“Nessuno spreco” su open “170 militari in orario di lavoro”

Le attività di perquisizione eseguite nell’ambito dell’inchiesta Open di Firenze “ha comportato l’impiego di 170 militari” della Guardia di Finanza, utilizzati tuttavia “nell’ambito delle ordinarie prestazioni lavorative giornaliere”. Dunque nessuno schieramento straordinario di forze. L’informazione, richiesta in un’interrogazione a firma del deputato di Azione, Enrico Costa, è stata fornita durante la commissione Giustizia della Camera dalla sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, che a sua volta si è rivolta al ministero dell’Economia. Macina ha inoltre spiegato che “un nucleo di polizia economico-finanziaria di Firenze è stato delegato all’esecuzione di plurime perquisizioni in varie regioni e città del territorio nazionale”. La sottosegretaria ha poi specificato che il suo dicastero “non ha titolo sulle scelte investigative” e non ha “la disponibilità dei dati in merito ai costi della polizia giudiziaria”. Costa aveva chiesto di conoscere il numero di unità delle forze dell’ordine impiegate nell’inchiesta di Firenze per finanziamento illecito che ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio (tra gli altri) dell’ex premier Matteo Renzi e degli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi.

Riforma Cartabia di nuovo ferma

Il testo ancora non c’è nonostante la grancassa. E così alla Camera cresce l’irritazione: l’altra mattina si era in trepidante attesa dell’approdo in commissione Giustizia della Riforma Cartabia sull’ordinamento giudiziario, ma al dunque il testo tanto annunciato dal governo non è stato depositato.

Chi ne ha chiesto conto alla ministra della Giustizia si è sentito rispondere che “è tutto bloccato dalla Ragioneria”. Risultato? L’ufficio di presidenza che doveva incardinare il provvedimento è stato rinviato e non si sa bene a quando. Mentre il tempo scorre e si moltiplicano le voci di quanti son pronti a scommettere che il nuovo sistema elettorale per i membri togati del Consiglio superiore della magistratura (che è una parte del pacchetto previsto dalla riforma) non sarà pronta per tempo, ossia per le consultazioni di luglio che servono a rinnovare il plenum di Palazzo dei Marescialli. “La scorsa settimana il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera agli emendamenti sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che sono stati illustrati in conferenza stampa dal premier Draghi e dalla Ministra Cartabia. Ad oggi però in Parlamento non vi è traccia degli emendamenti del governo. Ciò determina l’impossibilità di far partire il termine per i sub-emendamenti, provocando un ulteriore ritardo nell’esame del provvedimento”, ha detto Enrico Costa, deputato di Azione che è su tutte le furie e non solo per lo slittamento che rischia di determinare le condizioni per una proroga dell’attuale consiliatura ormai agli sgoccioli.

“Pare che gli emendamenti si siano ‘arenati’ alla Ragioneria Generale dello Stato, ma non c’è conferma né delle motivazioni, né di quando verranno depositati alla Camera. Faccio presente che la riforma del processo civile ci ha messo oltre un mese per ottenere la bollinatura del Mef”. Ma non è tutto. “Abbiamo approvato il testo base ad aprile 2021 e il 3 giugno erano già stati depositati tutti gli emendamenti parlamentari: ciò vuol dire che la Camera si è piegata a 8 mesi di inerzia in attesa del governo. E ad oggi la conoscenza dei parlamentari sul testo delle proposte del governo è limitata alle parole che il premier e la ministra hanno pronunciato in conferenza stampa. Nessun testo, nessun dettaglio. Un modo di procedere a singhiozzo, fatto di consultazioni informali, testi in continua evoluzione, discussioni senza i documenti. Un modo di procedere poco serio che lascia il Parlamento in umiliante attesa di decisioni prese altrove”. Nel cortile di Montecitorio si respira insomma un certo imbarazzo e anche tra chi è più filo governista. E non solo perché si è di nuovo stravolta l’agenda della Commissione. Il timore è che il governo a un certo punto pretenda che venga ingranata la marcia pur di azzerare il ritardo che ha accumulato. E imponga, nonostante le promesse, la scorciatoia dell’ennesima fiducia.

