Balneari, i Verdi contro la sanatoria sugli abusivi

La svolta è epocale: stop alle proroghe entro il 2023 e affidamento delle concessioni tramite gare; fine di una stagione durata decenni. Per arrivarci, però, il governo ha deciso di chiudere i contenziosi in corso con i balneari abusivi. La riforma licenziata mercoledì dal Consiglio dei ministri contiene infatti una sanatoria tecnica che fa storcere il naso agli ambientalisti: è contenuta al comma 3 dell’art. 2-bis dell’emendamento con cui la riforma (tecnicamente una “delega” al governo a legiferare attraverso i decreti delegati) verrà inserita nel ddl Concorrenza in discussione al Senato. Prevede che – fino al 2024, quando saranno assegnate le gare – “l’occupazione dello spazio demaniale connessa alle concessioni e ai rapporti di cui al comma 1 non è abusiva anche in relazione all’art. 1161 del codice della navigazione”. È l’articolo che disciplina il reato di occupazione abusiva del demanio marittimo e dei relativi interventi sulle spiagge senza autorizzazioni, le cosiddette “innovazioni”. Il reato è punito “con l’arresto fino a sei mesi o l’ammenda fino a euro 516,00, sempre che il fatto non costituisca un più grave reato”.

La misura interviene su centinaia di contenziosi in tutta Italia. Secondo i balneari e i partiti che l’hanno approvata, serve a evitare che procure e comuni procedano a sequestrare e riassegnare le concessioni scadute a seguito della decisione del Consiglio di Stato che a novembre ha chiuso la partita delle proroghe contrarie alla direttiva Bolkestein (2006). È quanto avvenuto, per esempio, a gennaio per i bagni Liggia di Genova. Insomma, fino al 2024 si blocca tutto e si evita il caos. La norma però secondo i Verdi sembra avere una portata più ampia, anche perché l’articolo 1.161 si riferisce pure alle “innovazioni”, le opere che possono modificare il demanio marittimo o incidere sull’uso (si va da una scalinata nella roccia all’istallazione di ombrelloni e altro su spiagge attrezzate o aree di transito). “Non so se Draghi abbia conoscenza della sanatoria, ma è scandaloso che si premi chi ha abusivamente occupato le coste realizzando anche strutture”, attacca Angelo Bonelli. Secondo il portavoce di Europa Verde, “la norma è costruita con il chiaro intento di consentire a chi ha occupato abusivamente di accedere alle gare dal 2024. Chiediamo che siano rese pubbliche le ragioni di questa sanatoria. Le coste italiane sono le più cementificate d’Europa: secondo Ispra il 75,4% della fascia entro i 200 metri è occupata”.

La riforma, comunque, è tutt’altro che chiusa. Lega e Forza Italia assicurano ai concessionari in rivolta che sarà modificata in Parlamento. Ieri il ministro del Turismo, il leghista Massimo Garavaglia l’ha promesso direttamente ai balneari del Sib poco prima che fallisse il blitz di Fratelli d’Italia alla Camera: la mozione anti-Bolkestein è stata respinta dalla maggioranza, Lega compresa, anche se Matteo Salvini parla di “emendamento che soddisfa al 50%”. A difenderlo restano solo i 5Stelle e, con meno enfasi, il Pd.

L’ex Ilva, il limite ai contanti e gli altri schiaffi al governo

Lo stato gassoso della maggioranza regala al governo, finito sotto diverse volte la scorsa notte nelle votazioni in commissione sul decreto Milleproroghe, oltre alla sconfitta politica un paio di dilemmi non da poco: in particolare cosa fare con l’ex Ilva e con la soglia massima all’uso del contante.

