“Posso presentarle la mia compagna?”. Era la sua divisa a righe da prigioniero

Sembrava, a guardarlo con una prima superficiale curiosità, soltanto un distinto signore segnato dai fatti della vita, a cui rispondeva vibrando la laconicità di un sorriso o l’aristocratico risentimento. E invece il suo era il distacco biblico dentro la grande ombra della Storia che i sopravvissuti consegneranno, orrorifico basto, all’ultimo giorno, al rintocco del destino.
Nedo Fiano tuttavia replicò per anni lo stupore efferato del sopravvissuto che non si scagiona. Perché io? E non gli altri? Non solo sull’immane poeta che Fiano indicava in Levi e sulla poetica dei cosiddetti “sommersi e salvati”, la questione era ribaltata tutte le volte, in ogni circostanza, dove Fiano non smise mai di essere l’Haftling A5405.

Lo incontrai nella hall di un albergo siciliano. Un signore alto, con un portamento epico, incredibilmente vigoroso malgrado l’età, deducibile da contingenze evidenti, su tutte: era sopravvissuto ad Auschwitz. Il sorriso era immodificabile, un segno sul viso, una piega di disprezzo verso l’ipotetico fantasma, l’etica morale franata, priva di disquisizioni, semplicemente il male a cui appendere memorie tranciate come carne ferita, tremula.

“Vuole conoscere la mia compagna?” chiese. Ho annuito, un po’ smarrita dalla domanda. Sparì, salì al piano, ridiscese con un fagottino, piegato ben bene. “Ecco” disse e mi allungò il tessuto. Tessuto ruvidissimo, pulito e stirato. Ruvido, freddo, a righe. Era la sua divisa da haftling. Haftling numero A5405.

Lessi il numero sull’avambraccio, scoperto, che Nedo Fiano mostrò senza un sussulto. Ogni testimone dell’Olocausto, penso a Pietro Terracina anche, non ha mai dimenticato il gesto, scoprire l’avambraccio, mostrarsi. Tozzi di cera, numerati. E d’un tratto tornavano al calpestio crudele e innevato, sotto il cielo incolore, la nuvolaglia avara del campo di sterminio, Monowitz o Dachau.

Auschwitz. Nedo Fiano si salva perché è un ragazzo e parla bene almeno due lingue, una è il tedesco. Verrà sbattuto davanti ai forni.

“Lo sa cos’è la malattia del niente?” mi interrogò. La malattia del niente. Colpì i sopravvissuti, quanto fu feroce esserlo? Sopravvissuti. Quando la vita tornò guardinga, ma tornò, nei decenni, allora, proprio allora con spavaldo imprevisto il male affiorava, la malattia del niente. Diceva Nedo Fiano che quando nel sorriso, nella consuetudine, nella straordinaria normalità che gli fu concessa dopo Auschwitz, tornava a pensarsi uomo come gli altri, il male lo coglieva insidioso, era di nuovo l’haftling, numero A5405.

Rimane l’icona esegetica che inchioda il male a una strutta architettonica e piramidale abbastanza precisa. C’è un brano di Se questo è un uomo che lo esprime chiaramente. Il paesaggio di Levi. Mentre sfumava gennaio e sembrava che il cielo ricordasse, nelle promesse, delle rondini di aprile, che dunque aprile sarebbe misteriosamente tornato, crudele e leggero sopra golem terrificanti, di colpo, il sole pallido illuminò alcuni di loro, haftling stralunati e cinerei, come fossero già la cera di un cadavere, gli uni e gli altri riconobbero il viso, non proprio umano, l’uno dell’altro, sotto il pallore di quel sole di gennaio, su steppe bianche lanciate verso le conifere. Gli hafhtling come tozzi di cera sorridevano stranamente, qualcuno forse riconoscendosi in un’azione meccanica e genetica, stendere il muscolo contrito, nel tessuto cascante, nel dolore oltre l’umano, tornarvi. Levi realizzò l’ordine gerarchico della nostalgia o del dolore, del patimento, una cima piramidale, tolto uno, ne affiora un altro, scostato un male, succede un altro ancora, tutto ben riposto. L’ordine gerarchico, del male, del patimento, della nostalgia e noi lo conteniamo. Levi osservava che l’infelicità non era la somma di una sola causa, per questo gli uomini liberi sono spesso incontentabili, sulle ragioni dell’infelicità. La stessa ragione che rende inapplicabile il concetto inverso, ovvero la possibilità di essere felici.

Era la malattia del niente, diceva Fiano.

Manovra, pioggia di “mancette”. Mps, resta il regalo a Unicredit

Lo spettacolo non è stato dei migliori e alla fine neanche la maratona a oltranza è riuscita a evitare l’ennesimo rinvio. La legge di bilancio 2021 non arriverà in aula alla Camera oggi, come previsto, ma domani. È l’ultimo effetto del caos che accompagna la manovra d’autunno meno discussa della storia repubblicana.

Mentre andiamo in stampa, la commissione Bilancio di Montecitorio non ha ancora concluso i lavori, ripresi sabato dopo giorni di stop, sommersa dalle riformulazioni degli emendamenti concordati in maniera raffazzonata tra governo (il ministero dell’Economia) e forze politiche. I lavori dovevano iniziare alle 9 ma alle 14 ancora non si era partiti. Alla fine la figuraccia di dover dare via libera senza mandato al relatore (cioè senza approvare tutte le modifiche) viene evitata (salvo imprevisti) solo rinviando di un giorno l’approdo in aula.