Davigo a giudizio: “Segreto violato”. Ma al Csm non c’è

Persino le date danno il loro contributo nella storia legata alla presunta Loggia Ungheria: nell’anniversario di “Mani Pulite” – a trent’anni esatti dal 17 febbraio 1992, quando fu arrestato l’ex presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa – un uomo simbolo del pool di magistrati che avviò Tangentopoli, Piercamillo Davigo, finisce sotto processo.

Se fisicamente è a Pisa, per un convegno sull’indagine che segnò la fine della Prima Repubblica, Davigo è virtualmente in un’aula del tribunale di Brescia, nelle vesti di imputato. E viene rinviato a giudizio, per concorso in rivelazione d’ufficio, dal gup Francesca Brugnara. Il processo inizierà il prossimo 20 aprile. È così, a trent’anni da Mani Pulite, dopo aver affrontato e spesso vinto processi delicatissimi, dopo aver indagato colossi della politica e dell’economia, quella stessa procura si ritrova spalle al muro. Davigo sotto processo e ben altri quattro magistrati sotto indagine. Dopo il caso Palamara la credibilità dell’intera magistratura è già ai minimi storici. Il crollo arriva con i verbali dell’ex legale esterno di Eni Piero Amara.

Tutto precipita infatti nel dicembre 2019 quando Amara dichiara al pm milanese Paolo Storari e alla procuratrice aggiunta Laura Pedio di essere membro della presunta loggia coperta Ungheria affollata da magistrati e vertici delle istituzioni. Fino a gennaio fornirà ulteriori dettagli (tutti da verificare e tuttora al vaglio della procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone). I verbali di Amara – nell’aprile 2020 secondo le versioni di Davigo e Storari – prendono però un’altra strada. Storari ravvisa un’inerzia della procura nel procedere alle iscrizioni (accusa ritenuta insussistente, nei riguardi dell’ex procuratore capo di Milano, Francesco Greco, che sarà indagato e archiviato). Per tutelarsi denuncia la situazione a Davigo – in qualità di membro del Csm – che lo autorizza a rivelargli le notizie coperte dal segreto. Ad autorizzarlo, secondo Davigo, c’è una norma del 1994: non si può opporre il segreto istruttorio a un membro del Consiglio. In sostanza, secondo Davigo, non ci sarebbe alcuna violazione del segreto. Evidentemente la procura di Brescia la pensa diversamente. Storari consegna a Davigo una copia in formato word dei verbali di Amara. L’avvocato coinvolge due consiglieri del Csm in carica: Sebastiano Ardita, della stessa corrente di Davigo, e Marco Mancinetti. A quel punto – è la versione di Davigo – il consigliere del Csm, nel timore che scegliendo le vie formali possa essere vanificato il segreto istruttorio, come già accaduto nello scandalo legato a Luca Palamara, decide di informare oralmente i membri del comitato di presidenza del Csm. A partire dal vicepresidente David Ermini (e attraverso lui il Quirinale). Davigo informerà dell’indagine – parlando della questione Ardita e “vincolandoli al segreto istruttorio” – anche altri consiglieri del Csm e le sue segretarie. Ed è per questo motivo che Ardita, che si considera danneggiato dalla condotta di Davigo, s’è costituito in giudizio come parte civile. Di lì a poco Davigo lascia il Csm. E al Csm lascia anche una copia dei verbali ricevuti da Storari. Da quel momento in poi, a sua insaputa, il segreto istruttorio va in frantumi: nell’ottobre 2020 copia dei verbali giunge in forma anonima al Fatto Quotidiano che – per non distruggere l’eventuale indagine in corso e temendo una polpetta avvelenata, non avendo prova che fossero autentici – denuncia alla procura di Milano e li deposita nelle mani di Storari e Pedio.

