“Amico di Soros” e dei curdi: il filantropo inviso a Erdogan

Nel primo pomeriggio dello scorso 18 febbraio, la buona notizia si era propagata attraverso i cellulari; l’assoluzione di Osman Kavala dall’accusa di aver organizzato e finanziato la rivolta di Gezi park sette anni fa, e la ritrovata libertà. Il magnate filantropo e attivista 62enne, laureato anche in Gran Bretagna, quel giorno aveva superato i tre anni di carcerazione preventiva dopo essere stato arrestato nel 2017 nell’aeroporto di Istanbul al ritorno dal cosiddetto Kurdistan turco, dove aveva partecipato a una conferenza sui diritti umani nella filiale della sua fondazione, Anadolu Kultur nata nel 2002.

Tra coloro che gioivano in particolare c’erano molti curdi, non solo uomini e donne di etnia turca. Alcuni lo conoscono per aver usufruito degli aiuti economici elargiti dalla sua fondazione culturale. Gli altri lo ammirano per il suo ventennale impegno non solo a favore degli artisti e intellettuali indipendenti senza conoscenze negli ambienti islamici e denaro, ma anche per il suo sostegno alla libertà di espressione. Questo diritto sancito dalla Costituzione turca è diventato sempre più una chimera con l’aumentare della deriva dispotica dell’ex premier Recep Tayyip Erdogan, diventato presidente della Repubblica nel 2015.

La decisione del Tribunale di Istanbul di liberarlo per non aver commesso il reato di incitamento alla sollevazione, in quel primo pomeriggio del 18 febbraio, sembrava aver lenito in parte le ferite fisiche e psicologiche inferte ai turchi laici e democratici a causa delle purghe del Sultano iniziate non dopo il fallito golpe del 2016 bensì tre anni prima. Nel 2013, dopo la rivolta popolare di Gezi park repressa nel sangue e dietro le sbarre delle famigerate prigioni turche, iniziò infatti la prima “caccia alle streghe” del presidente Erdogan. E quel 18 febbraio, alla fine, si trasformò in una delle giornate peggiori del carcerato Kavala. Di lì a poche ore dalla liberazione del filantropo, in un’ennesima dimostrazione della crudeltà delle istituzioni turche, compresa la magistratura di fatto dominata dall’esecutivo, Kavala fu arrestato di nuovo e riportato nel carcere di massima sicurezza di Silivri. Colui che più volte Erdogan ha additato come traditore, usando l’espressione razzista “amico dell’ebreo ungherese Soros”, era accusato di un crimine ancora più grave e assurdo data la sua storia rigorosamente laica. Il pesante cancello di Silivri si riapriva per quest’uomo altissimo dalla magrezza ascetica e dallo sguardo trasparente in seguito ad altre accuse a orologeria tanto assurde quanto ridicole.

Il motivo per cui è stato nuovamente privato della libertà è perché è sospettato “di aver tentato di rovesciare l’ordine costituzionale della Repubblica di Turchia e garantire a fini di spionaggio politico o militare informazioni che dovrebbero essere mantenute riservate per ragioni relative alla sicurezza e agli interessi dello Stato. Dopo questa seconda carcerazione preventiva, l’orizzonte “sbarrato” di Kavala è diventato dunque ancora più nero, mentre ancora Erdogan lo accusa di essere “il Soros rosso”, ovvero di sinistra. Quella sinistra che sia i regimi militari fascisti del passato sia l’attuale regime islamista hanno sempre considerato il vero nemico da abbattere. La settimana scorsa il Tribunale ha sancito il peggioramento della posizione di Kavala: i magistrati hanno rigettato la richiesta di scarcerazione. La moglie Ayse, docente universitaria, ha definito il trattamento “preventivo” di cui è vittima il marito “una forma di tortura”.

Ora il muro di Trump lo pagano i Dem

“All in all it’s just another bricks in the wall” (Dopo tutto è solo un altro mattone nel muro). Pur di salvare il disegno di legge sul sostegno post-Covid-19 da 900 miliardi di dollari, il Congresso americano, Democratici compresi, ieri ha approvato nel pacchetto anche 1,3 miliardi di dollari per la costruzione del muro meridionale anti-migranti voluto da Donald Trump. Un grande accordo “per cui abbiamo lavorato giorno e notte”, ha sottolineato la speaker della Camera, Nancy Pelosi, che pure ha tenuto a precisare che non si tratta di un accordo “robusto” come quello che il suo partito si sarebbe auspicato, ma tant’è. Per Chuck Schumer, massimo rappresentante dem al Senato “si è risolta una guerra”, quella con la Federal Reserve. A suggellare “lo spirito bipartisan ritrovato” che permetterà di consegnare 300 dollari a settimana come supplemento di disoccupazione alle famiglie americane, è arrivato anche il presidente eletto, Joe Biden assicurando che si tratta solo “dell’inizio di una serie di aiuti che permetteranno al Paese di rialzarsi”.