Con la discussione ridotta a zero, i partiti in Commissione hanno dato il via libera a tutto. Un pacchetto di “riformulazioni” da quasi 5 miliardi in due giorni, record storico, il grosso riservato ad autonomi, incentivi auto e aiuti agli aeroporti e turismo insieme alla proroga del Superbonus edilizio al 2022 (cara ai 5Stelle). Ma è passata anche una valanga di centinaia di norme di piccolo cabotaggio bipartisan: esenzione Imu per i pensionati residenti all’estero, 10 milioni alla metropolitana di Brescia, fondi per la cannabis terapeutica, 5 milioni ai comuni di frontiera per gestire i migranti, 3 milioni per i corsi di jazz nei licei museali, 5 milioni per i boschi urbani, il solito milione all’Ente nazionale sordi, 4 milioni ai campionati di nuoto di Roma, 100 mila euro per un master in medicina termale, misure per la parità di genere, bonus per i lavandini ecologici, bonus “chef” (credito d’imposta per i macchinari comprati dai ristoranti), bonus cellulare per un anno a chi ha redditi bassi, soldi alle scuole paritarie e così via discorrendo. Una pioggia di norme micro-settoriali e ordinamentali (volgarmente dette “mancette”) che per legge non dovrebbero entrare in manovra. Tutto finirà nel maxi-emendamento che il governo presenterà in aula: ci sarà il via libera (probabilmente con la fiducia) a un testo di cui si capirà solo in Senato la vera portata, peccato però che Palazzo Madama non potrà discuterlo visto che non ci sono i tempi.

Lo scenario era talmente prevedibile che il ministero in manovra ha inserito un fondone da 800 milioni per dare sfogo agli onorevoli ed evitare l’ostruzionismo.

Alla fine si è chiuso anche lo scontro sul Montepaschi tra 5Stelle e Tesoro, con la vittoria di quest’ultimo. Come noto, in manovra c’è un aiuto fiscale da quasi 3 miliardi per aiutare Unicredit a prendersi Mps, nazionalizzata nel 2017 dal ministro Pier Carlo Padoan che ora siede nel cda di Unicredit a garanzia dell’operazione. I 5Stelle hanno provato a far saltare il regalo con alcuni emendamenti, il Tesoro li ha riformulati lasciando tutto com’era e concedendo solo che prima di procedere riferirà in Parlamento.

Recovery Plan, Conte convoca i giallorosa e Iv già protesta

Il vicesegretario del Pd Andrea Orlando aveva lanciato l’avvertimento, ieri pomeriggio via Facebook. Separare le trattative di governo dalla discussione sul Recovery: “Isoliamo questo tema e decidiamo, subito”. Perché il rischio, per dirla tutta, è che il piano che può portare in Italia i 209 miliardi del programma europeo Next Generation finisca travolto dalla bega interna con Italia Viva. Che sembra davvero intenzionata a far precipitare tutto, a voler prendere sul serio le dichiarazioni con cui ieri Ettore Rosato ha sostenuto che “ad oggi non c’è più la fiducia tra la maggioranza e il premier”. Gli hanno risposto in tanti, a cominciare dal Pd che con Michele Bordo, vicecapogruppo alla Camera, invita Rosato a parlare “a nome di Italia Viva, che rappresenta il 2 per cento degli italiani”. E si è scomodato pure il ministro della Giustizia, capodelegazione dei 5 Stelle al governo, Alfonso Bonafede: “Chi ha in mente altre soluzioni, che avrebbero pesanti ripercussioni in primo luogo economiche, se ne assuma la responsabilità. Anzi, l’irresponsabilità”. Segno che la misura è colma. È che il “bombardamento quotidiano” dei renziani è un fatto che sta logorando i nervi di palazzo Chigi. Così, ieri sera, Giuseppe Conte ha annunciato di voler dar seguito all’appello di Orlando. E già oggi riprenderà la discussione sul Recovery Plan, bruscamente interrotta ormai due settimane fa, quando Renzi e i suoi, le bombe, hanno cominciato a tirarle. Dunque si avvia “il confronto con le singole forze di maggioranza per aggiornare i lavori di preparazione del Recovery plan”. Alle 15.30 Conte, insieme ai ministri Amendola e Gualtieri, vedrà la delegazione dei 5 Stelle, mentre alle 19 sarà la volta del Pd. Martedì tocca invece a Leu e Italia Viva. Che già fa sapere: “A noi nessuno ha detto niente. Se il cambio di metodo che chiedevamo è che dobbiamo apprendere la convocazione delle riunioni dagli sms di Casalino alle agenzie significa che a Chigi non hanno capito cosa stanno rischiando”. Buon Natale.

“È noto da settembre, ma ora corre veloce: vaccini ancora validi”

“Stiamo studiando questa mutazione del SarsCov2 (la M501Y) da ottobre. Circolava già in Usa e Australia, oltre che nel Regno Unito”. In una ricerca in via di pubblicazione, Federico Giorgi, genetista all’Università di Bologna e co-autore dello studio, spiega al Fatto che la mutazione è la quarta attualmente più diffusa nella proteina Spike. È stata scoperta a settembre dal consorzio britannico Covid-19 Genomics UK (COG-UK), che ha all’attivo 140 mila sequenze del virus campionato da persone positive al tampone. “Il sequenziamento è costoso,” spiega Giorgi. Per questo l’investimento pubblico del Regno Unito è stato massiccio e gestito in modo centralizzato dall’Istituto Wellcome Sanger. A novembre, l’Italia risultano solo 760 sequenziamenti. Come noi solo l’Arabia Saudita.

Questa mutazione che vantaggio offre al virus?

Si trova proprio nella regione della proteina Spike (quella che il virus utilizza per entrare nelle cellule) che interagisce con il recettore Ace2 delle cellule umane. La spike è come una lunga chiave. La mutazione si trova laddove interagisce con la serratura, cioè il recettore. La mutazione rende la chiave molto più affine alla serratura. Il virus così diventa più efficiente nell’agganciarsi alle cellule. Sequenziando tanto in Gran Bretagna (primo paese al mondo per numero di test effettuati) si è scoperto che a settembre era presente nel 1% dei pazienti. Ma è cresciuta rapidissimamente, molto più di quanto ci si aspetterebbe da una naturale distribuzione delle mutazioni del virus. Nella regione del Norfolk è arrivata al 20% dei campioni di virus sequenziati, 10% nell’Essex e 3% nel Suffolk. Questa alta incidenza indica che il virus, da questa mutazione, ha tratto un vantaggio evolutivo. Cioè rende più efficiente il contagio.