A marzo 2021 li riceve la cronista di Repubblica Liana Milella che denuncia a Perugia. Una copia giunge infine al consigliere Nino Di Matteo che prima denuncia a Perugia e poi rivela durante un plenum del Csm il “dossieraggio calunnioso” ai danni di Ardita. Inizia così l’inchiesta sulla fuga di notizie. L’invio dei verbali alla stampa e a Di Matteo viene attribuito alla segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, oggi indagata per calunnia a Roma. Storari confessa a Greco di averli consegnati a Davigo. Rinviato a giudizio, Davigo commenta: “Non dirò mai una parola contro la giurisdizione che ho servito per 40 anni. I processi servono per accertare se l’imputato è colpevole o innocente. Io so di essere innocente”. Storari ha scelto il rito abbreviato, la sentenza è prevista il 7 marzo. L’accusa – che ieri ha parlato di “buona fede” dell’imputato, contestata radicalmente dalla parte civile Ardita, sin dall’atto di costituzione – ha chiesto una condanna a 6 mesi per aver consegnato i verbali a Davigo “fuori da ogni procedura formale”.

“Era un imbroglio. E in più violava una serie di trattati internazionali”

Impresentabile perché platealmente contraria all’articolo della Costituzione che proibisce referendum in materia di trattati internazionali. Fuorviante perché non tende a rendere lecita la coltivazione di cannabis a uso personale, ma legalizza la coltivazione di ogni genere di pianta, in casa e fuori, a partire da oppio e coca. Clamorosamente sbagliata sul piano tecnico, perché in conflitto con una caterva di normative collegate, e perché fondata su una lista di droghe che non contiene addirittura… la cannabis. Sono le motivazioni che il presidente della Corte costituzionale ha avanzato per rigettare la proposta referendaria sulla cannabis. L’ultima bravata radicale, che ho criticato su questo giornale il 28 dicembre scorso, anticipando gli argomenti di Giuliano Amato.

Non credo di aver compiuto alcuna divinazione. Quasi chiunque si fosse dato la pena di scorrere i quesiti e controllare i connessi testi di legge sarebbe arrivato alle mie conclusioni. La Corte costituzionale ha solo rincarato la mia dose. Avevo risparmiato di ricordare ai Radicali un fatto cruciale, che il presidente della Corte non poteva certo omettere: la sentenza delle sezioni unite della Cassazione che ha già depenalizzato proprio la coltivazione casalinga di piccole quantità di cannabis. E non avevo infierito denunciando, come ha fatto Amato, che i promotori per il referendum sulla fine vita stavano tentando di montare lo stesso schema truffaldino adoperato sulla cannabis. Qui l’imbroglio era che la cannabis non c’entrava niente e il vero oggetto era la legalizzazione della coltivazione delle droghe pesanti. Misura inaudita per gli standard del mondo, civilizzato e non. L’equivalente di uno schiaffo in faccia dell’Italia alle tre Convenzioni internazionali sui narcotici e sulle sostanze psicotrope. Gli unici accordi globali altrettanto universali della Carta delle Nazioni Unite, essendo stati firmati da tutti i Paesi dell’Onu.

L’altra proposta faceva credere di riferirsi all’eutanasia, mentre il suo oggetto era l’impunità per l’omicidio consenziente. La bocciatura dalla Corte si riferiva a una casistica che nulla ha a che fare con la sofferenza di un malato e con il suo diritto a finire con dignità, ma con il disagio, la follia o il capriccio di un qualsiasi adulto che affida a un altro il compito di eliminarlo.

Sono incidenti gravi della nostra vita pubblica. Ma non sarebbe giusto addossarne ai Radicali l’intera responsabilità. Il loro cinico dilettantismo è ormai logoro. Li ha portati a perdere quasi tutti i referendum promossi negli ultimi 30 anni, e a ridursi a quattro gatti in perenne zuffa reciproca. Il problema maggiore è il sistema politico e mediatico che dà loro spazio, e che è diventato labile e approssimativo come non mai. Un sistema dove nessuno si prende la pena di documentarsi, di approfondire. E dove non si trova il tempo né la voglia di riunirsi un momento con se stessi per farsi un’idea propria invece di prenderla dal gregge. Per poi cambiarla alla folata di vento successiva.

“Nessun errore, Amato sbaglia: le droghe pesanti non c’entrano”

In attesa delle motivazioni della Consulta, dobbiamo basarci sulle parole del presidente Amato. Il referendum era sul Testo Unico sugli stupefacenti e, all’art. 73 comma 1 cancellava la parola “coltiva”, al 73 comma 4 rimuoveva le pene detentive da 2 a 6 anni previste per le condotte legate alla cannabis e al 75 comma 1 eliminava la sanzione amministrativa del ritiro della patente.

