Due Raggi e due misure

A volte la cronaca sa essere ancor più ironica della storia. E così accade che in poche ore la mitica Procura di Roma del grande Pignatone e dei suoi allievi, santificata per anni dai turiferari dei giornaloni, venga messa definitivamente in mutande da due eventi giudiziari che parlano da soli: le richieste di rinvio a giudizio per Tiziano Renzi, Alfredo Romeo &C. che Pignatone &C. volevano a tutti i costi far archiviare sul caso Consip; e l’assoluzione anche in appello di Virginia Raggi che Pignatone &C. volevano a tutti i costi far condannare sul caso Marra. Il fatto poi che l’inchiesta Consip sia partita a Roma nel dicembre 2016 e sia ancora impantanata in udienza preliminare, mentre l’inchiesta Raggi è partita nel gennaio 2017 e ha già finito l’appello, è solo la ciliegina sulla torta. Ma rende l’idea del degrado di gran parte della magistratura, che nessuna persona sensata può ridurre al caso Palamara. Antonio Massari ne ha appena pubblicato un’impietosa radiografia in Magistropoli (ed. PaperFirst). Che ora va aggiornata coi fatti di ieri e dell’altroieri, degni coronamenti di una stagione partita con le grancasse su “Mafia Capitale”, un’ordinaria storia di corruzioni e sganassoni gabellata per la nuova Piovra.

Tutto comincia nel 2016. Al governo c’è l’Innominabile, che si gioca tutto nella campagna per il referendum costituzionale del 4 dicembre. La Procura è costretta ad aprire un fascicolo dopo la denuncia della Consob su uno scandalo che coinvolge il premier e il suo editore preferito, Carlo De Benedetti. Che è stato registrato al telefono col suo broker Gianluca Bolengo il 16 gennaio 2015 mentre gli ordina di investire 5 milioni nelle banche popolari perché il giorno prima l’amico Matteo gli ha preannunciato un imminente decreto che le trasforma in Spa e ne aumenta il valore. “Passa, ho parlato con Renzi ieri, passa”, dice l’Ingegnere al broker parlando del decreto. Che infatti passa il 20 gennaio e, grazie a quell’informazione privilegiata e vietata, CdB guadagna 600mila euro. Per i codici penali di tutto il mondo, si chiama insider trading, infatti Consob lo denuncia ai pm romani. I quali non delegano indagini al Nucleo tributario della Gdf e non indagano né Renzi né CdB, ma solo il povero Bolengo. Poi, nel giugno 2016, chiedono l’archiviazione. Il tutto in gran segreto, tant’è che emergerà solo nel 2018 in Commissione Banche. Ma torniamo a giugno 2016. La Raggi viene eletta sindaco. Subito i giornaloni svelano un’indagine sulla sua neo-assessora all’Ambiente Paola Muraro per fantomatiche infrazioni ambientali commesse in 14 anni di consulenze per l’Ama, emerse proprio all’atto di nomina.

Per mesi la Muraro viene mostrificata a suon di luride allusioni alla sua vita privata e accostamenti financo a Mafia Capitale. Il 21 settembre la Raggi ritira la candidatura olimpica di Roma. Il 4 dicembre il premier perde il referendum e lascia il governo a Gentiloni. Il 13 la Procura di Roma invia un avviso di garanzia alla Muraro, che si dimette (dopodiché le accuse, come per miracolo, evaporano). E il 16 dicembre fa arrestare il vicecapo di gabinetto della sindaca, Raffaele Marra, per un alloggio pagato dall’immobiliarista Sergio Scarpellini tre anni prima (èra Alemanno). Scarpellini accusa altri 10 politici, inclusi Verdini e il pd Montino, per altri stabili regalati o affittati gratis, ma nessuno viene arrestato, mentre Marra si fa un anno e mezzo di custodia cautelare. Il 22 dicembre i pm napoletani Woodcock e Carrano trasmettono ai colleghi romani l’inchiesta Consip su presunte manovre fra l’imprenditore Romeo, Tiziano Renzi e il suo galoppino Carlo Russo per pilotare il più grande appalto pubblico d’Europa (da 2,7 miliardi): l’ad di Consip, il renziano Luigi Marroni, ha appena svelato una fuga di notizie sulle cimici piazzate negli uffici della società e fatto i nomi delle talpe: il ministro renziano Lotti, il comandante dei carabinieri Del Sette e il capo dell’Arma toscana Saltalamacchia. Il Fatto rivela l’inchiesta, mentre gli altri giornali preannunciano un avviso di garanzia alla Raggi. Che non è neppure indagata, ma chi di dovere già sa che lo sarà.

