Dal V-day al 2022. Breve manuale della vaccinazione

L’autorizzazione è attesa per domani. Se l’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, darà il via libera al vaccino anti-Covid Pfizer-Biontech, allora partirà il conto alla rovescia per ottenere anche quella dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, che dovrebbe arrivare dopo un giorno o due.

 

Si parte dal 27 dicembre

Il 27 dicembre sarà il vaccine day in tutta Europa, le prime somministrazioni del vaccino, quasi 10 mila dosi in Italia. La vera campagna vaccinale scatterà però tra il 28 e il 29, nei primi 287 punti di somministrazione individuati dalle Regioni nei presidi ospedalieri.

 

Chi saranno i primi

La prima fase coinvolge gli operatori sanitari e sociosanitari (oltre 1,4 milioni di persone), il personale e gli ospiti delle case di riposo (più di 570 mila), gli anziani over 80 (4,4 milioni), con il primo stock del preparato Pfizer-Biontech: quasi 1,9 milioni di dosi. Mancano ancora 87 celle frigorifere per la conservazione del vaccino, che richiede il congelamento a -80˚, ma le Regioni che ne sono sprovviste le hanno acquistate. E se non fossero disponibili, provvederà la struttura del commissario all’emergenza

 

Chi somministrerà il vaccino

All’inizio il compito spetterà al personale messo a disposizione dalle Regioni. Tra un mese e mezzo circa entreranno invece in servizio i camici bianchi reclutati con il bando di Arcuri per la ricerca di 3 mila medici e 12mila tra infermieri e assistenti sanitari, attraverso un accordo con le agenzie per il lavoro interinale. Il bando, che prevede un contratto di nove mesi, scade martedì prossimo. Quasi in 15 mila hanno già risposto.

 

Come e quando tutti gli altri

Al termine della prima fase sarà vaccinato il personale delle forze dell’ordine e dei servizi pubblici essenziali. Poi si partirà con il resto della popolazione, partendo dai più anziani. Obiettivo che secondo il piano di Arcuri dovrebbe essere raggiunto già all’inizio della primavera. I vaccini saranno somministrati nei presìdi ospedalieri regionali, che a pieno regime saranno 1.500, comprese le unità mobili.

 

Quante dosi e quale efficacia

L’Italia, sulla base degli accordi Ue con le case farmaceutiche, avrà oltre 200 milioni di dosi, pari a circa il 13% del totale opzionato dalla Ue. Sei i prodotti in arrivo. Oltre a quello di Pfizer-Biontech, il vaccino dell’azienda americana Moderna (l’autorizzazione dell’Ema è attesa per il 7 gennaio): arriveranno 11 milioni di dosi. Ci sono poi i vaccini AstraZeneca (40,38 milioni), Johnson e Johnson (53,84 milioni), Sanofi (40,38 milioni), CureVac (30,285). Le dosi attese da Pfizer-Biontech sono 26,92 milioni. Quest’ultimo, come quello di Moderna, è basato sull’utilizzo della sequenza genetica del Covid, ossia l’acido ribonucleico, che è il messaggero molecolare (mRna) per fornire all’organismo le “istruzioni” per combattere il virus. Il primo ha un’efficacia del 95%, il secondo del 94,5 e può essere conservato per 30 giorni a una temperatura di refrigerazione che oscilla tra i due e gli otto gradi. Il vaccino di AstraZeneca ha invece una efficacia del 62%: è però in grado di dare una copertura del 90% se somministrato per la prima volta in mezza dose e successivamente in una dose intera.

 

La tabella di marcia del ministero

Il ministero della Salute ha elaborato una stima delle quantità di dosi che saranno disponibili nel 2021. Oltre 28 milioni nel primo trimestre, 57,2 nel secondo, quasi 54 nel terzo. Per arrivare a circa 15 milioni tra ottobre, novembre e dicembre, con una coda nei primi sei mesi del 2022, per oltre 48 milioni di dosi. Dal momento che il vaccino non è obbligatorio, si ritiene che una copertura del 60-70 % della popolazione possa essere già un ottimo risultato per raggiungere l’immunità di gregge.

Ecco come si tornerà a scuola il 7 (non tutti)

Bisogna davvero sperare che questa volta il coordinamento per il rientro a scuola, il 7 gennaio, dia buoni frutti. Fallito il tentativo di essere costruttivi ed efficaci prima a settembre e poi a dicembre ora arriva l’ultima chance per tutti: ministero dell’Istruzione, dei Trasporti, dell’Interno, Regioni, Province e Comuni. Da una settimana sono stati avviati i tavoli per essere pronti per dopo la Befana. Ieri c’è stata un incontro coordinato dal ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, per mettere a punto il documento che il governo presenterà entro il 23 dicembre alle Regioni e per il quale le Regioni potranno fornire suggerimenti di integrazione. Si vedrà se le richieste saranno accolte e se si potrà sperimentare per la prima volta un rientro a scuola privo di polemiche. Intanto, ecco come ci si sta preparando per evitare assembramenti quando si riverseranno contemporaneamente sui mezzi pubblici più di 20 milioni di persone, tra studenti e lavoratori.

I rientri. L’idea di base è fare in modo che il 7 gennaio rientri in classe il 75 per cento della popolazione rimasta in didattica a distanza. Escludendo le ultime due classi delle scuole medie (a casa nelle regioni rosse e arancioni) parliamo di un milione e mezzo di studenti delle scuole superiori. È l’obiettivo della ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, nonostante nelle ultime ore siano arrivati da più parti inviti alla cautela e alla necessità di attendere i dati sui contagi di fine anno.