Per capirci bisogna ripartire da zero. Il decreto, datato 30 dicembre, scade tra meno di due settimane e deve ancora passare in Senato. Per questo le commissione Affari costituzionali e Bilancio di Montecitorio, ora che si è arrivati al voto sugli emendamenti, procedono anche in seduta notturna: ovviamente poi il Milleproroghe passerà con la fiducia sia nell’aula della Camera che in quella del Senato. Lo spettacolo della tarda sera di mercoledì e della notte successiva è stato bizzarro: le relatrici di maggioranza – Daniela Torto del M5S e Simona Bordonali della Lega – che danno pareri diversi sulle proposte di modifica, le sottosegretarie Sartore e Bergamini e la viceministra Castelli che si vedono dare torto diverse volte dai partiti che dovrebbero sostenere il governo.

Il caso più spinoso, almeno tecnicamente, è quello dell’ex Ilva. L’esecutivo, facendo incazzare praticamente tutti, aveva stabilito nel decreto che 575 milioni di euro del miliardo e spicci sequestrati ai Riva e destinati alle bonifiche sarebbero invece finiti alla gestione dell’acciaieria. Come Il Fatto ha scritto più volte, infatti, la fabbrica tarantina in questo momento – nonostante i prezzi alti dell’acciaio che fanno sorridere l’intero settore – è un buco nero finanziario, ha bruciato gran parte delle risorse a sua disposizione e trova difficoltà nel farsi garantire liquidità dalle banche: quei 575 milioni erano una boccata d’ossigeno.

Problema: nessun eletto avrebbe più potuto presentarsi a Taranto e infatti tutti i partiti, esclusa la Lega, hanno presentato emendamenti per sopprimere lo scippo. Capita la malaparata, lo stesso Mario Draghi aveva convocato il presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè per farsi spiegare la reale situazione dell’ex Ilva: ora va capito se il governo intende trovare quei soldi in un altro modo o si limiterà ad avviare al falò i 600 milioni che Invitalia dovrebbe versare quest’anno per prendere il controllo assoluto del gruppo.

Tema politicamente spinoso, ma senza una specifica urgenza è invece quello del tetto ai contanti. Ieri notte il centrodestra, insieme agli ex grillini di Alternativa e alle minoranze linguistiche, è riuscito ad approvare con un solo voto di scarto un emendamento che rinvia al 2023 la discesa a mille euro della soglia massima di acquisti pagabili in contanti: il tetto per quest’anno resta dunque a duemila euro. Si tratta di un provvedimento che risale al governo Conte 2 e che dunque spacca a metà i partiti che sostengono Draghi. Va anche ricordato che un recente occasional paper di Bankitalia – peraltro reso noto dal Fatto – aveva dimostrato che l’aumento del tetto al contante voluto dal governo Renzi si era tradotto nella pratica in un aumento del sommerso. Difficile, però, che il governo ripristini il tetto a mille euro nel maxi-emendamento.

Forte il segnale politico anche sulla scuola: una proposta di modifica firmata da Valentina Aprea (FI), ma riscritta in accordo col ministro Bianchi, è stata infatti bocciata dalla commissione. In sostanza, il governo mirava a rinviare di un anno l’aggiornamento delle graduatorie provinciali per le supplenze (Gps) inserendo i nuovi aventi diritto (graduatorie, va detto, da cui si può anche essere assunti in ruolo). Anche le graduatorie a esaurimento (Gae) dovranno essere aggiornate quest’anno, anche se – sostiene il senatore leghista Mario Pittoni – il governo è intenzionato a riproporre la norma bocciata nel primo veicolo utile.

Gli altri capitomboli, pur simbolici, hanno meno peso: uno è avvenuto con l’approvazione del cosiddetto Bonus psicologo per combattere il disagio mentale legato al Covid (20 milioni di stanziamento: massimo 600 euro per una platea stimata in 18mila persone); il secondo riguarda il rinvio di tre anni (al luglio 2025) del divieto di sperimentazione animale negli studi sugli xenotrapianti d’organo (l’uso di organi prelevati a esseri viventi di una specie diversa da quella del ricevente). La cosa, eufemizzando, non ha fatto piacere agli ambientalisti.