Su Consip la Procura di Roma fa ben poco, salvo indagare su chi ha scoperto lo scandalo (il pm Woodcock e il capitano Scafarto): evita addirittura di sequestrare il cellulare di babbo Renzi, poi ne chiede l’archiviazione per mancanza di indizi (che magari erano nell’iPhone). Ma il gup Gaspare Sturzo la respinge, intimando ai pm di indagare meglio. Sulla Raggi invece i pm capitolini fanno di tutto: avviso di garanzia il 24 gennaio, 8 ore di interrogatorio l’8 febbraio, cinque reati contestati (tre abusi d’ufficio, un falso, una rivelazione di segreti d’ufficio). Alla fine la montagna partorisce il topolino: tutto archiviato tranne il falso per la dichiarazione della Raggi all’Anticorruzione sul ruolo “meramente compilativo” di Marra, capo del Personale, nella nomina del fratello a capo dell’Ufficio Turismo, decisa da lei e dall’assessore competente in un “interpello” per far ruotare i 190 dirigenti comunali. Un processo senza reati né moventi né prove, già caduto con l’assoluzione in tribunale, ma replicato dai pm in appello. Risultato finale: l’altroieri babbo Renzi, Romeo&C. imputati per Consip; ieri la Raggi assolta anche in secondo grado. Come dice sempre qualcuno, “il tempo è galantuomo”. Almeno il tempo.

Gramsci in silenzio, il bulgaro Kabakciev: la divisione che dannò la sinistra nostrana

Anche Ezio Mauro non può resistere alla tentazione di ricordare la scissione di Livorno e la nascita del Partito comunista d’Italia come una sciagura della sinistra divisa. “Dividendosi nel momento di massimo pericolo”, all’alba del fascismo, la consapevolezza della catastrofe avvenuta dopo getta una luce parziale su quella originaria divisione. Mauro non vi indugia anche se vuole ricordare che oggi la “sinistra è senza nome”, essendo il termine comunista durato troppo a lungo e il “socialista” troppo poco. Le colpe di questa indicibilità della sinistra attuale risalgono a quella scissione, consumatasi nel teatro Goldoni di Livorno separato da 2124 passi dal teatro San Marco dove si riunì la “frazione comunista” guidata da Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci. Ed è nel racconto delle giornate che vanno dal 15 al 21 gennaio che si vede il valore e la forza del libro, testimonianza di un ritmo che fa di Mauro uno dei migliori giornalisti italiani.

Qui il libro diventa storia mista a cronaca, colta e di ampio respiro con i giusti rimandi a quello che i personaggi cruciali di quelle giornate rappresentano. Gli “unitaristi” di Serrati, i riformisti di Turati e Treves i comunisti capeggiati da Bordiga, ma soprattutto dal gruppo torinese dell’Ordine nuovo il cui leader è Gramsci. Si raccontano gli interventi fondamentali, si dà conto del silenzio di Gramsci che pure viene invocato a gran voce dai delegati, del ruolo decisivo dell’Internazionale comunista, rappresentata dal “delegato, il compagno Christo Stefanov Kabakciev” dopo che il governo italiano aveva negato il visto ai ben più autorevoli Bucharin, Zinov’ev e Angelica Balabanoff. Gli interventi, la conta, la vittoria del “centrista” Serrati e la scomunica dell’Internazionale, poi la marcia “in fila indiana” fino al San Marco. Due partiti, una lacerazione. Che forse è ancora rimediabile, spera Mauro. Anche se quei partiti, però, non ci sono più da tempo.

