Passione legittimo impedimento, così slittano i processi

Sono tornati i bei tempi del “legittimo impedimento”, quelli in cui i processi a Silvio Berlusconi erano bloccati all’infinito. Ieri, a Milano, era in calendario un’udienza del processo Ruby ter, in cui il leader di Forza Italia è imputato di corruzione in atti giudiziari, con l’accusa di aver pagato una trentina di testimoni affinché non raccontassero che cosa succedeva davvero durante (e dopo) le “cene eleganti” di Arcore, nella bollente estate 2010 del bunga-bunga. L’udienza non si è tenuta: rinviata al 27 gennaio 2021, su richiesta dell’avvocato Federico Cecconi. Per un cavillo. Innescato già il 30 novembre, quando Cecconi aveva presentato un’istanza per chiudere in anticipo l’udienza: l’accusa aveva sostenuto che le due ville di Bernareggio progettate da Mario Botta, date in uso gratuito da Berlusconi a due testimoni – Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli – hanno un valore non di 900 mila euro ciascuna, ma di 1,1 milioni di euro. Allora bisogna cambiare il capo d’imputazione, ha chiesto il legale. Il Tribunale ha accolto la richiesta e sospeso l’udienza. Riconvocata ieri. Ma andata a vuoto: perché il cambio del capo d’imputazione deve essere notificato agli imputati, che devono avere 20 giorni per prenderne atto. Ieri di giorni ne erano passati solo 19. Ecco scattare la richiesta di rinvio da parte della difesa, che la settima sezione penale del Tribunale di Milano ha dovuto concedere.

Questa volta è scattato il cavillo. Ma da mesi i processi a Berlusconi vanno a rilento. C’è stato il blocco dei tribunali per la pandemia, le udienze saltate perché Berlusconi era risultato positivo al Covid-19, lo stop per i problemi di cuore dell’ex presidente del Consiglio. Prima ancora, i “legittimi impedimenti” erano stati politici. Tutto questo in una fase in cui il fondatore di Forza Italia si è riaccreditato presso i partiti come leader dell’opposizione “responsabile” e dialogante, o addirittura come interlocutore della maggioranza di governo.

I processi Ruby ter in corso sono tre: oltre a quello di Milano, con 28 testimoni coimputati, ci sono quello di Roma, dove coimputato è Mariano Apicella, il cantante che allietava le cene eleganti, accusato di aver ricevuto 157 mila euro dall’ex presidente del Consiglio; e quello di Siena, dove è processato in compagnia di Danilo Mariani, il silenzioso pianista delle serate del bunga-bunga, che ha ricevuto generosi bonifici per circa 170 mila euro.

A Roma, il processo è ancora nella fase iniziale. L’avvocato Franco Coppi aveva chiesto lo stop nel 2019 per la campagna elettorale per le Europee, poi per il Covid, infine per i “seri problemi cardiologici” dell’imputato. Il dibattimento partirà sul serio solo a maggio 2021. A Siena, dove il processo era invece quasi a sentenza, tutto è stato bloccato fino all’anno nuovo.

Bonaccini va oltre Berlusconi: il condono col silenzio assenso

Domani il Consiglio regionale dell’Emilia Romagna darà il suo via libera definitivo alla legge regionale intitolata “Misure urgenti per promuovere la rigenerazione urbana dei centri storici” e “favorire gli interventi di qualificazione edilizia” oggetto del superbonus al 110% e dell’ultimo decreto Semplificazioni. Ottime intenzioni sulla carta, dietro le quali c’è però un condono edilizio di proporzioni non immaginabili e un nuovo via libera alla cementificazione di una costa, quella romagnola, che di cemento di certo non manca.

Il governatore Stefano Bonaccini ci ha spiegato in un libro recente che La destra si può battere (Piemme): evidentemente non la batte solo nelle urne, se è vero che le maglie del suo condono sono più larghe anche dei due di Silvio Berlusconi. E sia chiaro che la definizione “condono” non è usata in modo estensivo, visto che la Corte costituzionale nel 2017 bocciò una legge quasi identica della Regione Sicilia con queste parole: “Queste disposizioni finiscono con il configurare un surrettizio condono edilizio”.

Tecnicamente parlando, funziona così. L’articolo 32 della nuova legge regionale – varata il 16 novembre dalla Giunta Bonaccini, passata di gran carriera nella commissione del Consiglio regionale, arrivata ieri in assemblea e destinata al via libera domani – prevede in sostanza la sanatoria degli abusi edilizi per i quali sia stata presentata in passato domanda di condono col meccanismo del “silenzio assenso”. Letteralmente, una cosa mai vista.

