Il guaio Npl. Ecco perché non andrà tutto bene

Magari andrà tutto bene, e la ripresa post Covid sarà straordinaria. Eppure le premesse sono pessime. Un grande equivoco avvolge il dibattito pubblico sugli effetti della crisi che viviamo e che vivremo. La grande stampa celebra con toni messianici il rapporto del “Gruppo dei 30”, un think tank di banchieri ed economisti a cui partecipa Mario Draghi. L’ex presidente Bce ha, come si sul dire, lanciato l’allarme: “Le autorità devono agire urgentemente, perché in molti settori e Paesi siamo sull’orlo del precipizio in termini di solvibilità, specie per le piccole e medie imprese” appena finiranno gli aiuti pubblici. Il rapporto, curato da banchieri e investitori, non dice sostanzialmente nulla ma propone ai governi di farsi dire da banchieri e investitori come salvare le imprese perché loro “hanno una expertise decisamente maggiore nel valutare la redditività delle aziende, e subiscono minori pressioni politiche”. Sarà, eppure basta vedere cosa succede sui crediti deteriorati delle banche (i cosiddetti “Npl”) per capire che qualcosa non torna.

Le associazioni bancarie di mezza europa, tra cui l’italiana Abi, hanno chiesto alla Bce di allentare la stretta in arrivo. Come noto, le autorità europee temono un’esplosione di Npl, la stima è di 1400 miliardi, peggio della crisi del 2008. Da gennaio scatteranno le nuove norme: l’obbligo di classificare in default i prestiti in caso di mancato pagamento dopo soli 90 giorni e il cosiddetto “calendar prvosioning” che impone di coprire interamente i prestiti in crisi a passo di carica, due anni per quelli senza garanzia, otto per quelli con. Norme che penalizzano l’attività bancaria. Mercoledì, invitato dall’Abi, il capo della vigilanza bancaria Ue Andrea Enria ha detto che non se ne parla, perché altrimenti le banche nasconderanno la polvere sotto il tappetto e non presteranno più. Meglio quindi tirarla fuori e consegnare i debitori a fondi speculativi che non hanno interesse a tenerli in vita o alle bad bank nazionali, che però devono comprare a prezzi di saldo altrimenti sono aiuti di Stato. Come questo possa aiutare l’economia ed evitare una stretta creditizia resta un mistero. In questo caso, i consigli dei banchieri non vanno bene.

Sanremo, 26 big in gara, più che un festival un sequestro di share

 

Promossi

Cosa succede in città. A Vasco Rossi è stato consegnato il Nettuno d’oro, la versione bolognese del più noto Ambrogino aureo milanese: “Bologna ha nutrito la mia anima fin da quando ci venni a studiare, a 16 anni, all’istituto per ragionieri, una scuola che stranamente ha tirato fuori la mia parte artistica”. Il comandante ha ricordato che proprio sotto Palazzo d’Accursio fece il suo primo concerto nel maggio del ‘79: “C’era più gente sul palco che sotto”. Diciamo che dopo non è più successo, né a Bologna né altrove…

Bocciati

Calenda-rio. Il nuovo calendario 2021 del Codacons (neanche voi sapevate che il Codacons facesse un calendario, vero?) mostra dodici scatti di ragazze vestite di una sola mascherina tricolore. L’almanacco ha pure un nome artistico: si chiama “Italienza”, neologismo che nasce dalla crasi di Italia e resilienza (sic) ed è firmato dalla fotografa romana Tiziana Luxardo. L’associazione dei consumatori ha anche lanciato un concorso per votare la foto più artistica tra quelle modelle nude. La faccenda non è per niente piaciuta agli utenti dei social che hanno sommerso di critiche la pagina Facebook del Codacons. A lanciare il primo tweet polemico è stato l’onnipresente Carlo Calenda: “Il calendario del Codacons con tanto di votazione delle modelle. L’iniziativa è coerente con i loro obiettivi statutari e l’idea di donna è l’unica che il solitario neurone di Rienzi (presidente dell’associazione) riesce a concepire”. Il Codacons ci mette d’accordo con Calenda, roba da matti.

Hasta Micromega siempre. L’editoriale Gedi, gruppo Espresso, Repubblica Stampa, chiude Micromega. La decisione della società di proprietà della famiglia Agnelli è stata comunicata con una nota di 3 righe. Dopo quasi 35 anni di pubblicazioni rischia di spegnersi una delle voci storiche del dibattito politico e culturale italiano, che ci ha regalato opinioni autorevoli e indipendenti come quelle di Stefano Rodotà, Andrea Camilleri, Dario Fo, Franca Rame, Franco Cordero e tantissimi altri. “Posso assicurare – ha detto il direttore Paolo Flores d’Arcais sul sito della rivista– che Micromega continuerà a vivere e che con i redattori, e i collaboratori, stanno già studiando le modalità per non interrompere la continuità della testata”. Noi ce lo auguriamo con tutto il cuore. Certo, visto che la rivista costava pochissimo, la decisione non è stata presa per motivi economici.