Amato ha “accusato” i promotori di incompetenza e di aver ingannato chi ha firmato perché il quesito non parlava di droghe leggere ma di quelle pesanti mettendo pure l’Italia contro le tre Convenzioni Onu. La campagna di raccolta firme si chiamava “referendum cannabis legale” ma il titolo del quesito su cui la Consulta ha deciso era “Abrogazione parziale di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti”, come stabilito dalla Cassazione. Bastava leggere.

La legge 309/90 non autorizza la ratifica della Convenzione del 1988 né la implementa. Piante e derivati psicoattivi sono sotto controllo internazionale e suddivisi in 4 tabelle, ma il referendum non le toccava, interveniva sulle condotte. Secondo Amato, aver ritagliato il comma 1 dell’articolo 73, che fa riferimento alle tabelle 1 e 3 delle sostanze stupefacenti, sarebbe stato un errore materiale perché queste non includono la cannabis che si trova nella tabella 2. Peccato che il comma 4 dell’art. 73 richiama testualmente le condotte di cui al comma 1 dello stesso articolo, tra le quali è ricompresa la coltivazione. I due commi vanno quindi letti combinatamente. Il referendum non faceva riferimento al comma 1 perché intendeva legalizzare la coltivazione di “droghe pesanti” ma perché non si poteva che intervenire così, che i due commi sono legati. Senza la cancellazione di “coltiva” sarebbe rimasta l’elevatissima sanzione pecuniaria prevista per tutte le condotte legate alla cannabis. Volevamo decriminalizzare del tutto la coltivazione a uso personale. La pianta più coltivata in Italia è la cannabis, l’unica che è possibile consumare come “stupefacente”, mentre cocaina ed eroina necessitano di raffinazione, produzione, fabbricazione che continuavano a essere punite. Ergo, nessuna violazione di obblighi internazionali.

Per Amato l’eliminazione di “coltiva” non ne avrebbe determinato l’impunità perché la coltivazione resta punita dagli art. 26 e 28 che rimandano alla pena prevista per la fabbricazione illecita (73 comma 1). Gli art. 26, 27, 28 sono nel Titolo III della 309/90, “Disposizioni relative alla coltivazione e produzione, alla fabbricazione, all’impiego e al commercio all’ingrosso delle sostanze stupefacenti o psicotrope”. Coltivazione massiva che, senza autorizzazione, è assoggettata alle stesse pene e sanzioni previste per la fabbricazione illecita, in linea con quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione nell’aprile 2020.

“Così si consentiva l’omicidio di un depresso o per una sfida su Internet”

Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia e presidente della Consulta, la spiega così: “Prendiamo un maggiorenne sano ma depresso per l’abbandono della compagna o la bocciatura in un esame. Se chiede a un amico di sparargli e l’altro lo uccide, è omicidio del consenziente. Abrogando parte di quel reato, il quesito rischiava di aprire le porte a situazioni del genere, così come alle sfide della morte su Tik Tok, in cui i ragazzi si incitano a gettarsi sui binari”. Questo riguardava il quesito bocciato dalla Corte, non l’eutanasia o il suicidio assistito. D’altra parte negli ultimi anni qualcosa si è mosso su quei temi, come ricorda Flick: “Il caso di Eluana Englaro, con le disposizione anticipate sulla fine vita. Poi Welby, col rifiuto dell’accanimento terapeutico. Infine dj Fabo, impossibilitato a compiere da solo il proprio suicidio e costretto a chiedere aiuto”. Su Fabo la Corte si è espressa nel 2018, quando ha dichiarato che l’aiuto al suicidio è punibile in generale, ma non in precisi casi (una patologia irreversibile, fonte di sofferenze “intollerabili” e che richiede un intervento sanitario salva-vita) e se chiesto da una persona capace di decidere. “La Corte aveva chiesto al Parlamento di legiferare entro un anno, ma non è accaduto. Allora ha emanato la sentenza nel 2019, richiamando i casi già individuati da una legge del 2017 che consentiva una sedazione profonda per accompagnare il paziente a una morte inevitabile senza che questo aiuto fosse punibile”. Nel 2019 la Corte ha aggiunto all’ipotesi di non ostacolare l’arrivo della morte, compatibile con la sedazione profonda, la richiesta di anticipare la morte in stato di coscienza.