La dannazione, Ezio Mauro,Pagine: 192, Prezzo: 18, Editore: Feltrinelli

 

Brutta, lesbica e “bastarda”, ovvero un genio

Un giorno, passeggiando sul Pont des Arts di Parigi, dove si trasferì a 19 anni, Violette Leduc incrociò una coppia e sentì lei dire: “Non ho mai visto nessuno di più brutto”. Che lo fosse davvero o meno, quel commento fu una lama perché era la prima a percepirsi così. Vedersi brutta equivaleva, per lei, a sentirsi esclusa e quell’esclusione era legata alla sua natura di bastarda.

Nata nel 1907 dal colpevole amplesso tra una cameriera e il rampollo della famiglia per cui lavorava, che mai la riconobbe, ebbe con la madre un rapporto giocato tra livore ed estremo bisogno d’amore, a influenzare ogni sua futura relazione. “Sarò stata solo un’esplosione di solitudine. È il mio capolavoro intimo”, si legge ne L’affamata e “nessuno mi vuole, io sono un deserto che monologa” in una delle epistole all’amica De Beauvoir. La loro corrispondenza inedita, 297 missive autografe, è stata appena battuta da Sotheby’s per quasi 60 mila euro e narra una passione travolgente non corrisposta, come tutti gli amori che visse Leduc. Rincorreva uomini gay che non potevano ricambiarla e donne, come Beauvoir, che l’apprezzavano, ma ne rifiutavano le avance. Le riuscì di esser voluta e stimata come scrittrice da penne quali Genet, Cocteau, Sartre, Camus, meno come essere umano. D’altronde, fedele a se stessa, non si sforzò mai di risultare gradevole o conforme.

Egocentrica, capricciosa, ossessiva seppur ipersensibile, pativa pure chi dormiva mentre lei vegliava. “Io odio il mio dormiente che sa crearsi, con l’incoscienza, una pace che mi è estranea” scrisse. Una delle prime immagini che mise nero su bianco, “mia madre non mi ha mai dato la mano”, vide la luce in Normandia nel ’42, sotto un melo, durante un soggiorno su invito di Maurice Sachs, autore ebreo omosessuale. Lui, sfinito dalle sue confessioni, la supplicò di tacere e impugnare una penna e così nacque L’asfissia, con al centro la figura materna, poi edito da Gallimard con la benedizione di Camus. Violette ambiva a scrivere da sempre ma aveva scarsa autostima: per le umili radici, per le carenze affettive, perché dopo una maturità fallita rinunciò agli studi e si barcamenò come poté. Da quel momento in poi, però, non smise più di iniettare su carta la sua stessa vita in un mix di appassionata violenza, erotismo carnale, disperata tristezza.

L’incontro con Beauvoir, che come quella donna sul ponte la definì femme laide, risale al ’45, al Cafè Flore di una Parigi liberata, e fu un’apparizione. Violette se ne innamorò all’istante e ne divenne affamata (L’affamata è per lei); Simone no, ma ne sarà per un ventennio consigliera, protettrice, finanziatrice (con la complicità di Sartre) ed editor severa. È nel ’54 che, fresca di Goncourt con I mandarini, Simone presentò a Gallimard Ravages, romanzo di Leduc che con i suoi ménages à trois era affine al suo L’invitata. Le prime 150 pagine, incentrate sull’amore lesbico tra Thérèse (che è Violette) e l’amica di collegio Isabelle, sua prima esperienza sentimentale, furono censurate perché ritenute oscene e Ravages andò in stampa mutilato, castigato. La liaison tra le due collegiali approdò in libreria in versione integrale, col titolo Thérèse e Isabelle, ora riproposto da Neri Pozza, solo dopo mezzo secolo e molte peripezie. Un testo di struggente poesia e sensualità, in cui il piacere femminile dato dall’incontro e dall’esplorazione dei corpi è rappresentato con chirurgica precisione e ardente tensione.