Peccato che al di là del muro del confine meridionale, quello già costruito dal suo predecessore – 563 chilometri di nuove di barriere più 608 di barriere previste o in sostituzione di quelle mobili, secondo lo Us Customs and Border Protection (Cbp) – i migranti in attesa di asilo per passare la frontiera legalmente non ricevano nessun aiuto. Si tratta dei disperati che Trump con il suo metodo passepartout, cioè la minaccia di dazi sui prodotti messicani, ottenne dal presidente Andres Manuel Lopez Obradror, detto Amlo, di poter rimandare indietro tramite il Protocolos de Proteccion de Migrantes (Mpp): un piano che ha permesso a Washington di rispedire indietro finora 70 mila persone in attesa di asilo dalle corti migratorie approntate in tende al confine. Un accordo, quello del 2019 criticato anche dalle organizzazioni dei diritti umani per via del pericolo che corrono i migranti vulnerabili rinviati nelle cittadine del nord del Messico senza mezzi e senza avvocati difensori. Di fatto, con il voto di ieri i dem appoggiano proprio lo strenuo tentativo di Trump di vantarsi di quel successo promesso nel 2016: “tenere lontano il pericolo proveniente del Sud”.

Ora Biden – che nel 2014 come vice di Obama ha viaggiato spesso in Centroamerica alla ricerca di soluzioni soprattutto all’arrivo massiccio di minori non accompagnati – domenica, in una telefonata con il presidente messicano si è impegnato a “lavorare a stretto contatto anche con altri colleghi della regione per costruire infrastrutture frontaliere necessarie a facilitare un nuovo controllo ordinato e più umano delle migrazioni che rispetti le norme internazionali sull’asilo”. Compito questo non solo contraddittorio rispetto al decreto del Senato, ma anche non facile in questo momento: non solo perché il Covid ha ridotto allo stremo il Sudamerica, ma anche per i nuovi sommovimenti politici così come gli uragani che stanno interessando la regione. L’ultima, la tredicesima, carovana di migranti diretti in Messico dall’Honduras è partita l’11 dicembre con centinaia di persone rimaste senza casa. Quest’anno al confine sono morti 400 profughi e sono 628 i minori separati dai genitori alla frontiera e non ancora ritrovati. Joe Biden che del cambio d’approccio al tema dei migranti ha fatto un cavallo di battaglia della corsa elettorale alla Casa Bianca – “questioni asilo e rimpatrio nonché minori migranti non accompagnati verranno risolte nei primi 100 giorni di mandato”, aveva assicurato il presidente che si insedierà il 20 gennaio – ha messo non a caso nella sua squadra di transizione Roberta Jacobson, ex ambasciatrice degli Usa in Messico, scelta come volontaria nel Dipartimento di Stato. Dunque nelle intenzioni sia Biden che Amlo potrebbero essere promossi. Dal canto suo, infatti, il presidente messicano si è trovato in perfetta sintonia con le nuove linee guida di Biden, ribadite durante la chiamata.

“Rinvigorimento della cooperazione tra i due Paesi” a parte, giacché può voler dire tutto e niente, entrambi hanno convenuto che bisogna porre l’attenzione su misure che “spingano i migranti a non intraprendere il pericoloso viaggio verso gli Stati Uniti”, ossia una “strategia che ponga rimedio alle cause di fondo che provocano la migrazione da paesi come El Salvador, Guatemala, Honduras e il sud del Messico per costruire un futuro con maggiori opportunità e sicurezza nella regione”. Aiutiamoli a casa loro, ma anche no, visto il decreto appena approvato negli Usa che mantiene in essere le spese per la costruzione di un altro pezzo di muro in luoghi in cui, a detta del Cbp, ora non esistono neanche barriere mobili. Non proprio un buon inizio per l’amministrazione Biden, certamente inatteso dalla folla dei desesperados che si accalcano alla frontiera sud e che nell’elezione del presidente democratico avevano visto una speranza di entrare a far parte del sogno americano, o per lo meno di non morire cercando di esaudirlo. “All in all you’re just another brick in the wall”.

Ricatti & dispetti: il Bomba gioca l’Italia come una Playstation

A perfezionare l’anno nero degli italiani mancava l’ultimo algoritmo bisestile. Ci ha pensato Matteo Renzi a disegnarlo e, collegando i fili, a godersi il conto alla rovescia. Non per niente ai tempi delle cingomme sotto al banco e degli scout d’Appennino toscano, lo chiamavano il Bomba, quello che le spara grosse, si tiene la palla e vuole la merenda dei più piccoli.

Prepotente oggi come allora, ma sempre con il mezzo sorriso imbracciato ai tempi di #Enricostaisereno, mentre gli tagliava la testa e la carriera. Peccato che la sua nuova Playstation siamo noi, l’Italia assediata dal Covid e dalla eterna chiacchiera politica, che per lui vuol dire fare e disfare governi, palleggiare coi nemici, abbattere gli amici.