Per gli scettici, questo è il dispositivo: “L’attestazione dell’avvenuta formazione del silenzio assenso sulle istanze di sanatoria edilizia” presentate per il condono del 1985 (governo Craxi) “è rilasciata entro sei mesi dalla presentazione di apposita istanza” sempre che la pratica sia stata portata avanti in maniera corretta e, ovviamente, che non esistano vincoli inaggirabili (tipo Belle Arti).

Il problema è che se uno non ha ottenuto il via libera alla sanatoria nel 1985 e neanche con le riaperture di termini successive (tipo quella di Berlusconi), è proprio perché quell’abuso non si può sanare: questo dicono l’esperienza e le sentenze da trent’anni. Certo, gli ostacoli di cui sopra potrebbero ridurre troppo la platea del condono riformista e democratico di Bonaccini, che infatti viene incontro ai poveri abusivisti bloccati nella palude burocratica con l’articolo 33, dedicato all’area costiera, quella che va dalle valli di Comacchio fino a Cattolica e – tolte alcune centinaia di metri – nessuno ha mai scambiato per una riserva naturale.

I comuni di mare potranno, in nome della “riqualificazione dell’offerta turistica”, lasciar fare parecchio, se non tutto: aumenti di volume, accorpamenti, trasferimenti di capacità edificatorie, intasamento di aree libere, eccetera. Queste varianti, ovviamente, danno accesso al condono di cui all’articolo 32 per una bella sanatoria postuma. Per fare tutto questo, ed è un particolare delizioso, la Giunta Bonaccini si allaccia al decreto Semplificazioni, laddove si prevede di velocizzare l’abbattimento degli abusi affidandolo ai prefetti…

Forse erano rimasti al vecchio testo: “Questa norma è la fotocopia del tentativo di condono edilizio inserito a giugno 2020 nelle bozze del dl Semplificazioni”, denunciano Angelo Bonelli, Matteo Bandiali e Elena Grandi dei Verdi, che presenteranno “ricorso al governo affinché la legge regionale appena approvata sia impugnata” davanti alla Consulta.

Il condono scomparso dalle bozze del decreto estivo è un caso politico interessante: all’epoca il Pd, uscita la notizia, si oppose e scaricò le colpe sul premier, il quale sostenne che quell’articolo era una richiesta arrivata dalle Regioni per bocca del loro presidente Bonaccini. Alla fine “Conte cede ai dem”, scrisse il Corriere della Sera, ed è “costretto a ritirare” il condono. Deve essere dunque un caso se ora un condono edilizio per gli abusi realizzati prima del 1967 è spuntato nella bozza di Testo unico per l’edilizia elaborata dal ministero di Paola De Micheli (Pd e emiliana) e il dem Bonaccini ripropone in Regione, e in modo più esteso, il condono saltato nel decreto Semplificazioni in estate. E se è un caso, ovviamente, quella legge verrà subito impugnata dal governo. O no?

“Se Aspi avesse fatto i lavori il Morandi sarebbe in piedi”

La causa scatenante del crollo del Ponte Morandi che ad agosto 2018 ha provocato 43 morti è la “gravissima forma di corrosione” dei cavi che reggevano “la pila numero 9”. “Lo stato di manutenzione e di conservazione della parte del viadotto crollato ha avuto diretta e conclamata influenza sul crollo”. Ma soprattutto: “Non sono stati individuati fattori indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del ponte che possano avere concorso a determinare il crollo”. Con queste conclusioni, contenute in un rapporto di 467 pagine, i periti del giudice per le indagini preliminari Angela Nutini, mettono definitivamente nero su bianco che la tragedia di Genova dipende soprattutto da chi doveva fare i lavori e non li ha fatti. È una relazione che sostanzialmente conferma su un piano tecnico il quadro probatorio raccolto negli ultimi due anni dalla Guardia di Finanza e dalla Procura di Genova. Si tratta di una perizia durissima per Autostrade per l’Italia, concessionaria a cui era affidata l’opera e a cui spettava la manutenzione.

Non solo. I controlli carenti, l’aver ignorato le indicazioni dello stesso progettista, l’ingegner Riccardo Morandi, e dei consulenti esterni (in particolare le prescrizioni su sistemi di monitoraggio della società Cesi, nel 2016, e del professor Carmelo Gentile nel 2017), hanno avuto secondo i periti un ruolo nel cedimento strutturale. Il progetto di retrofitting (ristrutturazione che non vide mai la luce) presentato al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel 2017, si basava infatti su “dati non corretti riguardanti la salute dei trefoli” (i componenti che formano i tiranti d’acciaio).

