L’Agenzia imperiale dice sì. Giappone, il futuro è donna

Discrezione, tradizione, ossequiosità sono alcune parole chiave che descrivono la più antica monarchia ancora in carica sul pianeta: la Famiglia imperiale del Giappone. Peculiarità che mantengono un alone di mistero e fascino intorno alla dinastia nipponica, creando però sempre più problemi ai suoi membri. Nessuno di loro ha infatti il potere di decidere della propria vita, né tantomeno di optare per un qualche cambiamento. A cominciare dal discendente della Dea del Sole, l’Imperatore Naruhito (i testi classici della mitologia Kojiki e Nihon Shoki, narrano che il primo imperatore così come i successivi, derivino dalla dea Amatersau Omikami) al suo secondo anno di regno, che vive relegato a Palazzo con moglie e figlia.

Il suo nucleo familiare è circondato da un’esigua corte di parenti, per lo più impossibilitati a muovere un passo senza chiedere il permesso. Ma a chi? Perché il sovrano del Crisantemo, simbolo della millenaria storia giapponese, capo dello Shint, persona amata dal popolo che lo preferisce di gran lunga ai politici del momento, si ritrova prigioniero nella sua residenza di Chiyoda? La risposta sta nuovamente in tre parole, Agenzia imperiale giapponese, nella lingua del posto ne basta una: Kunaicho. “Un’organizzazione del tutto conservatrice, composta per la maggior parte da burocrati di mediocre abilità, ma dotati di sviluppata arroganza” così la presenta l’editorialista del Times, Richard Lloyd Parry, opinione peraltro condivisa dalla stampa giapponese ed estera che raramente riescono a fare domande dirette e scrivere la verità sui reali, né fotografarli se non per una manciata di secondi e sempre in posa.

Legata all’Ufficio del primo ministro, Kunaicho è tuttavia un’istituzione indipendente guidata dal Grande Steward e dalla sua Segreteria a cui rispondono circa 1.200 dipendenti che si occupano di tutto: incontri, viaggi, documenti, salute, spese, compleanni, donazioni, fino a pranzi e cerimonia del tè. Ne fanno parte ciambellani e dame di corte, ma anche giardinieri, guardie, un’intera orchestra, gli autisti, un’enorme folla di personale il cui compito è proteggere il 126° imperatore del Giappone e famiglia. Come? Isolandoli dal resto del mondo, avvolti da un velo impenetrabile. Al confronto, la vita dei reali inglesi e la loro libertà è pura utopia. Secondo Sayaka Miyamoto, giornalista del Toyo Keizai e di un blog su News Week Japan: “Assurdo privarli della loro personalità. L’imperatore che compirà 61 anni il 23 febbraio e l’imperatrice Masako, hanno studiato anche all’estero, lui è laureato a Oxford mentre sua moglie è una ex di Harvard dalla brillante, seppur breve carriera diplomatica”. Fra l’altro, Naruhito e consorte, la figlia diciannovenne Aiko, il fratello dell’imperatore e primo in linea di successione principe Akishino, non hanno documenti né cognome. “A Masako – prosegue Miyamoto – è impedito discutere con le amiche in un locale, andare a sciare alla guida della sua auto, pare non abbia un indirizzo email. Mi auguro davvero che riesca a cambiare la condizione femminile in Giappone, dove ancora troppi uomini ritengono che dovremmo stare un passo dietro loro”. L’Agenzia imperiale giapponese ha messo il naso anche nella storia d’amore di una delle nipoti dell’Imperatore, uno scandalo che riempie da mesi le pagine dei settimanali nipponici. La principessa Mako (di Akishino) e il compagno di università, Kei Komuro, avrebbero dovuto convolare a nozze nel 2018, ma il matrimonio è stato rimandato a data da destinarsi, per un prestito di denaro fatto alla madre del ragazzo da un suo ex convivente. “Non è la persona giusta per una donna della famiglia reale – afferma Megumi Akanuma, docente di lingua giapponese e soprano – Kunaicho cerca solo di proteggerla, impedendole di fare un grosso sbaglio.”

I pareri divergono, la realtà è però che le donne reali giapponesi sono ora in maggioranza, e la successione che la legge del 1947 permette ai discendenti uomini, è messa a rischio. Rimangono solo tre rappresentanti del genere, il fratello 54enne principe ereditario Akishino, il figlio 14enne Hisahito e l’84enne principe Hitachi. È arrivato il momento di cambiare. I conservatori al governo e Kunaicho stanno mollando la presa e hanno concesso il titolo kojo alle donne, grazie al quale mantenere lo status pur sposando uomini comuni. La strada per condurre Aiko al ruolo di futura imperatrice diventa percorribile, e la divinità solare potrebbe tornare a sorridere.

“Più giusti e consapevoli. Ci rialzeremo solo così”

La vita futura sarà più degna d’essere vissuta se avremo società forti, capaci di mettere in discussione l’esistente, a cominciare dal lavoro e dal modo vergognosamente iniquo in cui è distribuita la ricchezza. Alessandro Barbero, storico, intellettuale tra i più popolari anche tra i giovani (che ne seguono con passione le lezioni su podcast), ci aiuta a capire come usciremo da questa piega della Storia.

Professore, la scuola è la palestra del pensiero critico. Un anno di interruzione della didattica è una mutilazione grave per il futuro della coscienza nazionale?

È grave per la generazione che ci si trova in mezzo. Da giovani gli anni pesano. Ognuno di noi ricorda con precisione qualcosa che ha fatto o imparato nell’ultimo anno di liceo, l’anno della maturità; o nel primo anno di università, che è forse lo choc culturale più importante di tutta la nostra vita. Vivere uno di quegli anni decisivi in questa forma mutilata è una perdita secca.