Ha benedetto il Conte-2 e dal giorno dopo ha cominciato a prenderlo a martellate. Appena il governo ha dichiarato il lockdown, lo scorso marzo, lui ha chiesto di riaprire tutto. Se Conte rifiuta il Mes, lui lo pretende. Chiede chiarimenti di programma, poi disdice la riunione, “la mia capogruppo Bellanova ha da fare”.

A sentir lui, oggi Conte non cade, domani forse, vediamo come gli gira l’umore che oscilla tra quello di Napoleone e di Bertoldo. Va avanti e indietro a gomitate. Senza mai smettere le sue due specialità: querelare chi non gli garba; disdire in pubblico il contrario di quello che pensa in privato, e dichiarare l’opposto: “Le poltrone sono l’ultimo dei miei problemi”, ha appena detto. Che vuol dire il primo.

Eppure. Quando comparve al mondo, sembrava ossigeno per la sinistra in apnea. Era sveglio di chiacchiera, veloce nel tornaconto, bravo coi calci sugli stinchi, spiritoso a raccontar bugie e col ciuffo da bimbo a renderle plausibili. Sembrava l’antidoto anche sonoro al borbottare oscuro di Bersani, strillando in chiaro: “Rottamazione senza incentivi!” . Per poi finire al Nazareno con Denis Verdini a scavare la fossa al buon senso e alla sinistra.

Il Bomba viene da un posto remoto, Rignano sull’Arno. Famiglia benestante di piccoli imprenditori pubblicitari – Tiziano e Laura – una coppia specchiante fatta di puro istinto democristiano, e dunque impelagata dentro labirinti di contributi non pagati, licenziamenti illegittimi, che al primo sguardo sembravano i pasticci contabili di chi si è fatto da solo. Si scoprirà solo più tardi quanto la coppia diventerà ingombrante per il loro figliolo, generazione Telemaco, visto l’ingorgo di telefonate intercettate, scandalo Consip, prestiti, raccomandazioni, tutto l’armamentario dei faccendieri, fino agli arresti domiciliari e ai processi.

Matteo nasce l’11 gennaio 1975. È il secondo di quattro figli. Il primo per buon umore. A 19 anni compare inconsapevole nella sua cornice naturale, La Ruota della Fortuna di Mike Bongiorno, dove vince 48 milioni di lire in quattro puntate.

Contaminato dalla luce sacra dei riflettori, quando si laurea in Giurisprudenza con una tesi su Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze che viveva e operava nell’ombra, impara la lezione di starne il più possibile alla larga. Intraprende la politica come fosse una avventura televisiva con altri mezzi.

La superficie è il suo habitat e B. il suo profeta

Quando si batte per diventare capogruppo del partito popolare, il suo slogan è: “Basta con lo strapotere rosso”. E quando si imbarca coi rossi per diventare presidente della Provincia, indossando i panni della Margherita, anni 2004-2009, il suo slogan diventa “Non la solita pizza”.

La superficie è il suo habitat, il suo limite. E Silvio B. il suo profeta. Va a rendergli l’omaggio del discepolo nel villone di Arcore. Segue il finto scandalo dell’inaspettato incontro che in realtà è un seme ben seminato. Le gazzette laureate in politologia prevedono che per Rignano passerà la linea ereditaria di Forza Italia. Ma è Matteo a confidare a Luigi Bisignani, un luminare della ghenga piduista, la ragione del rifiuto: “Se andassi nel Pdl non sarei mai il numero uno”. Molto più facile scalare il Pd dei dinosauri storditi.

Quando sale sul suo secondo scalino, conquistando Palazzo Vecchio a Firenze, dichiara: “Fare il sindaco è bellissimo. E qui voglio stare”.

Big Bang! e l’arruolamento
di artisti e manager

È vero il contrario. Sbriga il traffico cittadino con la mano sinistra. Con tutto il resto del corpo punta alla Nazione. Organizza la Leopolda intitolata “Tocca a Noi!” e l’anno dopo “Big Bang!”. Incamera artisti, scrittori, furbacchioni, ma soprattutto manager e sovvenzioni dai suoi amici Marco Carrai e Andrea Guerra. Arruola Alessandro Baricco e Oscar Farinetti. Corre verso la vetta delle primarie. Perde le prime. Stravince le seconde. Il suo slogan è “Adesso!”. A sottolineare la rivoluzione generazionale inaugura il nuovo look: giubbotto Fonzie, maglioncino Marchionne, camminata Alberto Sordi. Si tiene lo sguardo Jerry Lewis, perché fa simpatia.

A Palazzo Chigi ci arriva con la comitiva di Rignano: Luca Lotti, allenatore della squadra di calcio femminile di Montelupo; Maria Elena Boschi, avvocato tra le briciole di Montevarchi; Antonella Manzione, capo dei vigili urbani di Firenze, Alberto Bianchi, l’avvocato pistoiese dei consigli segreti. A chiacchiere promette una rivoluzione al giorno. Le intitola: “La buona scuola”, “Cambiare verso”, “Passo dopo passo”, “Il mille giorni”, “La volta buona”. Quando vince le Europee con il clamoroso 40 per cento dei voti, anno 2014, crede che sia farina del suo sacco e non degli 80 euro che ha appena regalato agli italiani. E quando si gioca tutto con il referendum costituzionale, intitolato “Se perdo me ne vado!”, perde anche la testa. E malauguratamente, rilancia.