Più controlli avrebbero con sentito di accorgersi in tempo del male che stava divorando i cavi: “L’esecuzione di indagini finalizzate ad acquisire un quadro conoscitivo più rispondente alla realtà dei fatti avrebbe consentito di evidenziare l’anomalia esistente in sommità della pila 9 – scrivono ancora gli esperti – l’esecuzione dell’intervento, con adeguato anticipo rispetto al momento del crollo, lo avrebbe evitato con elevata probabilità, ciò si evince anche dal fatto che il crollo stesso, per effetto della presenza degli impalcati tampone, non si è propagato agli altri sistemi bilanciati”.

I periti – gli ingegneri Giampaolo Rosati, Massimo Losa, Renzo Valentini e Stefano Tubaro – ripercorrono l’intera vita del Ponte Morandi. Un viadotto fragile, con alcuni difetti progettuali, in parte legati a metodi costruttivi dell’epoca, ma per lo più conosciuti, perché indicati proprio dal progettista in due rapporti già nel 1979 e nel 1981. “Sono state trascurate negli anni le indicazioni dello stesso ingegner Morandi con particolare riferimento al degrado degli acciai” degli stralli (i tiranti diagonali rivestiti in calcestruzzo). A rompersi, secondo la perizia del giudice, è stato proprio uno di essi, individuato con il nome di “reperto 132”.

Ma aldilà del punto di rottura, a spiegare la tragedia secondo gli esperti sono gli anni di incuria e di abbandono: “Le cause profonde dell’evento possono individuarsi in tutte le fasi della vita del ponte, che iniziano con la concezione e la progettazione dell’opera, e terminano con il crollo. Lungo questo periodo temporale, si collocano le cause, relative alle diverse fasi della vita dell’opera, che hanno contribuito al verificarsi del crollo. Esse sono identificabili nei momenti dei controlli e degli interventi manutentivi che, se fossero stati eseguiti correttamente, con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento. La mancanza e/o l’inadeguatezza dei controlli e delle conseguenti azioni correttive costituiscono gli anelli deboli del sistema; se essi, laddove mancanti, fossero stati eseguiti e, laddove eseguiti, lo fossero stati correttamente, avrebbero interrotto la catena causale e l’evento non si sarebbe verificato”.

L’ultimo intervento legato alla manutenzione strutturale del viadotto Polcevera risale agli anni Novanta e fu fatto quando Autostrade era una società pubblica. Gli interventi riguardano solo due pile su tre. Dopo la privatizzazione, e il passaggio al gruppo Atlantia, controllato dalla famiglia Benetton, bisogna arrivare ai tre anni che precedono il crollo per ritrovare un nuovo progetto di intervento. Un “retrofitting” che si incaglia in diverse consulenze, e in un iter ordinario di approvazione ministeriale che doveva partire nel settembre del 2018. Se quel lavoro fosse stato portato a termine, dicono oggi i periti, la struttura sarebbe ancora in piedi.

Ecco perché una parte importante dello studio viene dedicata ai sistemi di monitoraggio “carenti”. Le consulenze firmate da Cesi e Gentile consigliavano vivamente ad Aspi l’installazione di sensori intelligenti. Nessuna di queste indicazioni fu accolta. Anzi, quando Pavimental (controllata di Aspi) tranciò i sensori esistenti, nessuno li sostituì. “Il sistema di monitoraggio era di tipo “statico” – si legge ancora nella relazione – ed era solo formalmente conforme alla normativa vigente e alla migliore pratica. La bassa numerosità dei sensori e l’assenza dell’interpretazione strutturale delle letture, in funzione delle criticità da monitorare, ha reso inefficace e potenzialmente fuorviante il sistema”. Il rapporto dà atto anche di alcuni problemi progettuali, presenti nella struttura. Ma, è il ragionamento di fondo portato avanti nell’indagine, tutto avrebbe potuto essere neutralizzato da controlli e manutenzione.

La consulenza di parte di Autostrade, sottolinea invece l’esistenza di un vizio occulto, oltre al ruolo concorrente che avrebbero avuto la caduta di una bobina da un tir e la giornata di pioggia. I legali rimarcano inoltre come su quella pila, dove sarebbe avvenuta la corrosione, era stata effettuata un’opera di impermeabilizzazione nel 1993.