C’erano alternative?

No, non c’erano alternative, e la scuola e l’università italiane hanno retto bene alla prova, dal punto di vista puramente didattico non si è trattato di un anno perduto. Ma è fondamentale che le chiusure, della scuola e non solo, siano meditate, calibrate sui rischi effettivi, e non invece risposte affrettate a pressioni mediatiche.

Dopo le catastrofi i popoli fanno fisiologicamente un balzo in avanti, se non nel progresso almeno nello sviluppo. Stavolta sarà così?

È una caratteristica dell’umanità rimettersi a lavorare dopo un tracollo. Non citerei neanche la peste del Trecento, è più facile capirci se cito la Seconda Guerra Mondiale, e l’incredibile velocità della ricostruzione, i trent’anni gloriosi di crescita dell’economia e del welfare seguiti al 1945. Oggi noi però non stiamo vivendo una catastrofe, ma qualcosa di molto più difficile da definire, e non è facile capire come ne usciremo.

La classe politica è all’altezza (morale e culturale) di questo momento? Quando è stata l’ultima volta che lo è stata, nella storia nazionale?

La classe politica europea del 1914 era formata da persone di grande cultura e raffinatezza, e ha precipitato il continente nella catastrofe. L’adeguatezza di chi si trova al comando si può misurare solo dall’efficacia con cui riesce a rispondere alle sfide. Nella nostra storia repubblicana un momento di tale gravità c’è stato solo all’epoca del terrorismo e in particolare del rapimento Moro. Allora come oggi la nostra classe politica era formata da persone di livello molto diverso, anche sul piano morale e culturale: alla fine è la risposta collettiva, della politica e del Paese, quello che noi ricordiamo, non le posizioni o i comportamenti dei singoli che quando si va a vedere sono sempre pieni di errori.

È il momento giusto per redistribuire più equamente la ricchezza? O davanti allo choc si irrigidiranno ancora di più gli attuali rapporti di forza?

È ovvio che la ricchezza nel nostro mondo, e anche nei singoli Paesi, è distribuita in modo iniquo e vergognoso, e che le cose dovrebbero cambiare. Ma è difficile prevedere come usciremo da questa crisi, se le voci che chiedono il cambiamento saranno più forti e legittimate oppure se sarà l’inganno a uscirne rafforzato.

È il momento di ripensare il lavoro, che è ancora e di più la sfera in cui si realizza l’erosione dell’essere umano e dei suoi diritti?

Il dominio della logica del mercato, l’alienazione del lavoro e la compressione dei diritti sono una vergogna da sempre, se uno la pensa come me, se cioè crede che la felicità umana possa basarsi soltanto sulla riduzione delle disuguaglianze e dello sfruttamento. Però al mondo c’è anche chi pensa che la felicità dipenda dalla libertà d’impresa e di profitto, e dal trionfo di legge e ordine nelle strade, e io non penso che la mia posizione sia per forza migliore: so però che le società migliori mai prodotte dall’umanità si basano sul dialogo e sul compromesso fra queste due visioni del mondo.

Negazionisti, complottisti: perché tanta sfiducia nella scienza?

Perché Internet ha portato la democrazia, ovvero il diritto di ognuno a dire la propria opinione e farla valere contro chiunque, anche nel campo della discussione scientifica: dove la democrazia, che è un valore irrinunciabile in politica, non dovrebbe proprio esistere.

Pensatori come Agamben hanno parlato della pandemia come di uno snodo in cui il potere afferma un nuovo paradigma di controllo sociale. È d’accordo?

Le misure nate per combattere l’epidemia hanno comportato molte novità sgradevoli, dal fatto che il governo può vietarti di uscire di casa al dilagare della didattica a distanza. Per tutte queste novità ci sarà qualcuno che avrà interesse a farle proseguire, in forma più o meno dissimulata, dopo la fine dell’emergenza. Sulla capacità della società di reagire in modo netto a questa minaccia si giocherà una parte del nostro futuro.

Cosa ci salverà?

La democrazia. Voglio dire che la vita nei decenni futuri sarà più degna d’essere vissuta se avremo società forti, capaci di discutere e di ospitare la convivenza di punti di vista diversi, e di rimettere in discussione l’esistente; società democratiche nel senso che la gente percepisca di essere ascoltata, di essere padrona del proprio destino, e non soggetta alle decisioni che “loro” prendono per noi.

L’ultima conferenza del “Previdente”

Il telegiornale annunciò la conferenza stampa quando Michele era sotto la doccia. Era l’unico momento della giornata in cui il corpo, da potenziale nemico, si trasformava di nuovo in un alleato da toccare.

Attilio aveva messo l’acqua sul fuoco e stava finendo di apparecchiare mentre in tv scorrevano le immagini della sala conferenze vuota in cui rimbombavano, come in un acquario spopolato, voci dilatate, colpi di tosse e scricchiolii del parquet. I giornalisti e l’interprete per non udenti aspettavano annoiati. Quando il nonno mise il vino in tavola, i giornalisti si drizzarono sull’attenti: era arrivato il Previdente del Consiglio. Era un bell’uomo a suo modo, ma aveva uno di quei visi che visti una volta non te li ricordi mai più. In ogni epidemia lui ci metteva la faccia, proprio perché non ne possedeva una; e siccome non rappresentava nessuno, riusciva a rappresentare tutti. Era stato scelto tra i cittadini di età compresa tra i quaranta e i sessant’anni mai multati per eccesso di velocità, quindi prudenti per natura. Il Previdente avanzò a piccoli passi verso il podio seguito da un uomo magrissimo sui cinquant’anni con i capelli a spazzola grigi e spessi come chiodi. Il nonno Attilio non poteva saperlo, ma si trattava di Pitamiz, fondatore, azionista unico e amministratore autodelegato di Happydemia Spa.