Non classificati

Ama l’alba. “Questa è un’annata particolare e difficile, ma Sanremo deve guardare al futuro e stiamo lavorando perché la prossima sia l’edizione della rinascita”, ha detto Amadeus alla presentazione della nuova edizione di Sanremo Giovani, giovedì scorso su Rai 1 dal Teatro del Casinò di Sanremo. Sarà, nelle intenzioni, “un festival della normalità, all’Ariston e con il pubblico”, ha detto il direttore di Rai1 Stefano Coletta. “Dopo le feste comincerà il countdown e saremo più stringenti su quelle che saranno le norme da rispettare, stiamo lavorando perché ci sia il pubblico all’Ariston secondo le regole che saranno in vigore a marzo. Non vogliamo che sia un festival del Covid ma della normalità e della rinascita”. Concetto ribadito anche da Amadeus: “Sanremo è il più grande evento musicale italiano: è impensabile farlo in una città transennata senza il pubblico e senza i fan”. Vabbè che bisogna vendere la pubblicità (l’anno scorso 37 milioni), ma ora come ora tutto ciò è inimmaginabile. Ma la vera notizia è che sono stati presentati i cantanti in gara: 26 big, otto nuove proposte: da Fedez a Orietta Berti, passando per Maneskin, Arisa e Malika. L’anno scorso i big erano 24 e le serate finivano dopo le due di notte. A un certo punto la corsa a battere lo share dell’edizione precedente deve finire: oltre si va nel penale, scatta il sequestro di persona.

 

Prima il nord, l’algebra del leghista: “Un milanese vale più di un romano”

 

Promossi

L’uno e l’altro. Luca Zaia: “Ho visto uno spettacolo immondo: nonostante la crisi, il collasso della sanità, non si sono fermati i serpentoni ad Asiago, l’assalto alle città. È un mondo vomitevole, è una cultura strisciante e non imperante, secondo la quale questo è il virus dei vecchi e che se la vedano loro”. Beppe Sala: “Quando sento il commissario Arcuri parlare di assembramenti irresponsabili non ci sto, non possiamo dare degli irresponsabili alla gente. Bisogna dire alla gente quello che può fare, quindi sta a noi, che il Governo prenda una decisione e io non farò altro che supportare le decisioni prese e cercare che tutto funzioni. Non diamo colpa alla gente, prendiamoci noi le nostre responsabilità”. Queste due affermazioni, venute entrambe dalla coscienza di un amministratore locale, sono scaturite a seguito degli assembramenti visti nel primo weekend di shopping natalizio e sono state messe in contrapposizione l’una all’altra. In realtà i due aspetti evidenziati sono entrambi fondamentali per assemblare il puzzle comportamentale che si sta componendo sotto i nostri occhi. È irrealistico pensare, come ha sottolineato il sindaco di Milano, che le persone possano autoimporsi delle regole più rigide di quelle che le autorità stabiliscono per loro: c’è poco dunque da mostrarsi costernati se alla chiamata dei consumi e del cashback la gente risponde con lo “struscio” da commissioni natalizie. È altrettanto vero che molti cittadini trasgrediscono al buonsenso, senza violare regole, con assoluta nonchalance. E non si prendono la briga di domandarsi, almeno per un istante, se il fatto che un assembramento all’aperto sia legale ne faccia improvvisamente un toccasana per la salute. A questa apparente superficialità si riferisce l’affermazione del presidente del Veneto: se le persone si sentono legittimate a non porsi troppe domande è perché subdolamente, in molti discorsi pubblici e politici, è passata l’idea che alcune vite abbiano minore importanza e la loro preservazione abbia un valore di scambio piuttosto modesto. In altre parole, barattare il diritto alla salute dei vecchi con la libertà di tutti è una compravendita a perdere: dunque ribellarsi implicitamente a questa iniquità commerciale è lecito. A chi governa spetta non solo il compito di fissare delle regole chiare che non inducano all’errore, ma conviene anche tener conto dei messaggi che si sono insinuati in molte coscienze mediante parte del discorso pubblico, per ovviare con l’indirizzo politico alla potenziale deriva etica.

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Bocciati

Rating vaccinale. Se i messaggi subliminali almeno hanno il buon gusto di essere tali, ad esprimere a voce alta il pensiero secondo cui certe vite hanno più valore di altre, ci ha pensato Angelo Ciocca, eurodeputato della Lega: “Non è pensabile che la Lombardia, che ha il doppio degli abitanti del Lazio, possa ricevere meno vaccini, questo è clientelismo territoriale. Poi bisogna valutare l’importanza economica del territorio: la Lombardia, è un dato di fatto, è il motore di tutto il Paese. Quindi se si ammala un lombardo vale di più che se si ammala una persona di un’altra parte d’Italia”. Parafrasando Oscar Wilde, a volte è meglio tacere e sembrare… che aprir bocca e togliere ogni dubbio.

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Simulazioni Serie A, il paradiso dei tuffatori. Lo strano caso di Gasp e Federico Chiesa

Se gli astronauti dell’Apollo 13 pronunciarono la famosa frase: “Houston, abbiamo un problema”, nel pianeta calcio l’attesa di tutti (diciamo meglio: di molti) è quella di sentir chiamare base terra con le parole “Via Allegri, abbiamo un problema”. Dove Via Allegri sta per la sede della Figc a Roma, chi lancia il messaggio sono, o dovrebbero essere, gli arbitri di Serie A e il problema da risolvere è ancora e sempre quello: i simulatori. O tuffatori. I giocatori cioè che fingono di essere stati sgambettati, o trattenuti, o spintonati in area, stramazzano a terra e inducono gli arbitri a fischiare un calcio di rigore. Che non c’è e che potrebbe essere cancellato, oggi, dall’intervento del Var: ma spesso non succede perché il desiderio di “vedere” il rigore cova e serpeggia innanzitutto nell’animo dell’uomo col fischietto. Siamo il Paese che ha partorito lo scandalo di Calciopoli: pensare di esserne fuori, a 15 anni di distanza, è da ingenui.

