“Gioconda-escort” e il trionfo dei marchi di lusso al Louvre

“Louvre: 80.000 euros pour un rendez-vous privilégié avec la Joconde: Mona Lisa nue”. Questo titolo di Le Point offre la giusta chiave di lettura per la scelta del presidente-direttore del Louvre Jean Luc Martinez, che martedì scorso ha messo all’asta da Drouot e Christie’s il lotto “Joconde mania”: la possibilità, per due persone accompagnate dallo stesso Martinez, di assistere all’esame annuale del quadro di Leonardo, estratto dalla sua custodia antiproiettile. Traduzione mediatica immediata: un appuntamento esclusivo con Monna Lisa nuda. Una traduzione inequivocabilmente sessista: non per caso, visto che oggi dominio maschile e totalitarismo del mercato sono inseparabili, e il denaro assicura prima di tutto il dominio sui corpi, e sul corpo delle donne in particolare.

La Gioconda-escort è solo il più trash dei lotti proposti dal Louvre. Per 18.000 euro si può passare la notte aggirandosi per il museo al buio con una torcia elettrica. Per 11.000 euro si compra un pic-nic, preparato dallo stellatissimo Meurice, sul tetto dell’Arc du Carrousel. E per 20.000 è stato aggiudicato un tour guidato alle golosità nei quadri del Louvre, poi corso-lampo di pasticceria al Ritz, con pernottamento. Nella stessa asta, Dior, Louis Vuitton, Moët Hennessy e Vacheron Constantin offrono i loro “prodotti” di lusso variamente abbinati ad esclusivissime esperienze al Louvre. Totale della somma incassata dal museo: 2.365.000 euro. I sindacati del Louvre hanno commentato, con amara ironia, che “il museo ha avuto il suo Black Friday”, e il presidente-direttore ha ribattuto rallegrandosi che i “mecenati” “restino fedeli all’appello alla solidarietà e all’educazione per un museo aperto a tutti, e soprattutto ai giovani e alle famiglie”. Ma Jean-Michel Tobelem – professore di Museologia alla Sorbona, che ha duramente criticato l’iniziativa, ricordando che il Louvre non ha bisogno di quei soldi (ricava 200 milioni di euro solo dalla “filiale” di Abu Dabi, oltre a tutto il resto) – ha fatto notare che forse il “mecenate” è proprio il museo, visto che l’operazione mediatica sembra andare soprattutto a vantaggio dei marchi del lusso che “cercano di rafforzare la propria immagine”.

Ora, proprio questo è il punto. Da noi, i soliti provinciali entusiasti del liberismo all’amatriciana – quello che usa beni pubblici per sostenere il profitto privato – hanno inneggiato alla genialità di un’asta che finalmente prende atto che i musei devono vivere in un’economia di mercato. Sono quasi trent’anni che questo è successo: la privatizzazione è stata innescata dalla Legge Ronchey, che nel 1993 aprì le porte dei musei simultaneamente ai concessionari for profit dei musei e all’uso dei volontari al posto dei lavoratori.

Ora la frontiera è un’altra: i musei sono chiamati a dare il loro decisivo contributo al definitivo passaggio da una “economia di mercato” a una “società di mercato”: una società, cioè, dove tutto è merce. L’istruzione, la salute, la cultura, il corpo: la stessa persona umana. Questo è un passaggio puramente ideologico: che vede cioè il trionfo dell’unica ideologia rimasta viva e attiva, e anzi capace di trasfigurarsi nell’unica religione del nostro tempo, quella appunto del mercato. È una religione che prevede sacrifici umani: quelli dei precari, degli schiavi, degli sfruttati di ogni specie. Dei morti di Covid che non hanno trovato posto in terapia intensiva perché quei posti non servivano al mercato. E il lusso è il suo apparato simbolico: i marchi che hanno partecipato all’asta del Louvre producono i paramenti liturgici del grande rito della diseguaglianza. I coltelli metaforici (ma letali) di quei sacrifici umani sono tutti coltelli griffati.

Personalmente ho un’altra idea: sì, un’altra ideologia. Quella della Costituzione, in particolare della tradizione cristiana che – con altre – l’ha ispirata.

Papa Francesco ha scritto che i “beni culturali (…) non hanno un valore assoluto, ma in caso di necessità devono servire al maggior bene dell’essere umano e specialmente al servizio dei poveri”. Credo che i musei dovrebbero essere al servizio dei poveri di conoscenza attraverso la produzione e la redistribuzione della conoscenza. Ma non si possono servire due padroni: se la Gioconda è un bene di lusso che se lo prende chi offre di più, è impossibile che sia al tempo stesso uno strumento di riscatto per chi dalla religione del mercato è sacrificato, bruciato vivo. Per questo credo sia un grave errore associare l’arte dei musei ai marchi del lusso, per esempio consentendo che attraverso le Grandi Mostre essi ripuliscano la loro immagine mostrandosi al servizio del bene comune.

I miserabili delle banlieues che di tanto in tanto devastano i negozi del centro di Parigi, da oggi hanno una ragione in più per associare la Gioconda a quei marchi che a ragione sentono come nemici. Il Louvre ha scelto da che parte stare: anche se da quella parte i posti erano già tutti occupati.

Marocco. Il grande amico di Israele: grazie al Mossad

Sei decenni di rapporti segreti, militari, politici e culturali tra Israele e Marocco hanno dato frutti pubblici con l’annuncio la scorsa settimana della normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi, dopo quelle già avviate con Bahrein e Emirati arabi uniti. Tutti i “ramsad” del Mossad dagli anni ’60 hanno visitato il Marocco e si sono incontrati con regnanti e capi dell’intelligence. Al centro di questa lunga alleanza clandestina c’è sempre stato il semplice riconoscimento che cooperando tra loro, i due Paesi avrebbero tutelato al meglio i loro interessi nazionali.