Draghi costretto all’ultimatum Ma i partiti: “Cambia metodo”

Il Migliore chiama a rapporto i partiti di governo, li striglia, avverte e minaccia: “Così non si va avanti”. E per far capire ai discoli che fa molto sul serio, il presidente del Consiglio Mario Draghi cita Sergio Mattarella, a cui aveva fatto visita al Quirinale poco prima: “Questo esecutivo è stato voluto dal presidente della Repubblica per fare le cose, e voi dovete garantire i voti in Parlamento”. In caso contrario, è il non detto molto chiaro, tutti a casa, e poi alle urne. Ma loro, i capi-delegazione dei partiti che finora al massimo gli avevano mostrato il broncio, stavolta non guardano per terra.

Qualche attimo di pausa, sguardi incrociati nel silenzio, poi i ministri osano rispondere a lui, a Draghi: “Cambia metodo”. Basta con i provvedimenti calati in Consiglio dei ministri all’ultimo secondo, gli dicono i rappresentanti della maggioranza: stufi di dover leggere i fascicoli a ridosso delle riunioni. “Bisogna cambiare”, insistono. O almeno così fanno trapelare, dopo l’incontro voluto dal premier, ufficialmente anche in vista del Cdm di oggi sul caro bollette. Ma il tema è un altro, l’ira funesta di Draghi. Un vaso che trabocca, dopo la nottataccia di mercoledì, in cui il governo è andato sotto quattro volte nella corrida del decreto Milleproroghe. La notte di un’insubordinazione “ampiamente prevista e prevedibile” come butta lì un giallorosa di governo, ma ugualmente rumorosa. Troppo sale sulla ferita, visto che a Palazzo Chigi si erano irritati già otto giorni fa, quando in Senato erano stati approvati due emendamenti della Lega al decreto che prorogava lo stato di emergenza.

Comunque poca roba, rispetto a quanto successo mercoledì, con il governo battuto quattro volte alla Camera nella maratona nelle commissioni Bilancio e Affari costituzionali sul Milleproroghe, tradizionale occasione per l’assalto alla diligenza dei soldi pubblici. Dal tetto al contante portato a 2mila euro con i voti del centrodestra per una volta unito, al muro di giallorosa e partiti vari sull’ex Ilva, fino alla scuola e alla sperimentazione sugli animali, per il governo Draghi è stato un piccolo calvario. Per tutta la giornata e la notte il ministro per i Rapporti con il Parlamento, il 5Stelle Federico D’Incà, aveva aggiornato il premier sui guai in arrivo. E proprio D’Incà aveva provato a sminare il terreno, con tavoli con i vari ministeri sugli emendamenti più rischiosi. Ma più di tanto non si è potuto. Troppa la voglia diffusa di dare un segnale, al Draghi subìto come un autocrate. E nella riunione di ieri sera, i capi-delegazione offesi e un po’ stupiti dalla strigliata, glielo hanno detto al premier: serve più condivisione, altrimenti “incidenti del genere potranno ricapitare”. Tradotto meglio, “il tema sei tu, presidente”. Cioè il Draghi che fa troppo Draghi. E che ovviamente non ci sta, al controprocesso. “Vi avevo ampiamente coinvolto sulla manovra, ma le critiche sono arrivate ugualmente” ha ribattuto. Toni da faccia a faccia, vero, politico. Una novità. Ma nell’anno che porterà alle Politiche, i partiti non possono più permettersi soggezione verso Draghi.

Comunque forte dell’appoggio del Colle, l’incontro preventivo, con successiva evocazione del volere di Mattarella in riunione, ha un suo evidente significato. Ma il gioco è cambiato, mentre a Montecitorio i partiti provano a tradurre la giornata. “Sull’ex Ilva abbiamo ottenuto un grande risultato – rivendica il vicepresidente del M5S Riccardo Ricciardi – e comunque noi quello che diciamo in Cdm poi lo ripetiamo in Parlamento, e non tutti lo fanno. Serve lealtà reciproca, in un momento come questo”. Un momento pre-crisi?