Leggete queste parole. A pronunciarle è Gian Piero Gasperini, allenatore dell’Atalanta. “Quello di oggi è una cosa inconcepibile, nell’era moderna; forse è un rigorino dei tempi andati, con meno telecamere, con meno Var e con meno possibilità di valutare, quando te ne tornavi a casa con le pive nel sacco. E invece per fortuna i tempi sono cambiati e quindi è molto più difficile accettare una situazione. Questa è chiaramente una simulazione dove Chiesa, che è un ottimo giocatore, ha l’abitudine di fare questi gesti e deve cominciare a pagarli anziché essere premiato. Altrimenti diventa qualcosa di diseducativo e ne siamo dispiaciuti tutti. Però quello è un episodio talmente netto e talmente lampante che chi vede e chi conosce un po’ di calcio non avrebbe sbagliato a valutarlo”.

Direte: sono le parole che Gasperini ha pronunciato mercoledì sera dopo Juventus-Atalanta 1-1, partita finita in pareggio a dispetto del grottesco calcio di rigore decretato dall’arbitro Doveri per una indecorosa simulazione di Federico Chiesa (tiro che CR7 si è fatto poi parare da Gollini). Beh, no. La dichiarazione risale al 28 febbraio 2019, al termine di Fiorentina-Atalanta 2-0, e già questo la dice lunga su molti aspetti; a cominciare dal fatto che Chiesa non solo non è mai stato punito (in Premier League, dal 2017-2018, chi simula viene squalificato per 2 giornate e le ammonizioni o le espulsioni inflitte all’avversario vengono cancellate), ma continua indisturbato a esibire i suoi comportamenti sleali che né arbitro né Var sembrano voler impedire; per finire al fatto che, giocando ora Chiesa nella Juventus, persino il recidivo (in danneggiamenti) Gasperini preferisce rimanere zitto a fine match. Prendersela con la Fiorentina è un conto, attaccare la Juve un altro. Non c’è naturalmente solo Federico Chiesa a ciurlare nel manico con i suoi tuffi carpiati degni del miglior Klaus Di Biasi. Il discorso è generale e sarebbe ora che il calcio italiano mostrasse un po’ di fermezza e sanzionasse duramente i simulatori.

Invece succede a ogni morte di papa (Iliev del Messina nel 2005, 3 giornate; Adriano dell’Inter nel 2007, 2 giornate; Krasic della Juventus nel 2010, 2 giornate; e 2 giornate vennero inflitte anche a Zalayeta del Napoli, poi revocate perchè la prova-tv dimostrò la trattenuta patita da Legrottaglie della Juventus) e intanto il calcio italiano perde ogni giorno quel poco che resta della sua credibilità. Ormai quasi azzerata.

 

San Siro, Sapessi come è bello essere innamorati di uno sconosciuto a Milano

Aquel punto il professor Maurizio Ambrosini, autorevole studioso delle migrazioni, chiese di vedere la carta di identità. In quel primo mattino il professore stava svolgendo il ruolo di presidente di una commissione di laurea all’Università degli Studi di Milano. Davanti a lui si era presentata una laureanda, occhiali e lunghi capelli castani, emozionata ma impaziente di discutere la propria tesi sull’antiriciclaggio. Il clima era decisamente accogliente. Ma il presidente si ricordò – com’è giusto – di una regola aurea: il riconoscimento preventivo del candidato o della candidata. Procedura che in quel frangente venne resa tuttavia un po’ complicata dallo svolgimento della cerimonia “a distanza”. La semplice e veloce esibizione della carta di identità non poté così assicurare circa i dati anagrafici della laureanda. “La faccia vedere bene”, invitò il presidente, “la avvicini il più possibile al video, ecco, così. Benissimo, ora si leggono chiaramente nome e cognome”.

Il riconoscimento ufficiale, riflettei in quel momento, in effetti è necessario. È vero che il relatore conosce senz’altro la persona. Ma se partecipasse alla discussione senza riuscire a collegarsi via video? Meglio perciò che tutte le garanzie di veridicità siano rispettate. Altrimenti? Altrimenti potrebbe esserci, specie a distanza, una sostituzione di persona. Proprio come, in assenza di controlli, uno studente potrebbe sostenere un esame scritto al posto di un altro. Tutti con le teste chine, tutti disciplinati e silenziosi: perché disturbare la quiete operosa di chi è impegnato nella prova? A volte non basta neanche dare un’occhiata da lontano alle foto. Due studenti potrebbero risultare molto somiglianti, specie se provenienti da certi Paesi, difficili da identificare senza verificare nome e cognome. Anzi, diciamola tutta: al posto dello studente di cui risulterà il nome sulla prova ufficiale potrebbe esserci addirittura un estraneo, ingaggiato per l’occasione. Non girano forse continuamente notizie di questo tipo, non per forza leggende metropolitane?

Insomma, ragionando e alambiccando su queste bizzarre situazioni, sono arrivato alla conclusione che ci mancherebbe pure che una università rilasciasse un titolo a persone di cui non conosce l’identità. E come potrebbe? Così, per una di quelle azzardate associazioni mentali che ogni tanto si impossessano di noi, mi è venuto di riandare per l’ennesima volta alla vicenda oggi più di tutte simbolica per l’immagine della mia città, Milano.

Proprio così: ho pensato alla storia di San Siro, a questo surreale dibattito sulla possibilità o meno che il Comune compia scelte fondamentali per l’urbanistica cittadina e per la stessa storia sportiva della città (San Siro: ma ci si rende conto?) trattando con uno sconosciuto, con un soggetto che si rifiuta di comunicare la sua effettiva identità. Ho pensato a che cosa succederebbe a uno studente che si rifiutasse di mostrare la sua carta di identità, dovendo solo superare un esame, altro che cambiare faccia a una metropoli. A che risposta gli verrebbe riservata se annunciasse che la sua identità la comunicherà solo “dopo” che il voto è stato ufficializzato. Qualunque professore gli chiederebbe se è matto, con chi pensa di avere a che fare. E se poi qualcuno intervenisse in rappresentanza dell’ateneo ammonendo che se si chiedono i documenti in modo così puntiglioso gli studenti stranieri non arriverebbero più, di nuovo il professore gli si rivolterebbe contro chiedendogli per conto di chi egli stia parlando o lavorando.