Negli anni i rapporti hanno conosciuto alti e bassi; sono stati trasformati e plasmati in forme diverse, a volte contraddittorie, ma sono sempre rimasti solidi nel loro nucleo. Già negli anni ’50, Israele aveva contatti con il Marocco governato dalla Francia, ma le relazioni acquisirono davvero slancio dopo che il Paese ottenne l’indipendenza nel marzo 1956. Dopo, la piccola comunità ebraica rimasta in Marocco ha fatto da ponte tra i due Paesi, soprattutto durante i momenti di tempesta e di crisi. Il regno di Hassan II è considerato l’epoca d’oro delle relazioni segrete tra i due paesi, relazioni coltivate sia dal Mossad che dalla controparte marocchina, guidata dal generale Mohamed Oufkir e dal colonnello Ahmed Dlimi. Entrambi gli ufficiali sarebbero stati poi uccisi per ordine del re, che li accusava di complottare contro di lui. Israele fu anche accusato di aver aiutato i servizi segreti marocchini a uccidere a Ginevra Mehdi Ben Barka, l’oppositore più temuto da re Hassan. Due anni dopo, Israele vinse la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Il prestigio israeliano aumentò e questo contribuì a migliorare le relazioni con il Marocco. Il surplus bellico di Israele – tank e cannoni di produzione francese – fu venduto all’esercito marocchino. Re Hassan ospitò gli incontri segreti tra il Mossad e l’Egitto che aprirono la strada allo storico trattato di pace di Camp David. Legami informali ma sempre saldi. I rapporti di intelligence e militari dei due Paesi oggi sono migliori che mai, è un classico esempio del Mossad che funge da braccio della politica estera ombra di Israele.

 

Le dighe sul mun che annientano l’ecosistema (e l’economia)

Nel cortile del Centro di studi sull’economia autosufficiente di Rasi Salai, sono riunite un centinaio di persone, tutte con la mascherina. “Oggi vi svelerò i segreti dell’allevamento delle rane”, annuncia un docente dell’università di Si Saket. Jai, di una Ong locale, prende appunti: “Ho già provato ad allevarne da solo, ma sono morte. Vorrei migliorarmi… Il budget per le Ong in Thailandia purtroppo è stato drasticamente tagliato dal colpo di Stato del 2014. Poi è arrivato il Covid-19. La sola cosa che ci resta da fare per sopravvivere è trasformare la nostra terra e produrre il nostro cibo”. Nel 1994, un muro di cemento alto 17 metri è stato edificato nelle acque del fiume Mun, a centro della seconda “zona umida” più vasta della Thailandia.

Queste distese verdi, che vengono sommerse nella stagione delle piogge, svolgono un ruolo cruciale nella regolazione della portata dei corsi d’acqua e sono molto fertili. Ubon Yoowah è consulente volontario presso il Centro di studi di Rasi Salai: “Chi ha costruito la diga non sapeva che le zone umide sono preziose nel sistema ecologico quanto le foreste e le mangrovie e che rappresentano uno spazio vitale per le persone”. Nel 1998, la Thailandia ha firmato la Convenzione di Ramsar, un trattato internazionale per salvare le zone umide di cui sono riconosciute “le funzioni ecologiche oltre che il valore economico, culturale e scientifico”. Questo riconoscimento è arrivato però troppo tardi per salvare l’ecosistema naturale della regione. La costruzione della diga e di un bacino di irrigazione ha causato l’allagamento di 16 mila ettari di terre e la fine brutale di uno stile di vita lungo tre secoli. Raiwan Ananuea, 48 anni, ricorda che quando era adolescente una dozzina di villaggi condividevano le abbondanti risorse di quella remota regione dell’Issan, nel nord-est della Thailandia: “Tutto l’anno potevamo coltivare riso, fagioli, cetrioli, patate, venivamo a raccogliere bambù, canapa e funghi, a coltivare miele e a far pascolare il bestiame. Poi la vita è diventata più dura”.