Tra una ruina e l’altra, nella sua corsa senza respiro, ha azzeccato buone cose, la legge sulle unioni civili, la candidatura di Sergio Mattarella al Quirinale, il Conte-2 per prosciugare il Papeete. Ma ha sempre vanificato ogni vantaggio con l’immenso narcisismo che lo assedia. E che lo spinge a varare un partito a suo nome senza elettori e la Fondazione Open con troppi misteri contabili. Ha promesso: “Con me l’Italia sarà un posto dove trovi lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno!”. Voleva dire il contrario.

 

Salutarsi da dietro una mascherina: ma chi ti conosce?

Al sentire la parola “sagoma” non mi viene in mente il significato che per primo si evince dal vocabolario, cioè modello di carta, cartone, legno o altro materiale che serve da riferimento per produrre qualcosa. Piuttosto, effetto da attribuire certamente al fatto di vivere in un piccolo luogo dove ci si conosce un po’ tutti, il suo significato estensivo, riferibile a persona curiosa, forse un po’ strana, con vezzi, atteggiamenti, modi di fare o di pensare che la rendono particolare: una sagoma appunto. Appartenente a codesta categoria è colui che ho incrociato giorni fa e con il quale, conoscendolo quale sagoma, ho voluto fermarmi a scambiare quattro chiacchiere. Il caso ha voluto che mentre stavamo conversando (niente di che, come va, come non va) è passata una terza persona che ha salutato. Abbiamo risposto entrambi ma subito dopo il mio interlocutore mi ha chiesto chi fosse. Ho dovuto rispondergli che non lo sapevo. Da che siamo obbligati a girare con la mascherina fin sotto gli occhi, senza contare l’appannamento degli occhiali, mi riesce difficile riconoscere buona parte di coloro che incontro e mi salutano. Per non sbagliare rispondo a tutti, così da non passare per maleducato. Non sembrava anche a lui la cosa migliore da fare?, ho chiesto. Sì e no, è stata la sua risposta. Perché, mi ha spiegato, prima di quest’accidente di pandemia c’erano persone, una sorta di lista nera, che per le ragioni più varie aveva smesso di salutare e gli sarebbe piaciuto perseverare in quell’abitudine. In altre parole, non voleva che qualcuno di coloro cui aveva tolto il saluto si illudesse che il virus l’avesse fatto ravvedere, diventare più buono e dimenticare il passato. Però anche lui, nella difficoltà di capire chi ci fosse dietro la mascherina, s’era piegato alla buona norma di rispondere ai saluti. Be’, ha aggiunto, non proprio a tutti. Gli viene facile infatti non salutare coloro che occultano la canonica mascherina con quelle sponsorizzate che esibiscono i colori di un paio di squadre di calcio di cui la sua è acerrima nemica. E pure un certo tipo, (c’è di mezzo una storia di carte finita, si potrebbe dire, a carte quarantotto) , il cui naso spinge talmente che nessuna mascherina al mondo potrebbe renderlo irriconoscibile. Per il resto è certo che nell’arco di questi mesi ha risposto a saluti che in tempi non sospetti, e non infetti, mai si sarebbe sognato di ricambiare. Gli ho fatto presente che questo suo atteggiamento potrebbe aver indotto qualcuno a pensare di essersi guadagnato il suo perdono. Non lo sa e nemmeno gli interessa saperlo, lo saluti chi vuole. Per il momento manterrà la condotta di rispondere ogniqualvolta gli verrà rivolta la parola, non vorrebbe mancare di rispetto a persone con le quali non ha mai avuto questioni. Ma quando arriverà il momento di togliersi la mascherina… Potrebbe non essere così presto, gli faccio notare. Va bene, fa lui, posso aspettare. Tanto, mi fa notare picchiandosi l’indice sulla tempia, ha la memoria buona e quando lui toglie il saluto a qualcuno lo fa per sempre. E mentre stiamo ancora chiacchierando passa un’altra persona che saluta, entrambi rispondiamo, poi lui mi chiede, Chi era ?. Rispondo, Non lo so. Però, faccio notare, potrebbe essere uno della sua famosa lista nera. Ride, sorride? Non so, c’ha su la maschera! Nel caso, però, mi dice: “Che non si illuda!”. Prima o poi questa maschera, e se la tira un po’ lasciandola poi rimbalzare sul naso, ce la toglieremo e lui potrà riprendere a NON salutare chi se lo merita. Non abbiamo più niente da dirci adesso, quindi ci salutiamo e ognuno per la sua strada, io con il pensiero di non essere, almeno per il momento, sulla sua lista di proscrizione.