Il quesito andava oltre: “L’omicidio del consenziente sarebbe stato punibile solo per l’uccisione dei minori, di persone con infermità di mente, in condizioni di deficienza psichica o il cui consenso sia stato estorto con violenza. Tale manipolazione avrebbe creato un vuoto normativo che non sembra colmabile richiamando, per analogia o per interpretazione del giudice, le condizioni che la Corte ha indicato per il suicidio assistito”. Secondo Flick, quei limiti devono essere imposti con una nuova legge; non possono passare per via referendaria proprio a causa della differenza tra l’aiuto al suicidio e la richiesta di una persona sana di essere uccisa. “Ha ragione Amato, la Corte non può scrivere il quesito o interpretarlo. Qui si abrogava il nucleo essenziale del reato a prescindere dalle condizioni di salute del soggetto, che non possono esaudirsi nell’infermità psichica”. E se la Consulta era stata protagonista della storica svolta sul suicidio assistito, è azzardato accusarla di aver politicizzato il tema o di avere offeso la democrazia chiedendo al Parlamento di legiferare: “Lo scontro è molto radicalizzato tra chi ritiene che la vita sia un bene di cui può disporre in totale autodeterminazione e chi invece la ritiene ‘sacra’ per ragioni religiose. Purtroppo anche questo ha impedito una mediazione in Parlamento, che dovrebbe andare alla ricerca di ciò che unisce e non di ciò che divide”.

“È un tema di umanità Deve prevalere il principio della libertà individuale”

Più che una questione tecnica o giuridica, è una questione di umanità. La sentenza con cui la Corte ha respinto la richiesta di referendum sull’omicidio del consenziente (art. 579 del Codice penale), impropriamente tradotto in termini mediatici come eutanasia, può anche essere giusta e ineccepibile sul piano formale. Ma nella sostanza – piuttosto che la “democrazia”, come ha detto polemicamente Marco Cappato – riguarda la sfera della libertà personale e il suo esercizio. Certo che il grande e terribile tema della fine vita non s’identifica né si esaurisce nel reato di omicidio del consenziente. E tuttavia, negando di fatto questa ipotesi, in mancanza di una legge ad hoc si rischia di negare il diritto all’eutanasia. Cioè il diritto di morire con discrezione e dignità.

Chiunque, per dolore, per disperazione o per qualsiasi altro motivo, è libero di suicidarsi buttandosi sotto un treno o di spararsi un colpo alla testa. Dal manager pubblico o privato inquisito o condannato fino al povero disgraziato rovinato dai debiti. Non può farlo, invece, il malato terminale, il disabile, chi ha perso l’autosufficienza, o comunque ritiene le proprie condizioni incompatibili con la propria dignità soggettiva, quando non è materialmente in grado di togliersi la vita da solo. Senza l’aiuto cioè di chi è disposto a compiere, appunto, un omicidio del consenziente pur di esaudire la sua tragica determinazione finale. È proprio questo il punto: la volontà individuale, la sua espressione e la sua manifestazione. E naturalmente, i tempi, i modi e le forme in cui si realizza.

Se si riconosce il principio che l’esercizio della libertà può arrivare al punto di togliersi la vita, come purtroppo avviene al di là della legge, non si può negare al “consenziente” il diritto di farlo anche quando decide di rivolgersi a un terzo. Si tratta, semmai, di regolare questa manifestazione di volontà in modo da garantire che risulti libera da condizionamenti o interferenze. La sentenza della Consulta, trincerandosi dietro le rispettabili ragioni di forma, in realtà non fa giustizia e non difende la libertà individuale. Né sembra diretta a favorire l’iter di una legge sull’eutanasia che in passato la stessa Corte aveva sollecitato al Parlamento, senza riuscire tuttavia a smuoverlo dal suo immobilismo. Saremo i primi a ricrederci, se non sarà più così. Fino a prova contraria dobbiamo ritenere che nessuno, per quanto disperato, si tolga la vita a cuor leggero. Se c’è il “consenziente”, dunque, non c’è l’omicida. E se invece manca il consenso, o non è stato debitamente espresso, è un omicidio da punire al pari di tutti gli altri. Diverso, ovviamente, è il discorso per i credenti. Chi crede in Dio e crede che la vita sia un dono divino, non può disporne a proprio arbitrio. Il ragionamento è analogo per molti versi a quello su divorzio e aborto: due leggi a garanzia dei diritti di tutti, spesso usate o abusate anche da tanti cattolici. Ma uno Stato laico non può imporre i canoni e i dogmi della religione a chi non ha fede e non la pratica.