Seduto in cortile, il dem Matteo Orfini scuote la testa: “La verità è che sul governo si scaricano le tensioni post Quirinale, e che le coalizioni non tengono”. Problemi nel problema per Draghi: Migliore ma non più intoccabile, per la sua maggioranza.

Quando eravamo normali

Che avrebbero dovuto fare 30 anni fa i magistrati sommersi dalle confessioni e dalle chiamate in correità di politici corrotti e imprenditori corruttori? Quello che prevedeva (e prevede) la legge: indagarli, arrestarli e processarli. Che avrebbero dovuto fare i cronisti sommersi dalle notizie sui politici e imprenditori più famosi che si scambiavano mazzette e, presi con le mani nel sacco, le confessavano e restituivano? Quello che era (ed è) il loro mestiere: procurarsi gli avvisi di garanzia, i verbali, le ordinanze di custodia cautelare (tutti atti, fra l’altro, non segreti) e pubblicarli. Che avrebbero dovuto fare i cittadini sommersi dai nomi e cognomi di chi si era mangiato l’Italia a suon di mazzette sugli appalti pubblici e di appalti pubblici fatti apposta per trarne mazzette, depredando le casse dello Stato e le tasche dei contribuenti con opere inutili, gonfiate e inquinanti e lasciando il conto da pagare a noi (manovra finanziaria da 90mila miliardi e prelievo del 6 per mille dai conti correnti nel 1992 a cura del governo Amato)? Maledire i ladri di Stato, smettere di votarli e, se provavano a farla franca col trucchetto dell’impunità parlamentare, contestarli con lanci di insulti, spugne, monetine e banconote (false) e difendere i magistrati che applicavano la legge (finalmente) uguale per tutti.

Quella del 1992-’93 fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra che, prima e dopo, ha sempre confuso le guardie con i ladri, i giornalisti con i leccaculo, i cittadini con i sudditi. Per due anni gli italiani furono veri cittadini e, informati da veri giornalisti, si schierarono dalla parte delle guardie contro i ladri. Poi, grazie alle sue tv, B. riportò al potere i ladri travestiti da amici delle guardie, li salvò con decine di leggi impunitarie votate o mantenute anche dal centrosinistra e tutto tornò come prima. Ora vogliono farci pentire di essere stati normali e farci credere che non sta bene tifare guardie, anzi è giusto tifare ladri. E l’ex braccio destro del ladrone latitante presiede la Consulta che avalla un referendum per vietare l’arresto dei ladri, uno per riportarli in Parlamento e tre per punire le guardie. Una guardia si porta avanti e, nel trentennale di Mani Pulite, rinvia a giudizio un galantuomo come Davigo. Partecipano alla festa molti giornalisti che per due anni informarono i cittadini sui delitti dei potenti, anche dei loro editori (che, terrorizzati, li lasciavano liberi), e ora, per far carriera e non finire prepensionati, si pentono di aver fatto per pochi mesi il proprio dovere. Li vediamo sfilare in tv a battersi il petto come nelle purghe staliniane, confessando il loro peccato mortale di gioventù: aver chiamato ladri i ladri. Il sistema migliore per non dover spiegare perché hanno smesso.

Orso d’Oro al catalano “Alcarràs”. A Taviani “solo” il premio stampa

Nessun capolavoro in concorso ma alcuni film molto buoni, e diversi abbastanza trascurabili. Al netto di un’edizione “pandemica” che risente della grave crisi trasversale del settore cinematografico, a vincere la 72esima Berlinale è il valido corale Alcarràs, diretto dalla catalana Carla Simón alla sua opera seconda, che mette al centro la vita quotidiana e la lotta di famiglie di agricoltori che sopravvivono con coraggio ai soprusi di padroni e sistemi disumanizzanti. Da segnalare che il film è co-prodotto dall’italiano Giovanni Pompili. Premiata dunque ancora una volta la regia femminile (come a Cannes e Venezia) con indiscutibile merito. A due maestri del cinema sono invece andati sia il Gran Premio della Giuria che il Premio della Regia, rispettivamente al sudcoreano Hong Sangsoo e alla francese Claire Denis.