Al volante del suo vecchio pick-up, lungo il sentiero che attraversa quella che un tempo era una palude, a cavallo tra i distretti di Surin, Roi Et e Si Saket, Nawarat Siangsanan, giovane ricercatore, ci mostra l’entità dei danni. “Qui non ci viene più nessuno. È diventato un luogo selvaggio, dove crescono solo erbacce e i predatori mettono in pericolo la riproduzione dei pesci. Con la costruzione della diga, le zone umide sono inondate tutto l’anno. I grandi alberi sono marciti e sono stati abbattuti”. All’inizio degli anni 90, il governo thailandese ha lanciato quattordici progetti idrici sul Chi e sul Mun, i due fiumi più lunghi del paese, di cui uno a Rasi Salai. Finanziate dalla Banca Mondiale, queste infrastrutture dovevano servire a produrre elettricità, migliorare le capacità di irrigazione e creare posti di lavoro attraverso il programma Green Isan. Per Udon Yoowah è stato un fallimento: “La costruzione delle dighe è costata 24 milioni di euro, cinque volte più del budget inizialmente previsto. Il risarcimento agli abitanti del villaggio per la perdita delle terre ammonta a 55 milioni di euro, metà dei quali non sono ancora stati versati. Il paese è pieno di infrastrutture giganti mal progettate”. Le stazioni di pompaggio che avrebbero consentito agli agricoltori di irrigare i campi alti durante i periodi di siccità o di drenare l’acqua delle risaie nelle basse terre durante le inondazioni non sono mai state costruite. Bloccando il flusso del fiume per otto mesi all’anno, il bacino ha contribuito ad aumentare la salinità dell’acqua, inquinando le fonti di acqua potabile e uccidendo le piante di riso. “Nelle zone umide, le risaie rischiano di essere allagate da un momento all’altro quando le chiuse vengono aperte senza preavviso – spiega il capo del villaggio di Nongsam, Udon Samrai –. Prima che la diga fosse costruita, coltivavamo due volte l’anno nelle zone umide e nei campi in collina. Ormai abbiamo un solo raccolto all’anno”. Con la perdita delle terre ancestrali e dei redditi legati al fiumi e i problemi legati alla gestione dell’acqua è iniziato un esodo rurale di massa. Da quarant’anni i giovani lasciano l’Issan rurale per andare a lavorare nei centri urbani. “I nostri figli sono condannati a vivere a Bangkok. Fino a quando dovremmo soffrire perché chi ha approvato il progetto continui a arricchirsi?”, protesta Apirat Suthawan, capo del villaggio 10. Ubon Yoowah descrive la spirale infernale della corruzione: “Pur di ottenere un posto al governo, i politici, dal ministro dell’Agricoltura ai capi di distretto, investono ingenti somme di denaro. Approvano grossi contratti per la costruzione di strade o dighe in cambio di tangenti versate dalle banche e imprese di costruzioni”. Anni fa, gli abitanti di Pak Mun, alla foce del fiume Mun, hanno occupato per mesi il cantiere di costruzione dell’ultima diga. La protesta si era diffusa nei villaggi lungo il fiume. Ne era nata l’Assemblea dei Poveri, che riuniva tutte le comunità che erano state danneggiate dalla costruzione dalle dighe, da altre operazioni minerarie o espropriazioni fondiarie. Nel 1997, i militanti avevano marciato fino a Bangkok e si erano accampati per 99 giorni davanti al Parlamento per chiedere equo compenso. “Pak Mun è stato un momento importante per far capire ai lavoratori, agli agricoltori e alle minoranze etniche che possono lottare per difendere i loro diritti e contro la politica fondiaria”, afferma Wattana Narkpradit, ex segretario dell’Assemblea dei Poveri. Lo scorso luglio, una rivolta popolare è partita dalle università di Bangkok. I giovani urbani reclamano le dimissioni del governo, la riscrittura della Costituzione, la riforma della monarchia e la ridistribuzione della ricchezza. L’Issan, dove vive un terzo della popolazione della Thailandia, è trascurato dalle autorità centrali, tranne che in periodo elettorale, e riceve meno del 5% del bilancio nazionale. I partiti liberali, sensibili alle problematiche della regione, o sono stati banditi o sono paralizzati da un sistema parlamentare dominato dalla coalizione formata da Prayuth Chan-ocha, capo della giunta militare diventato primo ministro.

“Il governo pensa vvche le popolazioni rurali del nord-est non abbiano gli stessi diritti degli altri e che non meritino di essere sostenute. In questo paese, gli agricoltori, anche se sono i più numerosi, sono in fondo alla gerarchia sociale”, spiega Ubon Yoowah. Dopo anni di rivendicazioni e proteste, il governo ha iniziato a risarcire i titolari di proprietà terriere. Secondo International Rivers, 17 mila famiglie di agricoltori hanno perso la loro terra. Il Dipartimento dell’irrigazione reale (Dir) ha anche accettato di finanziare un programma per trasformare le proprietà terriere delle colline in fattorie agricole integrate con l’aiuto di ingegneri. Il direttore del Dir di Rasi Salai dice di capire l’amarezza degli abitanti: “Stiamo aiutando gli agricoltori a passare a colture diverse dal riso, a più forte valore e più adatte all’ecosistema in evoluzione, e a piantare più alberi. Se tutti seguissero questo modello, non avremmo più problemi. Ma le dighe e le zone di irrigazione sono necessarie – aggiunge –. Ogni zona della regione ha tassi di piovosità diversi e fare affidamento esclusivamente sull’acqua piovana non è sufficiente. Dobbiamo usare le nostre risorse naturali per fornire acqua agli abitanti e tutto ciò che abbiamo è il Mekong”. Più di sessanta milioni di persone nei sei paesi del sud-est asiatico attraversati dal fiume dipendono dalle sue risorse per la loro sopravvivenza quotidiana. Malgrado l’allarme degli ambientalisti sugli effetti devastanti delle dighe sul Mekong e i suoi affluenti, il governo ha annunciato un piano per deviare il corso del fiume verso il fiume Loei nel punto in cui entra in Thailandia. L’acqua verrebbe trasferita ai fiumi Chi e Mun, i cui bacini sarebbero collegati a dei canali verso delle zone più secche.

 

Manovra Banche e Confedilizia vincono la guerra degli sfratti. Da Milano in giù: “Arriva uno tsunami”

Sfratti? Sì grazie. Nel decreto Ristori non c’è più traccia della sospensione delle esecuzioni degli sfratti e delle procedure immobiliari. Significa che dall’1 gennaio si riparta, anche con l’uso di forza pubblica. A rischiare sono famiglie, attività commerciali e alberghi in affitto. Protestano i sindacati inquilini, che parlano di “bomba sociale” e chiedono altri 6 mesi di sospensione per definire misure di rinegoziazione dei fitti. Festeggiano invece Confedilizia e banche: la storica associazione dei proprietari guidata da Giorgio Spaziani Testa da mesi chiede di ripartire, mente gli istituti di credito si devono invece attrezzare per affrontare la nuova ondata di crediti deteriorati e prestiti in sofferenza generati dalla crisi, spesso con garanzie immobiliari.