Andavo rimuginando questi pensieri e mi domandavo come sia possibile che una scena tanto surreale, quasi da gag da cinepanettone, sia diventato il dibattito pubblico attuale e vero della città di Milano. Dio mio, come siamo caduti in basso. Pensate allo studente e meditate gente, meditate.

 

“Caro Luca Zaia, altro che modello Veneto. Qui gli ospedali sono focolai del coronavirus”

 

“Anni di tagli alla salute. E papà è stato contagiato in reparto”

Gentile Selvaggia, grazie del suo articolo pubblicato sul Fatto quotidiano. Qualcuno doveva prima o poi denunciare ciò che accade in Veneto, ma non da ora! Le racconto ciò che è accaduto a noi, così capirà il perché ci siamo tanto sentite confortate nel leggere la sua voce fuori dal coro. Zaia è un politico da riconferma plebiscitaria, ma non è negli ultimi mesi che ha distrutto la sanità veneta, sono anni che si va avanti a tagli. Però poi il Veneto è ricco, il Veneto è sano, il Veneto produce e allora i tagli non fanno notizia.

Vivo a Lugo di Vicenza, paese che ricade nella competenza dell’ulss7-ospedale di Santorso. Il 31 ottobre mio padre, 81enne col fisico di un 60enne, inciampa in giardino e cade rovinosamente, rompendosi due vertebre cervicali. Per fortuna nessuna lesione midollare, è già un miracolo. Viene ricoverato all’ospedale di Santorso, dopo 24 ore di pronto soccorso. Lo ricoverano in oculistica, perché non c’è un reparto di neurochirurgia a Santorso (è stato smantellato anni fa). Aspettiamo, dunque, un posto libero nell’unico reparto di neurochirurgia della provincia di Vicenza, all’ospedale San Bortolo, per eseguire un delicatissimo intervento. Ma iniziano ad aumentare i casi Covid, e le sale operatorie vengono convertite alle terapie intensiva; gli interventi dunque slittano. Papà, pur essendo grave, dovrà attendere 10 giorni parcheggiato in un reparto di ortopedia, allettato a guardare il soffitto prima di essere trasferito a Vicenza, il 9 novembre. Il 12 viene operato: medici bravissimi e competenti, non possiamo che ringraziarli. L’intervento riesce e papà tornerà presto da noi. Io, nel frattempo, il 15 novembre partorisco il mio primo figlio. Sono ricoverata a Santorso, nello stesso ospedale dove era stato papà; vengo dimessa dopo 48 ore e torno a casa. È il 17 novembre, appena rientrata a casa con il mio piccolo, ci chiamano dall’ospedale di Vicenza: c’è stato un caso di Coronavirus in reparto, mio padre è stato contagiato. Da allora non riusciamo a vederlo: ha trascorso qualche giorno isolato in neurochirurgia, poi nel reparto Covid dell’ospedale di Vicenza e dopo qualche giorno in medicina Covid a Santorso. Asintomatico, poi paucisintomatico, poi tosse, bronchite. Alla fine arriva la polmonite, l’ossigeno. Il 9 dicembre, ecco la telefonata: a papà sono state somministrate tutte le terapie ma i polmoni sono bianchi, non c’è nulla da fare. Invece il 9 dicembre si libera un posto in terapia intensiva (il giorno prima non c’era): è l’ultima chance. Viene sedato ed intubato.

Non lo vediamo da più di un mese, siamo distrutte (siamo tre sorelle – con famiglia – e mamma), abbiamo vissuto giorni di speranza per poi precipitare nel dolore e nella disperazione. Papà è ancora lì, in terapia intensiva e lotta tra la vita e la morte: i medici, tutti splendidi missionari, dicono che non ci sono speranze.

Questa è la storia reale della sanità veneta: pochi bravi medici, poco personale, 300 e più operatori infettati a Vicenza, pazienti in ospedale per curarsi e poi muoiono per qualche virus che hanno contratto lì. Il caso di mio padre non è isolato: il suo compagno di stanza in neurochirurgia è già stato sepolto. Anche lui contagiato dal Covid dopo un ricovero a Vicenza. La storia già in sè è drammatica: a ciò aggiungiamo l’amore per nostro padre e la straordinaria persona che è. Metà dei medici dell’ospedale dove ora è ricoverato lo hanno avuto come prof o come preside. Ha speso 25 anni della sua vita ad impegnarsi per il bene comune, ha dato tanto e aiutato tantissime persone. Come per beffa, sta soffrendo e rischia di morire per scelte contrarie all’interesse collettivo, lui che l’ha sempre perseguito come obiettivo della sua vita. Questa è la nostra storia della sanità veneta: mio figlio non ha ancora conosciuto il nonno e forse non lo incontrerà mai. Ci resta il dolore per papà, la paura terribile di questo virus, l’orrore per chi pensa alle piste da sci. Abbiamo scritto anche al nostro Presidente Zaia (nostro, anche se non lo abbiamo votato), vogliamo che risponda alla nostra domanda: perché?

Ho sentito di scriverle per ringraziarla di aver finalmente rotto questo tabù sul sistema Veneto perfetto. Non c’è niente di perfetto, solo tanta sofferenza.

