Solo Cassese sa come si fa l’amatriciana

Quando lavoravo all’Espresso, nelle settimane mosce, a un certo punto della riunione di redazione, c’era sempre qualcuno che proponeva d’intervistare Norberto Bobbio. Inevitabilmente, il mortorio era scosso da un fremito, e subito qualcuno esultava: magari! Conoscendo la ritrosia dell’illustre pensatore e necessitando di un araldo adeguato alla prestigiosa incombenza, il direttore indicava Nando Adornato che, provvisto di una laurea in Filosofia, possedeva le credenziali giuste per telefonare a un filosofo. Purtroppo, la fiduciosa attesa era regolarmente infranta dal mogio ritorno del messo il quale allargando le braccia e scuotendo la testa confermava i peggiori presagi: Bobbio ringraziava, ma non se la sentiva e rinviava la conversazione, sicuramente pregna di significati, a un futuro imprecisato.

Quanto più fortunati sono i giornalisti di oggi a cui mai viene mai precluso il privilegio di un colloquio con il professore Sabino Cassese, che se non è Bobbio poco ci manca. Ormai, non c’è giorno che non sia scandito dal sorgere del sole e da un’intervista graziosamente elargita al Paese dal facondo prof. È tale l’intensità del suo dire che lo immaginiamo provvisto di una batteria di cellulari, con lui, zac, sempre lesto a rispondere al primo squillo, ma anche al secondo e al terzo per non fare torto a nessuno. Bisogna ammettere che nella corsa al Cassese stravincono i colleghi del Foglio, che rappresentano un po’ la Juve della specialità. Tanto che, secondo le malelingue, il cattedratico risiederebbe in subaffitto presso quel giornale, per non disperdere neppure una stilla del suo nettare. Come è noto la dottrina di Cassese, in ogni articolazione, è tesa a dimostrare che il governo Conte è peggio della pandemia, e che peggio del governo Conte c’è solo Conte. Pur tuttavia, in una Casseseide pubblicata ieri su Libero (secondo la metratura di almeno una pagina, certificata presso il Bureau dei pesi e delle misure di Parigi), a una osservazione birichina dell’intervistatore, ovvero “Qualcuno parla di lei al Quirinale (non sarebbe male)”, l’accademico sembra prendere la cosa molto sul serio senza smentirla affatto. Chissà se una volta issato sul Colle Cassese potrebbe ancora deliziarci con le sue interviste spazianti da Conte all’universo mondo. Come un altro professore, non meno titolato, quell’Alessandro Cutolo che, ai tempi della nostra infanzia, conduceva in tv Una risposta per voi, dove scioglieva qualunque enigma. Dall’esito della battaglia delle Termopili, alla vexata questio sull’amatriciana: meglio il guanciale o la pancetta? Statene certi che Sabino Cassese lo sa, basta intervistarlo.

Pronto il controesodo da Italia Viva ai dem: cinque senatori in fuga

Dopo settimane di borbottii e di critiche a mezza bocca al capo (“A volte Matteo si sveglia la mattina, legge i giornali e fa il pazzo” si è sentito dire un senatore dem da un renziano doc), il colpo di grazia ai senatori di Italia Viva lo ha dato il sondaggio Ipsos di sabato scorso. I renziani hanno notato un dato passato inosservato rispetto alla risalita del gradimento di Conte: Matteo Renzi è il leader meno amato dagli italiani, anche dietro Vito Crimi (all’11%). Poi lunedì le dichiarazioni di Dario Franceschini (“Con la crisi si va il voto e noi andiamo con Conte”) hanno fatto emergere i malumori: una pattuglia di senatori renziani, nel caso in cui la situazione precipitasse, sarebbe pronta alla scissione per entrare prima nel Misto, con un gruppo di “responsabili” per sostenere il governo e poi rientrare nel Pd.

Sui 18 senatori renziani quelli più insofferenti sono 4-5, ma qualcuno arriva addirittura a 8. I nomi che girano sono Giuseppe Cucca, Eugenio Comincini, Donatella Conzatti, Leonardo Grimani e Gelsomina Vono. I diretti interessati smentiscono ma l’insofferenza nel partito c’è e il Pd, tramite gli ex renziani di Base Riformista di Luca Lotti e Lorenzo Guerini, osserva i sommovimenti dentro IV e non gli dispiacerebbe fare lo sgambetto all’ex capo riaccogliendo molti ex compagni.