Anche il piano Usa è un “Sussidistan”?

Per quanto “bipartisan” è il primo atto legislativo che risente della presidenza Biden. Il Congresso americano, infatti, ha approvato il disegno di legge per fare fronte alla pandemia estendendo gli aiuti a milioni di famiglie in difficoltà. Con buona pace dei liberal-a-spese-degli-altri che imperversano in Italia, buona parte del pacchetto prevede gli odiati “aiuti a pioggia” e un articolato piano di bonus. Si va dai 600 dollari a persona, compresi adulti e bambini, che si traduce in circa 2.400 dollari a famiglia entro una certa soglia di reddito. Ma viene estesa anche l’indennità di disoccupazione con un surplus federale di 300 dollari a settimana a partire dal 27 dicembre e fino al 14 marzo. Le richieste settimanali di disoccupazione sono tornate a crescere nelle ultime settimane. Ci sono poi 284 miliardi per il programma Paycheck Protection Program, una misura da sinistra perché aiuterebbe le imprese a ridurre ancora le tasse, dopo i regali di Trump, in cambio della salvaguardia degli organici. Ma ci sono anche 82 miliardi per le scuole e altre misure sociali come i 10 miliardi per l’infanzia. Un piano di aiuti basato sul sostegno alle difficoltà immediate come si fa sempre in questi casi (leggere biografia di Obama) non molto diverso dagli interventi adottati in Italia. Chissà se anche in questo caso c’è qualche presidente di Confindustria americana che strillerà al “sussidistan”.

Lotta al Covid, donne al comando

Donne, donne, donne! Anche durante questa pandemia noi donne ci siamo distinte. Lo scrive Bruno Vespa nel suo ultimo libro, ricostruendo la storia del primo caso di Covid “italiano”, Mattia. A causa dei protocolli diffusi dal ministero della Salute, a febbraio i casi di polmonite da sottoporre a diagnosi di laboratorio sarebbero stati solo quelli di pazienti provenienti dalla Cina. L’intuito di una donna, Annalisa Malara, anestesista presso l’ospedale di Codogno, di turno il 20 febbraio, che ha il coraggio di “andare oltre” e chiedere al mio reparto un test per SarsCoV2, malgrado il paziente non riferisse viaggi in Cina, ha sicuramente salvato Mattia e tante altre vite. Valeria Micheli, virologa del mio staff, anch’essa di turno, presso il laboratorio del Sacco da me diretto, anche lei, condividendo il pensiero della collega, “va oltre”, accetta (dopo avermi consultata) di eseguire il test. Forse se non fosse andata così, la storia del Covid in Italia, avrebbe avuto, almeno nella prima fase, connotati diversi. Ma le donne stanno facendo la differenza anche in ruoli di comando governativi. In Germania, Angela Merkel ha ottenuto risultati esemplari nella gestione della pandemia. In generale, la mortalità è stata più bassa nei Paesi guidati da donne. Bolsonaro, Putin, Trump hanno mostrato i muscoli ma hanno fallito. Eppure solo il 6,6% dei capi di governo sono donne e nel nostro Paese, solo il 16% dei direttori generali delle aziende ospedaliere. Il Comitato Tecnico Scientifico è stato per mesi costituito solo da solo uomini, salvo poi cooptarne sei, a maggio, per rimediare. Le donne sono prime nell’assistenza, negli studi ma, quando c’è odore di potere, la lobby trasversale maschilista si chiude e non resta spazio. È solo colpa degli uomini? No! Nel romanzo Terra di lei di Charlotte Perkins Gilman, che immagina un luogo dove vivono solo donne e che, a un certo punto, viene sconvolto dall’arrivo di tre uomini, si trova la chiave di lettura. Malgrado tutto prima abbia funzionato, quando si trovano a confronto con i tre ospiti indesiderati le donne accettano con deferenza le competenze maschili. Hanno realizzato un’utopia, ma pensano di aver sbagliato tutto. Una riflessione, tutta al femminile, credo sia dovuta.

 

È una gara tra Lega e Fratelli d’Italia a chi ha i politici peggiori

È affascinante la sfida tra Fratelli d’Italia e Lega. Non alludo, ovviamente, alla singolar tenzone su chi tra loro prenda più voti, ma a quella – ben più esaltante – su chi abbia la “classe dirigente” più irricevibile. Fratelli d’Italia ha calato l’asso settimane fa con il programma Report, autore su Rai3 di un’inchiesta vagamente inquietante (ma tanto i meloniani sono abituati a insigni statisti come Santanchè e La Russa, dunque son ben poco schizzinosi). La Lega doveva in qualche modo rilanciare, e lo ha fatto da par suo con due figure di rincalzo, che meritano però lodi ed encomi per l’altissimo tenore dei loro interventi.

