“L’amico Renzo Balbo di Cossano Belbo, medico, cavalcatore, cacciatore terrestre e subacqueo, intenditore di vini”. Il cammeo è d’autore. Lo scolpì Mario Soldati nel suo Vino al vino, dove rammenta che il “cavalcatore” e “intenditore di vini” gli aveva regalato dodici bottiglie del valdostano Blanc de Morgex, dicendogli di berle “con religione” perché “era già una persona saggia nonostante l’età allora giovanissima”. Da allora molto tempo è passato, molto Morgex è stato vinificato ed è stato bevuto. Eppure Renzo Balbo, lettore colto, poeta e traduttore, fotografo e assistente del regista Lewis Milestone, amico di Soldati, di Giorgio Bassani e di Giulio Einaudi, marito di una figlia del raffinato poeta Tino Richelmy, ha mantenuto la sua “età giovanissima”, sebbene abbia compiuto novant’anni da pochi giorni. Tanto che ha persino esordito nella letteratura, a questa bella età, con un romanzo sulla Resistenza nelle Langhe. Un libro che, a dispetto degli anni del suo autore, si impone per prima cosa come un vero romanzo di formazione, soprattutto nel senso della presa di coscienza di alcuni valori – come l’amicizia, la sete di libertà, la cultura – da parte di un ragazzo, che, in quei valori, diverrà uomo.
Si tratta di un romanzo e di una memoria autobiografica di una adolescenza eccezionale, con Renzo staffetta partigiana nelle sue Langhe, che richiamano i libri di Beppe Fenoglio, non soltanto perché alcuni dei protagonisti sono gli stessi delle storie del grande narratore albese.
Come il “Nord” di Il partigiano Johnny, al secolo Piero Balbo, peraltro cugino di Renzo, leggendario comandante con il nome di battaglia di “Poli” della IIª Divisione Langhe del gruppo dei partigiani autonomi, ovvero gli “azzurri” monarchici o “badogliani”, del maggiore Enrico Martini “Mauri”. È la medesima sorprendente (e felice) scrittura di Balbo a richiamare Fenoglio, con lo stile secco e frantumato, una punteggiatura e un ritmo da montaggio cinematografico, un lessico scabro ma fortemente evocativo: “Si sedette e strappò un pezzo di pane dalla pagnotta. Masticava affamato. A testa alta. Una testa combattente. Immobile. Fissa su un collo potente”
A “testa alta” Balbo ha scritto a novant’anni La pelle del coniglio (pagine 160, euro 16), come spiega, “per difendere l’idea della guerra partigiana dalla stupidità della gente, che non capisce che fu una guerra di ribellione tragica e valorosa. Fu il generale inglese Bernard Montgomery a dire che in Italia, dopo l’8 settembre del 1943, c’erano tre armate di liberazione: la quinta e l’ottava degli alleati, e quindi l’armata dei partigiani, che lui definì ‘la più bella’. E detto da un inglese, scusate, non è davvero poco!”.
Nato a Torino da una famiglia originaria di Cossano Belbo, Balbo entrò nella Resistenza assieme ad altri esponenti della famiglia: dal padre al fratello Adriano, dallo zio Giovanni Balbo detto “Pinin”, caduto nel febbraio del ’45 in un’imboscata nazifascista a Valdivilla (è l’episodio con cui Fenoglio chiuse una delle versioni di Il partigiano Johnny), al cugino Piero Balbo. Ed è quest’ultimo, ribattezzato “Tesi”, a essere il protagonista di La pelle del coniglio, dove partigiani, inglesi in missione (come il maggiore Temple), nazisti e fascisti, doppiogiochisti e traditori, contadine e contadini, si muovono nello scenario delle colline delle Langhe come in un canto epico; quell’epica, d’altronde, che è il cuore pulsante dei libri di Beppe Fenoglio. Come scrive RenzoBalbo: “La sua vita era azzannata da quei silenzi. Tra Bormida e Belbo. Ecco. Ancora circa un centinaio di uomini. A giocarsi la pelle fino all’ultimo. Sparsi qua e là. In quella fine d’anno. Tra Bormida e Belbo. Ma senza troppo illusioni di farcela. Udì Ricciotti salutare gli uomini nel corridoio. Qualcuno si alzò da terra di scatto. Una lacerazione metallica graffiò il muro. Il bren era caduto a terra”.
Renzo Balbo non si limitò a fare la staffetta durante quei venti mesi di guerra partigiana, ma prese parte anche ad alcune azioni. “Cominciai”, racconta ora, “con un fucile da caccia e cinque colpi”. E visse quei mesi come li vivono i personaggi (veri) del suo libro; visse i fatti (tutti veri) di sangue, le attese, la paura, l’eliminazione delle spie, gli scontri armati, i silenzi delle colline, e li rievocò già nei primi scritti di gioventù.
Nel 1958, per esempio, nella nota e prestigiosa rivista letteraria Botteghe Oscure fondata dalla principessa Marguerite Caetani (con Giorgio Bassani redattore capo) apparve tra le altre una sua poesia in memoria dello zio, “Pinin” Balbo, morto in un mattino di febbraio del 1945, “quando gli alberi cominciano a rinverdire”.
Adesso, settantacinque anni dopo, Renzo Balbo ha trasformato quell’idea, “che avevo in testa da tanto tempo”, in un libro giovanissimo. Per ribadire ciò che rivelò Giorgio Bocca: che la Resistenza “è stata la stagione migliore della nostra vita”.