“Sono passati da Macron a Pecoraro Scanio – sogghigna un senatore Pd – e molti non ci stanno più”. I sondaggi (Swg dà il partito al 2,8%) e le simulazioni con il Rosatellum (Iv non avrebbe nemmeno un senatore) stanno creando un clima di terrore nel ventre di Italia Viva e per questo nelle ultime ore Renzi e i suoi hanno provato a chiudere il recinto: “Noi vogliamo allungare la legislatura” ha fatto sapere Renzi. Poi il capogruppo al Senato, Davide Faraone: “La battuta di Franceschini ha preoccupato tutti i gruppi, pensi a fare meglio il ministro e lasci stare il Colle”.

Pressing del Colle, Renzi si arrende: ritirata dalla crisi

“Ora ci occupiamo della manovra. Ci hai messo due settimane per convocarci sul Recovery Plan: la fretta ti è venuta tutta insieme? Dacci il tempo di approvare la legge di Bilancio, poi di studiare il piano”. È Maria Elena Boschi, capogruppo alla Camera di Iv, la front-woman del confronto con Giuseppe Conte. Tanto da fermarlo sulla voglia di chiudere tutto rapidamente. Il prossimo incontro è programmato per il 28. Il vertice tra la delegazione di Iv (oltre alla Boschi, presenti le ministre Bellanova e Bonetti, il capogruppo in Senato, Davide Faraone, i deputati Luigi Marattin e Ettore Rosato) è animato nei toni, ma stavolta dura due ore, invece della mezz’ora del primo incontro. E i venti di crisi sembrano placarsi. La situazione sta rientrando, confermano da Palazzo Chigi. Anche per l’intervento diretto del Quirinale, “che in questi giorni ha chiamato tutti” come raccontano fonti di governo. Spiegando che di giocare alla crisi di governo in tempi di pandemia non è il caso.

In questo clima, Conte ieri riceve la delegazione renziana assieme a Roberto Gualtieri (Mef) e Enzo Amendola (Affari europei). E si mostra conciliante. Sostiene che l’idea che lui volesse inserire il Recovery Plan nella legge di Bilancio con un emendamento sia stata solo un enorme fraintendimento. Ma la Boschi gli ricorda un’intervista a Repubblica del 5 dicembre, in cui sosteneva che era tutto deciso, sia i capitoli di spesa sia la task force. “E poi, presidente, quel piano che ci è arrivato alle 2 di notte, era scritto come un emendamento. Sei tu che hai cambiato idea”. Conte però insiste sulla necessità di una struttura di monitoraggio: “Ce lo chiede espressamente l’Europa”. Ma Boschi: “Prima viene la Costituzione”. A incontro finito, Marattin parlerà di “unità di missione all’interno della Pubblica amministrazione”. Di certo (per ora) non si parla più della cabina di regia con dentro solo lo stesso Conte, Gualtieri e Patuanelli. Né tantomeno della task force guidata da sei manager. Nel documento consegnato alla delegazione di Iv ci sono i capitoli di spesa e i 52 progetti, mentre è stata tolta la parte sulla governance, oggetto principale di trattativa. L’incontro di ieri riserva momenti al limite del comico. A un certo punto Boschi parla di giustizia e prescrizione. Gualtieri trasecola. La numero 2 dei renziani ne approfitta: “Il tempo non serve a noi, ma al ministro dell’Economia per leggere il piano”. Poco importa se lui semplicemente non ricordasse a memoria la parte in questione. Salta su la Bellanova, battagliera: “È grave se il governo non sa cosa ha scritto”. I renziani invocano di nuovo il Mes e bollano come insufficienti i 9 miliardi dati alla sanità nel piano. Ma quando l’incontro finisce, più o meno tutti lo definiscono positivo. E Bellanova canta vittoria: “La task force non c’è più”. Iv rivendica di aver fatto fare dietrofront al premier: sulla task force, sull’emendamento, sui singoli progetti e sul metodo, diventato più trasparente. Premessa per dichiarare chiusa la crisi. E che Renzi stia facendo marcia indietro lo dicono un po’ tutti, sia nel M5S che nel Pd. Però qualche ritocco alla squadra di governo viene messo in conto. A Iv andrebbe il ministero delle Infrastrutture, visto che Paola De Micheli è tra le predestinate a saltare.