Del resto la contiguità fra “mattone” e credito è nella storia d’Italia e nei nomi: l’ex Presidente di Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani, è stato eletto in estate Vice Presidente di Abi e guida l’associazione dlele banche popolari, oltre ad essere il numero uno della Banca di Piacenza. Festeggiano ma farebbero bene a tenere gli occhi aperti. “Non abbiamo ricevuto alcuna indicazione o circolare” fa sapere al Fatto il gabinetto del Prefetto di Milano, Renato Saccone, dove spiegano di essere più impegnati sul fronte sicurezza sul lavoro, riapertura delle scuole e mobilità che non sulla concessione di polizia e carabinieri per liberare appartamenti e mettere persone per strada. Di norma funziona così: in Prefettura c’è un tavolo permanente sulla pianificazione degli sfratti con tutti gli attori coinvolti: sindacati, Prefettura, Questura, Comune di Milano. Serve a stabilire le date e gestire situazioni di fragilità (assistenti sociali, medici, strutture di accoglienza temporanea). Ma proprio dal Comune di Milano arriva un grido d’allarme. “Potremmo chiedere al Prefetto di diluire l’esecuzione degli sfratti e al Parlamento di chiedere una proroga al Governo”, dice l’assessore alla Casa e Politiche sociali della giunta Sala, Gabriele Rabaiotti, in una dura intervista a Fanpage in cui si scaglia contro “speculatori e leggi idiote” parlando di uno “tsunami in arrivo”. Uno tsunami che le grandi città (ma anche la provincia) conoscono bene: 50-60mila sfratti l’anno, senza Covid o crisi economica; 26mila quelli eseguiti dalle forze dell’ordine; 100mila le richieste dei proprietari. A cui sommare le 220mila unità che finiscono all’asta mediamente ogni anno. Secondo Nomisma, a luglio, la crisi Covid aveva già generato 16 miliardi di nuovi crediti deteriorati.

Si muovono anche i giudici. Il Tribunale meneghino ha ripreso da settembre a macinare udienze per la convalida degli sfratti: 180 a settimana a prescindere dagli esiti. “Sugli hotel piegati dalla crisi ho notato che già stanno dando ragione ai proprietari e torto ai gestori”, racconta un immobiliarista di Milano. Ma la situazione è fluida: gli ufficiali giudiziari di alcune città (Firenze ad esempio) pare che vogliano rifiutarsi di eseguire sfratti senza garanzie sanitarie. I tribunali si muovono in maniera diversa gli uni dagli altri, ma la Cassazione ha fatto girare una relazione tematica di 28 pagine su come affrontare la questione affitti (commerciali in particolare) e Covid. Il concetto chiave è: “Sarebbe l’equità ad obbligare i contraenti a riscrivere il contratto, rinegoziandolo”.

 

Molto “verde”, poca crescita. Cosa manca al Recovery plan

Le risorse del Recovery Fund dovrebbero essere dirette verso investimenti che abbiano la maggiore potenzialità di stimolare la crescita della produttività e del Pil, da cui dipende anche la sostenibilità del debito pubblico. Molti degli investimenti prospettati nel Piano italiano (Pnrr) non sembrano però rispondere a questo obiettivo.

Il settore che dovrebbe assorbire più risorse è quello della “green economy”, cui andrebbero ben 74 miliardi. È un tema oggi molto sentito, ma le risorse destinate appaiono eccessive e le modalità di spesa criticabili. L’Italia ha già fatto molto per ridurre le emissioni di CO2; a livello planetario l’effetto delle nostre misure sarà comunque minuscolo e costosissimo rispetto a molte altre alternative. Ridurre le emissioni di CO2 e migliorare la qualità dell’aria è ottima cosa ma di per sé non contribuirà all’incremento né della produttività né del PIL. Può avere anzi effetti depressivi sulla crescita perché incentivi e vincoli, alterando le scelte di mercato, aumentano i costi, i primis quelli dell’energia e dei trasporti. Ricordiamo che gli incentivi al fotovoltaico hanno comportato un forte aumento del costo dell’energia per famiglie e imprese. Se l’obiettivo fosse ridurre le emissioni di CO2 la misura più efficace (e senza costi per la finanza pubblica) sarebbe estendere l’applicazione della carbon tax: gli operatori sono stimolati a investire laddove è possibile ridurre le emissioni al minor costo. Gli incentivi di mercato sono però impersonali e danno poca visibilità a chi li proponga. Ecco allora che tra le spese già deliberate figurano molti bonus, come quello del 60% per l’acquisto di bici e monopattini, gli incentivi per le auto elettriche o a basso consumo, la deduzione del 110% per la riqualificazione degli edifici etc. Chi le propone si presenta come un campione della green economy e non si fa nemici come avverrebbe se proponesse invece di ridurre le agevolazioni fiscali sui combustibili di cui godono alcuni settori.

Tutte queste misure vanno nella direzione desiderata, ma con quali criteri vengono scelte? Sarebbe opportuno esplicitare gli obiettivi e che per ogni misura venga resa pubblica una stima dei risultati attesi e dei costi. Anche per evitare la falsa impressione che la “green economy” sia una nuova frontiera che offra guadagni per tutti: ci guadagna chi compra la bici o l’auto elettrica con l’incentivo o chi ristruttura l’edificio col 110% del costo a carico dello Stato. I costi sono della collettività ma nessuno li percepisce direttamente.

C’è poi il rischio che le misure proposte siano regressive, cioè implichino un trasferimento di reddito dai “poveri” ai “ricchi”. Chi ha acquistato, ad esempio, un’auto Tesla da 60 mila euro con migliaia di euro di incentivi statali è certo un benestante, ed ha in qualche modo beneficiato anche delle tasse pagate da chi ha redditi bassi: una redistribuzione perversa che non pare giustificata dal minuscolo miglioramento climatico ottenuto con l’auto elettrica. Esistono c modi più equi e assai meno costosi per raggiungere lo stesso risultato. La misura che dovrebbe assorbire più fondi, ben 40 miliardi, è quella che promuove l’efficienza energetica e la riqualificazione degli edifici. Si tratta di interventi che non verrebbero fatti senza l’incentivo presumibilmente perché non si ripagherebbero con i risparmi di energia. Quindi per la collettività c’è una perdita, che dubito si giustifichi col beneficio di una riduzione delle emissioni di CO2. Da questa misura trarranno benefici, chi più chi meno, solo alcuni proprietari di immobili, certamente non appartenenti alle classi più povere: è anche questa una misura regressiva. Questa misura è molto efficace se l’obiettivo è quello di sostenere la domanda in tempi brevi. Però, terminata la spesa, non si vede come il miglioramento ottenuto negli edifici possa contribuire ad alzare l la potenzialità di crescita dell’economia. Considerazioni analoghe si possono fare a proposito di un altro grande capitolo di spesa: quello delle nuove linee ferroviarie ad alta velocità, principalmente al Sud. Queste faranno risparmiare un po’ di tempo ad una ristretta cerchia di utenti ma contribuiranno poco ad accrescere la produttività e il Pil. In questo caso poi, lo spreco per linee destinate a essere largamente sottoutilizzate sarà molto maggiore, e il beneficio ambientale risibile rispetto ai costi.