Quella censura fu per Leduc una ferita: non voleva essere una scrittrice scandalosa, voleva essere una scrittrice e basta. Quando nel ’64 uscì La bastarda, sua opera più nota in cui si racconta senza filtri, sorretta dalla lusinghiera prefazione di Beauvoir, non riuscì a gioire per la notorietà conquistata. Ne diffidava. Si rallegrò invece per i guadagni, lei che aveva vissuto di stenti, perché coi proventi delle prime 100 mila copie acquistò una casa nella provenzale Faucon, luogo prediletto, l’unico in cui trovò pace, diversamente dal caos di Parigi che sempre ne acuì il malessere. Ed è lì che morì a 65 anni di cancro al seno. Ma le sue opere, ingiustamente dimenticate e pressoché introvabili, vivono ancora e sarebbe ora di esaudire la sua speme d’esser vista e amata, recuperandole e ripubblicandole. Questo sarebbe il suo vero riscatto.

Il mistero della bella vedova che provocò duelli con la sciabola nella politica italiana

Immaginate la scena: Giuseppe Conte che viene insolentito da Matteo Renzi nell’aula di Palazzo Madama e quindi lo sfida a duello. Seguono interminabili riunioni di Palazzo (altro che verifica) tra padrini per stabilire condizioni, luogo e arma della tenzone. Solo fantasia nell’anno del Signore 2020, ma nell’estate del 1863 una scena del genere accadde sul serio. Fu quando Marco Minghetti, presidente del Consiglio della Destra storica, si sentì offeso in aula dalle accuse del suo predecessore Urbano Rattazzi. Per fortuna, il duello non ebbe conseguenze sanguinose.

Sì, c’era un tempo in cui la politica duellava a colpi di sciabola, finanche dopo il divieto stabilito dal Codice penale del 1889. E di ben cinque duelli politici parla l’ultimo libro di Giorgio Dell’Arti, gran maestro di giornalismo e scrittura: Gli onorevoli duellanti ovvero Il mistero della vedova Siemens. Una storia in cui Dell’Arti è inciampato per sbaglio digitando l’anno 1910 anziché 1901 nell’archivio del Corriere della Sera. Ne è venuto fuori un romanzo incredibile e pieno di dettagli dell’epoca, autentica manna per lo stile essenziale e coinvolgente di Dell’Arti.

Siamo appunto a Roma nel 1910 e tutto muove da una morte: quella del generale Tancredi Saletta, senatore del Regno e già capo di Stato maggiore dell’esercito. L’anziano militare è vegliato sino all’ultimo da un’avvenente bruna trentenne: Eleonora Füssli, nota come la vedova Siemens, avendo sposato un esponente della dinastia industriale teutonica. Nora è l’amante anche di un altro generale, Fecia di Cossato. Attorno a lei, i sospetti dell’opposizione di Sinistra, incarnata dal repubblicano mazziniano Eugenio Chiesa, ricamano una tela fatta di spionaggio, appalti militari, salotti trasversali, risse parlamentari e giornalisti onnipresenti. Chiesa viene sfidato a duello per ben cinque volte, con risvolti a tratti esilaranti. Notevole, molto.

 

Gli onorevoli duellanti, Giorgio Dell’Arti, Pagine: 174, Prezzo: 18, Editore: La nave di Teseo

La versione di Harvey (al secolo Weinstein)

“Era soltanto un uomo, soltanto un uomo con i calzini rossi e la maglietta troppo sottile, un dolore al molare sinistro e la schiena che stava praticamente per collassare”. Un uomo di nome Harvey, che Emma Cline (caso letterario nel 2016 con il suo esordio Le ragazze) spia nei suoi movimenti e nei suoi pensieri lungo 90 pagine intrufolandosi in una villa in Connecticut nel giorno che precede un verdetto giudiziario.

Sembra una trama abusata, una di quelle che si snodano su un potente caduto in disgrazia. Ma in questo Harvey, edito da Einaudi Stile Libero, l’invenzione letteraria affonda le radici nella cronaca. Basta far seguire a Harvey il cognome Weinstein. Sì proprio lui, il produttore cinematografico americano accusato di molestie sessuali. Nel racconto di Cline però non c’è il vero Weinstein, o meglio, c’è quel tanto di vero che la letteratura riesce a cogliere nell’umanità di ciascuno. Ecco allora che l’uomo e il personaggio si sovrappongono o si distanziano in un ritratto sempre autentico. L’opinione che Harvey ha di sé il lettore la scopre attraverso i suoi monologhi interiori: “La gente se ne stava a casa a ingurgitare quello che le davi, si sparava ore e ore di televisione. Erano loro a fare la cultura, ne era sempre stato convinto: tutto scendeva goccia a goccia da lui, da quelli come lui, dalle scelte compiute in una certa stanza di un certo ufficio di Manhattan, scelte che plasmavano il discorso”. Sulla scorta di questo delirio di onnipotenza, Harvey sembra non avere cognizione che il suo destino è segnato, che solo un miracolo può evitargli la condanna.