L’Italia comunque non esce a mani vuote: Leonora addio si aggiudica il premio Fipresci (il riconoscimento della critica internazionale) con una motivazione che evidenzia la freschezza dello sguardo di Paolo Taviani capace sotto la guida del genio di Pirandello di mescolare “poesia, malinconia, ma anche ironia, fantasia e letizia per raccontarci i misteri della vita, della morte e della memoria”.

Calato ieri sera il sipario sulla parte “propriamente festivaliera” della Berlinale più breve dell’era moderna (ridotto il numero di giornate ma non dei film), la kermesse continuerà solo per il pubblico fino a domenica. Il bilancio organizzativo è da applaudire per un festival più complesso da gestire che non da frequentare per gli accreditati, purché nel rigoroso rispetto delle regole: un tampone rapido ogni 24 ore, anche ai trivaccinati, presso gli hub ovunque preposti gratuitamente, un braccialetto quotidiano post test per la stampa come scorciatoia di accesso, una piattaforma semplice e rapidissima per prenotare i film disposti in svariate sale al 50% della capienza.

Certamente l’agilità della Berlinale n. 72 è stata facilitata da un ridotto numero di accreditati presenti (circa un quarto rispetto alle ultime edizioni), che ha cancellato ogni segno di vita serale e notturna, con Postdamer Platz più simile a una ghost town che non a uno dei vibranti centri culturali della capitale tedesca. Ma tale era il prezzo da pagare per vivere “in presenza” un grande evento internazionale invernale in pieno Covid, con la Germania ad alto tasso di contagi. E il direttore artistico italiano Carlo Chatrian non ha dimenticato di ringraziare chi l’ha reso possibile, ricordando che “il pubblico è il nostro premio principale”.

“Che fatica scrivere i finali: ho ancora tre libri nel cassetto”

È la romanziera?

(Ride) Sì, sono io.

Ma lo ha letto? Le è piaciuto?

Molto. Ha dei dubbi?

La mia è l’incertezza dell’esordio.

(Nina Zilli per una volta esce dalla comfort zone dei suoi successi, della sua voce rara, del suo galleggiare sul palco per affrontare pagine scritte, interrogativi nuovi e nuovi confronti, per pubblicare il suo primo romanzo, “L’ultimo di sette”, in cui una storia d’amore si intreccia ai punti di vista dei suoi protagonisti e con ironia non derubrica al confronto con l’io più vero).

Ma è più emozionata per un disco o per un libro?

Devo ammettere: in quanto esordiente, sono veramente presa; quando mi è arrivato il libro, l’ho sfogliato alquanto incredula, stupefatta in primis da me stessa.

Come mai?

Perché sono una di quelle che iniziano a scrivere un romanzo e non arrivano mai alla conclusione, mentre come semplice lettrice divoro le pagine.

Ha iniziato presto?

Da bambina ho rappresentato alla perfezione lo stereotipo della nerd, della solitaria: a otto anni già andavo al Conservatorio, poi disegnavo e scrivevo.

Cosa scriveva?

Le prime canzoni, orrende, poi il diario con le amiche e infine mi venivano in mente molte storie, che però accennavo senza concluderle.

Insomma, quanti romanzi ha iniziato?

Completi, strutturati, direi tre: il primo a 18 anni…

Dov’è?

Ancora nella mia cameretta, stampato. Da allora non l’ho più riletto.

E ora come è riuscita a finire un romanzo?

L’avevo iniziato nel 2016 e lasciato lì: non avevo mai il tempo di arrivare a conclusione. Fino alla pandemia: in quel momento, come per tutti, credo, si è improvvisamente materializzato il “tempo”; così ho prima realizzato un album e poi mi sono dedicata al libro.

E lì…

Incredibile, è uscito in pochissimo tempo, come se in questi anni una parte di me, della mia testa, avesse continuato a pensarci e a declinarlo.