Grazie, Anna

 

Cara Anna, spero che il governatore Zaia legga questa lettera e abbia voglia di spiegare perché la macchina perfetta del Veneto, quel Veneto che è stato una macchina implacabile e perfetta contro il Coronavirus nella prima ondata, ora è sceso a compromessi col Covid e, fondamentalmente, con la vita di tanti cittadini. Ricordo una delle prime interviste che feci ad Andrea Crisanti: mi raccontò di come avessero difeso con le unghie e coi denti l’ospedale di Padova, dove fecero fare il tampone a tutti. Un ospedale con 1.600 letti, 9000 dipendenti e 15mila persone che lavoravano lì e avevano una vita fuori. O di come “imprigionarono” tutti dentro l’ospedale di Schiavonia. Malati, dottori e visitatori, nessuno uscì senza aver fatto il tampone. Crisanti scherzò sul fatto che fu una specie di sequestro di persona, ma aggiunse anche che senza fare così, la diffusione sarebbe stata inarrestabile e incontrollata. Oggi in Veneto non c’è più Crisanti, esiste un evidente compromesso con l’economia e anche chiedere ai cittadini di non ammassarsi nelle vie dello shopping a Natale deve sembrare (alla politica) un sequestro di persona. Gli esperti più prudenti sono le Cassandre che vedono il bicchiere sempre mezzo vuoto. Gli altri, quelli che vedono (o fingono di vedere) il bicchiere sempre pieno, talvolta sembrano pure berselo. In Veneto, poi, il vino piace parecchio.

Selvaggia lucarelli

Calcio e religione. Nei Paesi cattolici d’Europa s’imbroglia di più per avere un calcio di rigore

Come canta Francesco De Gregori, sarà pur vero che un giocatore non si giudica da un calcio di rigore, ma è altrettanto vero che da un penalty si possono comprendere tante altre cose. Come il grado di religiosità di una società, soprattutto se di fede cattolica.

Lo spiegano in uno studio universitario due accademici spagnoli, Ignacio Lago e Carlos Lago-Peñas, che mettono in relazione le statistiche sui calci di rigore assegnati in oltre ventimila partite, 20mila e 730 per l’esattezza, in trenta campionati nazionali d’Europa in un arco di tempo che va dal 2017 al 2020. La notizia è apparsa sull’iberico La Vanguardia e in Italia l’ha ripresa Il Napolista, quotidiano online politico-calcistico. Lo studio è stato pubblicato su una rivista internazionale di scienze politiche in lingua inglese e il titolo dà una torsione ben precisa ai risultati della ricerca. Cioè: “The cultural origins of cheating in soccer”, “Le origini culturali del baro nel calcio”.

Nonostante il Var, infatti, la propensione a barare per ottenere il fatidico tiro dagli undici metri è ancora alta. Ovviamente i due professori tengono presente sia la sudditanza psicologica degli arbitri verso le squadre più potenti, sia la qualità della squadra. Premesso questo viene fuori che “più è collettivista la cultura di un Paese, più è probabile che i giocatori si lancino intenzionalmente in area per ottenere un rigore”. Collettivista, in questo caso, nel senso dell’umore nonché della fede di una comunità. “Più persone in un Paese pensano che la religione sia importante nella loro vita quotidiana, più frequenti sono le sanzioni nel campionato di calcio corrispondente”. Ergo tra i Paesi in cui si fischiano più rigori ci sono Polonia, Italia, Spagna e Portogallo. Paesi dalle profonde radici cattoliche. La Polonia guida la classifica degli Stati “rigoristi” con un penalty assegnato ogni 230 minuti, cioè ogni due partite e mezza. Non solo. Questa vocazione a cercare machiavellicamente il rigore si sposa pure con la tendenza sociale all’evasione fiscale.

Viceversa, laddove “la religiosità è bassa e regna l’individualismo, l’onestà intrinseca del cittadino è più forte e le persone si assumono più responsabilità delle loro azioni”. In parole povere, in Norvegia o Danimarca si fischia la metà dei rigori del campionato polacco. Ogni 389 minuti, per esempio, in Norvegia, cioè ogni quattro partite. Viene in mente, come un riflesso pavloviano, il celebre studio di Max Weber sull’etica protestante (in particolare calvinista) alla base dell’accumulazione capitalista.

Ma torniamo nell’area cattolica, spesso latina o mediterranea, dove gli autori segnalano in conclusione che questa inclinazione collettiva alla frode fa venire meno il senso di responsabilità personale: “L’inganno dei calciatori in area di rigore è un comportamento disonesto” ma i giocatori “non si sentono responsabili delle loro azioni e attribuiscono la responsabilità del loro imbroglio agli arbitri e agli allenatori”. Insomma un individualismo deleterio, non virtuoso, che s’abbina a un sentimento collettivo (così fan tutti). A quando allora uno studio tra calcio di rigore e peccato originale, passando per la confessione?

 

Apologia della lotta partigiana, quando gli italiani erano eroi

“L’amico Renzo Balbo di Cossano Belbo, medico, cavalcatore, cacciatore terrestre e subacqueo, intenditore di vini”. Il cammeo è d’autore. Lo scolpì Mario Soldati nel suo Vino al vino, dove rammenta che il “cavalcatore” e “intenditore di vini” gli aveva regalato dodici bottiglie del valdostano Blanc de Morgex, dicendogli di berle “con religione” perché “era già una persona saggia nonostante l’età allora giovanissima”. Da allora molto tempo è passato, molto Morgex è stato vinificato ed è stato bevuto. Eppure Renzo Balbo, lettore colto, poeta e traduttore, fotografo e assistente del regista Lewis Milestone, amico di Soldati, di Giorgio Bassani e di Giulio Einaudi, marito di una figlia del raffinato poeta Tino Richelmy, ha mantenuto la sua “età giovanissima”, sebbene abbia compiuto novant’anni da pochi giorni. Tanto che ha persino esordito nella letteratura, a questa bella età, con un romanzo sulla Resistenza nelle Langhe. Un libro che, a dispetto degli anni del suo autore, si impone per prima cosa come un vero romanzo di formazione, soprattutto nel senso della presa di coscienza di alcuni valori – come l’amicizia, la sete di libertà, la cultura – da parte di un ragazzo, che, in quei valori, diverrà uomo.