Accudito da Gabe, cameriere che ha lo zelo dei sottoposti che fiutano i rovesci, il Weinstein letterario non decifra nemmeno i segnali di sventura dei suoi legali, “voci a quattro zeri” che al telefono non bandiscono più certezze. Il senso di impunità è a tal punto radicato nella sua coscienza che Harvey richiama un vecchio scandalo, la violenza sessuale su una minorenne che coinvolse il regista di Il pianista: “Malgrado questo, però, Polanski faceva ancora film, sciava ancora con gli amici sulle Alpi svizzere e vinceva premi”. Scommette ancora su se stesso nelle sue ore di solitudine. Si persuade che il vicino di casa sia Don DeLillo, un classico vivente della letteratura Usa. Ecco il riscatto servito per un eletto della sua specie: portare sullo schermo Rumore bianco, il “libro che era impossibile trasporre in un film”. Si ripete ossessivamente nella testa l’incipit ma è quello sbagliato, confuso con quello di L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. All’obiezione Harvey rimugina indefesso: “Il succo era lo stesso. Il mondo conosciuto che si squarcia”.

Emma Cline inventa dettagli per ridicolizzarlo, mostrando tutta la sua meschinità. Inventa paranoie per spogliarlo di ogni senso di superiorità, mostrando tutta la sua umana troppo umana fragilità. Ma Harvey resta un carnefice e i suoi misfatti vincono sulla pietas. La sua parabola è “come la tristezza di quando, da piccolo, sentiva avvicinarsi la conclusione di un film, sapendo che presto sarebbe finito tutto, sapendo che presto sarebbe tornato alla dura realtà del mondo”.

 

Harvey, Emma Cline, Pagine: 104, Prezzo: 12, Editore: Einaudi

Fabio Volo, quanto è difficile “l’arte” del genitore

Dopo i recenti Le streghe di Robert Zemeckis e Il suo ultimo desiderio di Dee Rees con Ben Affleck coprotagonista, Anne Hathaway ha girato a Londra Lockdown, una commedia romantica di Doug Liman in cui dà vita con Chiwetel Ejiofor (12 anni schiavo) a una coppia in crisi, Linda e Paxton, che durante la quarantena per la pandemia cerca di rimuovere i problemi organizzando una rischiosa rapina in una gioielleria all’interno dei magazzini Harrods. La 38enne star di Brooklyn reciterà presto a New York in Armageddon Time, il nuovo film di James Gray ispirato all’adolescenza trascorsa dal regista negli anni 80 presso la “Few Forest School” nel quartiere Queens. Al suo fianco un cast d’eccezione formato da Oscar Isaac (Star Wars: L’ascesa di Skywalker) Robert De Niro, Donald Sutherland e Cate Blanchett.

Si gira a Roma da qualche giorno la coproduzione italo-spagnola Genitori contro influencer, una commedia diretta da Michela Anreozzi scritta dalla regista con l’esperto Fabio Bonifacci e interpretata da Fabio Volo, Ginevra Francesconi, Giulia De Lellis, Paola Tiziana Cruciani, Nino Frassica ePaola Minaccioni. Prodotta da Paco Cinematografica, Neo Art Producciones eVision Distribution vedrà in scena un professore di filosofia vedovo, Paolo (Volo) che vive un ottimo rapporto con la figlia adolescente Simone fino a quando la ragazza verrà rapita dalla febbre dello smartphone che la porterà a maturare l’idea di voler diventare infuencer come il suo idolo che si fa chiamare Ele-O-Nora. Paolo inizierà così una campagna contro l’abuso dei social.