Il primo è il famosissimo Andrea Asciuti, consigliere comunale leghista di Firenze. Egli ha esalato quanto segue: “Con la RU486 la donna diventa il sarcofago del proprio figlio, prima di espellerlo e gettarlo chissà dove”. Parole sature di tolleranza, sobrietà e libertà. Bravo Asciuti!

Ancor meglio di lui ha fatto Angelo Ciocca. Europarlamentare della Lega. Nato a Pavia nel 1975, residente a San Genesio e Uniti. È soprannominato il “Bulldog della Lega” e – da se stesso, immagino – “il Brad Pitt della politica”.

Il CioccaPitt ne combina più di Bertoldo. Nella primavera del 2009 viene filmato dai carabinieri mentre si incontra con Pino Neri, già pregiudicato con sentenza definitiva a 9 anni sempre per reati di associazione a delinquere, e in un nuovo processo accusato di essere un boss della ’ndrangheta e che poi venne arrestato il 13 luglio dello stesso anno. Al termine del processo di primo grado, Neri viene condannato a 18 anni di reclusione. Gli incontri con CioccaPitt vengono confermati dallo stesso Neri, ma indicati come occasionali. Il CioccaPitt non è mai stato indagato per fatti riconducibili a quegli episodi.

Il 23 ottobre 2018 CioccaPitt calpesta con una sua scarpa una lettera del Commissario europeo per gli affari economici e monetari Pierre Moscovici, rivolta dall’Ue all’Italia sulla bocciatura della manovra del governo, vantandosi poi del gesto perché la scarpa era puro Made in Italy.

Per anni firma i documenti ufficiali come “dottore”, anche se al tempo non aveva alcuna laurea. Risultava semplicemente iscritto all’Università degli Studi Roma Tre in Ingegneria civile, dopo aver presentato una domanda in cui specificava di essere già in possesso di laurea “in Ingegneria edile presso l’Università Paulo Freire in Nicaragua” (ehhh???), laurea che non costituisce però valido titolo di studio nell’Unione europea. Oltretutto quel titolo di studio non è presente tra quelli insegnati dalla suddetta università (daje!). Successivamente, a 41 anni, il CioccaPitt si laurea in Scienze economico-aziendali presso l’Università degli Studi “Niccolò Cusano”, università telematica non statale di Roma.

Nel gennaio 2019 il CioccaPitt viene condannato a 1 anno e 6 mesi, con sospensione condizionale della pena e la non menzione, nell’ambito del processo penale conseguito allo scandalo della cosiddetta “Rimborsopoli” della Regione Lombardia.

Insomma: un gigante vero. La settimana scorsa il totemico CioccaPitt si è spinto oltre, sostenendo in tivù la seguente tesi: se un lombardo si ammala di Covid vale di più di un laziale. Ecco le sue parole: “La Lombardia, è un dato di fatto, è il motore di tutto il Paese. Quindi se si ammala un lombardo vale di più che se si ammala una persona di un’altra parte d’Italia”. Genio.

La gara a chi fa peggio tra post-fascisti e legaioli non smette di commuovere. Sono fantastici. E pensate se fossero al governo!

 