Si tratta di un romanzo e di una memoria autobiografica di una adolescenza eccezionale, con Renzo staffetta partigiana nelle sue Langhe, che richiamano i libri di Beppe Fenoglio, non soltanto perché alcuni dei protagonisti sono gli stessi delle storie del grande narratore albese.

Come il “Nord” di Il partigiano Johnny, al secolo Piero Balbo, peraltro cugino di Renzo, leggendario comandante con il nome di battaglia di “Poli” della IIª Divisione Langhe del gruppo dei partigiani autonomi, ovvero gli “azzurri” monarchici o “badogliani”, del maggiore Enrico Martini “Mauri”. È la medesima sorprendente (e felice) scrittura di Balbo a richiamare Fenoglio, con lo stile secco e frantumato, una punteggiatura e un ritmo da montaggio cinematografico, un lessico scabro ma fortemente evocativo: “Si sedette e strappò un pezzo di pane dalla pagnotta. Masticava affamato. A testa alta. Una testa combattente. Immobile. Fissa su un collo potente”

A “testa alta” Balbo ha scritto a novant’anni La pelle del coniglio (pagine 160, euro 16), come spiega, “per difendere l’idea della guerra partigiana dalla stupidità della gente, che non capisce che fu una guerra di ribellione tragica e valorosa. Fu il generale inglese Bernard Montgomery a dire che in Italia, dopo l’8 settembre del 1943, c’erano tre armate di liberazione: la quinta e l’ottava degli alleati, e quindi l’armata dei partigiani, che lui definì ‘la più bella’. E detto da un inglese, scusate, non è davvero poco!”.

Nato a Torino da una famiglia originaria di Cossano Belbo, Balbo entrò nella Resistenza assieme ad altri esponenti della famiglia: dal padre al fratello Adriano, dallo zio Giovanni Balbo detto “Pinin”, caduto nel febbraio del ’45 in un’imboscata nazifascista a Valdivilla (è l’episodio con cui Fenoglio chiuse una delle versioni di Il partigiano Johnny), al cugino Piero Balbo. Ed è quest’ultimo, ribattezzato “Tesi”, a essere il protagonista di La pelle del coniglio, dove partigiani, inglesi in missione (come il maggiore Temple), nazisti e fascisti, doppiogiochisti e traditori, contadine e contadini, si muovono nello scenario delle colline delle Langhe come in un canto epico; quell’epica, d’altronde, che è il cuore pulsante dei libri di Beppe Fenoglio. Come scrive RenzoBalbo: “La sua vita era azzannata da quei silenzi. Tra Bormida e Belbo. Ecco. Ancora circa un centinaio di uomini. A giocarsi la pelle fino all’ultimo. Sparsi qua e là. In quella fine d’anno. Tra Bormida e Belbo. Ma senza troppo illusioni di farcela. Udì Ricciotti salutare gli uomini nel corridoio. Qualcuno si alzò da terra di scatto. Una lacerazione metallica graffiò il muro. Il bren era caduto a terra”.

Renzo Balbo non si limitò a fare la staffetta durante quei venti mesi di guerra partigiana, ma prese parte anche ad alcune azioni. “Cominciai”, racconta ora, “con un fucile da caccia e cinque colpi”. E visse quei mesi come li vivono i personaggi (veri) del suo libro; visse i fatti (tutti veri) di sangue, le attese, la paura, l’eliminazione delle spie, gli scontri armati, i silenzi delle colline, e li rievocò già nei primi scritti di gioventù.

Nel 1958, per esempio, nella nota e prestigiosa rivista letteraria Botteghe Oscure fondata dalla principessa Marguerite Caetani (con Giorgio Bassani redattore capo) apparve tra le altre una sua poesia in memoria dello zio, “Pinin” Balbo, morto in un mattino di febbraio del 1945, “quando gli alberi cominciano a rinverdire”.

Adesso, settantacinque anni dopo, Renzo Balbo ha trasformato quell’idea, “che avevo in testa da tanto tempo”, in un libro giovanissimo. Per ribadire ciò che rivelò Giorgio Bocca: che la Resistenza “è stata la stagione migliore della nostra vita”.

La sai l’ultima?

 

Australia Preziosa ricerca scientifica: “Chi lavora in pigiama ha problemi mentali”

Da Sydney arriva una preziosa ricerca scientifica. Sostiene, in soldoni, che lavorare in pigiama quando si è in smart working peggiora la salute mentale. È il risultato dei sofisticati studi del Woolcock Institute of Medical Research, istituto australiano specializzato nella prevenzione e nella cura dei disturbi del sonno e della respirazione. “A sottoporsi all’indagine 163 tra scienziati e ricercatori – scrive Il Tempo –. È emerso che chi ha tele-lavorato in pigiama ha manifestato peggiori condizioni di salute mentale, rispetto a chi si vestiva come per uscire o per stare con i figli”. È il lato oscuro del tanto magnificato smart working, ne saranno felici i datori di lavoro che cercano argomenti per mantenere i propri dipendenti a portata d’occhio. Chi sta scrivendo questo articolo, casualmente, è in regime di smart working e indossa gli stessi vestiti dalla sera prima, ma è perfettamente a proprio agio con le sue molteplici personalità.