La parte più difficile.

La rilettura delle bozze: dover capire, a mente fredda, il vero sapore.

Mentre scriveva cosa temeva?

Innanzitutto il mio giudizio; poi pensavo spesso alla frase di Caparezza riguardo alla musica: “Se va bene il primo disco, il secondo è sempre quello più difficile”.

Quindi?

Scrivendo mi sono sentita molto libera, ho rimandato i problemi all’eventuale secondo romanzo.

Per tradizione il primo è sempre molto autobiografico…

Ah sì? In un certo senso anche per me, infatti per scelta non ho affrontato argomenti che non conoscevo, come la fantascienza; mi sono limitata a campi per me assolutamente chiari come la musica e le relazioni umane, mi sono divertita a ricostruire dinamiche vissute in prima persona.

Uno dei temi del libro è la dipendenza…

È vero, dipendenza emotiva, oppure da una sostanza o dalla routine.

Da cosa è dipendente?

Eh, l’elenco è lungo. Sicuramente, la musica: da bambina ho passato infinite ore al pianoforte; mi piazzavo lì e non pensavo ad altro.

Due dei protagonisti si chiamano Anna e Marco.

Lucio Dalla è uno dei miei più grandi amori, un amore che mi accompagna da sempre e Anna è anche il nome di mia nonna, un nome palindromo, perfetto; (sorride) nel libro ho inserito un dialogo-monito: “Anna e Marco come il brano di Dalla. Non lo conosci? Iniziamo male”.

Meglio vincere un premio Strega o Sanremo?

Vuole farmi svenire.

Per carità.

Troppo difficile.

Cerchiamo una risposta.

Allora: magari, a prescindere.

Il suo romanzo di formazione?

La vita è altrove di Kundera e Mucho Mojo di Lansdale.

Sta pensando al prossimo libro?

Per una serie di coincidenze, sì. Ma non so se ci riuscirò.

 

Stregati dai nuovi 40enni

“Per quanto si possa tentare di dimenticarli, alcuni momenti della vita emotiva di ciascuno di noi risultano indelebili. Il tempo agisce sulla memoria lasciando un segno”, scrive Marco Peano, classe 1979, editor Einaudi, in Morsi (Bompiani) che giunge dopo L’invenzione della madre in cui dava voce all’aspetto più intollerabile dell’umano esperire: separarci da ciò che amiamo, in quel caso la madre. Lo ripete anche qui, “diventare grandi significa imparare a dire addio”, crescere, “verbo del cambiamento, spietato e necessario” è morso che slabbra i contorni dell’infanzia e apre una voragine orrorifica sull’età adulta. Per orientarsi serve una bussola. Quella di Sonia saranno le parole, conoscere il nome delle cose salva, oltre al dubbio che tiene vigili. La storia, Shirley Jackson e Stephen King approverebbero, ambientata in un paesino piemontese fermo a cinquant’anni fa, in quel 1996 famoso per la grande nevicata, è perturbante rito di formazione. Una maledizione, divorante nel senso letterale del termine, colpirà gli abitanti del luogo tranne Sonia e l’amico Teo, unici con denti da latte ancora in bocca, stravolgendo i confini del “loro mondo”.

Una prova, quella di Peano, che insieme ai nuovi romanzi dei coetanei quarantenni Veronica Raimo, Jonathan Bazzi, Vanni Santoni e altri, come Viola Ardone, Marco Amerighi e la collega Daniela Ranieri con Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie), pare tra le più papabili-probabili per la corsa allo Strega 2022: è da cinque anni che non vince un “giovane”; l’ultimo fu Paolo Cognetti, nel 2017, con Le otto montagne, 39 anni e Mondadori, gruppo da allora a digiuno di premi liquorosi.