Il direttore della prevenzione del ministero della Salute, Giovanni Rezza, ha detto: “L’incidenza dei casi è ancora elevata, credo che sia ancora presto per dire se potremo o no riaprire completamente le scuole, anche le superiori”.

Tra gli enti locali, c’è chi come Veneto e Campania ipotizza di far rientrare gli studenti a scuola in modo graduale, partendo a gennaio solo con il 50 per cento delle lezioni in presenza. Di certo, come già era stato anticipato nelle scorse settimane, c’è la disponibilità del ministro della Salute, Roberto Speranza, a fare in modo che le Regioni e i servizi sanitari locali garantiscano agli studenti e al personale scolastico una corsia preferenziale nel tracciamento, quindi precedenza sui tamponi e sui risultati, nonché sulla diffusione dei test rapidi per le scuole.

Trasporti. Sul fronte del trasporto pubblico sembra esserci maggiore distensione rispetto alle polemiche degli ultimi mesi. Dalla riunione di ieri è emersa la disponibilità a stanziare ulteriori risorse mentre nelle ultime settimane è arrivato il via libera per almeno 10mila mezzi di trasporto aggiuntivi. Si tratta soprattutto di autobus di privati, quindi a noleggio (da sette e nove metri, dodici per le tratte extraurbane) che sono stati reputati idonei al trasporto pubblico, per una spesa di circa 62 milioni di euro. La capienza massima resta al 50 per cento, così come restano in vigore precauzioni e obblighi. Oltre al potenziamento dei trasporti, però, sarà fondamentale la gestione dei flussi di passeggeri e di conseguenza la pianificazione degli spostamenti soprattutto nei grandi centri urbani, i veri territori a rischio. Anche in questo caso, gran parte delle responsabilità è in capo agli enti locali, che per il momento appaiono concilianti: “La scuola deve riaprire, anzi, andava riaperta anche prima” ha detto ieri a Sky Tg24 il presidente dell’Emilia-Romagna e della Conferenza della Regioni, Stefano Bonaccini.

Orari scaglionati. Ai prefetti, è stato affidato il duro compito di coordinare tutto: gli spostamenti delle persone, gli orari di apertura e chiusura, il monitoraggio dei flussi per favorire il rientro degli studenti e trovare le soluzioni migliori in base alle peculiarità del territorio. La parola chiave è “ingressi scaglionati”. Per evitare che ci si affolli sui mezzi pubblici nelle ore di punta, bisognerà organizzare sia entrate e uscite scolastiche sia, nella migliore delle ipotesi, quelle lavorative in modo che non si sovrappongano. Oltre a un monitoraggio costante, si pensa a diversificare anche gli orari dei negozi: in sostanza ritardare l’apertura, come sta facendo Milano, prevedendo anche i doppi turni in entrata a scuola (oltre al rientro al 50 %). Per le scuole l’ipotesi non è una mera estensione al primo pomeriggio delle ore di lezione. Finora si è parlato di due fasce orarie: 8-10 per l’ingresso e 15-16 per le uscite. Qualche incognita è legata alla disponibilità del personale scolastico (e dei sindacati) di modificare il calendario lavorativo: ad alcuni tavoli, infatti, i presidi sono stati critici. Resta aperta la possibilità di prolungare il calendario scolastico al 30 giugno, ma non è una direttiva “centrale”: potrebbe essere lasciata all’autonomia scolastica e comunque se ne parlerà più avanti.

I territori. I primi risultati di questo coordinamento iniziano a vedersi nei documenti operativi che i vari Comuni stanno consegnando ai prefetti. A Ferrara, ad esempio, il piano ha previsto un potenziamento di altri 17 autobus rispetto ai 181 già circolanti “valutato congruo a garantire la ripresa della didattica in presenza del 75% dei 14.726 studenti delle scuole secondarie superiori del ferrarese”. Costo: 750mila euro. “Dove si trovano i plessi scolastici più rilevanti”, sono state poi individuate “aree supplementari di fermata dei mezzi pubblici per evitare possibili situazioni di assembramento”. A Bologna sono stati aggiunti 33 bus, 17 a Rimini.

A Bergamo, il documento prevede che “gli istituti scolastici superiori e gli istituti di formazione professionale suddivideranno gli ingressi degli studenti (con una rigorosa ripartizione del 50%) su due fasce orarie (8 e 10) e le uscite su 4 fasce orarie (12, 13,14 e 15)” mentre le aziende di trasporto pubblico locale “garantiranno, negli orari di ingresso e uscita degli studenti, l’incremento del 42% delle corse extraurbane e del 30% delle corse urbane, anche con l’impiego di bus a noleggio” a cui si aggiunge “la necessità di un potenziamento dei servizi di controllo a opera di dipendenti delle aziende di trasporto pubblico presso le autolinee, le fermate e i punti di imbarco più affollati”.

Infermieri in leasing e personale scarso: i motivi del flop tedesco

In Germania la seconda ondata è in realtà la prima. È con questo paradosso che si spiega l’eccezione tedesca. La scorsa primavera “non abbiamo fatto le cose meglio degli altri, abbiamo soltanto reagito prima”, disse il 23 settembre il direttore di virologia dell’ospedale Charité di Berlino, Christian Drosten. “La pandemia inizierà seriamente soltanto adesso”, aggiunse a fine settembre.