Il Pd adesso pensa al Sì I “garantisti” all’attacco

Il clima è quello da coltello tra i denti, in casa Pd. Che sul tema giustizia, che si tratti di ergastolo ostativo o referendum, litiga forte. L’altro giorno è quasi scoppiata una rissa quando Enza Bruno Bossio, apostola del garantismo, si è vista negare dal suo partito di poter partecipare a pieno titolo ai lavori della commissione Giustizia alla Camera. Perché Alfredo Bazoli, il capogruppo dem, non le ha firmato la sostituzione necessaria a chi, come lei, appartiene ad altra commissione: di conseguenza ha potuto solo illustrare i suoi emendamenti alla riforma dell’ergastolo ostativo, ma senza poterne votare nemmeno mezzo. “Bruno Bossio ha la sua posizione. Isolata” ha detto Bazoli, reduce da un quasi corpo a corpo con la collega inviperita per lo sgarbo subìto, ma pure per la ciccia che è sottesa a quel gesto: per lei il Pd è “vergognosamente” appiattito sulle posizioni giustizialiste dei 5Stelle.

Per la deputata, infatti, la norma allo studio per superare la bocciatura da parte della Consulta dell’automatismo che vieta la concessione dei benefici a chi non collabori con la giustizia contenuto nell’attuale legge, va nella direzione opposta a quella indicata nell’ordinanza che deve essere recepita entro il 10 maggio. “Purtroppo (il testo, ndr) richiama in gran parte la proposta dell’onorevole del M5S Vittorio Ferraresi che punta a conservare in una situazione di fine pena mai gli attuali 1250 detenuti ostativi e quelli che verranno”. E ha già annunciato che voterà no in aula anche contro le indicazioni del partito. Che peraltro non ha ancora sciolto la riserva sui referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali, ma lei sì: li ha sottoscritti tutti. E in molti nel Pd spingono nella stessa direzione e non si tratta di figure minori. Per l’ex capogruppo del Senato, Andrea Marcucci, molto vicino alle posizioni di Matteo Renzi, “i quesiti sulla giustizia fanno parte della nostra cultura politica e giuridica, non possiamo farceli sottrarre da altri, che sono cresciuti con l’esibizione dei cappi. È giusto affrontare le questioni in Parlamento, ma se non riuscissimo, il Pd deve essere coerente con la propria matrice garantista”, ha scritto sui social in vista del confronto atteso al Nazareno sulla questione.

Che farà il Pd? La speranza, va detto, è che tre quesiti siano assorbiti dalla riforma Cartabia che toglierebbe un bel po’ di castagne dal fuoco. Se non fosse che ne restano altri due, tra i più spinosi: quello che chiede l’abolizione della Severino, su cui il Pd dovrebbe esprimere netta contrarietà. La questione è invece meno pacifica sul quesito che chiede di ridurre l’ambito dei reati per i quali è consentita l’applicazione della carcerazione preventiva. Che fare sul referendum? Nulla di deciso: anche se, spiegano fonti autorevoli, “il sistema così com’è non ci piace e non funziona”.

“È la resa dei conti della politica sui pm Amato mi preoccupa”

I quesiti referendari promossi dalla Corte costituzionale? “La politica sta regolando i conti con la magistratura”. I discorsi del presidente della Consulta Giuliano Amato? “Sono rimasto sorpreso e preoccupato”. Eugenio Albamonte, pm a Roma, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e oggi segretario di Area, non ha dubbi sugli effetti della decisione presa due giorni fa dalla Consulta: “C’è il rischio – spiega – che questa consultazione referendaria diventi una resa dei conti della politica sulla magistratura a chiusura di una vertenza che è iniziata 30 anni fa con Mani Pulite e che ora alcune forze politiche vogliono chiudere, attraverso questa campagna referendaria, approfittando della oggettiva perdita di credibilità della magistratura dopo la vicenda Palamara”.