Whirlpool, al via i licenziamenti collettivi da aprile

Dopo tanti rinvii, decine di riunioni e altrettante manifestazioni, davanti agli occhi dei lavoratori Whirlpool di Napoli si è palesata ieri la data in cui l’incubo della disoccupazione diventerà realtà: sarà il 15 giugno 2021. La multinazionale americana li metterà tutti alla porta – circa 400 persone – giusto un minuto dopo la fine del blocco dei licenziamenti imposto dal governo con i decreti anti-Covid. Fino al 31 dicembre saranno pagati gli stipendi, poi il periodo tra gennaio e marzo sarà coperto con la cassa integrazione. Il primo aprile aprirà la procedura di licenziamento collettivo che, per legge, durerà due mesi e mezzo. Il destino, già segnato da tempo per l’intransigenza sempre mostrata dall’azienda, ora ha anche un cronoprogramma ben definito. Il tradimento dei patti che la Whirlpool stessa aveva sottoscritto al ministero dello Sviluppo economico a ottobre del 2018 – quando si impegnò a investire su tutti gli stabilimenti italiani – è stato comunicato la prima volta il 31 maggio 2019, ma prenderà forma nella prossima primavera, al termine di una trattativa molto lunga che però non ha mai mosso di un centimetro l’impresa. La riunione con i sindacati e la sottosegretaria Alessandra Todde è servita solo per dare la comunicazione sulle tempistiche della fuga dalla Campania. L’ad Luigi La Morgia ha anche rinfacciato gli 800 milioni di investimenti fatti negli ultimi otto anni, sostenendo che la cifra dei contributi pubblici ricevuti è molto più bassa. A questo punto la palla è solo in mano al governo. Quella fabbrica si andrà a unire ai tanti siti italiani che negli ultimi anni sono rimasti appesi a progetti di rilancio nella speranza di non diventare semplici reperti di archeologia industriale. “Noi chiediamo di continuare a discutere del futuro – ha detto al termine dell’incontro Barbara Tibaldi della Fiom – e non regalare cassa integrazione a chi dichiara di cessare le attività, ma esigere che l’accordo venga rispettato”.

Pescara si azzuffa (e si assembra) intorno alla “bomba” dello chef stellato Niko Romito

File persino di un’ora per accaparrarsi un dolcetto firmato. Succede da sabato a Pescara, da quando ha aperto “Bomba”, il temporary shop monotematico del quotatissimo chef abruzzese Niko Romito. Decine di persone in coda, con la mascherina e quel distanziamento non geometrico generato da occasioni simili. In vendita c’è un unico prodotto: una bomba alla crema (e una cioccolata calda), al prezzo di 3 euro. Da assaporare passeggiando, l’Abruzzo è arancione. “Questo progetto è nato per portare una ventata di ottimismo e positività in un periodo non facile” ha spiegato Romito. Già: sarà un Natale circospetto e spartano, e in molti, specie sui social, hanno apostrofato l’iniziativa e gli assembramenti che potrebbe provocare. La città si è divisa: da un lato lodi sperticate del tre stelle Michelin, dall’altro attacchi. Per alcuni è un’idea altruistica e sprovincializzante, destinata a innescare un circuito virtuoso; per altri, di geniale ci sarebbe l’operazione di marketing. E volete mettere la bontà delle bombe delle storiche pasticcerie circostanti.

Positivi al 12,6% L’Ema approva Pfizer-Biontech

Come annunciato, l’Agenzia europea del farmaco ha stretto i tempi e – con una settimana di anticipo rispetto alla tabella di marcia iniziale – ha autorizzato il vaccino antiCovid Pfizer-BionTech: “Possiamo garantire ai cittadini Ue – ha dichiarato la direttrice esecutiva di Ema, Emer Cooke – la sicurezza e l’efficacia di questo vaccino che soddisfa gli standard di qualità necessari”. Si tratta di un ok “condizionato”, una formula d’urgenza che permette di tagliare i tempi di approvazione senza rinunciare alla sicurezza (anche se per le donne incinte Cooke indica la necessità di un approccio “caso per caso”). Per il momento non risulta alcuna evidenza che il vaccino rischi di non essere efficace contro la “variante inglese”.

Il contagio in Italia, intanto, non accenna a recedere in maniera significativa. I contagi registrati ieri sono stati 10.872 a fronte di 87.889 tamponi. Numeri bassi come ogni lunedì e in leggera flessione rispetto a quelli di sette giorni fa, ma il tasso di positività aumenta dall’11,6% al 12,37% al termine di una settimana dove era spesso rimasto sotto il 10. Pressoché invariata la pressione sugli ospedali (-13 ricoverati nei reparti Covid e -12 in terapia intensiva). Ancora alto, 415, il numero delle vittime.

Continua a preoccupare il Veneto, con 2.583 nuovi casi. Le 7 province venete e le 4 del Friuli-Venezia Giulia occupano le prime 11 posizioni della percentuale di contagio ogni 100 mila abitanti registrata tra il 6 e il 19 dicembre.

“Ma il ceppo di Londra cambia poco. In 9 mesi 42 milioni di vaccinati”

Professor Franco Locatelli – presidente del Consiglio superiore di sanità – c’è molto allarme sulla “variante inglese”. È più pericolosa?