Bisognerebbe evitare che i fondi europei siano usati per finanziare vecchi progetti dettati da convenienza politiche. Meglio indirizzare le risorse per incentivare investimenti e innovazione. Vi sono poi le riforme (giustizia, P.A., scuola etc.). Il dibattito dovrebbe spostarsi sugli obiettivi piuttosto che su chi dovrà governare le spese.

Oggi i “green bond” ripuliscono i colossi. Ma non l’ambiente

Cinque anni fa, il 12 dicembre 2015, quasi 200 Paesi si sono impegnati a raggiungere gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi. Uno dei tre target principali dell’intesa impegna i Paesi firmatari a smettere di finanziare le attività economiche che danneggiano l’ambiente e che emettono gas che causano il riscaldamento globale. La finanza verde ha un ruolo chiave nel passaggio all’economia sostenibile e i green bond, le obbligazioni “verdi” attente all’ambiente e al clima, sono gli strumenti più importanti per questa transizione. Non a caso l’emissione globale di green bond è esplosa negli ultimi anni e nel 2019 ha superato i 250 miliardi di dollari, pari al 3,5% circa del valore di tutte le emissioni obbligazionarie (7.150 miliardi) dell’anno scorso.

Ma uno studio pubblicato a settembre dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bis) smonta questo mito: per chi li emette, i green bond sono quasi sempre solo uno strumento di greenwashing, il rifacimento di un’inesistente “verginità” ambientale a scopo di comunicazione.

Torsten Ehlers, Benoit Mojon, Frank Packer e Luiz A. Pereira da Silva, economisti e analisti della Banca dei regolamenti internazionali, hanno preso in esame le obbligazioni verdi emesse da un campione di 16mila aziende quotate la cui capitalizzazione complessiva di Borsa equivale a oltre il 99% di quella di tutte le società quotate. L’indagine ha verificato se i proventi di questi strumenti siano andati davvero a finanziare progetti con vantaggi ambientali, inclusa la mitigazione del cambiamento climatico. Ma i risultati sull’effettiva efficacia in termini di sostenibilità ambientale delle obbligazioni verdi sono impietosi: “Finora i progetti dei green bond non si sono necessariamente tradotti a livello di singole imprese in emissioni di carbonio relativamente basse o di un calo delle emissioni”, scrivono i quattro economisti. Dall’analisi emerge che di regola l’emissione di questi strumenti finanziari non viene effettuata da aziende a minore intensità di carbonio (il rapporto tra le emissioni di carbonio e i ricavi dell’azienda) e non porta, almeno nel breve periodo, a una sua reale riduzione da parte della società emittente. Gli autori del rapporto propongono l’introduzione di un sistema di valutazione delle obbligazioni verdi sotto forma di rating di sostenibilità che consenta di verificare l’effettiva efficacia ambientale, incentivare le società emittenti a perseguirla e comunicarla adeguatamente ai sottoscrittori dei titoli, in modo da aumentare l’interesse per i titoli più efficaci.

I green bond sono solo una delle forme delle obbligazioni sostenibili, che comprendono anche i titoli che mirano a effetti sociali e di governance aziendale in base ai principi Esg. Nel 2020, dopo un avvio difficile dovuto alle tensioni sui mercati finanziari, la pandemia ha dato notevole impulso a questa classe di strumenti finanziari. Tra luglio e settembre le emissioni di obbligazioni verdi hanno raggiunto in totale i 69,4 miliardi di dollari, record per il terzo trimestre di un anno. In totale sono stati immessi sul mercato 314 green bond da 191 emittenti di 39 Paesi, di cui 71 titoli negli Stati Uniti per un controvalore totale superiore a 30 miliardi di dollari, 48 in Germania per 21 miliardi, 40 in Svezia e 30 in Giappone. Nell’ultimo trimestre 73 nuovi emittenti di 29 Paesi hanno debuttato con questi titoli. Ben 52 di queste nuove obbligazioni valevano almeno 500 milioni di dollari l’una. L’Italia è quindicesima nella classifica internazionale, con emissioni per 3 miliardi nel terzo trimestre, ma risale al decimo posto per valore complessivo delle sue obbligazioni totali in circolazione, pari a una ventina di miliardi.

Secondo Easybond, il database di Skipper Informatica, in Borsa Italiana e negli altri mercati finanziari disponibili agli investitori nazionali sono trattati 156 green bond italiani ed esteri, per un controvalore complessivo di 189 miliardi. La maggior parte fanno capo a singoli Stati, organismi sovranazionali o istituzioni internazionali, ma 84 titoli del valore di 54 miliardi sono stati emessi da aziende. La pattuglia delle società italiane conta 38 obbligazioni verdi per un controvalore totale di 18,7 miliardi. Il maggior emittente corporate nazionale è il gruppo Enel, con sette titoli che valgono complessivamente 6 miliardi. Ma tranne due green bond emessi da Alerion e Cassa Centrale Raiffeisen Alto Adige, che hanno tagli da mille euro adatti ai piccoli risparmiatori, tutte le altre obbligazioni verdi italiane sono destinate a investitori istituzionali con tagli dai 50 ai 100mila euro. Forse è anche per questo che gli investitori italiani non conoscono ancora i prodotti finanziari sostenibili: l’Osservatorio Consob sugli investimenti delle famiglie mostra che due terzi degli intervistati dichiara di non conoscere gli investimenti responsabili. Solo il 5% degli investitori detiene prodotti di investimento sostenibili: il dato sale appena al 18% tra gli investitori informati.

