Nel primo pomeriggio dello scorso 18 febbraio, la buona notizia si era propagata attraverso i cellulari; l’assoluzione di Osman Kavala dall’accusa di aver organizzato e finanziato la rivolta di Gezi park sette anni fa, e la ritrovata libertà. Il magnate filantropo e attivista 62enne, laureato anche in Gran Bretagna, quel giorno aveva superato i tre anni di carcerazione preventiva dopo essere stato arrestato nel 2017 nell’aeroporto di Istanbul al ritorno dal cosiddetto Kurdistan turco, dove aveva partecipato a una conferenza sui diritti umani nella filiale della sua fondazione, Anadolu Kultur nata nel 2002.
Tra coloro che gioivano in particolare c’erano molti curdi, non solo uomini e donne di etnia turca. Alcuni lo conoscono per aver usufruito degli aiuti economici elargiti dalla sua fondazione culturale. Gli altri lo ammirano per il suo ventennale impegno non solo a favore degli artisti e intellettuali indipendenti senza conoscenze negli ambienti islamici e denaro, ma anche per il suo sostegno alla libertà di espressione. Questo diritto sancito dalla Costituzione turca è diventato sempre più una chimera con l’aumentare della deriva dispotica dell’ex premier Recep Tayyip Erdogan, diventato presidente della Repubblica nel 2015.
La decisione del Tribunale di Istanbul di liberarlo per non aver commesso il reato di incitamento alla sollevazione, in quel primo pomeriggio del 18 febbraio, sembrava aver lenito in parte le ferite fisiche e psicologiche inferte ai turchi laici e democratici a causa delle purghe del Sultano iniziate non dopo il fallito golpe del 2016 bensì tre anni prima. Nel 2013, dopo la rivolta popolare di Gezi park repressa nel sangue e dietro le sbarre delle famigerate prigioni turche, iniziò infatti la prima “caccia alle streghe” del presidente Erdogan. E quel 18 febbraio, alla fine, si trasformò in una delle giornate peggiori del carcerato Kavala. Di lì a poche ore dalla liberazione del filantropo, in un’ennesima dimostrazione della crudeltà delle istituzioni turche, compresa la magistratura di fatto dominata dall’esecutivo, Kavala fu arrestato di nuovo e riportato nel carcere di massima sicurezza di Silivri. Colui che più volte Erdogan ha additato come traditore, usando l’espressione razzista “amico dell’ebreo ungherese Soros”, era accusato di un crimine ancora più grave e assurdo data la sua storia rigorosamente laica. Il pesante cancello di Silivri si riapriva per quest’uomo altissimo dalla magrezza ascetica e dallo sguardo trasparente in seguito ad altre accuse a orologeria tanto assurde quanto ridicole.
Il motivo per cui è stato nuovamente privato della libertà è perché è sospettato “di aver tentato di rovesciare l’ordine costituzionale della Repubblica di Turchia e garantire a fini di spionaggio politico o militare informazioni che dovrebbero essere mantenute riservate per ragioni relative alla sicurezza e agli interessi dello Stato. Dopo questa seconda carcerazione preventiva, l’orizzonte “sbarrato” di Kavala è diventato dunque ancora più nero, mentre ancora Erdogan lo accusa di essere “il Soros rosso”, ovvero di sinistra. Quella sinistra che sia i regimi militari fascisti del passato sia l’attuale regime islamista hanno sempre considerato il vero nemico da abbattere. La settimana scorsa il Tribunale ha sancito il peggioramento della posizione di Kavala: i magistrati hanno rigettato la richiesta di scarcerazione. La moglie Ayse, docente universitaria, ha definito il trattamento “preventivo” di cui è vittima il marito “una forma di tortura”.