Il nonno scodellò il minestrone nei piatti a fiori rossi comprati con i punti del super, Michele si presentò in cucina in accappatoio, il Previdente del Consiglio salì sul suo piccolo podio e Pitamiz prese posto alla sua sinistra con le mani intrecciate sul pube.

– Ma quello è il padrone di Happydemia! – urlò Michele

Il nonno gli gettò un’occhiata sospettosa.

– Perché tanto entusiasmo?

Michele allargò le braccia, e il Previdente iniziò a parlare.

– Care cittadine e cari cittadini, da molte aree del Paese giungono notizie di incipienti focolai. Non li consentiremo. Ho scelto la linea della trasparenza, la linea della condivisione, ho scelto di non minimizzare. Prudenza e previdenza sono le nostre virtù. Da domani nelle aree suddette sarà istituito un nuovo lockdown. Inizia ufficialmente la Fase 41bis.

Si portò sul cuore una mano, che subito gli si posò sulla testa per una grattatina veloce. Il tono era pacato come se la questione non lo riguardasse, ma non mancava di una certa solennità.

– Ho anche il dovere di dirvi come un padre, una madre, un nonno, una nonna, un figlio, una figlia…

Accelerò e abbassò confidenzialmente la voce.

– … o anche come un nipote cugino cugina zio zia prozio prozia cognato cognata suocero consuocero suocera consuocera genero genera nuora nuoro…

Era la litania imperterrita di un vecchio prete severo deluso dai fedeli.

– …come un amico, insomma. Alla preoccupazione sanitaria si aggiunge il vivo sdegno per atteggiamenti sconsiderati, se non criminali. Il caro collega ministro degli Interni e Soprattutto dell’Esterno mi ha comunicato che si stanno registrando disordini e atti di diffusa irresponsabilità.

Virò la voce al perdono, o almeno alla comprensione.

– È necessario che ognuno faccia la propria parte, soprattutto i giovani che sono chiamati a non esporre al pericolo i propri cari. Comprendiamo che il sacrificio è grande, davvero. Ballare la capoeira a gruppi di dieci davanti a un’edicola? Non lo consentiamo. Travestirsi da vecchietti per saltare la coda al supermercato? Non lo consentiamo. Leccarsi le dita e starnutire sulla frutta esposta? Non lo consentiamo. La gara di sputi? Non la consentiamo. La gara di rutti? Preferirei di no, in ogni ad almeno un metro di distanza.

Il Previdente abbassò il mento. Quando lo rialzò, fissò la telecamera negli occhi.

– Se siete nervosi, calmatevi. Lo Stato non vi lascerà soli.

Il polpaccio sinistro di Pitamiz cominciò a vibrare. Il Previdente girò il collo verso di lui, poi di nuovo verso il pubblico.

– Per favorire la calma e la concordia sociale, poche ore fa abbiamo firmato una storica convenzione con Happydemia Spa, una delle aziende più moderne e dinamiche del nostro Paese. È con grande orgoglio che diamo il benvenuto a Pitamiz, imprenditore e inventore geniale che tutto il mondo ci invidia!

Pitamiz portava un maglioncino scuro a collo alto ed era ossuto. Sembrava timido, a disagio a mostrarsi in tv. Nonostante questo sgusciò sul podio e sorrise. O almeno tentò.

– Grazie, Previdente, è per me un onore grande, – disse leggendo dal telefonino, – essere chiamato a servire il mio Paese in questo momento di smarrimento e dolore. Ho creato Happydemia con un sogno e una certezza: il nostro stato d’animo non è un destino o una maledizione, è una scelta che possiamo fare ogni giorno con l’aiuto della scienza.

Il nonno Attilio ascoltava a bocca aperta con il cucchiaio sospeso a mezz’aria. Pitamiz riprese respiro.

– Lavoreremo gomito a gomito con le più alte istituzioni del Paese per portare a casa di ogni cittadino l’umore di cui ha bisogno. Consegneremo sonno agli insonni, quiete agli inquieti e speranza ai disperati… Vi basterà effettuare l’ordine sulla nostra Happ e aspettare che vi sia recapitata la felicità a casa.

Il Previdente si affacciò sul microfono per aggiungere trionfante:

– La buona notizia è che potranno farlo anche i più poveri, accedendo ai rimborsi previsti dalla legge.

Pitamiz chiosò:

– Il bene comune è il benessere mentale di tutti.

Michele era stupefatto e orgoglioso di sé. Non aveva mai pensato che il suo lavoro potesse avere a che fare con il bene comune. Soltanto il nonno sembrava perplesso:

– Che cos’è che ha detto?

– Che da domani Happydemia consegnerà anche ai poveri.

– Cioè da oggi gli psicofarmaci li passa la mutua?

– Sì, abbiamo appena firmato una convenzione!

– Una convenzione per rincoglionire la gente.

– Anche per aiutarla a dormire, nonno. A non avere paura, a non agitarsi, a rimanere felice. Ma il nonno non lo stava più ascoltando. Lo fissava severo.

– “Abbiamo”?

– Lavoro per Happydemia, nonno.

L’ombra della delusione si dipinse negli occhi di Attilio.

– E l’università?