E così è stato. I numeri confermano che la prima ondata in Germania è stata un’ondina se confrontata con i dati attuali. Il 30 aprile (verso la fine della prima ondata) il Paese aveva un totale di 159.119 casi Covid e 6.288 morti, secondo il bollettino quotidiano del Koch Institut. Ancora a fine settembre il virus era sotto controllo. Il bollettino Rki del 30 settembre registrava 289.000 casi in tutto dall’inizio della pandemia e 9.488 morti, 17 morti in un giorno. Ma la tendenza era già in salita, il tracciamento dei casi in difficoltà ed ecco l’esplosione: ieri i casi totali sono arrivati a 1 milione 479 mila, i morti in totale sono 26.181 (+15.000 in due mesi e mezzo), con picchi di 31.300 nuovi casi in un giorno e 698 vittime.

Cos’è cambiato nella seconda ondata? L’aumento dei numeri ha portato in evidenza le debolezze del sistema sanitario tedesco semi-privatizzato e la mancanza di personale che rende non utilizzabile una parte delle pur ricche strutture esistenti di rianimazione. Per dirla con chiarezza: in assenza di personale infermieristico, neanche i letti disponibili di terapia intensiva si possono usare, è stato ripetuto più volte. Un grido di allarme è arrivato tre giorni fa dal responsabile dell’associazione degli ospedali berlinesi Bkg: “A causa della massiccia carenza di personale infermieristico gli ospedali sono sempre più spesso costretti a ricorrere a personale in leasing che non conosce l’ospedale in questione e non conosce né le strutture né i colleghi”, ha detto Marc Schreiner. E la senatrice della Salute di Berlino, Dilek Kalayc, ha rincarato la dose dicendo che “gli ospedali lamentano che il personale infermieristico soprattutto specializzato nella terapia intensiva non viene messo a disposizione a posta dalle società di lavoro interinale”. Forse non vogliono metterlo a rischio? Fatto sta che il problema mai risolto di un organico assunto strutturalmente non sufficiente, nell’emergenza sta mostrando tutta la sua inadeguatezza.

L’altro lato della medaglia è la percezione del virus, la “nuova normalità” che ha fatto abbassare l’attenzione con effetti positivi per i singoli, ma devastanti per la società. Nel lockdown parziale di 6 settimane tra novembre e dicembre la socialità è emigrata dalle piazze, dai bar, dai locali alle case private, con feste e cene tra amici. E la riduzione dei contatti al minimo non c’è stata.

A questa “nuova normalità” si è saldato il “paradosso della prevenzione” di cui ha parlato il virologo Drosten ancora in primavera. L’assenza di un pericolo diffuso e concreto nella società, durante la prima ondata, ha contribuito ad alimentare teorie negazioniste e teorie del complotto. Il fenomeno negazionista nei Länder orientali di Sassonia-Anhalt, Bassa Turingia e Sassonia è particolarmente evidente. E se la Sassonia non sapete nemmeno dov’è sulla cartina, si può usare un espediente. Avete presente Lipsia, dove il 7 novembre una manifestazione di no-mask ha raccolto 40.000 partecipanti, tutti stipati a cantare senza mascherine? Lipsia è in Sassonia. Avete presente Goerlitz, dove l’Afd stava per strappare il primo sindaco importante della federazione e aveva avuto un consenso nel 2019 del 36%? Goerlitz è in Sassonia. Avete presente Bautzen, che ha un tasso di incidenza del virus che è più del doppio del picco bavarese della prima ondata? (674,9 nuove infezioni in una settimana per 100 mila persone di Bautzen il 18 dicembre).

Si, è sempre lì. In quel Land a metà novembre il tasso di mortalità era 46 volte superiore alla media dell’anno precedente, riferisce Detastis, l’istituto federale di statistica. Che i negazionisti in Germania si sovrappongano in gran parte all’elettorato di Alternative für Deutschland? È una domanda che si è fatta anche il quotidiano conservatore Faz nell’articolo “Sono gli elettori di Afd i portatori del coronavirus?”. Una mezza verità che si dice a mezza voce.

Il monoclonale si poteva usare (ed era pure gratis)

Il monoclonale della Eli Lilly offerto gratis all’Italia? Poteva evitare almeno 950 ricoveri. Una goccia nel mare degli ospedalizzati, ma comunque una speranza di fronte alla mancanza di una cura specifica contro il Covid, sia per le casse dello Stato, visti i costi di un ricovero. Già da novembre avremmo potuto somministrare 10 mila dosi del Cov-555, prodotto in Italia, e diventare il primo Paese Ue a sperimentare l’unica cura autorizzata contro il virus. Il tutto a costo zero.

L’offerta, però, è stata fatta cadere nel vuoto e i furgoni dalla BSP Pharmaceuticals di Latina partono verso Stati Uniti e Canada. Lo scoop del Fatto sul trial mancato non ha una risposta. Il viceministro Sileri l’attende da 74 giorni. Parla al Corriere il dg Aifa Nicola Magrini. “I monoclonali sono seguiti con grande attenzione da parte di Aifa, Ema e comunità di ricerca. Non è vero che non abbiamo accettato usi compassionevoli.” E i 10 mila flaconi offerti gratis per lo studio clinico? “I dati che hanno consentito l’uso in emergenza negli Usa non sono forse sufficienti per un’approvazione europea da parte di Ema”. Ma poteva l’Aifa autorizzarlo senza aspettare l’Ema? Sì. In passato sono stati autorizzati farmaci in base alla legge 648, art.1 comma 4, che lo permette per “medicinali autorizzati all’estero ma non sul territorio nazionale”. Inoltre, una direttiva europea sui medicinali (2001/83 EC) consente ai singoli Paesi Ue l’acquisto in emergenza dove non ci sia ancora l’approvazione Ema. Magrini ne ricorda i limiti d’utilizzo: “Vanno usati precocemente con infusione endovenosa a domicilio”. In realtà, negli Usa sono somministrati negli infusion centres ospedalieri. Il 4 dicembre, come si legge nel sito della multinazionale, la Eli Lilly ha siglato un accordo per le flebo a domicilio per limitare saturazione degli ospedali e rischi di contagio. Il dg Aifa ammette ora: “Sarebbe utile fare uno studio clinico comparativo”. Ottima idea, ma allora perché quasi due mesi fa ha rifiutato lo studio clinico che avrebbe consentito di trattare gratis 10mila pazienti?