Le banche ignorano i crediti fiscali già monetizzabili

Diciassette miliardi. Tanto vale, secondo Scenari immobiliari, il mercato delle ristrutturazioni edilizie private del primo semestre 2020. Per il solo primo trimestre, invece, l’Ance (l’associazione dei costruttori) ha stimato operazioni per 6,4 miliardi. Le stime sono indicative della platea dentro cui si annida una schiera di beneficiari del decreto Rilancio che sta passando sottotraccia oscurata dal Superbonus 110% istituito dallo stesso decreto. Chi ha ristrutturato casa, sostituito caldaie o finestre o anche solo banalmente ha imbiancato la facciata nella prima metà dell’anno, può andare in banca e, invece di aspettare le canoniche 10 rate annuali, monetizzare fin da subito il credito fiscale maturato anche prima che il Covid mordesse i bilanci familiari. In pratica, a seconda dei lavori fatti e delle spese sostenute, per queste persone si è aperta la possibilità di portare a casa in anticipo di dieci anni fino a 48mila euro per il recupero del patrimonio edilizio, altrettanto per l’efficientamento energetico e addirittura il 90% (senza tetto) di quanto speso per sistemare le facciate. Non pochi denari, specialmente per chi con il Covid ha visto scendere le entrate e salire le uscite.

Niente a che vedere con il Superbonus che non porta liquidità, ma ristrutturazioni energetiche che, almeno sulla carta, sono a costo zero. Anche se entrambe portano al sistema bancario considerevoli margini a rischio zero. Ma, nonostante gli indubbi vantaggi, la possibilità di monetizzare i crediti fiscali pre Superbonus sta viaggiando su binari quasi morti. Nel senso che il sistema bancario se ne cura poco e male, probabilmente distratto dal ghiotto piatto del 110% che per gli istituti ha il vantaggio di avere un ritorno più ravvicinato negli anni (cinque contro dieci) nonché di includere un più ampio sistema di portatori di interessi: dalle società di consulenza fiscale a quelle di real estate, passando per le assicurazioni e le imprese che fanno i lavori.

Qualcosa senza dubbio si muove, visto che a metà ottobre, nei primi 12 giorni di operatività del sistema dell’Agenzia delle Entrate sono arrivate 2.176 comunicazioni di cessione per un controvalore complessivo di oltre 13 milioni: 1.766 istanze hanno interessato l’ecobonus, mentre 410 sono state indirizzate per altre tipologie di interventi edilizi. Di queste solo una piccolissima parte riguarda il 110%, che è partito sulla carta a luglio ma nei fatti ha preso il via proprio nei giorni in cui veniva aperta la piattaforma fiscale. Il resto è appunto costituito da chi i lavori ha deciso di farli nonostante il Covid e chi invece li aveva già fatti ed è stato ben felici di recuperare del denaro pur retrocedendo al compratore una percentuale compresa tra il 20 e l’11%. Poste che è stata la prima a implementare una piattaforma di compravendita dei crediti, nel primo mese e mezzo di operatività ha preso in carico oltre 2.500 pratiche che riguardano prevalentemente i bonus edilizi “tradizionali”. Il Banco Bpm ha invece in lavorazione 1.300 richieste, il 60% relative al Superbonus e il resto per gli altri bonus.

Tante persone e tanti soldi, ma comunque pochi rispetto alla platea di potenziali interessati che, grazie alla norma, si possono anche mettere al riparo dal rischio che i crediti stessi perdano valore nel caso in cui si rimanesse senza redditi e, quindi, senza imposte con cui scontarli nel 730. L’uovo di Colombo, insomma, che per il suo meccanismo di travaso di liquidità dal sistema bancario centrale alle banche e poi alle famiglie, sarebbe stato paragonabile a un helicopter money, se fosse stato applicato anche ai crediti da ristrutturazione maturati prima di quest’anno. Di loro le banche avrebbero in pancia molta liquidità, ma sono preoccupate dal fatto che “nei prossimi mesi la quantità di prestiti deteriorati possa aumentare in misura molto consistente facendo scattare automaticamente svalutazioni”, come precisa Andrea Resti, docente di Credit risk management all’Università Bocconi di Milano. Un problema che invece con i crediti fiscali, appunto, non si pone.

Luci e ombre del Superbonus. Un affare da quasi 30 miliardi

Il Superbonus 110% è a malapena partito e già si battaglia per prorogarlo. Le pressioni sulla legge di Bilancio sono alle stelle, come ben sa il ministro del Tesoro Roberto Gualtieri che, a valle di un teso braccio di ferro, ha chiuso l’accordo con i 5Stelle per un allungamento, per ora, di un anno (a tutto il 2022) dell’agevolazione più travagliata della storia repubblicana. A dispetto delle parole, non sono poche le ombre sulla misura che vuole sostenere l’edilizia e l’ambiente, dando slancio alla riqualificazione energetica delle case degli italiani, rilanciando economia e occupazione.

Il primo ostacolo è la complessità assoluta della normativa che è stata istituita a maggio con il decreto Rilancio ed è oggetto di innumerevoli chiarimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate che a sua volta è letteralmente sommersa da interpelli su infiniti casi specifici. In estrema sintesi, la norma prevede uno sgravio fiscale del 110%, spalmato su 5 anni contro i tradizionali 10 per chi, tra luglio 2020 e dicembre 2021, esegue su immobili civili dei lavori di riqualificazione energetica che, attraverso una determinata combinazione di interventi classificati come trainanti e trainati, consentano all’immobile di scalare almeno due classi energetiche. Fin qui tutto chiaro: fino al 31 dicembre 2021 si può rendere più efficienti riscaldamento e fornitura di energia domestica, recuperando dallo Stato quanto speso. Anzi, il 110% di quanto speso, detraendolo dalle tasse. A queste condizioni, però, come notava l’Ufficio Parlamentare di Bilancio fin da maggio, si azzerano i naturali conflitti di interesse tra chi fa i lavori (che vuole alzare i costi) e il committente (che li vuole comprimere). Da qui la necessità di schierare una corazzata di misure anti-elusive per arginare il rischio di abusi e dichiarazioni di crediti fiscali fittizi. Il decreto prevede infatti la possibilità di cedere direttamente a banche e imprese il credito fiscale che verrebbe maturato con i lavori. L’intento è rendere il beneficio accessibile a una platea più ampia possibile e si stima che questa opzione valga 6 miliardi.