Per non rispondere Michele si alzò a sparecchiare. Il nonno si ritirò in camera sua. Tutte le loro liti erano avvenute in silenzio, ognuno immaginando in solitudine i rimproveri e le difese dell’altro. (…)

Quando fu a letto cercò il sito di Happydemia. Forse suo nonno aveva ragione a dubitare di Pitamiz. Cliccò sul “Chi siamo” e lo schermo si illuminò. Sperò fosse Miriam, invece era lo staff di Happydemia:

“Caro Michele, ci auguriamo che la tua prima giornata sia stata fruttuosa e che le consegne non abbiano avuto intoppi. Un caro saluto, e buon riposo. Lo staff di Happydemia”.

 

 

Conduttori sapiens alla riscossa

L’anno che stiamo per salutare senza rimpianti ha segnato la riscossa dell’opinionista e del conduttore sapiens. Dati sull’orlo dell’estinzione in video per mano degli evoluzionisti alla rovescia, sono stati riscoperti dal Covid, sostenuti dai lockdown e sanificati dagli appelli di Dario Franceschini. Per ora il ministro si è limitato a vagheggiare “una Netflix della cultura” e a chiudere teatri, cinema e musei aiutando Netflix (un po’ meno la cultura), ma intanto i sapiens già si spingono fuori dalle fasce orarie antelucane e dei canali tematici, dove si cibano di repliche e fondi di magazzino, e provano a rilanciare il pericolante fascino dell’intellettuale in un mondo di vipponi e tronisti tatuati. La maggior parte dei virologi, traviati dalla popolarità, ormai polemizza come se fosse al Processo del lunedì; tuttavia anche tra loro si notano esemplari sapiens, come la materna immunologa Antonella Viola o la biologa Barbara Gallavotti, presenza preraffaellita e affabulazione illustrata, genere ‘con quella bocca può dire ciò che vuole’. Tra gli uomini vengono su bene lo storico Alessandro Barbero, autore di alcuni colpacci sul centenario di Dante (“In realtà si chiamava Durante”), e il geologo Mario Tozzi, che con il suo programma eponimo, Sapiens, punta a diventare l’Alberto Angela della crosta terrestre. Certo, la sfida è impari. Angela lavora col favore delle tenebre, passeggia al chiaro di luna per Piazza Navona o sotto il Ponte dei Sospiri; Tozzi si cala a fatica nella necropoli prenuragica con l’elmetto antiurto. Angela ci presenta la Fornarina di Raffaello e il David di Michelangelo; Tozzi raddrizza al massimo qualche menhir o interpreta un’incisione rupestre (“Vedete, potrebbero essere delle corna di toro”). Al momento Angela resta un modello inarrivabile, un pezzo unico, ma non importa, la strada è segnata, e noi sogniamo che anche dopo l’emergenza prosegua l’affascinante lotta dei conduttori sapiens per la sopravvivenza.

Natale a Rignano. Si tratta su tutto, dai canditi a come si aprono i regali

Che sono tempi bui lo abbiamo già detto, vero? Che non sarà il solito Natale lo abbiamo letto da qualche parte, giusto? Bene, metà del lavoro è fatto. Ora passiamo a trattare l’argomento “Feste-in-pochi-e-in-zona-rossa”, con piccoli accorgimenti e trucchi per passare in armonia i giorni più santi dell’anno, quelli in cui si celebra la gloria del bambinello. No, non quello là che pensate voi, un altro bambinello, quello di Rignano.

Le settimane della vigilia sono state agitate e ricche di discussioni. Si faceva l’albero, e lui minacciava di fare il presepe, in subordine, ok, fare l’albero ma che non sembri un cedimento! Vuole scegliere le luci, poi appendere almeno una pallina ma non si può mettere il puntale finché non c’è la Bellanova. Alla fine, dopo estenuanti tira e molla, si è fatto l’albero, lui ha messo una pallina gialla sul terzo ramo dal basso e ha rilasciato gioiose dichiarazioni in cui “Senza di me sarebbe stato un Natale senz’albero!”.

Questo il pregresso. Ma veniamo al magico giorno della festa.

Il gioco dell’oco. Non c’è gusto a fare la tombola in quattro o cinque, e anche il Mercante in Fiera perde molto del suo fascino senza il nonno rincoglionito a cui bisogna dire le cose tre volte. Quindi, un consiglio: il gioco dell’oco. Funziona sempre. Tabellone, dadi, sapienti tattiche e qualche variante nelle regole: un giocatore parte con due punti e mezzo, tira i dadi, spariglia, minaccia, piange, supera, arretra, arringa le folle, rilascia sette interviste al giorno sulle sue impareggiabili strategie, e alla fine resta… con due punti e mezzo. Non è successo niente, ma ci siamo divertiti. Lui un po’ meno, ma dice che ha vinto. Tutti allegri.

Il panettone. Altro snodo cruciale del Natale, la cerimonia del panettone. Ma attenzione, c’è un commensale deciso a sollevare qualche problema. Non vuole i canditi, come ha dichiarato al Corriere due settimane fa. Non vuole l’uvetta come ha rivelato in un retroscena già all’inizio del mese. Contesta che il panettone sia tagliato a fette triangolari. Valuta nuove maggioranze tra i commensali per aprire il pandoro, ripetendo che non fa tutto questo casino per avere una fetta di panettone in più. Ma poi, a pensarci, chi metterebbe lo zucchero a velo sul pandoro? Vuole che la stesura sia collegiale. Allora torna al panettone, vuole tagliarlo lui, in subordine far aprire lo spumante a Rosato. Qualche consiglio agli altri commensali: è Natale, non litigate, dategli una fettina più grossa e vedrete che si placa. Di spumante, bevetene parecchio, ne avrete bisogno.