In Italia è presente?

Fino a ieri non risultava, poi è stato individuato dal Policlinico Militare del Celio. Il problema è che facciamo analisi cento volte in meno di quanto si faccia in Uk. C’è stato un grosso investimento in alcuni paesi, come Gran Bretagna e Usa. Non in Italia, fanalino di coda dopo il Congo.

Se il virus è più contagioso, i vaccini che sono basati sulle sequenze di virus di gennaio/febbraio, saranno ancora efficaci?

Ritengo di sì. La proteina spike è costituita da 1.250 mattoncini, gli amminoacidi. E la mutazione M501Y rappresenta un solo mattoncino. In genere non basta a renderlo inefficace. Il vaccino addestra il sistema immunitario a riconoscere la proteina spike intera. Una singola mutazione, e di questo particolare tipo, non influenza la forma molecolare e chimica della spike in maniera significativa.

E per quanto riguarda i tamponi, cambia qualcosa?

Sì. Il test molecolare si basa sul riconoscimento del Rna del virus. Quindi una singola mutazione può cambiare l’esito del test. Per questo bisogna aggiornarli continuamente in base alle mutazioni individuate.

L’Italia lo fa?

Per aggiornarli è facile: tutte le nazioni continuano ad aggiornare le sequenze, che l’Italia può importare per aggiornare i propri test diagnostici. Il problema è che se aggiorniamo i test con le sequenze rilevate in altre parti del mondo, ma non sappiamo quali sono quelle prevalenti in Italia, non rileviamo più niente. Non a caso, la mutazione è stata rilevata proprio nel Regno Unito, che ha sequenziato più di tutti.

Monoclonali, riunione straordinaria dell’Aifa

Il “trial mancato” svelato dal Fatto finisce questa mattina sul tavolo di una riunione urgente dell’Aifa, l’agenzia del farmaco che a ottobre respinse la proposta di sperimentazione gratuita del Bamlanivimab (LY-CoV-555), l’anticorpo neutralizzante monoclonale sviluppato dalla multinazionale Eli Lilly e prodotto proprio in Italia. E su quel tavolo si potrebbe riaprire in tempi rapidissimi la strada ai monoclonali in uso all’estero, finora lasciata cadere nel vuoto.

A metterla all’ordine del giorno è stato il neopresidente dell’Agenzia del farmaco Giorgio Palù, che lo conferma al Fatto. Nel periodo in cui la sperimentazione veniva proposta e cassata, tra il 7 e il 29 ottobre, vestiva ancora i panni del virologo di fama mondiale e già sosteneva pubblicamente la necessità che l’Italia guardasse con attenzione non solo ai vaccini ma anche alle terapie anticorpali sperimentate all’estero con risultati promettenti. Come abbiamo raccontato, a inizio ottobre ne erano state offerte all’Italia 10 mila dosi: gratis e prodotte qui.

Il nostro Paese, già schiacciato dalla seconda ondata, avrebbe potuto essere il primo in Europa a sperimentarlo, somministrando ai malati l’unica cura al mondo autorizzata contro il Covid. Il farmaco riduce la carica virale e per i pazienti ad alto rischio diminuisce i ricoveri del 72%: in proporzione alle fiale, sarebbero stati risparmiati almeno 950 ricoveri.

Ora si vuole capire sulla base di quali valutazioni scientifiche e regolatorie è stato deciso di accantonarlo. Chi si è opposto? Perché? Il Bamlanivimab viene somministrato da un mese e mezzo negli Stati Uniti con risultati incoraggianti. La sperimentazione in Italia avrebbe potuto confermare i dubbi degli esperti italiani, oppure dimostrare che il farmaco è più efficace della Tachipirina che l’Aifa consiglia ai non ospedalizzati. A quanto risulta al Fatto, nella riunione chiave del 29 ottobre tra la multinazionale, Aifa, ISS e Cts, era stato proposto di non fermarsi agli ai risultati delle ricerche condotte su campioni limitati ma di usare i dati clinici degli ospedali americani che lo stavano già somministrando. Sul fronte regolatorio appare ormai certo non fosse necessario aspettare l’autorizzazione dell’Ema.

In Italia è stata fatta una legge apposta: la 648/96 consente l’uso di farmaci non autorizzati dall’Ema per i quali non esista una terapia alternativa. Accade nel 2005, ad esempio, col Trastuzumab (tumore alla mammella), un altro monoclonale. La condizione necessaria – dice la legge – è che esistano “studi conclusi, almeno in fase II, che dimostrino un’efficacia adeguata con un profilo di rischio accettabile a supporto dell’indicazione richiesta”. Nel caso del farmaco di Eli Lilly queste condizioni ci sono. “Sono farmaci molti importanti”, dice il presidente della Società Italiana di Farmacologia, Giorgio Raccagni. “Si dimostrano efficaci se somministrati precocemente a pazienti ad alto rischio perché riducono considerevolmente la carica virale e di conseguenza i ricoveri che saturano gli ospedali. Confido che l’Aifa prenda una decisione nella direzione di altri paesi europei”. Questo sarebbe anche l’indirizzo del ministro Speranza che non ha mai avuto preclusioni alla via dei monoclonali, non solo patrocinando quello italiano in fase di studio ma anche verso quelli sviluppati all’estero.

Il paradosso è che il ministro ha firmato una formale manifestazione di interesse all’acquisto da parte dell’Italia in una riunione con la multinazionale – presente anche Arcuri – il 16 novembre, cioè quando era già stata lasciata cadere l’opzione delle 10 mila dosi gratis. Il loro controvalore era 10milioni di euro, che avremmo potuto risparmiare insieme a molte vite.