Toccherebbe direttamente a Renzi, anche se la Boschi continua a puntare all’esecutivo. Invece nel M5S hanno notato un’agenzia del Pd di lunedì sera, di fatto ostile alla ministra del Lavoro grillina, Nunzia Catalfo. Ieri a tarda sera i ministri del Movimento si sono riuniti, per fare il punto sulla manovra di Bilancio e sul quadro politico. Il rischio è che tutte le tensioni si scarichino sui fondi europei. Negli ultimi giorni di dicembre inizieranno gli incontri, più tecnici, al Mef, poi ci sarà un Cdm, dopodiché il piano approderà in Parlamento. Amendola chiarisce: “Ci auguriamo che per metà febbraio si possano presentare i piani, ma siamo sincronizzati con i tempi della commissione Ue”. Qualche settimana fa, Conte aveva parlato di inizio febbraio. Ora si tratta di una corsa contro il tempo.

“Non esistono altri governi. Task force senza invasioni”

A giocare troppo con il fuoco si finisce bruciati, lascia intendere Luigi Di Maio. “Alcuni continuano a parlare di rimpasto – dice il ministro degli Esteri al Fatto – ma quando si apre una crisi si sa come inizia, ma non si può sapere come finirà. E l’esito potrebbe essere quello di andare al voto”.

Vede le urne molto vicine?

Decidere spetta al presidente della Repubblica, e questo va sempre premesso. Dopodiché sento parlare di rimpasto controllato, ma non c’è nulla di controllato quando si aprono processi del genere. Qualsiasi azione per provare a rimuovere Giuseppe Conte porterebbe alle urne.

Tradotto: Matteo Renzi non avrebbe la maggioranza alternativa che cerca.

Ho notato che nelle ultime ore Italia Viva sta usando toni diversi, responsabili. E comunque non vedo maggioranze diverse.

Anche Matteo Salvini è molto attivo, no?

Per uscire da una situazione in cui si è messo da solo finge di chiedere il governo istituzionale, ma con l’intenzione di portarci al voto. È rimasto intrappolato nel Papeete (il locale da dove annunciò la caduta del governo Conte nel 2019, ndr).

Renzi cosa le dice?

Non lo sento da settimane.

Per giorni il Pd è rimasto zitto, mentre il capo di Iv infieriva sul presidente del Consiglio e non si sono mai fermate le voci su Di Maio come nuovo premier.

Il tema è la messa in discussione di Conte, e ciò è sicuramente sbagliato. In quest’ottica, fanno circolare le voci su di me come premier. Ma come dicono dalle mie parti, quando il diavolo ti accarezza vuole l’anima.

Anche i dem Nicola Zingaretti e Dario Franceschini ritengono le urne l’unica via in caso di crisi. E al voto tornerebbero alleati con il M5S e con Conte come candidato premier.

Per noi del Movimento, Conte è senza dubbio una figura di riferimento. Con il Pd non si è mai parlato di elezioni politiche. Tra l’altro, non ha senso farlo con questa legge elettorale. Però in questo governo si fa squadra, e nessuno mi ha mai fatto scorrettezze, a differenza di quanto avvenuto nel precedente esecutivo.

Conte ha aperto alla “profonda revisione” della task force, che secondo Iv “non c’è più”. Ma non piaceva neanche a voi 5Stelle, giusto?

Sul tema il presidente è stato chiaro sin dall’inizio con noi: “Questa è solo una bozza di cui discutere”. Ha subito aperto al confronto.

Lei come la cambierebbe?

Il come lo decideremo collegialmente. A mio avviso i ministeri vanno coinvolti direttamente, perché sono quelli che conoscono meglio i dossier. La “macchina” non deve avere la sensazione che la cabina di regia sia composta da invasori che non vogliono coinvolgerla nella gestione del Recovery Fund.