I regali. Ci avviciniamo al dramma. L’apertura di pacchi e pacchettini è un momento che rivela molto della natura umana, da come si esprimono gioia e sorpresa, a come si mascherano le delusioni. Le famiglie più sagge sanno che azzeccare il regalo per il ragazzo difficile è fondamentale, e qui potete sbizzarrirvi, giocare sui bei tempi andati (un bel modellino di aereo presidenziale), o puntare sulle sue abilità alla Playstation, con nuovi games fantasy, tipo “Rottamator”, un eroe sparatutto che finisce a spararsi in un piede. Un consiglio per farlo felice: il modellino Lego della Farnesina da montare, che ci tiene tanto. Per i carrarmatini del Risiko bisogna aspettare che si liberi un posto alla Nato, portate pazienza.

Nel frattempo si è fatta sera, siamo un po’ storditi e stanchi. Ci meritiamo un po’ di relax, magari la tivù, un telegiornale. Dove compare un tizio che dice che è stato un Natale bellissimo. Per merito suo. Dovremmo ringraziarlo.

 

Crollo del Morandi, breve apologo sulla stampa educata

Ricordate quelli che, nei giorni successivi al crollo del ponte Morandi, alzavano la voce contro chi chiedeva (noi e pochi altri) la revoca della concessione ad Autostrade? I giornali “garantisti” che ci hanno impiegato settimane a scrivere la parola Benetton, in quelle ore erano impegnatissimi a scavare nelle macerie a caccia di particolari commoventi. Le singole vicende di vite spezzate fanno piangere, tutte insieme fanno incazzare: dunque meglio occuparsi delle lacrime. Intanto, mentre il presidente del Consiglio Conte (allora il governo era gialloverde) annunciava di voler revocare la concessione ad Autostrade, i paladini dello Stato di diritto sottolineavano a pagine unificate che “sarà l’inchiesta penale a chiarire le responsabilità”. Tutti a prendere in giro Danilo Toninelli, allora ministro dei Trasporti, il quale spiegava che l’inchiesta sui morti non c’entrava nulla, erano le inadempienze a giustificare la rottura del rapporto di concessione (concessione che purtroppo è ancora in essere, e questa sì è una colpa di chi governa). Senza scomodare giuristi di vaglia, non ci voleva molto a capire che in uno Stato di diritto i ponti non possono venire giù come d’autunno le foglie. Bene, un’inchiesta penale ora c’è ed è piuttosto corposa (anzi la principale, quella sul crollo, ha dato origine ad altri filoni). Lunedì sono state rese pubbliche le quasi cinquecento pagine della perizia chiesta dal giudice per le indagini preliminari. Vi si legge che i controlli e la manutenzione avrebbero impedito il crollo del ponte. E che dal 1993 non c’è stato nessun intervento sul pilone caduto. Il gip aveva chiesto ai periti se vi ci fossero fattori “indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del ponte” che potessero avere contribuito a causare il crollo. Risposta lapidaria: no.

Adesso diranno che bisognerà aspettare la sentenza. Ed è certamente vero, almeno per quanto attiene alle responsabilità penali. Ma se la questione morale non rientra nelle vicende processuali, ci sia consentito dire che invece dovrebbe far parte di un dibattito pubblico un po’ meno all’acqua di rose. Il rapporto tra processo penale e informazione in Italia è curiosamente disinvolto quando si tratta di omicidi familiari, garantista quando si tratta di una strage (o quando sono chiamate in causa famiglie importanti). È una comunicazione molto educata quella che riguarda un’inchiesta che al centro ha 43 morti, quasi più attenta a non urtare la sensibilità degli indagati che quella dei familiari delle vittime. Sul Foglio del 5 dicembre, per esempio, abbiamo potuto leggere un lungo e dolente sfogo di Giovanni Castellucci – ex ad di Autostrade e poi di Atlantia, indagato in diverse inchieste – per le motivazioni della revoca dei domiciliari. I giudici hanno scritto di “un quadro di totale mancanza di scrupoli per la vita e l’integrità degli utenti delle autostrade”. Ma gli avvocati di Castellucci, che si sono dotati financo di un solerte ufficio stampa, rimarcano “che le valutazioni indiziarie espresse dal tribunale del riesame sono il frutto delle sole produzioni e articolazioni accusatorie”. E lui dice che si sente già condannato, che il clima purtroppo non è sereno. Eh no che non è sereno. Indagando sul crollo sono emerse presunte truffe ai danni dello Stato, riparazioni fatte col vinavil, mancati collaudi e una politica volta esclusivamente a massimizzare i profitti “a scapito della sicurezza degli utenti”. Nessuno vuole negare a Castellucci e agli altri il diritto alla difesa. Ma sia chiaro che il loro è un diritto uguale a quello di ogni indagato, non è più esteso perché più esteso è il loro conto in banca e più vaste sono le loro conoscenze. In un Paese normale, Castellucci si occuperebbe della sua difesa in un silenzio rispettoso della ferita che il crollo del Morandi ha inferto a 43 famiglie e a una comunità di cittadini costretta a non potersi fidare dello Stato.

 

’Sti disgraziati di inglesi fanno un po’ tenerezza

Super Covid, super Brexit, super sfiga. Fanno persino tenerezza ’sti disgraziati di inglesi, anche al netto della loro naturale arroganza. Volevano la Brexit per andarsene dall’Europa, specialmente i più poveri e i più ricchi, tenersi le sterline tutte per loro e la pop music, guai a toccargliela, e il vecchio Paul che ancora canta, tra un lifting e l’altro, e la regina Elisabetta che tra un po’ seppellirà il figlio Carlo, il quale a suo tempo seppellì Diana, la principessa dei fotoromanzi, e il Pub centenario di Brighton con quella porcheria di Fish and Chips maleodoranti d’aceto e l’Union Jack, insignita di molte medaglie e molti massacri, quando sventolava sugli inferni coloniali, e il cinema triste, ma giusto, di Ken Loach, e la loro ridicola pretesa di guidare contromano.