 

Milano Il grillino si fa la doccia durante la seduta del consiglio comunale: “Avevo appuntamenti urgenti”

Sempre più lungo l’elenco dei politici che si mettono in ridicolo su Zoom. Tra gente in mutande, che dorme, che amoreggia, che mostra il sedere, ora c’è anche quello che si fa la doccia durante la seduta del consiglio comunale. Il genio in questione è Gianluca Corrado, consigliere milanese del Movimento Cinque Stelle. Tutto avviene durante una videoconferenza della commissione Mobilità e Ambiente: Corrado piazza la webcam strategicamente in bagno, con una raffinata inquadratura alla Wes Anderson sulla caldaia, poi si presenta a torso nudo (per fortuna si vede solo quello) e inizia le abluzioni del caso mentre gli altri parlano, imperturbabili, come se nulla fosse. Corrado, di professione avvocato, pensava di aver disattivato la telecamera. Non ha battuto ciglio per le critiche: “Ero appena tornato dal tribunale, mi sono collegato per ascoltare, ma dovevo cambiarmi con urgenza perché da lì a poco avevo altri appuntamenti”. Fedele alla linea: la politica non è una professione.

 

Carpi Ubriaco al volante denunciato dalla polizia: ha consegnato la tessera della Coop invece della patente
Ci sono alcuni dettagli che potrebbero insospettire la polizia se sei ubriaco alla guida: per esempio consegnare la tessera del supermercato quando ti chiedono la patente. È successo a un giovane virtuoso di Carpi domenica scorsa. “Intorno alle 16.30 del pomeriggio – scrive Modena Today – nell’ambito di un servizio al largo raggio eseguito dai militari della Compagnia carabinieri di Carpi lungo le principali arterie della città, è stato fermato e controllato il conducente di un’auto. Alla richiesta di favorire i documenti, il trentenne ha consegnato la tessera raccolta punti della Coop. Una svista che ha fatto insospettire i militari che lo stavano identificando”. Strano. “Il successivo accertamento eseguito attraverso l’etilometro ha difatti stabilito un tasso alcolemico ben superiore al consentito”. Patente ritirata, sequestro dell’auto e denuncia per guida in stato di ebrezza: magari l’aveva presa davvero con i punti della Coop.

 

Russia La ragazza attratta sessualmente dagli oggetti si sposa con una valigetta conosciuta dal ferramenta
Per le storie che commuovono il web, oggi vi raccontiamo quella della 24enne attratta sessualmente dagli oggetti, che ha sposato la sua valigetta. Detta così sembra una minchiata senza senso: lo è. La racconta il Mirror e in Italia la riprende con zelo il sito Today. “Rain Gordon, una ragazza russa di 24 anni, ha conosciuto il suo futuro marito in un negozio di ferramenta cinque anni fa”. Si fa dello spirito: “Sì perchè in effetti Rain il ‘marito’ se l’è comprato dal ferramenta ed il suo lui ha le sembianze di una bella e solida valigetta metallica che serviva alla ragazza per un servizio fotografico”. Si tratta in realtà di un orientamento da prendere molto sul serio. “La giovane sta condividendo sui social la sua storia per diffondere la conoscenza di ciò che si definisce ‘oggettofilia’ e soprattutto per rimuovere lo stigma che viene attribuito a questa forma di attrazione sessuale”. E in effetti bisogna essere un po’ retrogradi per non appoggiare la scelta di vita di una donna che sposa una valigia di metallo.

 

Russia Vive per 53 anni con una moneta infilata nel naso: un vecchio copeco coniato ai tempi dell’Unione Sovietica
Questa storia ricorda la puntata dei Simpson in cui si scopre la natura della sconcertante stupidità di Homer: ha vissuto per anni con un pennarello infilato nel cranio. Il protagonista di questa notizia invece ha avuto una monetina incastrata nel naso per 53 anni. Lo racconta il sito inglese di Metro: l’Homer della numismatica è un 59enne russo. Quando era bambino si mise un soldino tra le narici, che si incastrò e rimase lì, perché il bimbo non ebbe il coraggio di dirlo alla mamma. Poi se ne dimenticò. Il segreto è sopravvissuto per oltre mezzo secolo, senza causare problemi di salute fino a poco tempo fa, quando si è manifestato qualche disagio nella respirazione. La moneta nel naso è stata svelata da una radiografia e rimossa con un intervento chirurgico in endoscopia. Era un copeco sovietico (un centesimo di rublo), assai consumato da cinque decenni dentro a un corpo umano, ma in fondo sopravvissuto a tutto, anche alla caduta dell’Urss. Al riparo dalle intemperie della storia, dentro a un naso.

 

Frosinone Uomo sotto sonniferi si addormenta sulle scale. Immediata diagnosi degli inquilini del palazzo: “È morto”
Doveva essere particolarmente pesante il sonno dell’uomo che è stato trovato riverso sulle scale di un condominio a Frosinone ed è stato preso per morto. Gli inquilini hanno subito allertato il 118, convinti che fosse già troppo tardi. Sul luogo è arrivata in fretta e furia un’ambulanza, ma quando il personale si è avvicinato alla carcassa, si è accorto subito che l’uomo stava solo dormendo, felicemente ignaro della grande agitazione che si era creata intorno a lui e della precoce diagnosi degli altri abitanti del palazzo. “Trasportato all’ospedale Spaziani – scrive il Mattino – i sanitari che lo hanno subito monitorato hanno accertato che il motivo di quel sonno profondo sarebbe stato causato da alcuni farmaci che l’uomo, un professionista, potrebbe aver assunto in dosi superiori a quelle prescritte. Da qui sarebbe arrivato quel senso di torpore o ha preso mentre stava scendendo le scale che portano al garage e lo ha fatto letteralmente crollare”. Se fosse riuscito a mettersi alla guida sarebbe stato molto peggio.