Il professor Giuseppe Ippolito, membro del Cts e direttore dello Spallanzani di Roma, era presente in qualità di “osservatore” del Cts alla riunione del 29 ottobre. La sua contrarietà, stando a chi c’era, fu determinante. Ippolito nega sia dipeso dalla sua contestuale partecipazione a un analogo progetto di ricerca finanziato dal governo: solleva piuttosto obiezioni sull’efficacia e cita un trial del 28 ottobre (Blaze-1) che dimostrerebbe risultati modesti nel ridurre la carica virale con sintomi lievi o medi e un calo relativo del rischio di ricovero, dal 5.8% a 1.6%. Percentuali che dicono poco, ma rapportate a 10 mila pazienti con Covid iniziale ad alto rischio significa passare da 1.350 a 400 ospedalizzazioni: 950 ricoveri in meno, con una cura a costo zero. Ricorda che il 26 ottobre l’organismo di valutazione indipendente DSMB aveva interrotto il trattamento nei pazienti ospedalizzati per “assenza di benefici clinici”. “Tre giorni dopo – scrive il professore – la società farmaceutica proponeva di testare il farmaco in Italia. Quando si dice la coincidenza”, ventilando il grave sospetto che la sperimentazione venisse propinata agli italiani come cavie di serie B. Ma la proposta è del 7 ottobre, 19 giorni prima del “blocco” superato con l’autorizzazione Fda del 9 novembre.

Guido Silvestri, il virologo alla Emory University che da Atlanta si era speso per la donazione non ci sta. “Non è stata la Lilly a farsi avanti. Li ho dovuti trascinare io, quasi pregandoli in ginocchio e sfruttando l’amicizia personale con il loro ceo”, risponde. Anche l’azienda conferma l’invito alla riunione del 29 ottobre, non di averla organizzata. Gianluca Rocco, giornalista del TgCom, ai primi di dicembre ha perso il padre. “Quando si è aggravato – racconta – ho chiesto ai medici del Galliera di Genova della terapia anticorpale, se ne parlava da mesi. Mi hanno spiegato che serve per evitare che i positivi si ammalino al punto in cui è arrivato mio padre, per lui era tardi. Scoprire che la si produce a Latina e ce la volevano pure regalare mi lascia senza parole”.

Shopping e viaggi col freno a mano e proteste a Napoli

Sensi unici pedonali in alcune strade di Firenze, blocchi mobili anti-assembramenti in via del Corso e stazioni della metropolitana chiuse a Roma, filtri agli ingressi della Galleria Vittorio Emanuele di Milano e in altre città. I commercianti dicono che c’era meno gente rispetto allo scorso weekend, ma è stato comunque un sabato di shopping natalizio, code davanti ai negozi, folla e distanziamento impossibile. Traffico sostenuto anche sulle autostrade e treni (sia pure a capienza ridotta) pieni prima che l’Italia, alla vigilia di Natale, diventi “rossa”.

A Napoli la situazione è degenerata perché i 40-45 ristoratori del lungomare sono stati colti di sorpresa dall’ordinanza del presidente della Regione Vincenzo De Luca, che ripristinava la zona arancione (cioè la chiusura di bar e ristoranti appunto) fino al 23, ultimo giorno prima delle restrizioni ordinate dal governo: la Campania era appena stata promossa “gialla” dal ministro Roberto Speranza, come tutte le altre Regioni tranne l’Abruzzo. “Abbiamo comprato le derrate per lavorare questi quattro giorni, chi ci rimborserà?”, protestano gli esercenti. Già, perché i ristori promessi dal decreto illustrato venerdì dal presidente del Consiglio valgono solo per i giorni chiusura disposti a livello nazionale. E anche il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, aveva fatto un provvedimento per evitare affollamenti in 49 strade, ma poi l’ha ritirato protestando contro De Luca “che manca di rispetto ai cittadini e ai ristoratori”. Al Vomero comunque i negozi erano pieni.

Anche in Veneto, la Regione più colpita nelle ultime settimane, Luca Zaia ha disposto restrizioni ulteriori: divieto di spostarsi dal Comune di residenza dopo le ore 14 fino al 23 dicembre. Dal 24 al 6 gennaio ci si potrà muovere, secondo l’ultimo decreto legge, solo per lavoro, salute, necessità o “rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione” escluse le seconde case fuori Regione e per andare, al massimo in due più minori under 14 o persone non autosufficienti, solo una volta al giorno in una sola casa di parenti o amici nella stessa Regione. Il 28, il 29 e il 30 dicembre e il 4 gennaio, giorni “arancioni”, resteranno aperti i negozi, ma non ristoranti e bar.