Il virus “inglese” è già in Italia: stop ai voli, paura in tutta Europa

La variante “inglese” del virus è già in Italia: “Il Policlinico Militare del Celio di Roma – annuncia in serata il ministero della Salute – ha sequenziato il genoma del virus SARS-CoV-2 proveniente da un soggetto risultato positivo con la variante riscontrata nelle ultime settimane in Gran Bretagna. Il paziente, e il suo convivente rientrato negli ultimi giorni dal Regno Unito con un volo atterrato presso l’aeroporto di Fiumicino, sono in isolamento e hanno seguito, insieme agli altri familiari e ai contatti stretti, tutte le procedure stabilite dal Ministero della Salute”.

L’allarme lo aveva dato sabato il premier britannico Boris Johnson: “Abbiamo scoperto una nuova variante mutata del coronavirus che avrebbe una trasmissibilità molto maggiore, quantificata al 70% in più”. Ieri il ministro della sanità Matt Hancock ha rincarato la dose: “La nuova variante individuata nel Regno Unito è fuori controllo e abbiamo bisogno di riportarla sotto controllo”. Parole confermate dal numero uno dell’autorità sanitaria britannica Chris Witty: “Non è provato che questa variante sia più letale – ha dichiarato – sebbene sia più facilmente trasmissibile, ma non esiste ancora nessun elemento che induca a pensare che possa essere resistente ai vaccini di cui comincia in questi giorni la distribuzione”.

Al momento l’unica criticità accertata – ed è quanto comunica il portavoce di Oms Europa – riguarda il versante diagnostico: “Le informazione preliminari sulla variante Covid – informa l’Organizzazione mondiale della sanità – suggeriscono che potrebbe incidere sull’efficacia di alcuni metodi diagnostici, oltre al fatto che potrebbe essere più contagiosa. Ma non c’è alcuna prova di un cambiamento nella gravità della malattia”.

Insomma, per ora la preoccupazione maggiore – anche se casi di virus mutato, oltre che in Gran Bretagna, sono segnalati in Olanda, Danimarca e Australia – sembra essere quella che la nuova variante possa sfuggire ai tamponi. E va comunque ricordato che non si tratta della prima variazione del virus: “È già accaduto – spiega il virologo Andrea Crisanti – con la variante di Shanghai che ha soppiantato quella di Whuan. Adesso la priorità è dare risorse adeguate ai laboratori per fare i sequenziamenti”.

Nel frattempo – in attesa del vertice urgente convocato questa mattina dal Consiglio europeo per il coordinamento dell’Ue sulla risposta alla nuova variante del Covid-19 – l’Italia (come Belgio, Olanda e Austria) ha sospeso i voli con la Gran Bretagna fino al 6 gennaio. Per i passeggeri atterrati ieri è stato reintrodotto l’obbligo di tampone, che era stato sospeso in seguito al Dpcm del 3 dicembre.

Ovviamente la preoccupazione maggiore è che il virus nella sua nuova variante possa resistere alla campagna di vaccinazione (già iniziata in Gran Bretagna, dove i contagi, dopo il record di 36 mila nelle ultime 24 ore, sono aumentati di oltre il 50% in una sola settimana) che scatterà in Europa il 27 dicembre: “Dalle prime informazioni – ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza a Mezz’ora in più – sembra che i vaccini in fase terminale possano funzionare anche su questa variante, però queste informazioni devono essere rese più solide”. Ipotesi confermata dal direttore generale della Prevenzione del ministero Gianni Rezza: “La variante presenta delle mutazioni sulla proteina di superficie del virus, la cosiddetta Spike. Queste mutazioni possono aumentare la trasmissibilità del virus, ma non sembrano alterare nè l’aggressività clinica nè la risposta ai vaccini”.

La curva del contagio in Italia, intanto, continua la sua corsa senza grossi strappi nè in una direzione nè nell’altra. I dati di ieri – come ogni domenica in flessione – segnalano 15.104 nuovi contagi a fronte di 137.420 tamponi, dato che fissa il tasso di positività all’11%, in aumento rispetto al 9,2 registrato sabato.

Sono numeri sostanzialmente in linea con quelli registrati domenica 13 dicembre, segno che l’epidemia non accelera, ma nemmeno arretra. In flessione il numero dei morti, 352 contro i 553 delle 24 ore precedenti. Continua a diminuire – lentamente – la pressione sugli ospedali. I ricoverati nei reparti Covid sono attualmente 25.158 (-206 rispetto a sabato), i malati gravi in terapia intensiva 2.743 (-41 in totale, a fronte di 121 nuovi ingressi).

Ma mi faccia

AAA faccia cercasi. “Il capo di Italia Viva: non perdo la faccia” (Corriere della sera, 16.12). Impossibile perdere ciò che non si ha.

Stai sereno. “Se ci fossimo noi a gestire questa fase, gli italiani sarebbero più sereni” (Matteo Salvini, leader Lega,14.12). Uahahahahahah.

Il pallottolliere. “Un governo di centrodestra avrebbe i numeri” (Salvini, Libero, 14.12). Più che altro li darebbe.

Assolta perchè colpevole. “’Marra, ci fu il falso ma non il reato’. E Raggi festeggia”, “Il falso non è cancellato nella sentenza”, “Raggi mentì all’Anticorruzione” (Maria Elena Vincenzi, Repubblica, 20.12). I giudici non si sono mai sognati di dire una tale scemenza: se il falso ci fosse stato, la Raggi sarebbe stata condannata. Invece è stata assolta perchè il fatto non costituisce reato proprio perchè non mentì all’Anac, anzi disse la verità a lei nota, dunque non commise alcun falso. L’unico falso è quello di Repubblica, l’ennesimo. Ma quanto rosicano, questi?

Mortindustria. “Le persone sono un po’ stanche di questa situazione e vorrebbero venirne fuori. Anche se qualcuno morirà, pazienza” (Domenico Guzzini, presidente Confindustria a Macerata, 15.12). Com’è umano, lei.