Ilaria Spada e Alessio Vassallo sono protagonisti di Notti in bianco e baci a colazione, commedia diretta da Francesco Mandelli, tratta dal romanzo omonimo di Matteo Bussola e sceneggiata da Salvatore De Mola.

Niente monogamia, niente privacy, niente famiglia. Solo “Brave New World”

Niente privacy, niente monogamia, niente famiglia, niente sentimenti. Nel mondo di Indra, un sistema di intelligenza artificiale che collega le persone tramite una rete wireless, l’individuo è annullato nella massa: “Ognuno appartiene a tutti gli altri” è lo slogan che si sente ripetere più spesso. All’apparenza tutti sono felici: ma non sarà merito delle pastigliette che la gente ingurgita a ripetizione come fossero mentine? Brave New World, su StarzPlay da domani, è la serie di fantascienza tratta dall’omonimo romanzo di Aldous Huxley. È ambientata nel futuro, in una società che non è più la nostra. Il destino di ogni individuo è deciso sin dallo stato embrionale: chi nasce Alfa è destinato al comando, alla base della piramide ci sono gli Epsilon che fanno i lavori più duri senza nemmeno lamentarsi. I legami stabili sono praticamente vietati; è incoraggiata, invece, la promiscuità sessuale (e gli autori ne hanno approfittato inserendo orge a più non posso).

Bernard e Lenina, due abitanti di New London, partono per una vacanza nelle Terre selvagge, una specie di riserva indiana compresa di parco divertimenti dove si vive ancora come una volta… Come noi, insomma. Qui s’imbattono nella rivolta armata di un gruppo di ribelli e si salvano grazie a John, un “selvaggio” figlio di due cittadini del Mondo nuovo. Il loro ritorno a New London metterà in crisi la fragile e utopica armonia della società governata da Indra. Già nel 2009 Ridley Scott aveva annunciato un adattamento del romanzo di Huxley, per poi abbandonare il progetto: “Non so che fare con Brave New World. Penso che fosse valido nel 1932, perché aveva un’idea rivoluzionaria molto interessante” aveva ammesso il regista. Questa nuova serie non è una trasposizione esatta del libro, ma l’adattamento è stato poco coraggioso. Molte idee degli anni Trenta suonano inevitabilmente vecchie nel 2020 e i tempi televisivi permettono di descrivere soltanto superficialmente la società immaginata da Huxley.

 

Natale in Casa Cupiello, la magia del capolavoro

Che bello quando la Rai è Servizio pubblico. Succede con Natale in casa Cupiello, su Rai Uno in prima serata il 22 dicembre. Nel centoventesimo anniversario della nascita di Eduardo De Filippo, uno dei capolavori del drammaturgo partenopeo ritrova il piccolo schermo, dopo che egli stesso ne aveva curato due indimenticate trasposizioni televisive nel 1962 e nel 1977.

Impresa improba, affidata a un regista che già all’anagrafe parte bene, potendo vantare più di qualche assonanza con Eduardo De Filippo: Edoardo De Angelis, anche sceneggiatore con Massimo Gaudioso. Apprezzato autore di Indivisibili (2016) e Il vizio della speranza (2018), De Angelis si accosta alla materia eduardiana con agio e freschezza, rispondendo all’icastico “Te piace ’o presepio?” con close-up fascinosi, commoventi, perfino estatici sulla creatura di Lucariello. Appunto, il cast: a casa Cupiello nel ’77 avevamo lasciato Eduardo, Luca De Filippo, Pupella Maggio, Gino Maringola, Lina Sastri, ensemble da leccarsi gli occhi, ora troviamo Sergio Castellitto (Luca), Marina Confalone (Concetta), Adriano Pantaleo (Tommasino), Tony Laudadio (Pasquale), Pina Turco (Ninuccia), Alessio Lapice (Vittorio Elia) e Antonio Milo (Nicola Percuoco), e possiamo non disperarci, anzi.