Ora come si procederà? Pare che voi 5Stelle non siate rimasti contenti dei progetti e della ripartizione delle risorse.

Era la prima volta che vedevamo i progetti disaggregati, nel dettaglio. Durante le festività ci sarà il tempo per aggiustare tutto. Credo che ci sarà un secondo giro di incontri con le delegazioni dei partiti, e poi una riunione plenaria con tutte le forze politiche.

In primavera si vota nelle città, ma il tavolo di maggioranza sulle Amministrative che lei invocava non è mai partito.

Siamo in piena pandemia, e ora abbiamo altre priorità. Io l’ho proposto più volte, dopodiché spetta alle forze politiche decidere se, quando e come confrontarsi.

Virginia Raggi ormai è la vostra candidata a Roma, mentre Beppe Sala ha già detto che non correrà senza il M5S. Di che discuterete con il Pd?

Sosteniamo sicuramente Virginia, e poi siamo gli unici ad avere un candidato in campo nella Capitale. Dove ci sono le condizioni, confrontandoci con i territori, è importante fare squadra. Però le scorse Amministrative insegnano che quando andiamo uniti vinciamo.

E se Raggi si candidasse per la segreteria del M5S?

Il Movimento lavora unito e compatto, non perdiamoci nel toto-nomi.

Era necessario che lei e Conte andaste entrambi a Bengasi da Haftar per far liberare i pescatori?

Noi con Haftar abbiamo sempre parlato, nell’ultimo anno lo abbiamo visto nove volte. Ma da tre mesi le nostre relazioni erano interrotte. Per liberare i pescatori ci aveva chiesto il rilascio di quattro scafisti, richiesta impossibile da esaudire. In cambio della liberazione dei nostri cittadini abbiamo riallacciato i rapporti con lui.

Non si riesce a dare giustizia alla famiglia Regeni. E Patrick Zaki, recluso in Egitto, è allo stremo.

Il 25 gennaio, nell’anniversario della scomparsa di Giulio, ci sarà un Consiglio degli affari europei in cui chiederemo a tutti i Paesi di prendere posizione, sia per Regeni sia per Zaki. Ma voglio ribadire che il ministero lavora necessariamente in silenzio, e che abbiamo riportato a casa tutti gli italiani rapiti all’estero. Attualmente lavoriamo ai casi di Regeni, Zaki e di Chico Forti (all’ergastolo negli Usa con una condanna per omicidio che lui contesta, ndr). E non ci fermeremo.

Salvini vuole Maresca candidato sindaco a Napoli. E intanto il pm lascia l’Anm

“A Napoli c’è Catello Maresca”. Lo ha detto ieri il leader della Lega, Matteo Salvini. Siamo vicini al dunque. Gli ultimi giorni segnano un’accelerazione sulla candidatura del pm anticamorra a sindaco di Napoli. L’endorsement di Salvini segue alcune telefonate di Maresca con Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni. Il leader di Forza Italia avrebbe dato il via libera. Meloni pure, ma a condizione di utilizzare il simbolo di Fdi. Pagine di indiscrezioni sui quotidiani napoletani che Maresca non conferma e non smentisce. Una sorta di silenzio assenso, di disponibilità a mettersi in gioco in politica, peraltro già fatta emergere qualche mese fa in occasione delle elezioni regionali, quando però Maresca decise alla fine di non raccogliere gli inviti che provenivano dall’ala di FI vicina a Mara Carfagna. Stavolta il suo silenzio assenso rincuora il centrodestra, convinto di aver individuato il profilo giusto, ma mette in fibrillazione la magistratura. Maresca attualmente è sostituto procuratore generale a Napoli e la candidatura ricadrebbe sul territorio dove tuttora espleta funzioni di magistrato. Circostanza che non è sfuggita. Il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, ha seguito sulla stampa il dibattito su Maresca e ne ha informato il Csm, la Procura generale della Cassazione e il ministro della Giustizia. E la vicepresidente dell’Anm Alessandra Maddalena, giudice del Riesame a Napoli e componente del gruppo di Unità per la Costituzione, in un’intervista alle pagine napoletane di Repubblica ha invitato il collega a chiarire le sue intenzioni: “L’incertezza non giova né alla magistratura né alla politica né a Catello”. Maresca ha reagito lasciando l’Anm con una email inviata, irritualmente, agli uffici romani dell’organismo. Va detto che il pm non sta violando alcuna norma di legge o disciplinare: i magistrati sono cittadini come gli altri, liberi di esprimere opinioni e di partecipare al dibattito pubblico. E anche di candidarsi, dopo aver chiesto e ottenuto l’aspettativa al Csm. È vietato loro di iscriversi a un partito, ma non è questo il caso di Maresca. Che peraltro avrebbe chiesto ai partiti di rinunciare al simbolo tra le condizioni che avrebbe dettato per sciogliere definitivamente la riserva. Il pm si candiderebbe solo da leader di liste e movimenti civici, senza indagati e personaggi discussi. Un boccone che Berlusconi, Meloni e Salvini faticano per ora a ingoiare. Ma c’è tempo.