Strage del 904, l’Italia scopre che la mafia uccide al nord

Erano le 19.08 del 23 dicembre 1984, quando il treno rapido n. 904 Napoli-Milano giunse all’appuntamento con la morte: un ordigno veniva fatto esplodere nella nona carrozza di seconda classe, mentre transitava nella Grande Galleria dell’Appennino tosco-emiliano, in località San Benedetto Val di Sambro, con direzione da Firenze verso Bologna, a una velocità di 128 km orari. Quindici passeggeri morirono immediatamente, un altro il giorno seguente; 267 feriti. Vittime innocenti della ferocia mafiosa. Da 31 minuti e venti secondi il treno aveva abbandonato la stazione ferroviaria di S.M. Novella, ove un uomo alto m. 1,75, robusto, dell’età fra i 40 e i 50 anni (secondo le descrizioni fornite dalla passeggera Rosaria Gallinaro) sistemava, intorno alle 18.30, due borsoni scuri, pieni di esplosivo plastico alla pentrite sulla griglia portapacchi posta in alto del corridoio prima dell’ingresso al terzo scompartimento della nona carrozza. Sono trascorsi trentasei anni da quella che fu consegnata alla storia come la strage di Natale. Un eccidio che deve essere ricordato per rendere omaggio alle vittime, perché fece capire che la mafia è un problema nazionale. A differenza di altre che l’avevano preceduta, la strage non è rimasta impunita, o almeno totalmente impunita. Il 24 novembre 1992 è passata in giudicato la sentenza di condanna nei confronti del “cassiere” di Cosa Nostra, Giuseppe Calò, riconosciuto ideatore e organizzatore, di Guido Cercola, di Franco Di Agostino e del tecnico elettronico tedesco Friedrich Shaudinn. E nel mese di ottobre di quest’anno è stata respinta definitivamente la richiesta di revisione Pippo Calò, che, come ogni mafioso di rango, non accetta le condanne all’ergastolo, una pena ancora oggi irrinunciabile per il contrasto al crimine mafioso. È stata accertata, in maniera incontrovertibile, la matrice mafiosa dell’episodio ed è stato riconosciuto che quell’eccidio fu attuato con il proposito di indurre lo Stato ad allentare lo sforzo repressivo sulla mafia in Sicilia, messo in moto dalle collaborazioni di Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno, portato avanti dal pool guidato da Antonino Caponnetto e accresciutosi per effetto degli oltre 300 mandati di cattura emessi poco tempo prima. Un attentato che sarebbe dovuto apparire come ispirato da matrice terrorista e che avrebbe dovuto distogliere l’impegno delle istituzioni e della società civile dal contrasto a cosa nostra, facendo apparire l’esistenza di un pericolo per la Nazione diverso e maggiore da quello costituito dalla mafia. Si è trattato di un delitto terroristico-eversivo – compiuto a distanza di un anno e 5 mesi della strage palermitana di via Pipitone Federico del 29 luglio 1983, ai danni del consigliere istruttore Rocco Chinnici – nel quale è avvenuta la saldatura tra il settore camorristico della Nuova Famiglia, cosa nostra ed appartenenti alla criminalità romana, in virtù del ruolo di frontiera di Pippo Calò. Se è stata fatta emergere una porzione significativa di verità, rimangono, però, interrogativi e zone grigie. Gli accertamenti giudiziari non hanno consentito di individuare chi collocò materialmente l’ordigno e di decifrare il torbido quadro criminale in cui quella strage si inserì, di capire fino in fondo perché agirono quelle mani assassine, se l’obiettivo di distrarre l’attenzione dalla Sicilia fosse riconducibile solo agli appartenenti alla criminalità organizzata o anche ad altri, se vi sia stata una prospettiva ricattatoria da parte degli ideatori, se e quali rapporti vi siano stati tra la mafia e aree della criminalità del potere nell’ideazione, relazioni che hanno fatto capolino in varie vicende delittuose anteriori al 1984, come nell’uccisione di Aldo Moro, nell’omicidio di Mino Pecorelli, nel caso Sindona, nell’attentato a Roberto Rosone del 24 aprile 1982 e nell’omicidio di Roberto Calvi.

 

Altro che Covid, il Natale da tempo non esiste più

Giovedì si celebra il Santo Natale, la Festa della natività di Cristo. Come disse Benedetto Croce, si sia credenti o no, “non possiamo non dirci cristiani”. Indubbiamente il cristianesimo, tripartitosi, nel tempo, in cattolicesimo, ortodossia, protestantesimo, ha potentemente influenzato per secoli la nostra cultura e la nostra società. Al tempo in cui nacque Cristo le religioni, nel mondo allora conosciuto, erano orientali. La più estesa era quella di Zoroastro, che partita dalla Persia, occupava l’Asia centrale e parte dell’India. Non era una religione aggressiva, tanto che, secondo la leggenda, i Magi che venendo da Oriente andarono a rendere omaggio al neonato di Betlemme, erano sacerdoti zoroastriani. Il problema nasce con un’altra religione orientale, per meglio dire mediorientale, l’ebraismo che si proclama “popolo eletto da Dio”, relegando tutte le altre a genti di serie B, e affermando che esiste un solo e unico Dio, il Suo. Lo scontro con un’altra religione monoteista, anche se meno integralista, pur essa mediorientale, il cristianesimo, sarà inevitabile. Gli ebrei otterranno la testa di Cristo nonostante il governatore della Giudea, Pilato, cerchi finché gli è possibile di salvargli la pelle, scontrandosi però con questo affascinante borderline che crede di essere “il figlio di Dio” anche se non è poi del tutto convinto, “padre, padre, perché mi hai abbandonato?” (oserei dire che Cristo si immola più che per convinzione per una sorta di coerenza morale e persino estetica). Cominciano le zuffe fra ebrei e cristiani, incomprensibili alla mentalità romana. I Romani, e i Greci, cioè quello che possiamo considerare l’Occidente di allora, erano pagani, sostanzialmente dei laici. Quello degli antenati, presente presso tutti i popoli, era il loro unico culto, non avevano rapporti col metafisico, con l’aldilà, se non nella forma della Gloria, cioè del ricordo che si lascia ai posteri. Com’è noto i Romani durante quasi tutto il loro dominio furono tollerantissimi in materia di religione, compreso l’infamatissimo Nerone: “Date a Cesare quel che è di Cesare”, cioè il frumento, per il resto ognuno creda a chi gli pare e segua i costumi che preferisce. Solo con Diocleziano cominciano le persecuzioni sistematiche, quando l’Imperatore si rende conto che il cristianesimo sta corrodendo come un tarlo le basi della società romana. Ma sarà troppo tardi.