Benissimo: ora si ritrovano talmente assediati dagli eventi, talmente soli che nessun Paese d’Europa vuole più vedere non dico l’Inghilterra, non dico una sterlina di carta, ma neppure un inglese in carne e ossa. Vade retro, sciò. Abbiamo chiuso il Tunnel della Manica, fermato alla partenza i traghetti, i Tir e i voli. Lasciato l’isola alla sua deriva verso le nebbie del Mare del Nord con al timone Boris Johnson, matto di testa e di capelli, che auspicò, per pragmatismo liberista e dunque con doppia tracotanza, l’immunità di gregge, prima di ritrovarsi, anche lui, tra i primi, pecora disgraziata, con ricovero d’urgenza, la bombola d’ossigeno, lo spavento, e dopo il malanno le pubbliche scuse per avere detto così tante idiozie in una volta sola. Anche se non ha del tutto imparato la lezione.

Il danno lo hanno perfezionato con le loro mani. Ancora ieri l’altro, il solito Johnson diceva che anche senza accordo con Bruxelles non ci sarebbe stato nessuno rinvio della Brexit. Il 31 dicembre prossimo sarà l’ora fatale, addio, proibito piangere, perché loro non si sarebbero lasciati intimorire dai tentennamenti burocratici della sorda Europa. Non vedevano l’ora di respirare il vento della piena, non più negoziabile, libertà di starsene da soli. Eccoli serviti.

Ma poveri inglesi, davvero. I nostri eroi del Dopoguerra, i vincitori del demone nazista. Era la culla di tutto quello che accadeva di scintillante nel mondo, quando la nostra giovinezza ci sembrava ancora imprigionata nei riti in bianco e nero di provincia italiana, compresa la messa e i pasticcini la domenica, mentre lassù i ragazzi di quel meraviglioso pandemonio musicale, che arrivava da noi via radio, sulle onde di Per voi giovani e con il vinile di sola importazione, si lasciavano crescere i capelli almeno quanto le ragazze si accorciavano le gonne.

Scoperta a 18 anni Londra era full color. C’era un traffico mai visto. Autobus a due piani. Una metropolitana da fantascienza. Musica dal vivo ovunque. Sui marciapiedi di Oxford Street passavano ragazze stratosferiche con i capelli verdi e Urban boys coi tatuaggi in vista e indiani sikh in bicicletta e turbante tra i mercati e gli hipster di Camden Town. E i turisti di tutto il mondo a farsi la foto davanti alle vetrine optical di Carnaby Street.

Solo dopo sarebbe comparsa l’odiosa Margaret Thatcher, con la sua borsetta stretta in grembo, le labbra serrate, a dirci che “la società non esiste, bamboccioni, esistono solo gli individui” e che dunque era finita la ricreazione dei sussidi, toccava fare silenzio e lavorare. E fu grande la delusione quando Tony Blair prima annunciò il riscatto progressista della Terza via, per poi lasciarsi portare al largo dalla globalizzazione e cavalcare l’onda delle nuove disuguaglianze, come se non ci fosse un rimedio praticabile.

In questo anticipo di Super Brexit, 40 Paesi hanno chiuso le frontiere, bye bye Big England. Che torna separata e distante come quando c’erano ancora i nebbioni sulla Manica e il Times titolava spocchioso: “L’Europa è isolata”, credendo davvero di essere loro il centro del mondo e non un’isola orfana d’impero.

Nelle ultime notti da Londra c’è stato il fuggi fuggi generale. Migliaia di italiani mandano messaggi iracondi, bloccati in cima alle scogliere di Dover, ultima frontiera della nuova Era.

E se BoJo aveva puntato le sue carte su quell’altro campione del risentimento planetario, l’ottuso Donald Trump, per fargli da galoppino pagato in spiccioli, dovrà aggiornare di corsa il piano. L’ex padrone d’America è salpato anche lui, dovrà vedersela a breve coi federali, con la voragine delle tasse non pagate, che prima o poi gli inghiottiranno anche le 18 buche di Palm Beach.

 

Mail box

 

Mi auguro che il sogno di Padellaro si avveri

Ogni giorno apro le vostre pagine e devo confessarvi che spesso mi arrabbio leggendo tutte le porcherie che in Italia la classe dirigente commette, ma ultimamente c’è una persona che proprio mi fa andare in bestia. Quella che il direttore Travaglio chiama l’“innominabile”, mi è proprio impossibile guardare la sua faccia e spero tanto che il sogno di Padellaro si avveri.Voglio anche inviare i miei complimenti alla sindaca Virginia Raggi, sono molto contenta per come si è conclusa quella squallida faccenda e spero vivamente che vinca ancora le elezioni a sindaco di Roma.

Luigia Giulia Zorzi

 

La Boschi dovrebbe guardare al suo giardino

Ho letto sul Fatto di giovedì scorso che l’onorevole Maria Elena Boschi avrebbe fatto il conto dei 5S che non sarebbero rieletti in Parlamento in caso di elezioni anticipate. Non vorrei essere scortese, ma forse l’onorevole Boschi farebbe meglio a fare il conto di quanti di Italia Viva tornerebbero in Parlamento, visti i sondaggi.