Pompindustria. “Non ho nessuna voglia di prendermela con Domenico Guzzini… Quale differenza c’è, se non l’incontinenza verbale, la dissimulazione nel profluvio, con Giuseppe Conte secondo cui il Paese sta reggendo l’urto della seconda ondata?… E c’è il suo compare… Di Maio che ha annunciato la generosa devoluzione agli ospedali di 40 milioni risparmiati a Montecitorio” (Mattia Feltri, La Stampa, 16.12). Tutto chiaro: se un capo di Confindustria se ne fotte dei morti, è colpa di Conte e Di Maio.

Senti chi pirla/1. “Su Conte ‘appannato’ il Pd si interroga” (Repubblica, 20.12). Ultimo sondaggio Ipsos-Corriere: Conte +3% in un mese, Pd -0,4%.

Senti chi pirla/2. “Conte ha sciupato la fiducia che aveva” (Ettore Rosato, deputato e coordinatore Italia Viva, Sky Tg24, 20.12). Ha parlato il trascinatore di folle, dall’alto del 2 virgola qualcosa.

Senti chi pirla/3. “C’è un leader: è Renzi e deve mandare a casa questi quattro cialtroni” (Paolo Guzzanti, Riformista, 11.12). Parola di uno che nella commissione Mitrokhin pendeva dalle labbra del “consulente” Scaramella.

Senti chi pirla/4. “Sceneggiata libica. Conte e Di Maio, passerella a Bengasi. Tributo ad Haftar, inchino di Stato ai sequestratori” ( Giornale, 18.12). Bei tempi quando B. baciava la mano a Gheddafi.

Tripoli bel suol d’amore. “I pescatori sono salvi ma abbiamo perso la Libia” (Domani, 18.12). Ora si teme anche per l’Abissinia.

Tutto chiaro. “Troppe norme scritte senza buon senso”, “Mandare via quegli oscuri personaggi che scrivono norme più oscure di loro e sostituirli con qualcuno che conosca l’italiano”, “Una diagnosi appropriata a questo infernale insieme di provvedimenti (formalmente) legislativi e (formalmente) amministrativi, ma tutti scritti dalle stesse mani, a Palazzo Chigi, con un intreccio tra norme (fonti del diritto) e provvedimenti amministrativi (atti di esecuzione delle norme), una commistione non prevista dalla Costituzione. Si tratta di misure dettate in nome dell’emergenza che tale non è” (Sabino Cassese, Messaggero, 20.12). Fortuna che c’è Cassese, che parla come mangia. Il guaio è che mangia malissimo.

Il mondo ci invidia. “L’Italia maglia nera: record mondiale di morti” (Giornale, 20.12). Tutto merito del modello Lombardia.

Lo stratega. “La politica estera dei giallorossi? Il fallimenti pure nel mare di casa” (Roberto Formigoni, pregiudicato, Libero, 20.12). Bei tempi quando Formigoni volava a Baghdad per baciare gli stivali di Saddam Hussein.

L’esperto. “Moriamo per problemi della sanità, ma alla salute destiniamo gli spiccioli” (Formigoni, Libero, 13.12). C’è pure meno da rubare.

Evaporata la verità. “Del Turco, evaporate le accuse del 2008… Anno dopo anno, sentenza dopo sentenza, la ‘valanga di prove’ contro di lui si è squagliata… Resta alla fine solo una condanna della Cassazione a 3 anni per induzione indiretta” (Paolo Franchi, Corriere della sera, 20.12). Infatti Del Turco è stato condannato a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita (non indiretta: direttissima), che quando fu commessa si chiamava concussione: cioè per aver estorto 5 tangenti per un totale di 850mila euro al re delle cliniche Angelini per favori a danno della sanità pubblica. Ma a Franchi pare poco (“solo”): conoscendolo, si aspettava l’ergastolo.

Supplenti. “La supplenza dei pm. Anche su regeni l’unica iniziativa dello Stato non è politica, ma giudiziaria. Parlano Manconi e Violante” (Foglio, 15.12). Perchè, chi chi sarebbe il titolare alle indagini su un omicidio al posto dei pm supplenti? La domestica di Manconi? Il barbiere di Violante?

Il titolo della settimana/1. “Il modello Zaia funziona” (Foglio, 19.12). Infatti il Veneto ha strappato alla Lombardia il record dei contagi.

Il titolo della settimana/2. “La Casellati su Conte: ‘Fallisce sul vaccino’” (Libero, 19.12). Infatti manca ancora quello contro il Casellativirus.

“X-Factor mi ha messo in crisi e la mia Calabria mi ha dato forza: da grande farò l’autore”

Sul più mainstream dei contesti musicali italiani, quello di X-Factor, si è abbattuto quest’anno un artista insolito, originale, a tratti inquietante: N.A.I.P., acronimo di Nessun Artista In Particolare, è il giovane calabrese che ha spiazzato giudici e pubblico fin dalle prime note di un pezzo divenuto subito tormentone, Attenti al loop.

La sua storia artistica è quanto di più distante dai talent: come si è sentito quando l’hanno chiamata?

Sono andato in crisi totale: mille domande e consigli di due-tre amici… ma poi, accettare, alla luce dei fatti, si è rivelata una buona scelta.

Come è stato il rapporto coi giudici?

Mika è una star internazionale, ma quando si lavora è super stacanovista. Agnelli è un signore, persona tanto rispettosa, mi ha preso subito come un fratellino. Manuelito è un compagno di giochi ed Emma la più empatica.

Ormai affermare di “venire dalla strada” è una specie di lasciapassare per il successo… Lei però dalla strada viene davvero: Lamezia Terme, città calabrese con una lunga storia mafiosa alle spalle. Quanto ha influito questo sulla sua arte?