I contagi giornalieri proseguono il loro lento calo: ieri ne hanno registrati 16.308, il rapporto nuovi positivi-tamponi è sceso al 9,27% ed è il dato più basso da ottobre. Va preso con le molle però perché comprende anche i tamponi di controllo e spesso si presta a contestazioni, come in Piemonte dove sono stati eliminati dai conteggi oltre 100 mila tamponi: erano antigenici e non molecolari. Veneto e Friuli-Venezia Giulia, secondo la Fondazione Gimbe, hanno le percentuali più alte di aumento dei casi totali, rispettivamente sopra il 14 e sopra il 12%. Per il ministero della Salute, però, anche Lazio e Liguria (oltre al Veneto) sono ad alto rischio, rispettivamente per le difficoltà negli ospedali e nel contact tracing. Calano i ricoveri (meno 405 nei reparti ordinari, meno 35 nelle terapie intensive) ma anche ieri 183 persone sono entrate nelle rianimazioni. I morti comunicati ieri sono 553, in calo rispetto a venerdì (674), il totale è 67.894 (quasi il doppio della prima ondata: 35 mila). Ma non è vero che abbiamo avuto più morti ogni 100 mila abitanti al mondo: il Belgio ha dati peggiori e anche San Marino.

Labbra e plastica, pelle e monopattini. È Marchetta Viva

Luciano Nobili, pit-bull del renzismo in Parlamento e in tv, giura che del fidanzato di Maria Elena Boschi, Giulio Berruti, sapeva ben poco. Tantomeno che l’emendamento da lui presentato nella legge di Bilancio in discussione alla Camera potesse andare a favorire proprio il 36enne attore. “Non sapevo che Berruti fosse odontoiatra – si è giustificato a Repubblica, che ha rivelato il regalino – per me è un attore”. Eppure gli sarebbe bastato compulsare il profilo Instagram di Berruti per trovare una sua foto con un camice blu in cui rimandava a un centro specializzato nella chirurgia estetica delle labbra (“Dr. Lipbeauty”). Ma Nobili, che non si era accorto di niente, ha presentato un emendamento per permettere anche ai medici odontoiatri di fare “punturine” per ritoccare labbra, naso e zigomi in aggiunta a un fondo da 3 milioni per finanziare corsi di aggiornamento di chirurgia estetica.

Quando è scoppiato il caso, il deputato renziano ha rivendicato l’emendamento che servirebbe per sanare la disparità tra “odontoiatri del vecchio e nuovo ordinamento”, in tutto 45mila medici. Ma poi la norma era così tanto necessaria che il deputato ha deciso di ritirare l’emendamento: “Voglio evitare strumentalizzazioni”.

Peccato che quest’ultima non sia l’unica leggina ad Italia Vivam nelle pieghe della Finanziaria. Una delle battaglie più serrate del partito renziano da un anno a questa parte è l’abolizione della plastic tax, la tassa da 45 centesimi al chilo sui produttori di imballaggi di plastica che partirà dalla seconda metà del 2021. In questa legge di Bilancio i renziani stanno provando a bloccarla creando forti scontri nella maggioranza. Un emendamento firmato da cinque deputati di Iv – tra cui Boschi – prevede proprio l’abrogazione della tassa inserita nella Finanziaria 2019.

Un’ostinazione curiosa, se non fosse che una possibile risposta arriva dall’elenco delle donazioni ricevute da Iv nel 2020: da ottobre il partito ha ricevuto due bonifici da 1.000 euro da Bibetech spa, azienda nel Vicentino leader nella produzione di “oltre 200 tipologie differenti di plastiche”. E chissà se Mattia Mor, imprenditore dell’alta moda convertitosi al renzismo, presentando il suo emendamento in favore delle aziende del made in Italy che potranno usufruire del credito d’imposta sulle consulenze contro la contraffazione, si fosse accorto che tra i contributori di Iv c’è Dernamaria srl, azienda di Bagno a Ripoli (Firenze) che produce accessori in pelle e realizza gli abiti per Ermanno Scervino, lo stilista leader del made in Italy tra i preferiti della moglie di Renzi, Agnese Landini.

E proprio Nobili rivendica dalla scorsa legge di Bilancio e con il decreto Rilancio norme in favore dei monopattini (come il bonus da 500 euro) fino a definirlo “il simbolo della battaglia di Iv per portare in Italia la micromobilità sostenibile”. Così, anche se con una piccola somma da 1.000 euro a ottobre, anche la Helbiz Italia, che produce monopattini disponibili in diverse città d’Italia tra cui Milano, Roma e Torino, ha iniziato a finanziare il partito renziano.

Conte si prepara alla verifica: le cartucce in vista di gennaio

Doveva essere la settimana della crisi, della decisione di Matteo Renzi di “staccare la spina” al governo con la conseguente caduta di Giuseppe Conte. Insomma, quella della resa dei conti definitiva, ché su Recovery Fund, servizi segreti e Mes “non si può più andare avanti così”, giurava il leader di Italia Viva lunedì, quando è iniziata la verifica di governo. E invece no, il presidente del Consiglio anche quest’anno mangerà il panettone, come si usa dire in gergo calcistico per gli allenatori in bilico. Ma non solo. Oltre a sventare – per il momento – la crisi di governo, la settimana appena passata ha regalato al premier una serie di cartucce che rafforzano la sua posizione a Palazzo Chigi in vista della sfida che lo attenderà a inizio anno, chissà forse anche in Parlamento, proprio contro Renzi. Durante gli incontri con M5S, Pd e LeU a Chigi, i partiti hanno messo sul piatto le cose da fare, ma nessuno ha chiesto un rimpasto, nonostante il premier non sia pregiudizialmente contrario (“Possiamo parlarne” va dicendo Conte). Per il M5S è “un argomento surreale”, il Pd sotto sotto ci spera, pur prendendo le distanze da Renzi. Che i dem vogliano un cambio di passo (a partire dalla delega sull’intelligence) lo ha spiegato ieri il vicesegretario, Andrea Orlando, in odor di ministero: “Prima bisogna decidere cosa fare e poi chi lo sa fare meglio” ha detto precisando che “il problema non è Conte, ma individuare un metodo” per gestire i 209 miliardi che arriveranno dall’Ue.