Guido Bertolino

 

Un semplice aneddoto per augurare buone feste

Vorrei, con un piccolo aneddoto, che a me ha regalato una piccola emozione, fare gli auguri di buon Natale a tutti i collaboratori. Tornando ogni tanto al mio paesino, in Calabria, era necessaria una sorta di raccomandazione per poter sperare di ricevere una copia del Fatto. La sorpresa questa volta è stata quando l’edicolante mi ha risposto che ormai ne arrivano quasi regolarmente due copie. Spero possa essere, in questo anno difficile ma per voi ricco di soddisfazioni, una piccola gioia in più. A due a due saremo sempre più numerosi. Auguri speciali al signor Padellaro, eleganza del giornalismo.

Francesco Facciolo

 

“Il Fatto” avrà il nostro appoggio per le cause

Amici del Fatto mi unisco all’appello del sig. Carbone, disponibile a contribuire a eventuali risarcimenti per cause temerarie. Spero che il Fatto avrà la meglio su questa gente, ma noi ci saremo sempre a sostenerlo assieme a tutti i giornalisti coraggiosi e capaci. Auguri a tutti.

Lidia Senatore

 

Sollecitare il passaggio del dl sulle liti temerarie

Come abbonato penso di contribuire alle eventuali richieste di risarcimento di coloro che con un eufemismo definisco “utilizzatori finali”. Sapere però che alcuni personaggi o società potrebbero incassare i miei pochi soldi mi fa girare le scatole. Allora, proporrei di inviare almeno un lunedì al mese alla Presidenza della Repubblica una cartolina con la richiesta di sollecitare il Parlamento ad approvare in tempi certi la legge tanto attesa e necessaria sulle liti temerarie, a tutela del giornalismo libero e d’inchiesta, per mettere fine a questo sconcio che mina fortemente libertà d’espressione e la stessa democrazia. P.S. Anch’io ho fatto lo stesso sogno di Padellaro.

Francesco Iovino

 

Proposta per resistere alle cause pendenti

Propongo che venga deliberato un aumento di capitale di 1 milione, senza diritto di opzione, da lanciare in sottoscrizione in 20.000 pacchettini (li chiamano “certificati”) inscindibili di numero 100 azioni offerte al prezzo unitario di€0.50 euro, per un valore ciascuno quindi di 50 euro.

Detti pacchettini potrebbero essere collocati attraverso il broker Directa di Torino (il più serio), che dedica all’operazione una paginetta, tale per cui non serve diventare clienti della stessa ma è sufficiente fornire le proprie generalità ed eseguire il bonifico di 50 euro. E voi ne dareste notizia attraverso il giornale ed il sito, per limitare le spese. Il milione raccolto, al netto delle spese, dovrebbe essere investito, vincolato, in un buono, per esempio delle Poste, non soggetto alle oscillazioni del reddito fisso (oggi, a mio avviso, piuttosto insidioso) da utilizzarsi solo ed esclusivamente per risarcire i sunnominati 3 personaggi nella denegata ipotesi di sorte avversa. Le azioni non percepirebbero dividendo e gli interessi sarebbero capitalizzati. Poi magari, tramite il giornale, ogni tanto ci date un trafiletto di come vanno le cose. Nel caso vinciate tutte le cause… be’, ne riparliamo. Le mire di Eni sono di demolirvi; magari sapendo di questa vostra forza di attrazione, di coinvolgimento, mitigherebbero le loro azioni. Questo, in poche parole, è tutto. Sono stato sintetico, lei ha poco tempo e deve anche fare il giornale (quando poi questo sarà diventato come Le Monde… be’, ne riparliamo anche in questo caso).

Natale Ghinassi

 

Giriamo la proposta alla nostra amministrazione. In ogni caso, con attestati di fiducia come questo non faremo fatica a resistere alle pressioni.

FQ

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo pubblicato il 17 dicembre 2020, intitolato: “Lucca, Marcucci sponsor della speculazione cara alla fondazione di cui è socia la sorella”, l’Avv. Carlo Cacciapuoti, legale del Senatore Andrea Marcucci e della sorella Marialina Marcucci precisa che entrambi i suoi assistiti non hanno nessun interesse personale nell’operazione immobiliare, citata nello scritto in parola e non hanno alcun potere per interferire nelle scelte che sono di altri soggetti deputati, previsti dalla legge. Entrambi, inoltre, non sono soci della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, nel senso che ne deriva dall’interpretazione letterale dell’articolo.

Sanità. Nel Recovery non si stanziano solo 9 miliardi, ma si può fare di più

Cari redattori del Fatto , sono un medico chirurgo del Gaslini di Genova. Vorrei che il Fatto parlasse di più della prevista attribuzione di soli 9 miliardi del Recovery Fund alla Sanità pubblica, a fronte di un taglio effettivo dei bilanci della stessa pari a 70 miliardi negli ultimi dieci anni. Invece di parlare di eroi (noi sanitari), quando la paura per la pandemia attanagliava le viscere di tutti, parliamo di professionisti seri, che anche con il sacrificio della vita hanno garantito l’assistenza soprattutto dove la sanità pubblica non è stata “mortificata” a favore di quella privata modello Lombardia (Formigoni, don Verzé, famiglia Rotelli del gruppo San Donato , famiglia Angelucci, ecc.). I problemi da risolvere con estrema urgenza riguardano la ricostruzione della Sanità pubblica, la digitalizzazione del Paese, l’edilizia scolastica, la conversione energetica, la sicurezza idrogeologica del territorio. Facciamo capire che le “battaglie” pseudopolitiche a cui assistiamo attualmente sono solo dei meschini tentativi per mettersi in prima fila a gestire 209 miliardi di euro, indirizzando poi i soldi ai soliti progetti tanto dispendiosi quanto inutili (le famose grandi opere come la Torino-Lione, per la quale le analisi costi-benefici del prof. Marco Ponti hanno chiaramente dimostrato la assoluta incongruenza del progetto) e altre “amenità lobbistiche” analoghe. Non è tempo di “cazzeggiare”, come direbbe Andrea Scanzi, ma di fare le cose con serietà, nell’interesse vero dei cittadini.