Per comprendere la mentalità romana è esemplare la storia di Paolo, futuro Santo e fondatore della Chiesa (che troppo spesso tradirà il messaggio di Cristo, che è un messaggio d’amore, un “porgi l’altra guancia” contrapposto all’ebraico, ma certamente non solo ebraico, “dente per dente”). Paolo, fulminato sulla via di Damasco, arriva a Gerusalemme. Vuole subito andare a predicare al Tempio. I cristiani della città gli dicono che non è il caso. Ma Paolo, è o non è un futuro Santo, ci va lo stesso. Viene accerchiato e sta per essere linciato. Interviene il comandante della piazza Claudio Lisia che lo sottrae ai facinorosi e lo porta a Cesarea davanti al governatore della Giudea, Antonio Felice. Costui convoca i maggiorenti degli ebrei e chiede loro di che cosa accusino Paolo. Ne nasce una diatriba lunghissima fra gli ebrei e lo stesso Paolo, che Felice ascolta pazientemente, poi dice: “Se voi accusaste quest’uomo di un qualche fatto io vi darei ascolto, come di ragione, o ebrei, ma qui si tratta di nomi, di interpretazioni, non posso condannare un uomo per queste cose”. Paolo viene trattenuto nei castra nella forma di custodia militaris, una sorta di custodia cautelare. Non può uscire perché sarebbe immediatamente ucciso. In questa situazione rimane due anni. Ma Paolo è un cittadino romano e come tale ha diritto di essere giudicato a Roma. I Romani armano appositamente una nave, lo affidano a un vecchio centurione con cui farà amicizia, e lo portano a Roma.

A Roma, in attesa del processo, rimarrà altri due anni, potendo predicare liberamente il suo credo, con la sola limitazione di non lasciare la città. Il tribunale di Roma, presieduto dal prefetto del pretorio Afranio Burro, lo assolverà. Paolo morirà nel 67, in circostanze mai chiarite che comunque nulla hanno a che vedere con la cosiddetta persecuzione neroniana dopo l’incendio del 64. Passeranno i secoli. Verrà l’Illuminismo, la Dea Ragione sostituirà i vecchi idoli. Quando Nietsche negli anni 80 dell’Ottocento proclama “la morte di Dio” non crede, prometeicamente, di aver ucciso Dio, ma constata con qualche decennio di anticipo che il sacro è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. Oggi in Occidente, come in Oriente, esiste finalmente un solo, vero, e unico dio: il Dio Quattrino che tutti ci unisce, e nel contempo ci divide, nell’individualismo più sfrenato. Delle dolci parole del Cristo è tabula rasa. E, almeno per questo, il Covid ci torna buono. Perché ci impedisce di celebrare, ipocritamente, una Festa spirituale che, da tempo, non esiste più.

 

Puliamo Terlizzi “Ho 15 anni e passo le ore libere a migliorare il mio paese”

Spettabile redazione, ho 15 anni, sono uno studente al secondo anno di liceo e desidero raccontarvi la mia storia: sono entrato a far parte dell’associazione ambientalista “Puliamo Terlizzi” circa due anni fa. Nelle ore libere dallo studio inforco bicicletta e carretto, e vado a raccogliere i rifiuti lasciati a bordo strada da incivili e piromani. Come me molti altri ragazzi hanno preso a cuore la qualità e il decoro della loro cittadina. Terlizzi è un comune di 27 mila abitanti nell’entroterra barese. Da circa tre mesi abbiamo attuato una forma di protesta contro l’indifferenza dell’amministrazione comunale, per le tematiche ambientali, che consiste nel raccogliere i rifiuti, conferirli negli appositi bustoni differenziati, e portarli nel centro cittadino. Abbiamo anche avviato una raccolta fondi, infatti “Puliamo Terlizzi” si è dotata di un drone. Lo abbiamo acquistato col contributo dei cittadini. Grazie al drone siamo riusciti a individuare e far rimuovere una grande quantità di copertoni gettati in campagna, ma a parte le forze dell’ordine, nessuno ci sostiene. Il mio esempio sta ricevendo molti apprezzamenti. Ho intrapreso questa battaglia partendo da un semplice intervento di pulizia lungo la strada che mi porta a scuola. Non potevo non notare tutti i rifiuti sparsi per terra. Dopo un paio di giorni ho deciso di entrare a far parte del gruppo “Puliamo Terlizzi”, armato di guanti, mascherina e sacchi per differenziare i rifiuti. Così ho iniziato a ripulire tutta la strada, circa 500 metri. Dopo ho sentito un profondo senso di colpa, perché vedevo tutte le strade di periferia stracolme di rifiuti e non mi andava giù. Allora in una settimana ho ripulito ben cinque strade in solitaria, sostenuto dai cittadini che erano dalla nostra parte e dai soci dell’associazione. Da quel momento ho avuto una forte “vocazione” rispetto al tema ambientale. Tuttora, con i ragazzi come me, futuri cittadini adulti, ripuliamo brevi tratti di strada. Vedere tanti di noi coinvolti mi trasmette forza. Spero di trasmetterla anch’io ai miei coetanei e a tutti quelli che leggeranno questa lettera.