Tutti i virus vanno incontro a forme di mutazioni. Ci sono già diverse varianti di SarsCov2. Quella “inglese” è un ceppo isolato il 20 settembre progressivamente emerso come la variante di gran lunga più diffusa nel Regno Unito. I colleghi inglesi ci informano di una sua maggiore velocità di trasmissione. Per il resto, soprattutto per capacità di determinare forme più gravi di malattia Covid-19, non c’è nulla di diverso.

Potrebbe rendere inefficaci i vaccini?

Non vi sono elementi per pensare che il vaccino possa perdere efficacia. Se anche un pezzettino (in termine tecnico, peptide) di proteina Spike mutasse, tanti altri frammenti resterebbero uguali e possono generare una risposta protettiva dopo la somministrazione del vaccino.

Anche l’Ema, l’agenzia europea, dopo l’americana Fda ha approvato il vaccino Pfizer. Tempi e dosi per l’Italia?

Da Pfizer arriveranno 10mila dosi il 26 dicembre allo Spallanzani di Roma che poi saranno trasferite ai vari centri regionali per il Vaccination day del 27 dicembre. Dopo queste prime vaccinazioni dal grande valore simbolico, tra il 30 dicembre e il 4 gennaio dovremmo avere in arrivo nei circa 300 siti regionali scelti altre 3 milioni e 400 mila dosi Pfizer (prima somministrazione e richiamo da somministrare tre settimane dopo) per un milione e 700 mila persone in Italia tra operatori sanitari, personale e ospiti anziani di residenze sanitarie assistite. Ricordo che sette giorni dopo la seconda dose la copertura del vaccino è attesa essere nell’ordine del 95%, anche se solo il tempo e un’osservazione attenta ci permetteranno di capire quanto dura l’immunità: parecchi mesi di sicuro, l’incognita è su intervalli temporali più lunghi.

I successivi invii di Pfizer in Italia?

In tutto dal vaccino americano-tedesco Pfizer-Biontech ci toccano il 13,4% delle dosi destinate all’Europa: nei prossimi nove mesi è stato promesso dalla multinazionale l’arrivo in Italia in tutto di quasi 27 milioni di dosi. Da Moderna, il cui vaccino ci si aspetta essere approvato il 9 gennaio, dovremmo avere 10,8 milioni di dosi sempre nei primi nove mesi del prossimo anno e si sta lavorando, soprattutto la struttura commissariale, per avere dosi addizionali di entrambi i vaccini. Inoltre avremo a disposizione con tempistiche da definire dosi anche di altri vaccini: il tedesco Curevac e l’americano Johnson & Johnson. L’obiettivo è avere a fine estate, inizio autunno 2021, almeno 42 milioni di vaccinati in Italia, il 70% della popolazione. Citerei anche il vaccino tutto italiano sviluppato con uno sforzo congiunto di Reithera, ministero dell’Università e della ricerca, Regione Lazio e Spallanzani: è terminata la fase 1 e si sono osservati un profilo di sicurezza decisamente buono, una risposta immunitaria superiore agli infettati da SarsCov2 e una efficacia sugli anziani paragonabile a quella sui giovani.

Walter Ricciardi, consigliere del ministero della Salute, invoca il lockdown sostenendo che le “misure di Natale” siano inefficaci. D’accordo?

No. Rispetto alle misure, credo che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il governo abbiano compiuto uno sforzo notevole per ottenere un buon punto di equilibrio tra il tentativo di mantenere la curva epidemica sotto controllo senza rinunciare a un minimo di socialità e affettività per il Natale. Dubito che il Paese possa reggere un secondo lockdown generalizzato da più punti di vista. Se queste misure basteranno si vedrà, ma mi auguro e credo di sì.

Sempre Ricciardi sostiene che difficilmente si potranno riaprire le scuole il 7 gennaio. Secondo lei? C’è una soglia, un indicatore, che potrebbe farvi consigliare al governo la riapertura anche per le superiori?

Mi auguro che potranno riaprire. Se larga parte delle regioni sarà in fascia gialla ci potranno essere le condizioni, tenendo presente che la scuola è la priorità assoluta.

L’ultima volta ci ha detto che passerà il Natale con sua moglie, sua sorella e il marito.

Aggiungo che andrò a Bergamo, dove sono residente. Credo sia importante anche come atto di amore per la mia terra.

La “variante inglese”: armi spuntate per l’Italia

Con la “variante inglese” del SarsCov2, la N501Y, “stiamo facendo lo stesso errore di gennaio, quando cercavamo il virus tra i cinesi che arrivavano da Wuhan, ma il virus era già qui – spiega Mauro Giacca, ex direttore della sezione italiana del Centro internazionale di Ingegneria genetica e biotecnologia di Trieste e ordinario al King’s College di Londra –. La nuova variante è già in Italia, solo che non la cerchiamo”.