 

Arezzo Stavolta vince il cinghiale: il cacciatore scivola in un burrone e finisce dentro al torrente
È una di quelle storie che mandano in visibilio gli animalisti: ad Arezzo un cacciatore è stato affrontato dalla sua preda, un grintosissimo cinghiale che invece di scappare alla vista del fucile, si è giocato il tutto per tutto affrontando il suo persecutore. E vincendo a mani basse: la carica ha fatto cadere il cacciatore in un burrone, mentre il cinghiale è tornato a farsi gli affari propri nelle campagne del Valdarno. Le condizioni del cacciatore, un 38enne della provincia aretina, per fortuna non sono preoccupanti, come scrive l’Ansa: “È precipitato in un burrone finendo, dopo una caduta di una ventina di metri, in un torrente. Dopo la richiesta di aiuto sono stati attivati ambulanza, automedica ed elicottero Pegaso del 118. Il 38enne è stato portato all’ospedale della Gruccia di Montevarchi con l’ambulanza dove ha ricevuto le cure del caso. Le sue condizioni non sono gravi”. Comunque il cinghiale ha passato una domenica più serena della sua.

“Mense e shopping, le due Italie: basta poco e finisci con i poveri”

L’Italia di questo weekend è stata in coda per uno shopping compulsivo. Qualche giorno fa abbiamo visto un’altra coda che è un’altra Italia: quella lunghissima per un pasto gratuito.

Due file e due Italie.

“Le due file non sono in verità i fotogrammi fedeli di due Italie. Temo che esistano varchi tra le due code, e che molta gente che solo qualche mese fa aveva capacità di spesa si trovi oggi, improvvisamente e repentinamente, nello stato di necessità. E domani possa capitare a chi affollava, per esempio, via del Corso a Roma”.

Chiara Saraceno ha indagato meglio di ogni altri la cornice sociale della povertà. E con lei l’immagine televisiva di un Paese doppio perde però nitidezza.

“Si casca di botto, più velocemente e più inaspettatamente”.

È una povertà mobile e di massa, una novità a cui non eravamo abituati nonostante i racconti di una crisi così feroce.

In effetti in strada non c’è la sensazione di un crash sociale acuto, di un degrado economico così ampio. Le presenze di chi non ce la fa e ci tende la mano nell’attesa di qualche spicciolo, che è la visione a cui ciascuno di noi fa riferimento per pesare empiricamente il malessere sociale, è stabile. Invece quella fila così lunga ci dice dell’ecatombe di un pezzo di società e quell’altra fila, altrettanto corposa, che affolla nei brevi pomeriggi di libertà i negozi, è la frazione di un benessere per tanti fragile e provvisorio.

Eppure la Rolls Royce di Briatore parcheggiata in doppia fila che ostacola il passaggio del tram a Milano sembra la metafora perfetta di un’Italia dei ricchi e dei poveri.

È una metafora suggestiva e purtroppo sconfortante. Ma, più dei ricchi, che ci sono e si fanno anche riconoscere, il problema di oggi è che la divisione tra garantiti e non è davvero abissale.

Nel senso che il non garantito è proprio sul lastrico?

È sul lastrico e basta poco perché colui che oggi si sente al di fuori della soglia di rischio ci entri. C’è un travaso enorme da una fila all’altra. Perciò io non ho condiviso alcune misure del governo per far fronte a questa difficile pandemia.

Quali ritiene ingiustificabili?

L’enorme e indiscriminato uso di bonus. Dare soldi a chi compra una bici o un monopattino, in una crisi così dura, mi sembra un fuor d’opera, un esborso immotivato e incongruo.

Lei parla anche di un governo pasticcione.

Beh, molti sono stati i pasticci. Capisco lo stress per una situazione chiaramente al di fuori della portata ordinaria. Però giungere a una settimana dal Natale per indicare cosa si debba o non si debba fare è sinceramente troppo. Usare la finanza pubblica per destinare sussidi a una moltitudine indistinta, benchè l’emergenza non dia tempo per profilature sociali accurate, è stata una decisione molto approssimata, eccessiva, confusa. Ma purtroppo in questa Italia doppia, dei garantiti al caldo e di quegli altri esposti alle intemperie, non è solo la classe politica a non aver dato una grande prova di abilità.

Anche lei trova che i luminari abbiano illuminato poco.

Confusi e ci sta. Poco attrezzati a dare risposte chiare a un virus misterioso pure ci sta. Però questo battaglione di virologi, immunologi eccetera così dominante in tv, con tante dichiarazioni anche avventate, alcune decisamente improvvisate e antiscientifiche, non era previsto.

Non hanno saputo resistere al vizio della vanità.

Forse troppo forte l’impulso, il richiamo per una notorietà inaspettata, per la voglia di esserci. Mi lasci però dire che anche voi giornalisti non state facendo un figurone.

Prego, dica ogni cosa.

Presenze ripetute in un circuito chiuso e giudizi spesso poco documentati. Fino al sorprendente epilogo della narrazione da talk show: noto che ai conduttori non basta più il loro programma, ma sono ospiti di altri conduttori che a loro volta saranno ospiti dei loro ospiti. E diamine!