Bonaccini stralcia il condono edilizio: niente voto oggi

Nessun condono edilizio nella nostra Regione. A sera, Stefano Bonaccini ci ripensa: “Non voglio né ombre né fraintendimenti: per questo chiedo che nel confronto in atto in Assemblea legislativa vengano stralciate le parti del progetto di legge non strettamente legate all’obiettivo di una maggiore semplificazione per favorire il ricorso al super ecobonus”. In sostanza, vengono messi da parte – e non saranno dunque votati oggi col resto della legge regionale sulla riqualificazione urbana – gli articoli 32 e 33 descritti ieri dal Fatto: in uno si introduceva la fattispecie del “silenzio assenso” per le domande inevase del condono del 1985 e il secondo consentiva operazioni di maggiore cementificazione sulla costa (rendendole poi sanabili). Bonaccini sostiene che l’intento fosse un altro, ma comunque ha deciso di stralciare le norme incriminate a poche ore dal voto definitivo: forse non era proprio tutto a posto come sostiene. Festeggiano i Verdi: “Ci siamo confrontati col presidente e ha prevalso la saggezza: via il condono”,

Inail: in aumento chi si ammala di Covid al lavoro

Con la seconda ondata, il Covid è tornato a colpire i luoghi di lavoro con più violenza rispetto alla prima. A novembre, l’Inail ha ricevuto 28 mila denunce di persone contagiate in servizio: il totale da inizio pandemia ha superato i 104 mila casi. Nel mese scorso, il numero di infezioni al lavoro è stato quasi pari a quello di marzo, mese in cui eravamo in piena prima ondata, il governo chiudeva solo gradualmente le attività economiche, si faceva molta fatica a trovare dispositivi di protezione e venivano abbozzati i primi protocolli di sicurezza. Insomma, oggi le aziende aperte sono molto più numerose rispetto alla primavera, ma le misure anti-contagio dovrebbero essere ben più efficaci. Dai numeri, però, i luoghi di lavoro continuano a sembrare pericolosi. Mentre in estate era cresciuta l’incidenza dei contagi nei settori turismo e commercio, ora torna a salire tra i sanitari. I morti sul lavoro per Covid sono 366: il 23,7% è nella sanità, il 13,7% nella manifattura, l’11,5% nella logistica.

Arriva il Milleproroghe: tra le misure lo stop alla ricerca del petrolio e del gas

L’anno si appresta a finire e, come da tradizione, arriva il decreto Milleproroghe che serve, appunto, a rimandare a domani quel che non si è riusciti a fare oggi. La bozza circolata ieri – oggi è convocato un Cdm per l’approvazione – è composta da 22 articoli col solito pot-pourri di misure: il rinvio delle celebrazioni ovidiane e i Covid hotel, i concorsi nella P.A. e 6,5 milioni per “Man tova hub”, il rinvio degli esami per la patente e le assunzione all’Avvocatura dello Stato, i poteri del commissario Arcuri e lo spostamento al 31 luglio della consegna dei Piani economico-finanziari dei concessionari autostradali. Cose più o meno importanti, più o meno condivisibili, sovrastate da una disposizione che segna un’inversione di rotta nella politica energetica italiana: lo stop alla “coltivazione” di idrocarburi in tutta Italia.