Credo parecchio: qualcuno diceva che noi siamo dna+ambiente, dunque l’ambiente in cui cresci inevitabilmente ti plasma. Mi piace però il fatto che, a differenza di altri, non vado a sbandierare le mie origini, perché sono dentro di me e non le uso come copertina o banner pubblicitario. È una storia segreta che esce fuori nel momento in cui vieni messo alla prova: chi ha questo tipo di formazione in determinati contesti se la cava. Si può venire davvero dalla strada e non per questo fare rap o trap, ma essere semplicemente persone forti.

Però la sua città ha vissuto momenti di grazia, tra musica dal vivo e iniziative culturali… Quanto le deve?

Tanto: mi ha permesso di formarmi anche come addetto ai lavori e cioè come persona che, dietro le quinte, sa quanto si fatica per costruire una realtà artistica. Lamezia mi ha dato una coscienza da lavoratore della musica, che non è essere semplicemente musicista.

Quando penso alla sua proposta artistica mi vengono in mente i Cccp…

Sì, non a caso a X-Factor ho portato un loro brano, Amandoti: fanno chiaramente parte del mio background e mi hanno molto segnato. Purtroppo non ho mai avuto il piacere di vedere un concerto di Ferretti e soci, e non conosco alla perfezione tutta la discografia, ma riascoltandoli, oggi, trovo sempre con loro affinità e divergenze.

A X-Factor ha interpretato anche Battiato…

Battiato è uno di quegli artisti che fa parte di un’infanzia continua: quando ascolti i suoi dischi ti sembra di ascoltare tuo padre, ha a che fare col concetto di famiglia. L’influenza di Battiato è come quella di mio padre: ovvia.

Cosa farà N.A.I.P. nella sua vita?

Percepire, sintetizzare e applicare: fare l’autore.

Casaro, il pittore del cinema amato da Leone e Monicelli

La fabbrica dei sogni portatile, staccabile, da appendere sui muri. Una mostra dedicata a Renato Casaro, 85 anni, “l’ultimo cartellonista del cinema”. A Treviso, la sua città natale, per ora rimandata causa pandemia. Piano sequenza su 170 delle mille e più pellicole a cui ha lavorato, imprimendo il suo sigillo unico. Distillando in locandine che hanno fatto epoca l’anima essenziale di film che portavano, tra gli altri, la firma di cineasti come Ingmar Bergman, François Truffaut, Francis Ford Coppola, Bernardo Bertolucci, Costa Gavras, Claude Lelouch, Pietro Germi, Marco Bellocchio, Liliana Cavani, Mario Monicelli, Giuseppe Tornatore e Sergio Leone, con cui instaurò un ménage leggendario. Quest’ultimo disse di lui: “È il mio pittore preferito”.

Dalla commedia al peplum, passando per lo spaghetti western e il noir: quando la promozione viaggiava fondamentalmente così, sui binari dei manifesti affissi in sala o in giro. Tra i movie painter è stato uno dei migliori nel mondo. Forse perché mentre gli altri miravano a portare gli spettatori al cinema, lui portava il cinema agli spettatori. La sua spontanea sapienza alchemica lo rendeva capace di penetrare nella mente del regista e immortalare nel suo disegno, spesso senza aver visto nemmeno un minuto di girato, la sua visione profonda. Si dice che i suoi bozzetti fossero buoni alla prima. Una carriera lunga mezzo secolo, cominciata dopo il trasferimento a Roma nel 1954. Casaro ha elevato al rango d’arte qualcosa che veniva considerato un artigianato minore.

Tra i suoi capolavori ricordiamo, in ordine sparso, i poster dipinti de Il piccolo Budda, Il tè nel deserto e L’ultimo imperatore, col suo impatto mistico di atmosfera; C’era una volta in America (e tutto il meglio di Leone) e Il nome della Rosa, la trilogia di Rambo e Nikita; Balla coi lupi, i campioni d’incasso con Bud Spencer e Terence Hill e l’Uomo delle stelle; Amici miei, Il postino suona sempre due volte e Un borghese piccolo piccolo. Tutti plasticamente cristallizzati nell’immaginario collettivo.

Gli anni 70-80 hanno segnato il suo apogeo creativo e commerciale: per i suoi manufatti icastici e iperrealistici, che riassumevano a meraviglia, con pochi tratti, una storia intera, lo precettavano le maggiori case americane di produzione, quando Cinecittà non aveva ancora perso la sua aura di Hollywood sul Tevere. Merito anche del suo accostamento all’aerografo, con cui ha trasformato radicalmente un genere fermo, sin lì, all’impressionismo, traghettandolo verso il fotografico e il digitale. E non ha rivoluzionato solo il cartellonismo cinematografico. “Ha iniziato a disegnare manifesti per i circhi dai primi Anni 60, diventando presto il riferimento europeo. I suoi soggetti circensi sono centinaia – racconta al Fatto Raffaele De Ritis, regista, storico di circo e tra i suoi maggiori collezionisti planetari –. Spesso con formati enormi (4×8 metri), la sua immaginazione inondava città e paesi con veri e propri affreschi dai dettagli minuziosi: la savana africana, pellerossa minacciosi, odalische mozzafiato che, a differenza dello schermo, sotto il tendone prendevano vita in carne e ossa. Ed è sua la faccia iconica di clown usata da tutti i circhi del mondo”.

Poi alla fine degli anni 90 Casaro ha messo l’aerografo in soffitta. I tempi e il marketing erano cambiati, si andavano standardizzando. Il suo canto del cigno apparente fu la locandina di Asterix e Obelix contro Cesare. Renato si è consacrato alla pittura pura, al wildlife, agli infiniti spazi naturali. Ci ha pensato il solito Quentin Tarantino, suo fervido ammiratore, a richiamarlo in servizio un anno e mezzo fa, commissionandogli i fittizi poster vintage in stile 80 che si vedono in C’era una volta a Hollywood. Come quando le sue locandine tappezzavano le strade, una sorta di sconfinato e ripiegabile museo a 35 millimetri alla luce del sole.