Restano i renziani che abbaiano, ma non mordono. Durante l’incontro di giovedì, durato solo mezz’ora e non certo amichevole, Renzi ha consegnato a Conte la lettera con le richieste perentorie: sì ai 36 miliardi del Mes, via la delega dei Servizi da Palazzo Chigi e rivedere la governance del Recovery. Qualcosa otterrà (la fondazione sui Servizi è già stata rinviata al 2021 con un decreto ad hoc), qualcosa no (il Mes). Sul Recovery la partita è incerta, ma Conte ha spiegato che “sarà trovata una sintesi”. Eppure, nonostante le minacce di ritirare le ministre Bellanova e Bonetti, Renzi si potrebbe accontentare di un mini-rimpasto con un paio di sottosegretari in due ministeri di peso come il Tesoro e lo Sviluppo economico o con un ministro in più, magari ai Trasporti. In pole ci sono Ettore Rosato e Maria Elena Boschi. Fonti di Iv fanno sapere di non essere interessate “alle poltrone” mostrando “irritazione” per le “veline” che escono sui giornali, ma è altrettanto vero che i renziani non possono permettersi una crisi al buio e nuove elezioni, ipotesi paventata da Pd (“No a larghe intese” ha ribadito ieri Orlando) e Quirinale: scomparirebbero dal Parlamento. Il momento decisivo arriverà prima del 6 gennaio, data entro la quale Conte si è impegnato a dare le risposte ai partiti: prima convocherà i leader presentando un documento di “sintesi” sui principali dossier e poi, nel Cdm successivo, porterà la bozza del piano sul Recovery per il via libera definitivo. “Va approvata presto” ha dato la linea ieri il segretario Pd, Nicola Zingaretti.

Ma giovedì è stato anche il giorno della liberazione dei 18 pescatori di Mazara del Vallo presi in ostaggio da 108 giorni dai libici. Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, insieme al portavoce Rocco Casalino, sono volati a Bengasi per incontrare il generale Haftar: nonostante le critiche per una possibile legittimazione politica di Haftar con la scelta inusuale di volare personalmente in Libia, Conte e Di Maio hanno potuto rivendicare la liberazione dei pescatori come un successo del governo. Infine, seppur dopo giorni di tensioni nella maggioranza tra l’ala rigorista dei ministri Franceschini, Speranza e Boccia e quella più aperturista di Conte e del M5S, venerdì è stata la serata del decreto per il lockdown di Natale, che ha lasciato una serie di deroghe volute proprio dal premier e stanziato 650 milioni per i ristori immediati a bar e ristoranti costretti a restare chiusi. “È una scelta di equilibrio per chiudere questo incubo in attesa del vaccino”, ha spiegato Conte in conferenza stampa. La settimana del premier però si è conclusa ieri con il sondaggio dell’Istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli sul Corriere che, di fronte a un calo di gradimento del governo (-3%) rispetto al mese scorso, registra la fiducia nel premier in risalita, dal 55 al 57% degli italiani. Condizioni ideali per resistere anche stavolta.

M5S, Di Maio e Crimi la blindano: “Forza Virginia, avanti tutta”

“Forza Virginia, avanti tutta”. “Il Movimento 5 Stelle resiste con te”. Non è dato sapere se quelle di Vito Crimi e Luigi Di Maio siano “parole di circostanza”, come lasciato intendere da Virginia Raggi alla sua uscita da Palazzo di Giustizia. Fatto sta che non ci sono più dubbi: l’assoluzione in Corte d’appello spiana la strada alla sindaca uscente verso la ricandidatura a Roma sotto la bandiera pentastellata.

“Nonostante il M5S”, ripetono dal Campidoglio, fra sorrisi e brindisi. Mentre il Pd passerà probabilmente i prossimi due mesi a guardarsi intorno, schiacciato fra la fuga dei big, le ambizioni dei “sette nani” della politica locale e l’interventismo di Carlo Calenda, lanciato verso la corsa solitaria. Sono bastati pochi secondi, ieri mattina, a cestinare mesi di reciproco corteggiamento fra le diplomazie di Pd e M5S, che immaginavano di replicare nella corsa in Campidoglio l’attuale schema governativo, nonostante la presenza di Virginia.

La sentenza pronunciata dal giudice Antonio Lo Surdo ha restituito la definitiva solidità alla sindaca, in campo già dall’estate. Una forza tale da spingerla ad attaccare il partito che la dovrà sostenere. Le prime parole di ringraziamento, infatti, Virginia Raggi le ha riservate a “me stessa”, al “mio staff” e alle “persone che mi sono state vicine”. Poi si è scagliata contro chi “con parole di circostanza” vuole “provare a salire sul carro del vincitore” dopo “questi quattro lunghi anni di solitudine politica”.

Crede, Virginia, “che debbano riflettere in tanti, anche e soprattutto all’interno del M5S”. Frasi che non sono passate inosservate e che hanno generato fastidio, come trapela dai vertici del Movimento. Che però hanno le mani legate, in quanto qualsiasi altra soluzione sarà agli occhi degli elettori “ingiustificata e ingiustificabile”. “Chiudete er ponte d’Ariccia”, ha commentato beffardamente ieri Alessandro Di Battista, in calce a un post dove parlava di “fuoco amico partito da chi non sarà mai alla sua altezza, ma non vuole accettarlo”.