L’ultimo rapporto del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie europeo (Ecdc) lo conferma: “La variante inglese circola da un mese. Tre sequenze raccolte in Danimarca e una in Australia, a novembre, sono risultate collegate al focolaio inglese. Si è già verificata una sua diffusione internazionale”. In più, intima ai laboratori europei di “aggiornare i nucleotidi usati nei vari metodi diagnostici del SarsCov2” e raccomanda di avere una conferma usando il sequenziamento genetico. Sennò si rischia che i test diagnostici non siano più attendibili. Va poi aumentata “la capacità di caratterizzare il virus geneticamente e condividere le sequenze isolate”. L’Italia ha fatto poco o niente rispetto al sequenziamento e rischia anche per questo di ritrovarsi in difficoltà nei prossimi mesi. I problemi causati dalla scoperta britannica sono tanti: “È impossibile al momento stabilire se tale variante possa ridurre l’efficacia dei vaccini. Nessuno può saperlo”, ha dichiarato all’Ansa il virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca. Sostengono, però, il contrario in tanti nella comunità scientifica, tra cui il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli (nell’intervista in pagina). La Gran Bretagna ha individuato la mutazione N501Y perché è il Paese al mondo che ha sequenziato il maggior numero di campioni di virus dai tamponi dei pazienti positivi: 144mila sequenze, cioè il 10% dei positivi. Ha destinato 20 milioni di sterline a un consorzio di laboratori che si occupano di sequenziamento – il Covid-19 Genomics Consortium (Cog-Uk) – coordinati dall’istituto Wellcome Sanger. “Utilizziamo le informazioni provenienti dalle sequenze del genoma per far progredire la comprensione della biologia e migliorare la salute”, è il loro motto. Gianguglielmo Zehedner del laboratorio Malattie infettive del “Sacco” di Milano è d’accordo sul danno da mancato sequenziamento: “Il SarsCov2 muta molto e circola in modo non evidente all’inizio, per poi causare danni che si fronteggiano con grande difficoltà”, spiega. Sequenziare quanti più campioni possibili permette di individuare nuove varianti del virus quando ancora circolano al massimo nell’1% dei positivi, per poi seguirne l’evoluzione. La scoperta inglese suggerisce che il nemico, oggi, potrebbe essere diverso da quello che conoscevamo. Ma l’Italia ha le armi spuntate: un misero totale di 920 sequenze, contro le 140mila del Regno Unito, agli ultimi posti nella classifica mondiale con l’Arabia Saudita. A luglio era dietro anche al Congo. L’ultimo rapporto del Cog-Uk del 15 dicembre riporta tutti le mutazioni riscontrate fino a oggi Oltremanica. Sono 5 le più importanti: D614G, A222V, A222V, N439K, Y453F e N501Y, più una delezione, la 69-70del.

Alcune di queste varianti sono responsabili della mancata risposta positiva a terapie come il plasma iper-immune e agli anticorpi monoclonali. Michele Morgante, ordinario di Genetica all’Università di Udine, accademico dei Lincei, dirige l’Istituto di Genomica applicata. A marzo ha offerto il suo aiuto: “In questa situazione emergenziale vorremmo mettere a disposizione le nostre macchine di sequenziamento, la nostra capacità di analisi bio-informatica, la nostra esperienza, personale e disponibilità finanziaria per i reagenti, per eseguire un sequenziamento su larga scala di ceppi di coronavirus al fine di studiare l’origine, l’andamento e la storia mutazionale dell’epidemia e del virus”, scriveva il 9 marzo in una email inviata a ospedali come il “Sacco” di Milano, indirizzata anche al virologo Massimo Galli e Luigi Zehender, a Gianni Rezza, ora direttore generale della Prevenzione al Ministero della Salute, e a Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. Zehender ha risposto dichiarando l’autosufficienza del “Sacco”. Rezza promette che inoltrerà la mail al suo gruppo di ricerca, inclusa l’infettivologa Paola Stefanelli. “Non si è più fatto sentire nessuno”, spiega Morgante.