“Proietti era il numero uno. E ho cantato con Aykroyd. Nel 2025 Sanremo è mio”

Nato ai bordi di periferia: “Quando mia nonna doveva andare in centro, per comprare il corredo all’unica figlia, quasi ci preparava al suo viaggio: ‘Domani vado a Roma’”. E lei? “Ancora vivo nello stesso quartiere, mi sono spostato di pochi metri da dove sono cresciuto”.

Max Giusti recita come una preghiera laica e sedimentata l’indirizzo – storico – di casa, “via del Trullo 190”, una sorta di “Via Paolo Fabbri 43”, come cantava Francesco Guccini; dentro quel “190” ha conosciuto la vita, la lotta, il centimetro da conquistare, da difendere, i cazzotti, la solidarietà, i soldi da risparmiare e cosa vuol dire crescere tra mura operaie. “Poi, a 16 anni, sono salito sul palco ed è cambiato tutto”.

Da allora è diventato uno dei volti televisivi più impiegati (“Tra Rai e Discovery ho 1.500 puntate di serale”), ha girato l’Italia con i suoi spettacoli, ha vinto il reality Pechino-Express e ora è su Rai2 in un programma che per uno come lui è una forma di catarsi, di nemesi: Il boss in incognito, in cui entra realmente nelle fabbriche e conosce gli operai. “Emozione pura, però ora dateme un palcoscenico e un camerino sennò m’ammazzo”.

Non ce la fa più.

Ho capito che non posso fare a meno del live.

Per carità.

Un anno avevo, contemporaneamente, Affari tuoi su Rai1, le riprese di Distretto di polizia, le serate a teatro e la domenica Quelli che il calcio. Non dormivo. Magari appoggiavo il volto sulle mani e chiudevo gli occhi per cinque minuti. Ma anche allora non ho mai smesso con gli spettacoli dal vivo.

Perché?

Sul palco hai una libertà editoriale senza pari, dove l’unico limite è dettato dagli applausi o dai fischi del pubblico; e poi c’è un bisogno fisiologico, un desiderio di riscontro, di interazione umana, perché noi siamo come dei circensi abituati a vivere la provincia, non solo le grandi città. Sono pazzo di quella vita.

Tutto è relativizzato.

Mi sogno anche gli alberghi tristi e puzzolenti, talmente brutti da risultare perfetti per un suicidio; e poi il cibo post spettacolo, con le digestioni così impegnative da farmi apparire di notte Frank Zappa mentre suona la Macarena a Milly Carlucci.

E i viaggi?

(C’è commozione) Quando i tir, con la nebbia, diventano amici perché ti tracciano la strada, o la poetica dell’Autogrill di notte: sulla Roma-L’Aquila, e da anni, incontro sempre la stessa ragazza, ogni volta mi fermo per due chiacchiere (e inizia una lunga analisi sulla fatica dei lavoratori e la necessità di una presenza notturna per la sicurezza delle donne).

Insomma, il quartiere.

Stavo lì, era la mia realtà; (ci pensa) un esempio? Il Colosseo l’ho scoperto a 12 o 13 anni: per me, ciò che era esterno al Trullo assumeva tracce esotiche; il parametro per capire lo status della zona era il colore dei capelli delle donne: più mi avvicinavo al centro e più aumentavano le bionde.

I Vanzina hanno girato un film, Le finte bionde.

Un giorno sono andato ai Parioli (Nord di Roma) in sella al mio Ciao: credevo di stare in Germania.

Provava invidia?

Non mi appartiene: se a un amico gli va bene, riesco a godere per lui; più che altro rosico quando vedo un collega impegnato in un programma che mi piace, poi mi calmo con la convinzione che “tanto prima o poi ci arrivo”.

Tipo?

Partiamo da un dato: nel curriculum ho 1.500 puntate di serale, tre varietà, la Lotteria Italia…

E allora?

Tra cinque anni sono pronto per condurre Sanremo.

Si è mai sentito a disagio?

In generale no, mi sono sempre preparato, poi è arrivata mia moglie, borghese di Roma Nord, e mi ha offerto il suo punto di vista, anche attraverso regole e rimproveri: “Mai il gomito a tavola!”; oppure: “Non ti sei inginocchiato per la promessa di matrimonio”.

Errore gravissimo.

Non lo sapevo! Vivo in un altro mondo, sono cresciuto con mamma che mimetizzava il mio essere grassottello con la frase: “Tranquillo, non è pancia, è stomaco”.

Politica?

Papà era nella Federazione dei lavoratori metalmeccanici e per me la politica sana e giusta vuol dire sanità pubblica, acqua pubblica, formazione, perché la vita non è sempre dritta per tutti.

Come ha iniziato?

Stagione 1984-85: a Roma c’era una sorta di Zelig nostrano, si chiamava Alfellini, un posto magico. Quell’anno mi sono esibito lì, spinto dagli amici: nella serata del “Lancio party”, una sorta di Corrida, stavi sul palco e, quando si accendeva la luce, potevano lanciarti addosso sacchetti rossi pieni di segatura; alcuni, oltre alla segatura, ti omaggiavano di pezzi di pane o forchette.

Lei.

Mi salvo con le imitazioni di Teresa De Sio, Vasco Rossi, Diego Abatantuono e Mike Bongiorno. Finisco tra gli applausi, e una scarica di adrenalina che diventa decisiva.

I suoi?

Come dicevo, papà metalmeccanico, mamma commessa in una ferramenta; poi hanno aperto un negozietto, mio padre ci andava dopo le 16, quando aveva finito con il lavoro.

Cosa le dicevano?