Pur turandosi il naso, almeno il M5S a Roma ha un candidato forte e riconoscibile. Sono gli altri che brancolano nel buio. A iniziare dal Partito democratico. Ieri Nicola Zingaretti è intervenuto molto tardi, dopo le 18 e solo per dire che “sono contento che Virginia Raggi sia riuscita a dimostrare la propria estraneità ai fatti contestati”. La valutazione politica viene lasciata al segretario romano, Andrea Casu, secondo cui “per noi non cambia nulla” in quanto “il malgoverno della sindaca è sotto gli occhi del mondo”. “Andiamo avanti con l’alternativa”, dice Marco Miccoli, vicinissimo al segretario dem. Ma quale? Il tavolo di coalizione cittadino è fermo, gli esponenti locali e i presidenti di municipio pronti a candidarsi chiedono le primarie, ma programmarle a febbraio, nel bel mezzo di una possibile terza ondata Covid, sarebbe inopportuno. Anche per Carlo Calenda, che si è alzato giorni fa dal tavolo e rimane sulla sua posizione del “chi mi ama mi segua”.

Mentre c’è chi ritiene che, in extrema ratio, Nicola Zingaretti sarà costretto a “sporcarsi le mani” in prima persona.

Non sta messo meglio il centrodestra. “Ora Raggi e più forte, si scelga bene il candidato”, avverte il senatore Francesco Giro. Guido Bertolaso è sempre il favorito, ma la partita non è chiusa e, comunque, a destra si va dichiaratamente col manuale Cencelli. È probabile che anche qui si deciderà tutto all’anno nuovo.

“Da fanatici chiedermi di dimettermi in caso di una mia condanna”

Dopo una giornata infinita, all’ora di cena, la sindaca di Roma, Virginia Raggi, torna a casa. Appena iniziato il colloquio con il Fatto, le comunicano la morte di Nedo Fiano, padre del deputato Pd Emanuele, e uno degli ultimi sopravvissuti all’orrore di Auschwitz. “Porgo le mie condoglianze, anche il figlio Emanuele ha dovuto sopportare vicende amare”, dice. Ma poi torna subito sulla sua storia, ossia sulla sentenza che l’ha assolta e su tutto ciò che le gira attorno: “Ora provo sollievo, ho sempre avuto la coscienza a posto. Sapevo di essermi comportata onestamente. Però sono stati anni di solitudine politica durante i quali avrei gradito maggiore sostegno dal M5S. Solo la mia squadra di collaboratori non mi ha mai abbandonata”.

Perché è stata lasciata sola? Anche lei si è isolata, come accusano alcuni 5Stelle?

Io non mi sono mai isolata, e non ho mai provato diffidenza verso il M5S. Ho un’interlocuzione costante con i suoi ministri.

Però è successo qualcosa…

La ragione non la conosco. Posso ribadire che politicamente mi sono sentita sola, sì. I silenzi dei vertici sono stati imbarazzanti e lasciano amarezza. Guidare la Capitale d’Italia è un compito difficile, eppure mi sono piovute addosso critiche feroci proprio da chi avrebbe dovuto sostenermi.

Il tavolo di centrosinistra su Roma si è fermato, in attesa della sua sentenza. La sua condanna avrebbe riaperto la trattativa con il M5S…

L’ho trovato squallido. Ho dovuto dare ragione a Carlo Calenda che ha denunciato il tentativo di “inciucio” alle mie spalle. E soprattutto ha denunciato il “silenzio politico” di chi sperava nella mia condanna per avere uno spazio che evidentemente non riesce a conquistarsi con argomentazioni politiche.

Lei ce l’ha con i big del M5S: come Luigi Di Maio.

Non ce l’ho con nessuno in particolare. In questi giorni ho sentito Beppe Grillo e Davide Casaleggio, e ho parlato anche con Alessandro Di Battista: li ringrazio. Anche altri mi hanno inviato dei messaggi e mi ha fatto davvero piacere.

Appena uscita dal tribunale ha detto che “molti devono riflettere nel Movimento”. Cosa intendeva?

È evidente che qualcuno ha espresso giudizi senza avere contezza di cosa stesse parlando. Molti dovrebbero rivedere le proprie posizioni dettate più dal fanatismo che dalla ragione. Ad esempio, io credo che vadano riviste le regole che portano alle dimissioni di un amministratore, come poteva capitare a me. È inconcepibile che la sindaca di Torino Chiara Appendino abbia dovuto autosospendersi dal M5S per una condanna relativa a un reato ai limiti dell’assurdo: aver appostato, con l’avallo della Corte dei Conti, un debito nel bilancio 2018 del Comune anziché in quello del 2016. La regola è sbagliata. Lo sanno tutti, ma nessuno ha il coraggio di intervenire.

Ma lei si sente ancora del M5S? Perché ad ascoltarla…

Io mi sento assolutamente del Movimento, sono tra coloro che lo hanno fondato qui a Roma. Però ritengo che debba avere più coraggio.

Cioè?

Ho notato che talvolta tende a non voler disturbare l’alleato di governo, il Pd. Ma non bisogna cedere sui nostri temi: abbiamo un’identità e va mantenuta. Non dobbiamo diventare la copia degli altri.

Su quali temi nota un cedimento?

Per esempio sulla legge per i poteri speciali a Roma. Se ne parla, ma senza mai arrivare al punto.

Ne ha discusso con il premier Conte?

Assolutamente sì, e lui è d’accordo su questo provvedimento. Poi è evidente che il Parlamento deve esprimersi. Ma siamo sempre fermi. Forse una Capitale con poteri da vera capitale fa paura.

Il M5S dovrà darsi una segreteria collegiale. Esclude di candidarsi?