Il Milleproroghe vieta “su tutto il territorio nazionale il conferimento di nuovi permessi di prospezione o di ricerca ovvero di nuove concessioni di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi”. Il ministero dello Sviluppo, poi, “rigetta” tutte le istanze pendenti alla data di entrata in vigore del decreto e non potrà prorogare le concessioni in essere: “Le concessioni di coltivazione, anche in regime di proroga, vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge, mantengono la loro efficacia sino alla scadenza e non sono ammesse nuove istanze di proroga. Le attività di prospezione o di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi, già sospese” dal decreto Semplificazioni del 2018, “sono definitivamente interrotte, fermo restando l’obbligo di messa in sicurezza dei siti interessati”.

I permessi di coltivazione vigenti al 30 novembre 2020 sono decine, come mostra un’apposita lista di 25 pagine predisposta dal ministero dello Sviluppo: è l’Eni ovviamente a farla da padrone, ma non mancano altre aziende come Edison o la francese Total. L’Italia, però, s’è impegnata insieme al resto dell’Ue a tagliare drasticamente le emissioni “climalteranti” già entro il 2030 e sulla transizione energetica e ambientale dovrà impegnare oltre un terzo del Recovery Fund in arrivo: sarebbe bizzarro farlo mentre rilascia concessioni per la ricerca di petrolio e gas. Gli interessi però sono di quelli importanti e le pressioni per far cambiare la norma già partite: sarà interessante capire la posizione di Italia Viva, il partito di quelli che irrisero con un “ciaone” al referendum sulle trivelle.

Strage del bus ad Avellino: il 7 gennaio via all’appello

Il 7 gennaio e dopo una gragnuola di rinvii dovrebbe iniziare a Napoli il processo di secondo grado per la strage di Acqualonga (Avellino), i 40 morti intrappolati nel bus che il 28 luglio 2013 ruppe i freni e precipitò da un viadotto sfondando new jersey che non ressero all’urto perché i tirafondi erano marciti a causa dell’incuria di Autostrade per l’Italia (Aspi). E sul processo pende un appello della Procura di Avellino, che vuole ribaltare in condanna l’assoluzione dell’ex ad Giovanni Castellucci, e soprattutto sollecita una rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Questione ora al vaglio del sostituto Pg Stefania Buda. Nell’appello infatti si cerca di introdurre nel nuovo processo notizie ed argomenti emersi dalle inchieste di Genova sul crollo del ponte Morandi e sulla cattiva qualità delle barriere fonoassorbenti, quest’ultima culminata poche settimane fa in alcune misure cautelari. Il filo più robusto che collega Genova ad Avellino è quello che attraversa la posizione di Paolo Berti. Nei giorni del crollo del ponte Morandi era direttore Operazioni Centrali di Aspi, nel gennaio 2019 è stato condannato in primo grado ad Avellino a cinque anni e dieci mesi in qualità di dirigente dal 2009 al 2012 del tronco autostradale del tratto dove avvenne l’incidente. A novembre Berti, Castellucci e l’altro supermanager di Aspi Michele Donferri Mitelli sono finiti ai domiciliari nell’ambito dell’indagine sulla pericolosità delle barriere posizionate su alcuni tratti autostradali liguri e sono così diventate pubbliche alcune intercettazioni dalle quali emerge che Berti avrebbe mentito al processo di Avellino per proteggere Castellucci. “Meritava che mi alzassi una mattina ed andassi ad Avellino a dire la verità”, disse Berti nello stesso giorno della sentenza, irritato per l’esito negativo del processo. Nelle telefonate con la moglie, con Donferri e con altri colleghi, fa capire che il primo aumento di stipendio avuto come premio – secondo gli inquirenti – per aver difeso “la linea aziendale” non basta più. Berti vide aumentare i suoi emolumenti in pochi anni di circa 400mila euro. Genova aveva già trasmesso ad Avellino le intercettazioni più importanti. Potrebbero ora essere usate contro Castellucci.