Tra i quesiti ammessi c’è quello sul cambio di funzioni tra giudici e pm. Cosa nasconde questo quesito?

Alcune forze politiche tentano di inserire la separazione delle carriere all’interno del tema del recupero di credibilità della magistratura o anche di quello dell’efficienza e funzionalità della giustizia. Non c’entra né con l’uno né con l’altro. È piuttosto una vecchia battaglia di una parte del mondo politico e dell’avvocatura che è evidentemente orientata a ridurre il ruolo del pm per arrivare, in prospettiva, a uno statuto differente anche in termini di garanzie e indipendenza. Il fatto che poi i passaggi da pm a giudice e viceversa si siano ridotti rende il tema sempre più politicante.

Un altro quesito ammesso dalla Consulta riguarda nuovi limiti alla detenzione preventiva. Con il solo rischio di reiterazione del reato, non si finisce in carcere. Festeggeranno i colletti bianchi, ma anche chi commette reati come i furti?

Assolutamente. Il quesito sulle misure cautelari è costruito in modo tale da rendere impossibile per un soggetto, un colletto bianco, la possibilità di finire in carcere. E ciò riguarderà sia i reati contro la pubblica amministrazione che quelli economici. Quindi mani libere a economia e politica, soprattutto in una fase in cui si aspettano i fondi del Pnrr e ci saranno grosse iniezioni di liquidità. Guarda caso il quesito arriva proprio in questo momento. Poi l’effetto perverso di questa ricerca di immunità delle “caste” dalle misure cautelari si raggiunge quando ci si rende conto che per evitare il carcere ai colletti bianchi si consente la stessa garanzia anche ad autori di reati particolarmente odiosi, come truffe, furti, alcune forme di stalking e, salvo deroghe dell’ultimo minuto, anche il traffico di materiale pedopornografico. Non è questo il modo corretto di intervenire sull’eventuale, ammesso che esista, utilizzo eccessivo delle misure cautelari.

Gli elettori saranno chiamati a votare anche sulla norma che vuole abrogare la legge Severino sull’incandidabilità e decadenza per chi ha una condanna definitiva. È un sistema di autotutela della politica?

Questo rappresenta il livello di ipocrisia più alto raggiunto con la campagna referendaria. La classe politica – che non ha il coraggio di prendere in Parlamento le decisioni necessarie per modificare la Severino – chiede agli elettori di modificarla al posto loro, dando ai cittadini responsabilità che non intendono assumersi, per questioni di immagine e di ritorno elettorale. Così torneremo ad avere nella politica locale e nazionale soggetti colpiti da sentenze anche definitive, fino ad arrivare all’assurdo per cui ottenere un seggio, che garantisce l’immunità prima dell’esecuzione della sentenza, mette al riparo dai reati commessi in precedenza.

Il presidente Amato alcuni giorni prima della decisione sui quesiti referendari ha detto: “…bisogna evitare di cercare a ogni costo il pelo nell’uovo per buttarli nel cestino”. Poi dopo la camera di consiglio ha tenuto una conferenza stampa. Cosa pensa di questi interventi?

Sono rimasto sorpreso e preoccupato, soprattutto dalle esternazioni con le quali il presidente Amato, parlando di “pelo nell’uovo”, ha anticipato la regola di giudizio che avrebbe adottato prima ancora che si riunisse la camera di consiglio. Ma anche quando la sua comunicazione ha assunto un taglio più politico. Il rischio è di indebolire la Corte costituzionale soprattutto quando al di là della condivisibilità delle decisioni prese, l’effetto è stato quello di far passare i referendum che interessavano alla politica e bocciare quelli che invece interessavano alla società civile.