Al momento sono concentrata su Roma. Io comunque non cerco poltrone. La mia priorità è far ripartire il lavoro nonostante il Covid. In tempi come questi gli Stati generali non possono essere l’architrave della politica italiana.

Resta il fatto che lei dovrà ripartire con il M5S. Come?

Il Movimento è a un bivio: o matura o è destinato a essere sempre più ininfluente. Io penso a Roma. L’Italia è in ginocchio per il Covid e dobbiamo rilanciare il lavoro. Il microcredito era una delle nostre battaglie. Parliamo di temi.

E il Pd? È impossibile il dialogo?

Sono sempre aperta al confronto, ma purché sia alla luce del sole. In Parlamento potrebbero lavorare per sostenere Roma nella legge di Bilancio. Abbiamo presentato progetti per 25 miliardi da finanziare con il Recovery Fund. Parliamo di cose concrete. Che aspettano?

Raggi, fine di un incubo: assolta anche in appello. “Non fece nessun reato”

Un applauso nell’aula Europa della Corte d’appello di Roma ha accolto la decisione. Com’era già successo in primo grado, anche il giudice Antonio Lo Surdo sancisce che “il fatto non costituisce reato”, assolvendo dall’accusa di falso documentale la sindaca Virginia Raggi, per aver dichiarato alla Responsabile anticorruzione del Campidoglio di aver deciso “da sola” la nomina (poi revocata) di Renato Marra, a capo dell’Ufficio direzione turismo. Secondo l’accusa, invece, l’incarico sarebbe stato fortemente caldeggiato dal fratello Raffaele, allora a capo delle Risorse umane del Campidoglio; e per questo la procuratrice generale Emma D’Ortona aveva chiesto la condanna a 10 mesi. “Questa è una vittoria mia e del mio staff, delle persone che mi sono state a fianco in questi quattro lunghi anni di solitudine politica, ma non umana”, ha detto la sindaca al termine dell’udienza, accerchiata da diversi consiglieri e attivisti che l’hanno sostenuta.

Già nelle motivazioni della sentenza di primo grado il giudice Roberto Ranazzi aveva ritenuto la Raggi “vittima di un raggiro ordito dai fratelli Marra in suo danno”, in quanto la sindaca “non aveva alcun interesse a tutelare né la persona né la figura di Raffaele Marra”. Non aveva avuto dunque nessun motivo di “dichiarare il falso”. Il giudice Ranazzi sottolineava lo strappo che c’è stato tra la Raggi e Marra, concretizzatosi con l’allontanamento di quest’ultimo dall’ufficio di gabinetto alla nomina “temporanea di direttore del Dipartimento per le Risorse umane”, con un “ruolo esclusivamente amministrativo” e “una retribuzione alquanto inferiore”.

Quella di ieri è stata un’udienza dai toni pacati, iniziata con la richiesta di condanna a 10 mesi, formulata del procuratore generale Emma D’Ortona. Nel corso della sua breve requisitoria, il magistrato ha provato a smontare la precedente assoluzione, evidenziando gli errori di valutazione che sarebbero stati commessi dal giudice. Ci sarebbe stato un “travisamento” dei fatti, secondo la pg, con una “lunga e complessa ricerca del movente” e l’errore di aver “trasformato un’indagine documentale in dichiarativa, creando una distorsione dei postulati dell’accusa”.

La Raggi, ha ribadito in aula la pg, avrebbe “omesso di garantire che Marra si astenesse per il ricollocamento del fratello”. Infine, la pg D’Ortona ha letto i messaggi intercorsi tra la Raggi e Marra, legati alla retribuzione che avrebbe percepito il fratello, circostanza che aveva fatto infuriare la sindaca quando ne era venuta a conoscenza. “Se lo avessi fatto vicecomandante – scriveva Marra – la fascia (retributiva, ndr) era la stessa”. “Infatti abbiamo detto ‘vice no’ – risponde la Raggi –. Abbiamo detto che restava dov’era”. Eppure questi messaggi, per l’accusa, sarebbero stati una “ulteriore prova dei numerosi incontri per la nomina” e “del ruolo titanico del Marra”. Il frequente utilizzo del termine “abbiamo” tra Raggi e Marra, secondo la D’Ortona, farebbe desumere la “conoscenza attiva” della sindaca. Una ricostruzione che non ha retto neanche in Appello.

Più lunga, invece, l’arringa dell’avvocato Pierfrancesco Bruno che, assieme ai colleghi Alessandro Mancori ed Emiliano Fasulo, difende la Raggi. Oltre a evidenziare il distacco tra la sindaca e Marra, non solo per il ridimensionamento del ruolo, ma anche per le differenze di veduta in ambito amministrativo, l’avvocato ha spiegato che la Raggi “non partecipò alla riunione del 26 ottobre 2016”. Fu in quell’incontro, tenuto “informalmente nell’ufficio di Marra”, che, secondo l’accusa, sarebbe “maturata la domanda” del fratello Renato. Sarebbe una “mera suggestione” l’interpretazione dell’utilizzo del termine “avevamo”, per desumere che la sindaca sapesse o fosse d’accordo con Marra, ha aggiunto l’avvocato Bruno. Una tesi questa che alla fine ha avuto la meglio.

In attesa della sentenza, ieri, Virginia Raggi è apparsa tranquilla. In aula a sostenerla, oltre al suo staff, c’era il marito, ma anche il capogruppo M5S Giuliano Pacetti e i consiglieri Paolo Ferrara, Annalisa Bernabei e Angelo Diario.

Dopo la lettura della sentenza, la Raggi ha abbracciato il marito e i suoi legali. Solo alla fine, la prima cittadina ha serrato le file dei suoi: “Andiamo a lavorare, forza”.