Tra i maggiori sostenitori della proroga ci sono aziende e professionisti, per i quali le criticità operative non porteranno il provvedimento a regime prima della prossima primavera. “Le imprese di costruzione che con la crisi hanno perso in dieci anni oltre 600mila addetti non saranno in grado di soddisfare entro il 2021 il grande numero di richieste che certamente ci saranno”, ha detto Giuseppe Capocchin, presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti, che ha chiesto di rendere strutturale il bonus.

Il principale ostacolo sono i costi. Secondo la Relazione tecnica del decreto Rilancio, da qui al 2033 l’incentivo dovrebbe generare un onere complessivo per le casse dello Stato di 11,8 miliardi, “al netto degli effetti indotti positivi di gettito pari a circa 460 milioni”. Ogni sei mesi di proroga costano all’erario 7,5 miliardi. Senza contare che, ricorda l’Upb, la possibilità di cedere i crediti fiscali a banche e imprese di fatto trasforma un debito dello Stato da potenziale a certo. Un contribuente fisico può perdere il reddito e non avere abbastanza tasse da cui scalare i crediti, ma con aziende e istituti di credito in mezzo, cambia tutto. Quanto alle coperture, le bozze del Recovery Plan circolate nei giorni scorsi parlavano di 20 miliardi dei fondi Ue destinati al Superbonus, 15 per il finanziamento del 2020 e del 2021 e 5 per il 2022 (i fondi andranno integrati). I 5Stelle puntano poi a un’altra proroga al 2023 ma serviranno più risorse.

La coperta, insomma, resta corta. Tuttavia sul fronte dei benefici attesi l’Ance ritiene che l’incentivo potrebbe avere un effetto positivo sull’economia creando 100mila posti di lavoro: “È una leva che può generare un giro di affari di 42 miliardi e più entrate per lo Stato per circa 7,5 miliardi, oltre a un risparmio netto per le famiglie di 600 euro l’anno solo per consumi energetici”.

Serve però che la misura parta, ma prima resta una lunga serie di nodi da risolvere. A partire da quello delle responsabilità, che si lega alla complessità delle norme. Come si fa, per dire, a essere sicuri di non sbagliare e chi paga in caso di errori? In teoria c’è l’assicurazione dei professionisti che dirigono o asseverano i lavori e quelli che certificano i crediti. Il decreto fa esplicito riferimento a una polizza obbligatoria sulle responsabilità civili del professionista, già in uso. Nel caso del Superbonus, però, sono state previste delle caratteristiche particolari che trovano poco riscontro con la realtà. “Secondo l’Agenzia delle Entrate l’asseverazione che facciamo nell’ambito del Superbonus è la stessa del visto di conformità che emettiamo per i crediti di imposta in sede di dichiarazione dei redditi dei nostri clienti per i quali diventiamo responsabili – sottolinea p il consigliere dell’Ordine dei Commercialisti Maurizio Postal -. Ma una decina di giorni fa alcune direzioni regionali hanno chiesto un’integrazione della polizza e siamo in attesa di chiarimenti”. Situazione più complessa per gli architetti e i loro assicuratori: “Siamo obbligati a garantire il 100% dell’importo di tutte le asseverazioni, quando è di tutta evidenza che ci sarà al massimo una percentuale di rischio, ma certamente non deve essere garantito il 100% di tutte le opere – ha sottolineato Capocchin – È eccessivamente penalizzante, ma soprattutto non ci è ancora chiaro perché la norma dice che dobbiamo fare un’altra polizza da almeno 500mila euro in grado di coprire tutti gli interventi che andiamo a fare. Siamo già obbligati ad avere una polizza di responsabilità per la nostra attività…”.

Sullo sfondo c’è poi il tema dell’indipendenza del professionista all’interno dell’intera procedura. Le banche a cui viene chiesto un finanziamento rimandano i clienti a società che curano tutta la procedura. “Siamo contrari a questi general contractor che si vanno affermando e stanno creando un trust a livello nazionale”, aggiunge Capocchin che si oppone ad un ruolo del professionista “in un pacchetto chiavi in mano”. Il sistema bancario tramite partner del settore immobiliare, insieme alle grandi società di revisione studiano i casi uno per uno automatizzando il più possibile le operazioni. Ovviamente a un costo che erode le percentuali del credito fiscale (vedi pezzo a lato). E questo al netto dello sconto sul credito che le banche chiedono per acquistarlo dai clienti.

Il risultato è che il moltiplicarsi di incombenze, certificazioni e costose asseverazioni rende davvero convenienti solo lavori di una certa dimensione, condomini inclusi, che permettano di ammortizzare i costi delle consulenze. Queste ultime raddoppiano nel caso in cui si facciano i lavori con un finanziamento bancario garantito dal credito fiscale che verrà prodotto dopo che il cantiere sarà finito. E così le banche chiedono manleve e garanzie nel caso in cui qualcosa vada storto.