Al netto di un napoletano forse non così impeccabile al cospetto dei colleghi “nativi”, Castellitto dà al distacco dalla realtà e alla deroga al principio di realtà – quel “te piace” a mo’ di imperativo categorico e morale… – dell’eterodosso pater familias garbo e sprezzatura, lavorando non sull’assolo bensì sull’accordo con gli altri interpreti: la Confalone è ordinariamente superlativa, Pantaleo dà a Nennillo la simpatia ambivalente dello scugnizzo, i volti, da Laudadio a Lapice e Turco, sono primaria garanzia di felicità.

De Angelis dirige non “a bacchetta” ma con la bacchetta, e l’orchestra suona bene: concertazione d’attori precisa, regia fluida che divelle le barriere drammaturgiche del Kammerspiel senza corpo ferire, al massimo un eccesso di personalizzazione, come da cammeo zampognaro in apertura, ma forse né al cuore campano né all’exemplum di Hitchcock si può resistere. Prodotto da Picomedia in collaborazione con Rai Fiction, l’adattamento sa restituire con beneficio non d’inventario ma d’invenzione il lessico familiare, la punteggiatura relazionale, la sintassi esistenziale che hanno tributato istantaneamente all’opera teatrale eduardiana onori e oneri del classico. Il fuori sincrono di Lucariello, il pragmatismo di Concetta, il fancazzismo devoto di Tommasino (Nenniello), il dissidio tra ragione e sentimento di Ninuccia, la grettezza di Nicolino, la natura vicaria, e parassitaria, di Pasquale, l’ardore di Vittorio, tutto si amalgama in presepe e si sublima al capezzale, provvedendo tanto al tragico quanto al comico. Commedia umana, umanissima, scritta ieri, nel 1931, con l’inchiostro d’oggi, aggrappata al saliscendi della vita, e della morte, e generosa di desiderio oltre la meschinità, incoscienza oltre lo stallo, verità oltre la finzione. Che cos’è presepiale se non sinonimo di vitale, che cos’è la fantasia ostinata e contraria di Lucariello se non emendazione della brutta realtà, apertura di credito alla possibilità, financo – per citare lo stesso De Angelis – il vizio della speranza: beati i poveri in spirito, sta scritto, perché di essi è il regno dei cieli o, almeno, quello de o’ presepio. Lungi dal diorama asfittico – e un regista-regista aiuta cara Rai – e dall’omaggio stitico, Casa Cupiello si anima per un pubblico largo, ampio, preservando la qualità nell’inclusività. Nel Natale disgraziato che ci aspetta, dunque, un Natale artisticamente realizzato, che sa elevare a potenza cinematografica, la regia, e teatrale, la recitazione, la destinazione televisiva, testimoniando una volta di più che non esistono piccoli schermi ma solo cattivi interpreti.

 

Natale in Casa Cupiello Su Rai Uno in prima serata il 22 dicembre

“Soul”, e le Feste ritrovano la loro “anima” ipnotica

Soul. Che s’intona col jazz capace di vibrare le corde dell’anima. Titolo ambivalente e cristallino per un film magnifico, uno dei migliori della recente produzione Pixar Animation Studios. Così bello che merita il Natale, Disney dixit. Ma così decidendo resta vittima del Covid, delle sale chiuse a vantaggio dello streaming. La storia con polemica annessa è nota da mesi, inutile tornarci: il 25 dicembre brillerà solo per gli abbonati della piattaforma Disney+, gli altri se ne faranno una ragione o un abbonamento. E beato chi è riuscito a vederlo sul big screen alla Festa del Cinema di Roma, che peraltro ha premiato la carriera del geniale Pete Docter (pluri premio Oscar per Up, Inside Out e per merito elevato a rango di direttore creativo della factory californiana) da cui il film è diretto.

Sotto lente è la vita “stonata” del pianista jazz afroamericano Joe Gardner, “intonabile” a patto di un salto nel vuoto – letteralmente – alla ricerca della sua vera anima. Per questo il suo viaggio di formazione riguarda solo in superficie il vibe della New York black, perché in realtà penetra l’intimità profonda di un anonimo cittadino alla scoperta del proprio destino.