Non mi hanno mai impedito nulla, solo papà con animo pragmatico e sornione mi spiegava la sua visione: “Ma ’ndo pensi de anna’?”; (sorride) all’inizio della carriera il palco del cabaret non mi bastava più, volevo il teatro, ma da sconosciuto l’unica soluzione era pagare la sala. Mi lancio. Dal giovedì alla domenica andava bene, gli altri giorni arrivavano i problemi, così mio padre ricattava i clienti del negozio: “Se vuole i prodotti in tempo, questa sera deve andare da mio figlio”.

La prima volta da conosciuto.

Festa dell’Unità a Roma, avevo uno spettacolo e quello stesso giorno mi rompo una mano: in ospedale mi mettono tre chiodi; poi esco e vado.

Insomma?

Quella mattina era uscita una pagina, la mia prima, sul Messaggero. Salgo sul palco, si accendono le luci e parte l’applauso: non mi era mai successo, di solito gli applausi li dovevo conquistare, mentre lì aspettavano me.

Da figlio di metalmeccanico e commessa si è trasformato in “boss”. Ha il pelo sullo stomaco?

No, sono un somaro, sono cresciuto con Happy Days, o con i film dove poi “arrivano i nostri”; sono cresciuto con una regola base: la libertà mia finisce dove inizia quella dell’altro, e aggiungo un po’ di San Francesco; poi una volta l’anno posso sbroccare.

Uno schiaffo?

Nel lavoro?

Nella vita.

Ah, sì (ha un tono alla “eccome”).

Il Trullo lo prevedeva.

Magari uscivi di casa e capivi che quel giorno sarebbe successo, altrimenti ti avrebbero sovrastato; ricordo ancora quando hanno provato a scippare mia madre trascinandola a terra per dieci metri: sono intervenuto e li ho corcati di botte… O quella volta in cui sono entrati nel garage per rubarmi il motorino, o ti mettevano in mezzo in tre o quattro.

E pure lì…

No, ho in testa la frase di Alberto Sordi ne La grande guerra, quando si dichiara vigliacco e con un grido disperato aggiungeva “che volete da me!”. Ecco, sono un pavido, ma lotto quando ho davanti un sopruso: non mi sono mai tirato indietro, anche se il 75 per cento delle volte le ho prese.

Un punto di riferimento.

Gigi Proietti. Ma non l’ho mai trattato né da collega né da maestro, solo da fan e non so quante volte l’ho visto in teatro; (ci pensa) lui da ragazzino mi ha formato, andavo ai suoi spettacoli e restavo basito, ridevo, mi alleggeriva l’esistenza. Solo oggi capisco quando mi dicono o scrivono “grazie, sei importante”.

Non ci credeva.

Ai complimenti e ai rimproveri non do mai molto peso, resto stabile; su questo sono un po’ presuntuoso: credo di capire le intenzioni del prossimo. Magari o per fortuna sbaglio.

Scettico.

Sono pur sempre un romano di via del Trullo.

Al Trullo abita anche Elio Germano.

(Ride) È arrivato da una quindicina di anni, con mio disappunto: prima ero il più famoso del quartiere, ci ho messo 40 anni, ora c’è lui a rompere le palle.

Torniamo a Proietti.

Mi è mancato, appena è morto ho pensato: e ora chi mi farà ridere? Per noi comici è complicato lasciarci andare davanti a un collega, lasciarci cullare dallo spettacolo; quasi sempre siamo in platea e ragioniamo in maniera professionale, studiamo la costruzione della battuta, proviamo ad anticipare, mentalmente, la conclusione. Con Gigi tornavo ragazzo.

Claudio Baglioni ha raccontato il suo stupore quando ha visto Proietti emozionarsi prima di una diretta tv.

Quando uno impara un monologo a memoria, e parla ininterrottamente per due ore, senza nessuno sul palco con te, senza alcuna imbeccata, è uno stress altissimo. Se dovevo fare memoria, studiavo 5-6 ore e per settimane, poi chiamavo un amico per assistere.

Lo declina al passato.

Non ci casco più: l’amico non ride, è il più infame degli spettatori, vuole solo i biglietti gratis e dopo lo spettacolo arriccia il naso e ti demolisce: “Meglio lo show di due anni fa”.

Lei e la tensione.

La notte precedente affogo nel più classico degli incubi: di non ricordare nulla e di aver perso il copione, quando in realtà so tutto a memoria, perché ossessionato dalla necessità di controllare tutto.

Il suo personaggio letterario preferito.

Come romanzo amo Il richiamo della foresta, poi leggo saggi di geopolitica e quelli che analizzano l’evoluzione del mondo.

No logo della Klein.

Un gran libro.

Altro che Boss

Con questo programma ho capito quanto la coesione sia l’unica salvezza: quando sono entrato, ho visto il terrore nelle parole, nei gesti, nella quotidianità delle persone.

Le si è stretto il cuore.

Ho pianto come non mi aspettavo, in alcuni ragazzi ho rivissuto i sacrifici di quando ero piccolo; uno non si rende conto che la vita è piena di imprevisti, e l’unica nostra forza è la solidarietà quando c’è bisogno, altrimenti sono cacchi.

In questi anni, chi l’ha stupita?

In primis Lucio Dalla: è venuto tre volte come ospite della mia trasmissione in radio, una volta con De Gregori, e avevamo pensato di fissare un appuntamento mensile per lanciare nuovi cantanti. Ma è morto.

Poi?

Quando a Radio2 è arrivato uno dei miei miti, Dan Aykroyd: doveva pubblicizzare una vodka da lui prodotta e i patti erano che non doveva cantare, ballare e chissà cos’altro. E invece gli butto lì un paio di battute, si rilassa e finiamo sul palco in modalità “Blues Brothers”, io nel ruolo di John Belushi… Blues Brothers era un film cult della mia parrocchia.

Si sente in “missione per conto di Dio”?

No, per conto della mia famiglia.

Chi è lei?

Uno che sogna. E non smette mai di sognare.

(Canta Francesco Guccini: “Ma sai cos’io pensi del tempo e lui cosa pensa di me. Sii saggia com’io son contento qui in via Paolo Fabbri 43”)