Referendum, Salvini resta solo: alleati e base leghista lo scaricano

La solitudine di Matteo Salvini sulla giustizia diventa evidente di buon mattino quando si presenta in conferenza stampa alla Camera per annunciare l’inizio della campagna referendaria: accanto a sé il leader leghista ha solo sedie vuote. Non ci sono gli (ex?) alleati di centrodestra: né Forza Italia che sosterrà il “sì” ma – come spiega Antonio Tajani – preferisce una riforma in Parlamento, né tantomeno Fratelli d’Italia che non ha sottoscritto due dei cinque quesiti ammessi – abolizione della legge Severino e limitazione della custodia cautelare – e potrebbe fare campagna per il “no” per fare lo sgambetto definitivo a Salvini. Con un effetto che sfiorerebbe il comico: Lega e FdI potrebbero correre insieme per le Comunali, ma fare campagna opposta sui referendum. Salvini lo sa e prova a sminare il campo da conflitti dentro la coalizione: “Evviva la libertà” risponde a chi gli chiede dell’opposizione di FdI. Ma lo scontro nella coalizione resta e i “no” non arrivano solo da Meloni. Anche Forza Italia è scettica: se la ministra Mariastella Gelmini chiede comitati per il “sì” di centrodestra, Tajani convoca una conferenza stampa per dire che se il Parlamento migliorerà la riforma del Csm, dei referendum potrebbe anche non essercene bisogno. “I referendum spingono a fare in fretta, sono un messaggio di incitamento al Parlamento per fare una riforma a partire dalla separazione delle funzioni – dice Tajani – poi se si faranno, voteremo sì”. Il leghista, a costo di celebrare la consultazione, è pronto a rallentare l’iter della riforma Cartabia in Parlamento.

Un problema non da poco Salvini ce l’ha anche in casa. Perché mercoledì, quando ha cantato vittoria sui social per l’ammissione di 5 su 6 quesiti da parte della Consulta, molti militanti e iscritti della Lega lo hanno attaccato ricordandogli le origini del Carroccio che all’inizio negli anni Novanta tuonava contro “Roma ladrona” e sventolava il cappio in Parlamento contro i politici finiti alla sbarra durante Mani Pulite. E quindi il leader della Lega è stato subissato dai fischi su Facebook: il quesito sulla custodia cautelare, scrive Loredana, “significa che si butta la chiave delle carceri e si avrà meno giustizia e più immunità ai politici nella giurisdizione”. Il referendum sulla carcerazione preventiva è quello che fa più arrabbiare la base leghista perché molti delinquenti potrebbero rimanere liberi. “Davvero portate avanti una referendum per cui non potranno essere disposte le misure cautelari per i reati non violenti, andranno in giro ladri, scippatori, stalker, spacciatori?” ci va giù duro Giuseppe, mentre Walter attacca il segretario della Lega sull’abolizione della Severino: “I condannati potranno tornare in Parlamento – scrive – È questa la riforma? All’estero lasciano per aver copiato una tesi di laurea e noi portiamo i condannati”. In molti sono scettici sul raggiungimento del quorum (“nessuno andrà a votare”), anche perché la giustizia non scalda parte della base leghista che gli chiede conto dei “tradimenti” su green pass e vaccini.

In mezzo a queste difficoltà, Salvini deve iniziare a imbastire la campagna referendaria. Ieri ha incontrato i vertici del partito Radicale, Maurizio Turco e Irene Testa, per mettere in piedi i comitati del “Sì”: non ce ne sarà uno del centrodestra e il leghista chiederà che i comitati siano sganciati dalle appartenenze partitiche, cercando appoggi trasversali dal M5S al Pd ai renziani. La comunicazione del suo tour, che inizierà a marzo, sarà tutta incentrata sulla “malagiustizia italiana” a partire dal suo processo a Palermo passando per la retorica anti-pm “politicizzati”, contro “le correnti” e per tutelare le “vittime di ingiustizie in carcere o in attesa di processo”. Salvini, insomma, si “berlusconizzerà”. Ma non sarà facile raggiungere il quorum e per questo il leghista ha chiesto un election day che accorpi referendum e Comunali per “far risparmiare 200 milioni allo Stato”: un modo per portare più gente al voto. Non sarà facile, sia perché, come prassi, si cerca sempre di trovare due date diverse ma anche perché né la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, né gli alleati di governo (Pd e M5S) vogliono fare un favore a Salvini.