Il meccanismo narrativo escogitato da Docter per interiorizzare il percorso è semplice quanto efficace: quando Joe, in bilico tra il sogno di sfondare come musicista jazz e quello dello stipendio fisso da insegnante alle medie, inciampa in un tombino, caracolla in un universo di ombre luminose, trasparenti ed essenziali come la coscienza infantile ancora in fieri prima di “cadere” sulla Terra.

Rievocare Inside Out è giusto ma non basta, Soul fa un passo in avanti perché Joe è un adulto e gli basta un giorno per accendere la scintilla di un’intera vita, laddove tra un Ante Mondo e un Grande Aldilà, il senso del tempo diventa irrilevante.

Se musicalmente è cool, visivamente il film è ipnotico e immaginifico, con quella prodigiosa abilità della Pixar di usare al meglio la sostanza cinematografica: l’invisibile muta in visibile, la magia informa l’idea, il viaggio dell’eroe è quello di ciascuno, nella perenne ricerca di un equilibrio fra sogni sublimi e la grigia quotidianità, per dirla con Joe “to find a reason for living”, trovare la ragione per cui vale la pena di vivere.

Senza dimenticare, naturalmente, l’omaggio alla storia del cinema sempre rivisitata dai Geni della Lampada con originalità.

Attraverso Soul due sono i grandi cine-filoni avvolti da un affettuoso pixel-abbraccio: da una parte, si evocano i ritmi della New York jazzy & black che strizza l’occhio al musical, a Scorsese e a Woody Allen, dall’altra, ecco celebrarsi le immense armonie siderali dello spazio infinito, con scie di stelle luminose che accompagnano le anime tra l’al-di-qua e l’al-di-là della vita e della morte, luoghi sospesi e immateriali fatti di matrici, buchi neri, luci eterne, con la fantascienza a gongolare per una Gravity animata degna dell’Oscar.

Milionario sulle ceneri di Grenfell

La notte del 14 giugno 2017, poco prima dell’una, prende fuoco un frigorifero difettoso nell’appartamento 16, al quarto dei 23 piani della torre di Grenfell, gigante di edilizia popolare nel ricchissimo quartiere londinese di Kensington.

Quando le fiamme raggiungono il rivestimento esterno dell’edificio, l’incendio divampa velocissimo. In centinaia restano dentro, perché i vigili del fuoco, con un fatale errore di valutazione, raccomandano di chiudersi in casa in attesa dei soccorsi. Nella notte la torre si trasforma in una torcia. Sui social girano i video delle persone bloccate dentro agli appartamenti, disperate alle finestre. Grenfell brucia per 24 ore sulla testa di cronisti impotenti che raccontano l’orrore respirando cenere. Muoiono così 72 persone, arse vive o soffocate, ulteriori soccorsi impossibili. Fra loro due giovani italiani, Gloria Trevisan e Marco Gottardi, imprigionati al 23esimo piano, fino all’ultimo al telefono con i genitori lontani. L’inchiesta rivela fin da subito che non c’è stata fatalità, ma una serie di errori nei soccorsi e, più di tutto, l’avidità di fornitori privati che, per aumentare i profitti, hanno rivestito la torre di materiale altamente infiammabile, come denunciato in anticipo dalla comunità locale. Sono trascorsi più di tre anni, ma i dettagli che ancora emergono rendono qualsiasi pacificazione impossibile. L’ultimo: Peter Wilson, direttore generale di Kingspan, multinazionale da 3,5 miliardi di fatturato l’anno, aveva reso più infiammabile la composizione del materiale di rivestimento usato nella ristrutturazione milionaria della torre, continuando a presentare il certificato di agibilità precedente. La sua divisione, responsabile per la coibentazione, avrebbe fatto pressioni su enti pubblici per ottenere contratti, mentito sui requisiti, minacciato consulenti che ne mettevano in discussione la sicurezza. Una condotta replicata dai concorrenti, che hanno messo sul mercato prodotti simili, anch’essi usati a Grenfell. Quando questo è emerso, Wilson si è dimesso: finora è l’unico manager coinvolto a subire ripercussioni. Poco prima che la sua responsabilità venisse resa pubblica, provocando un crollo delle azioni di Kingspan, ha venduto quote per 1,6 milioni di sterline.