale”, Regione Lombardia è stata costretta a restituire il denaro.

Una questione tecnica, ma fino a un certo punto: la Fondazione, infatti, avrebbe potuto scegliere di lasciare i 4 milioni alla Regione, anche se, per statuto, può finanziare solo progetti specifici. Avrebbe cioè potuto scegliere la via di Moncler e foraggiare progetti proposti dalla giunta Fontana. Invece ha preferito riprenderli e girarli alla Statale di Milano, che per altro non ha ancora individuato i “due importanti progetti. “Al momento la donazione alla Statale non è stata ancora formalizzata, né riscossa”, chiarisce l’Università al Fatto. “Quando la donazione verrà effettuata, sarà portata all’attenzione del cda dell’ateneo. L’intenzione sarebbe quella di finanziare i progetti di ricerca Covid non ancora finanziati”. Un messaggio chiaro: sui soldi meglio che decida la Statale, piuttosto che il Pirellone.

Una scelta comprensibile, considerando anche la nube di mistero che circonda i 10 milioni ripresi da Moncler un mese fa. La società dei piumini, dopo l’articolo del Fatto che raccontava come avesse richiesto indietro la donazione anch’essa destinata all’Ospedale in Fiera, aveva fatto sapere che avrebbe utilizzato 2 milioni per l’acquisto di 15 mezzi da destinare alle Usca, mentre i restanti 8 sarebbero andati per un progetto di telemedicina da attivare presso l’Ospedale di Niguarda. Un mese dopo del progetto di telemedicina si sono perse le tracce. “Come sindacato non ne sapevamo nulla prima e non ne sappiamo nulla ora”, spiega Isa Guarneri, segretaria FP Cgil Milano. Nonostante il sindacato, subito dopo l’articolo del Fatto, avesse chiesto informazioni precise ai vertici della Sanità Lombarda sul tanto pubblicizzato “Progetto Moncler”. Senza ottenere alcuna risposta. Il 13 novembre Niguarda ha effettivamente avviato un progetto simile a quello annunciato da Moncler – si chiama “Monitoraggio territoriale dei pazienti Covid” ed è gestito da 4 infermieri –, tuttavia questo pre-esisteva alla donazione di Moncler ed era stato approvato ben prima della restituzione del denaro.

La stessa società dei piumini, interrogata in proposito, ha preferito non rispondere. E anche sulle dotazioni delle Usca aleggia più di un dubbio: “Non mi risulta che a Milano siano entrati in servizio nuovi mezzi”, dice la consigliera Pd Carmela Rozza. “Anzi, il vero problema, oltre alla carenza di medici e infermieri, è ancora oggi la mancanza di mezzi attrezzati”.

E, intanto, l’Ospedale alla Fiera di Milano continua a lavorare, ma ampiamente sottodimensionato, a causa della carenza di personale sanitario. Lunedì 20 dicembre i ricoverati in terapia intensiva erano 47 sui 540 totali della Lombardia; il giorno prima erano 47 su 560 e quello prima ancora, i letti occupati erano 55 su 602 pazienti gravi totali. Non certo numeri enormi, per un’Astronave che avrebbe dovuto “salvare la Lombardia” e l’intero Paese. Avrebbe dovuto avere oltre 400 letti pienamente funzionanti. Peccato siano rimasti per lo più sulla carta.

Il FT: i decessi da Covid-19 sono abnormi in Sudamerica

Giusto ieri l’Italia ha superato la soglia dei 70mila decessi riferiti all’epidemia di Covid-19. Numeri enormi che forse, qui come altrove, non catturano l’intero fenomeno e lo fanno in maniera comunque non accurata: i criteri di classificazione cambiano da Paese a Paese e dipendono anche, in larga parte, dalla capacità di tracciamento del contagio. Per tentare di dare un volto plausibile all’impatto della pandemia nel mondo, allora, il Financial Times ieri ha provato ad analizzare la mortalità generale in 30 Paesi, per vedere quella in eccesso rispetto alla media degli ultimi anni. Ovviamente i dati non sono completi e si riferiscono a periodi diversi per ogni Paese, però almeno una cosa salta all’occhio: gli effetti devastanti del Covid-19 in America Latina, una cosa spesso ignorata dai media occidentali.

Perù, Ecuador e Messico hanno tassi di mortalità in eccesso rispetto alla media davvero sorprendenti, tra il 50 e l’85%, assolutamente fuori scala rispetto al resto del mondo: per restare al Sudamerica, tra i paesi analizzati anche Cile e Brasile sono in alto in questa classifica, ma con tassi assai inferiori. Per l’Europa al momento le performance peggiori sulla mortalità sono largamente appannaggio di Belgio e Spagna, bene non se la passano neanche Russia, Usa e Gran Bretagna. L’Italia, che pure è già in una posizione medio-alta per mortalità da questo conteggio, vedrà probabilmente peggiorare le sue statistiche: i suoi dati sono tra i più vecchi. Infine un’avvertenza: mascherine, chiusure e distanziamento stanno per ora facendo sparire la normale influenza stagionale, motivo per cui l’effetto della mortalità da Covid sulla media potrebbe comunque essere più basso di quanto sia realmente quest’inverno.