Quindi se qualcuno pensava di rifarsi casa a spese dello Stato con un prestito bancario e senza metterci un euro, si sbagliava di grosso. La misura è molto più conveniente se i lavori vengono spesati direttamente dal padrone di casa che recupera il denaro speso portandolo in detrazione sulle tasse in cinque anni. Altrimenti si può ricorrere ai prestiti di chi si ripagherà comprando i nostri crediti fiscali, ma tra l’erogazione del prestito e la nascita del credito fiscale ci sono di mezzo i lavori e quindi occorrono molte garanzie e sconti da concedere sul credito. Oppure si è in un condominio e l’operazione può essere davvero conveniente e a costo molto vicino allo zero, però il covid ha rallentato moltissimo le delibere assembleari. Non a caso fino ad oggi la maggior delle pratiche che sono partite riguardano edifici unifamiliari, cioè le villette. Resta il fatto che chi aveva già in programma per esempio di cambiare la caldaia può beneficiare a traino del rinnovo gratis di porte e finestre. Ma per avere una detrazione fiscale bisogna spendere dei soldi e avere un reddito da cui detrarli.

Ipocrisie. Quelli che a Natale diventano buoni. Fatica inutile perché le feste passano in fretta

ANatale si sa, siamo tutti più buoni. Uno può essere odioso, violento, delinquente tutto l’anno e a Natale di colpo diventare buono, ma perché? Fino al 23 dicembre si possono commettere i peggiori delitti, le peggiori nefandezze e il 24, come per incanto, si diventa altre persone: sorridenti, virtuose, sante, pie. Se sei uno str…, ops pardon, bieco tutto l’anno, come fai di colpo a diventare la persona migliore del mondo? Certo la ricorrenza della nascita di Gesù, che era notoriamente buonissimo, può influenzare le coscienze trasformandoci in creature morali, virtuose ecc. ecc. Ma perché dall’oggi al domani?

Per diventare un altro, per cambiare la propria natura, ci vuole tempo. Uno può cominciare a essere buonino il 24 dicembre, il 27 fare qualche piccola buona azione, che so un’elemosina di pochi spicci, e verso il 6, 7 gennaio, non dico diventare come i re magi che portavano oro, incenso e mirra (ma poi che è sta mirra?), ma certo non trasformarsi in un santo. Prendiamo il Canto di Natale di Charles Dikens: il cattivissimo Scrooge diventa buono grazie all’apparizione di tre spaventosi fantasmi, spiriti specializzati nel cambiare il carattere delle persone malvagie e trasformare la perfidia in bontà d’animo. Ma oggi come oggi dove li trovi tre fantasmi cosi bravi? Quindi se uno è cattivo resta cattivo sempre, inutile creare dei finti buoni che, tanto poi, passato il Natale, tornano a essere gli stessi str…, ops pardon, improbi del resto dell’anno. Ma se uno è… stronzo è stronzo sempre! Anche perché i buoni, quelli che aiutano i meno fortunati, ci sono già nel mondo, non tanti, ma ci sono.

Esempio: per aiutare quelli che affogano nel mediterraneo cercando una vita migliore, ci sono i buoni veri! Non quegli stronzi che per salvarsi le coscienze si fingono tali per qualche giorno.

 

Vicini, così lontani. Il virus della distanza sociale: una regola (sacrosanta) contro la natura umana

Anche chi non conosce Alberto Olivetti, l’autore di un libro apparentemente piccolo che s’intitola misteriosamente Intimità delle lontananze, sente subito, come un potente fruscio, una forza poetica: riflessioni, immagini, ricordi del non accaduto (la malattia e la sua paura) e narrazioni di istanti così forti da catturare l’attenzione e diventare Storia (il Papa da solo zoppicante, in cammino dentro Roma vuota) da rapido appunto diventano breve poema, d’avventura e meditazione.

Ogni pagina racconta molto più di ciò che sembra. Intorno a (quasi) ogni frase, si allarga uno spazio, per suggerire a noi lettori il senso della strana esperienza di cui ci è toccato essere protagonisti. In altre parole: mentre leggi cambiano le dimensioni del libro, che sembrano sempre piccole, ma esprimono molto più di quanto appaia. Dice della nostalgia, che non è mai stata così intensa e diffusa, come un alluvione fuori controllo. Indica una serie di eventi accaduti prima e adesso, oppure vicende in attesa (non si sa quanto razionale) che stanno per accadere.

Dà alla speranza uno strano senso, perché, ad essere sinceri, non sappiamo esattamente in cosa dovremmo sperare, e dove sono gli altri con cui, bene o male (con generosità o egoismo) eravamo abituati a condividere tutto. Ci sono immagini nel libro, sopratutto di arte, perché così guardavamo il mondo. Devono esserci perché nel nostro misto di nostalgia, ricordo e speranza (o meglio: attesa) la forma dei corpi e degli oggetti contano molto e dicono tutto. Ci servono per riconoscere come forma di certificazione che stiamo muovendoci insieme lungo questa strada di meditazione.

“Frecce dalla traiettoria inaspettata” è il capitolo in cui un vastissimo passato si congiunge col frammento di tempo che stiamo con angoscia vivendo; e serve all’autore come una pedagogia dell’aggressione perfetta, della freccia inaspettata. Impari che non puoi imparare e giocare d’astuzia. Ma puoi sapere e non morire cieco. “Una tempesta è una tempesta, Mr Jukes” è il momento perfetto in cui Alberto Olivetti chiama in scena Joseph Conrad, il grande autore del rischio inevitabile ed estremo, dove ci sono forza, fermezza, coraggio ma non consolazione. Intende dire che l’immaginazione non serve. E che la tempesta, come la pandemia non è una prova di coraggio. E la tua tenace opposizione non cambia te e non cambia la pandemia. Ma la storia diventa bellissima quando ti ricordi del titolo: Intimità delle lontananze.

È lo splendido e affettuoso nonsense della condizione in cui viviamo, e che questo libro ci racconta. Dice: gli altri non si vedono ma in qualche altrove ci sono. Hanno bisogno di noi e noi di loro. Benchè negata o impedita, l’intimità fra esseri umani resta il nostro modo di vivere. Alberto Olivetti ci dice, con pagine molto insolite e molto belle, di non dimenticarlo.

 

Intimità delle lontananze. Alberto Olivetti – Pagine: 81 – Prezzo: 8 – Editore: Bordeaux