Interpellati dal Fatto, sia Zehender sia Rezza sostengono di non ricordare l’email. Rezza, però, precisa che quando è passato al ministero dall’Istituto superiore di sanità, a maggio, ha lavorato per attivare un finanziamento (circa 500 mila euro) destinato proprio all’Iss, affinché reclutasse laboratori per potenziare il sequenziamento. Ben diverso, però, dalla rete nazionale a cui pensava Morgante. Il 4 aprile, Morgante scrive una lettera al ministro della Salute Roberto Speranza e al ministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi: “Abbiamo urgente bisogno di rendere efficace lo sforzo attraverso un’iniziativa coordinata a livello nazionale che produca i dati sui genomi dei ceppi virali, per comprenderne diffusione, frequenze, mutabilità, patogenicità”. Segnala già che “questo sforzo sarà ancora più utile per gestire le fasi successive alla prima fase dell’emergenza”. Nessuna risposta. Il 21 maggio, sulla rivista internazionale Emerging Micorbes and infections scienziati cinesi rimarcavano l’importanza del seqenziamento diffuso: “La precisione di analisi filodinamiche dipende dalla completezza di sequenze del genoma virale acquisite in diversi stadi di infezione. I dati saranno falsati se le sequenze di virus che hanno causato infezioni in specifici Paesi sono sottorappresentati”. Lo ribadisce un famoso studio sulla diffusione del Covid in Islanda, pubblicato l’11 giugno dal prestigioso New England Journal of Medicine, dove si specifica che rispetto allo sforzo per il sequenziamento dei vari Paesi, si registra “una sottorappresentazione da parte dell’Italia”.

Italia Virus

Siccome va di moda la variante inglese, ho fatto una variante travagliese del sogno di Padellaro. Fino a qualche settimana fa l’avrei classificato fra gli incubi: ora invece mi pare bellissimo. La prima parte del sogno è quella di Antonio. Stufo marcio della seconda ondata di ItaliaVirus, Conte decide di prevenire la terza, data per certa dagli esperti a gennaio, con un antidoto più efficace di qualunque vaccino: un dibattito parlamentare. Lì il premier dice in parole semplici la verità e così smentisce automaticamente tutte le balle renziane: la cabina di regia sul Recovery Plan è stata chiesta dall’Ue e decisa in 16 riunioni ministeriali; per la sanità non ci sono 9 miliardi, ma 16, più i 10 già stanziati quest’anno e mai spesi dalle Regioni, cioè fin troppi su un bilancio annuo di 115 (se poi manca qualcosa, lo si leva alla sanità privata); indebitarsi vieppiù col Mes sanitario è inutile, anzi dannoso, perché non ci sono problemi di cassa; il rimpasto non lo vuole nessuno; i servizi segreti rispondono per legge al premier, che può delegare alcune funzioni a un ministro/sottosegretario, o tenersele tutte; il governo ha cose più importanti (vaccini, Next Generation Eu, nuovi ristori alle categorie colpite, Ilva, riforme già concordate ma rinviate per l’emergenza) dei ricattucci di un partitucolo. Poi enuncia il programma emerso dalla verifica per governare fino al 2022. E ricorda all’Innominabile i doveri e le responsabilità di ogni partito di maggioranza, con una breve lezione di educazione civica e democrazia parlamentare simile a quella impartita il 20.8.19 all’altro Matteo Cazzaro. Infine chiede la fiducia e si va alla conta.

Qui si innesta la mia variante. L’Innominabile, che indossa una polo col colletto alzato per coprire l’incipiente pappagorgia, strepita come un ossesso e annuncia che stacca la spina a Conte. Ma metà dei suoi 30 deputati e 18 senatori votano la fiducia e staccano la spina a lui, replicando l’ardua impresa della scissione dell’atomo. Alla Camera, dove Iv non è determinante, Conte ottiene la fiducia. Al Senato gli mancano una decina di voti, ma a colmare il vuoto lasciato dai renziani superstiti provvede una pattuglia di ex centristi, ex forzisti ed ex grillini in cambio di null’altro che il seggio sino a fine legislatura. Un tornaconto che in tempi normali sarebbe indigeribile, ma che in quest’emergenza molti perdoneranno come il male minore al nobile scopo di liberare il governo dal racket: come quando si paga il riscatto all’Anonima per strapparle dalle grinfie un proprio caro. Senza contare la gioia universale nel vedere quei quattro guastatori finalmente ridotti a peli superflui. Come diceva il Gianfranco Funari di Corrado Guzzanti: “È tanto liberatorio”.

Non di sola Ferrante. Gli italiani venduti nel mondo

L’anno scorso, è bastato che l’account twitter di Europa Edition (il gemello inglese delle edizioni e/o) comunicasse l’uscita del nuovo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, perché addirittura il New York Times desse eco alla notizia. Una volta comparso in libreria questo settembre, è subito entrato in classifica schizzando nella top ten del NYT. I numeri della scrittrice napoletana nel mondo (tutti i suoi libri hanno venduto più di 15 milioni di copie, di cui 2,5 solo in America) sono tali che si parla ormai di Ferrante fever. Ma a parte Ferrante – che di certo nell’ultimo decennio ha acceso le luci internazionali sulla letteratura italiana contemporanea –, quali sono i nostri scrittori che fanno fortuna all’estero?