Italo Borini

 

Quando si tratta di finanziare servizi pubblici essenziali, come la Sanità, il “Fatto” non ha dubbi e si schiera dalla sua parte. Vale solo la pena ricordare che, stante quanto hanno affermato sia il ministro dell’Economia, Gualtieri, sia quello agli Affari europei, Amendola, nel Recovery i fondi per la Sanità ammontano a circa 16 miliardi considerando tutte le voci (al momento non evidenziate). Inoltre nel corso dell’ultimo anno, alla Sanità sono andati circa 8 miliardi. Che certamente sono ancora pochi per riequilibrare quanto fatto negli ultimi decenni: servirebbero infatti ospedali meglio attrezzati e la tanto evocata medicina di prossimità e soprattutto l’assunzione di un numero adeguato di operatori. E servirebbe smetterla con il finanziamento alla sanità privata. Su questo non abbiamo dubbi.

Salvatore Cannavò

Guzzanti, il riformista e le sue parole dopo Travaglio a “Satyricon”

In Italia c’è un leader vero: è Matteo Renzi e deve mandare a casa questi cialtroni (Paolo Guzzanti, Il Riformista, 11 dicembre 2020).

Corbellerie propagandistiche come quella in esergo stupiscono solo chi ancora non conosca Paolo Guzzanti, il quale dimostra ogni volta di avere tutto ciò che serve per essere un giornalista decente tranne l’essenziale. Valgano a chiarirne i meandri della psiche, in modo definitivo, alcune frasi (esilaranti, col senno di poi; qui l’integrale: https://bit.ly/37EvUMI) da lui proferite il giorno dopo la mia intervista a Marco Travaglio (Satyricon, 14 marzo 2001).

PAOLO GUZZANTI: La definisco una trasmissione che mai avrebbe potuto andare in onda in Paesi dove si pubblica il Financial Times

, il Washington Post

, l’Herald Tribune

… Una spazzatura del genere MAI sarebbe stata consentita dalla legge in Inghilterra, in Canada, in Australia, Stati Uniti… Direi che c’è un partito nella Rai, che potremmo chiamare il partito della Rai, che agisce politicamente in questo momento, e che dietro Luttazzi ci sono delle teste pensanti, perché non sono certo due ragazzetti dall’aria (fa una smorfia

) eeeeeeh così spiritosa come abbiamo visto ieri sera che varano, ìdeano, hanno l’ideazione di un tale programma e poi lo mandano in onda, no?… L’intervista a Travaglio è l’intervista a un signore il quale ha collezionato per sua stessa ammissione le accuse contro Berlusconi fatte da pentiti, pubblici ministeri, cioè tutto un materiale spazzatura che non è mai stato vagliato, non è mai diventato sentenza, e mai lo diventerà d’altra parte… Questo naturalmente nel corso di una campagna elettorale è assolutamente criminale… Io li ho paragonati a dei serial killer, della gente che sta nell’ombra e usa il coltello e il revolver e uccide alle spalle… (INTERVISTATORE: “Secondo lei queste accuse lanciate in questi 10 minuti di satira simil-giornalistica cosa sono?”) Sono roba bulgara, pre-Unione Sovietica, Vyshinski, non dico l’Inquisizione perché Torquemada in confronto era un gentiluomo, l’Inquisizione spagnola in confronto era l’habeas corpus

… No: qui ci troviamo di fronte, ripeto, a una manovra politica che non ha le povere persone di Luttazzi e quell’altro, come si chiama, come protagonisti. Il protagonista è la Rai. La Rai ha una presidenza, un consiglio di amministrazione, ha dei direttori di rete, ha dei responsabili i quali sono appunto responsabili. Questo è il momento, credo, in cui qualcuno dei responsabili deve pagare con la propria responsabilità… Questa non è satira. La satira è altro…”.

Tre mesi dopo, Paolo Guzzanti diventava senatore di Forza Italia.

1) Lessi L’odore dei soldi e invitai l’autore mea sponte: servizio pubblico. Citati in giudizio da Berlusconi&C. (chiedevano 40 miliardi di lire di risarcimenti), i due ragazzetti vinsero tutte le cause. 2) Dell’Utri fu condannato a 7 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. 3) Nel 2007 scoppiò lo scandalo della “struttura Delta”, gruppo di potere interno alla Rai: fra i suoi membri, Deborah Bergamini, ex assistente di Berlusconi, assunta in Rai subito dopo la vittoria elettorale del 2002, e nel 2004 promossa direttore marketing. Nei brogliacci di conversazioni ascoltate dagli inquirenti, Bergamini e Mimun, direttore del Tg1, parlavano della necessità di “fare gioco di squadra” con Mediaset allo scopo di favorire il presidente del Consiglio Berlusconi. Si aprì una indagine interna, la Bergamini si dimise, poi venne eletta in Parlamento col Popolo delle Libertà. Fino all’ottobre scorso era co-direttrice del Riformista di Alfredo Romeo. 4) Sergio Saviane disse: “Il minuetto Luttazzi-Travaglio è un raro esempio di satira autentica”.