“Aspi, tentata truffa allo Stato da 18 milioni”

La nuova accusa ha preso campo nelle ultime settimane e ha assunto la forma di una grande tentata truffa: 18,7 milioni di euro che, secondo la Procura e la Guardia di Finanza di Genova, Autostrade per l’Italia intendeva farsi rimborsare dallo Stato per lavori mai fatti. Un “retrofitting”, cioè un miglioramento strutturale delle barriere antirumore, che in realtà non è mai avvenuto, se non nelle pieghe dei documenti contabili. Esisteva invece eccome, ma era stato nascosto, l’antefatto: l’errore commesso dal gruppo concessionario nella progettazione delle barriere che per questa ragione venivano abbattute dal vento e non reggevano ai test anticrash, oltre a essere fissate con una resina non a norma (“sono incollate con il Vinavil”, copyright di uno dei progettisti). La tentata truffa dunque è il nuovo reato che la Procura contesta all’ex ad Giovanni Castellucci e ai suoi collaboratori, Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti (tutti già indagati anche per attentato alla sicurezza dei trasporti e frode in pubbliche forniture).

Secondo la procura sapevano che le barriere antirumore erano un obbligo per la concessionaria, previste da un piano sottoscritto con la concessione. Occorreva dunque cambiare tutto, ma sarebbe costato “150 milioni di euro”. Per questo Donferri aveva caldeggiato la soluzione “aziendalista”: abbassare le “ribaltine”, ovvero la parte superiore delle barriere, abbassate così da 5 a 3 metri, dunque meno esposte alle folate di vento. Così piegate “sembrano disegnate da Renzo Piano”, scrive divertito Castellucci in un sms a Berti. Non solo quell’intervento non riduceva il rischio crollo, ma di fatto riproponeva il problema del rumore. Così, quando i residenti si lamentavano, una nuova squadra andava a rimetterle come erano prima. Ciò che emerge ora, è il secondo tempo di quella vicenda. Nelle pieghe dei bilanci è emerso infatti che quell’attività senza meta (le ribaltine abbassate e poi rialzate) era diventata un progetto di “retrofitting”: una ristrutturazione, per cui la concessionaria rivendicava il diritto a detrarne i costi. Il trucco è spiegato in un’informativa della Finanza: “I costi per il ripristino delle barriere sono stati scomputati alla voce F2”. La voce di bilancio che indica i miglioramenti strutturali. “Un po’ come se un inquilino facesse passare spese di manutenzione ordinaria per spese straordinarie e strutturali – semplifica un investigatore – per poi accollarle al proprietario di casa”. Nell’informativa la presunta ristrutturazione viene definita senza mezzi termini “un escamotage”.

Ecco il dettaglio. “Nel novembre del 2017 (per una spesa del 2018), il direttore di tronco di Genova Stefano Marigliani presenta un primo preventivo di 55mila euro per il 2018, e di 5 milioni per gli anni successivi. Un lavoro indicato come potenziamento degli ancoraggi e inserito alla voce F2”. Marigliani viene allontanato dopo l’avvio dell’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi. La questione dei rimborsi attraversa quindi la vecchia e la nuova gestione. Gli ultimi sono infatti stati richiesti dopo l’addio di Castellucci e lo spostamento o il licenziamento dei dirigenti investiti dalle indagini. Dopo aver sentito il nuovo management, i giudici riconoscono ai nuovi dirigenti di essere stati “ragionevolmente all’oscuro” di quanto loro stessi hanno domandato indietro allo Stato. Così dice Mirko Nanni, successore di Marigliani, che per il 2020 firma una richiesta fotocopia a quella precedente: 994mila euro per il 2020, 2 milioni 900mila euro per gli anni successivi. “Ho scoperto che quelle barriere erano difettose dalla Procura”, ha detto a verbale.

E il ministero, come controllava? Sentito a verbale come testimone, Carmine Testa, il responsabile dell’ufficio territoriale del ministero delle Infrastrutture spiega di essere stato ingannato: “Non sono in grado di dire dove si collochi la voce F2”. E ancora: “Nessuno mi aveva riferito di un adeguamento e potenziamento delle barriere”. A sgombrare il campo dai dubbi è il dirigente del Mit, Felice Morisco: “Se la concessionaria commette un errore le conseguenze rimangono a suo carico”.