Senza parlare dei classici – che procedono da sé – o di nomi alla stregua di Eco, Maraini, Mazzantini, De Luca o Camilleri che possedevano già un seguito internazionale, di recente proprio il mondo anglofono at large (dunque, Uk, Canada e Usa) si è interessato tanto a giovani voci: Paolo Cognetti con il suo The Eight Mountains si è aggiudicato l’English Pen; Silvia Avallone, il cui Acciaio per Publisher Weekly è “un esordio avvincente”; Nadia Terranova, che proprio quest’anno è sbarcata in Usa con Farewell Ghosts (Addio fantasmi) per Seven Stories Press con un frase stampa in copertina di Annie Ernaux. Come pure ad autori più navigati: Edoardo Albinati, uscito nel 2019 con The catholic school, o Mario Fortunato, il cui ultimo romanzo, Sud, è già stato acquisito da Other Press per essere tradotto l’anno prossimo. Per non parlare, ovviamente, dei big della narrativa di genere: Carrisi, Carofiglio, De Giovanni, De Cataldo, Carlotto. Tuttavia, queste firme si impongono oltreoceano anche in virtù dello spessore europeo: in Francia, mentre Terranova è di casa presso l’editore La Table ronde, Cognetti ha vinto il Prix Médicis; in Germania, viene tradotto ogni titolo di Fortunato, che è anche editorialista per la Süddeutsche Zeitung. Infine, Avallone è tradotta persino in Scandinavia, tanto che nel 2018 (l’anno dello scandalo) viene selezionata dai bibliotecari svedesi tra i 47 autori per l’assegnazione del “Contro Nobel”.

“I mercati più attenti alla produzione editoriale italiana sono di certo Francia e Germania, ma nel mondo piacciono soprattutto i romanzi che mostrano l’Italia intesa nelle sue specificità regionali e storiche, – ci spiega Fiammetta Biancatelli, dell’agenzia letteraria internazionale Walkabout – principalmente se messe in luce attraverso storie famigliari”. Dunque piacciamo quando siamo folk. Nell’accezione più letterale e antropologica possibile, l’Italia degli altri è folk. Forse è proprio per questo che non è nel continente a stelle e strisce, quindi sempre a Occidente, che la letteratura italiana ha trovato l’America, ma ad Oriente, in una cultura che ci affascina e che noi affasciniamo in ragione della lontananza. La Cina, infatti, negli ultimi anni è pazza di romanzi italiani. Biancatelli commenta: “È il nuovo mercato”. Divenuto il paese dove si pubblicano più libri al mondo (circa 500 mila all’anno), grazie al successo dei nostri classici, pubblicati nell’ultimo trentennio della casa editrice Yilin di Nanchino – D’Annunzio, Moravia, Deledda e Calvino i più venduti –, i lettori cinesi apprezzano più di recente Daniele Del Giudice, Vincenzo Cerami, ma anche romanzi di contemporanei come Castelli di rabbia e Mr Gwyn di Alessandro Baricco, Pugni di Pietro Grossi, Venezia è un pesce di Tiziano Scarpa, Persecuzione di Alessandro Piperno oltre a Elena Ferrante, ça va sans dire. Dal 2016 è, infatti, iniziata la saga dell’Amica geniale. Ma una delle ultimissime scoperte della Cina è la scrittrice Rosa Ventrella, tradotta già negli Usa, in Europa e in Russia. Il suo La malalegna è edito da pochissimo dalla Beijing Creative Art.

E seguendo la Via della Seta, ecco che la letteratura made in Italy approda in Thailandia, dove l’appassionato Reading Italy (nomen omen) pubblica solo italiani.

“Le opere italiane sono molto apprezzate e ricercate dal pubblico thailandese, sono una specie di garanzia – ci racconta Nuntawan Chanprasert, editrice e traduttrice – sia per la profondità delle storie sia per la vastità degli argomenti. Soprattutto, però, perché c’è una maggiore componente di satira nello sguardo sul mondo: Come viaggiare con un salmone di Umberto Eco ne è un esempio, ed è il nostro best-seller”. Chanprasert ha portato con successo nel suo paese Calvino, Tabucchi, Mazzantini e si prepara per il 2021 a pubblicare Cognetti, Carofiglio, Ferrante, Viola Ardone, Donatella di Pietrantonio. Com’è strano e bello questo legame tra noi e quello che viene chiamato “il paese del sorriso”. Tentando di spiegarlo, chissà se è solo merito dell’amica geniale della letteratura italiana nel mondo, o perché esiste da noi una parola che non si può tradurre (come “pizza” e “maccheroni”) che è “allegria”.