Per Raimo, 44 anni, ad aver lasciato il segno sono i genitori (oltre a nevrosi, altalene sentimentali, traumi e lutti): madre apprensiva patologica e padre chimico convinto che il mondo sia ricettacolo di agenti nocivi da cui urge proteggersi stando reclusi. Lei e il fratello Christian, genio della famiglia, sono forse diventati scrittori “grazie a tutta la noia che ci hanno trasmesso i nostri”. Lo racconta nella sua quinta “creatura”, Niente di vero (Einaudi), memoir caustico e brillante, ironico e dolceamaro. Zerocalcare ha detto che, dai tempi dell’adolescenza, nessun testo in prosa lo aveva mai fatto ridere ad alta voce come quello di Raimo, ma dimentica di specificare che si tratta di risate dolorose ché alcuni passaggi sono come tagli da foglio di carta. Sono invisibili ma bruciano. Tenuti sotto una campana di vetro, ai fratelli Raimo non restava che la lettura (uno scrittore è sempre un buon lettore), “rasserenante coalescenza di noia” più che evasione. Per lei che definisce la propria vita “un conflitto tra abbandonare qualcosa e cercare di riprenderlo”, e che non vede mai il bicchiere mezzo pieno/vuoto ma sempre sul punto di rovesciarsi (o non lo vede affatto), confezionare “storie ambigue e frustranti” si rivela così, da adulta, chiave per schermarsi, sottrarre “le parti più fragili, tenere e buffe di me stessa” e per normalizzare il suo essere un tantino sconclusionata, stramba, trafitta dalle perplessità, outsider. Per non sentirsi più tale, Jonathan Bazzi, nato nell’85, che con Febbre (diventerà film) è stato in finale allo Strega 2020 e ora esce con Corpi minori (Mondadori), segue due linee: l’emancipazione urbana cioè “elidere dalla corteccia cerebrale” Rozzano, Bronx del Sud milanese dove le chance di diventare qualcuno sono zero, per slittare nella capitale meneghina “dove ricchi e indigenti, imprenditori e studenti, barboni e avvocati” calpestano gli stessi marciapiedi e si può “apparire e scomparire, mimetizzarsi, dissolversi, tornare liberi” e risolvere la sua ossessione per l’amore che non dura. Come si fa a non farlo perire sotto il peso del tempo? Il segreto, conclude, è “rimanere sul bordo impreciso delle cose, rinunciare alla purezza, trovare minuscole strategie di convivenza con la minaccia. Restare anche quando il sogno è malconcio”. Che non è accontentarsi, ma uccidere l’idealizzazione. “Questa è solo una storia”, scrive, “ruota di possessioni ricorrenti e comuni, di paure che tornano per un motivo, noto, ignoto, e con cui fare i conti, mai una volta per tutte. Il fatto è che non puoi tenere fermo nulla di vivo, è dunque qui che finisce l’infanzia?”. Bazzi è dubbio palpitante e nervoso, come la sua scrittura, il bianco o nero non fa per lui.

La ricerca esistenziale è anche perno de La verità su tutto (Mondadori) di Vanni Santoni, 43 anni, una decina di romanzi all’attivo, opera ispirata come le precedenti a esperienze personali (mistica, psichedelia, meditazione, controculture) e tante letture, da Siddharta di Hesse a Occhi dell’eterno fratello di Zweig, dal testo ascetico Storia di un pellegrino russo fino a Le confessioni di Sant’Agostino, must filosofico per approcciare il tema della natura del male. Esiste? Che relazione ha col bene? Possiamo essere immuni dal commetterne? Che ruolo hanno redenzione e pentimento? I quesiti li incarna Cleopatra, brillante sociologa trentenne che a un certo punto molla tutto e finisce per fondare una comunità spirituale da un milione di adepti. Viaggiando dentro e fuori se stessa, tra comuni, ecovillaggi e ashram, continuerà a mettersi in discussione. “L’unica verità che esiste”, tra l’altro, è che non ne esiste nessuna. D’altronde la letteratura non consegna mai sicurezze ma dilemmi.

La lunga vendetta anti-Mani Pulite

È qui la festa delle trenta candeline di Mani Pulite con torta, abbracci e spumantino? Certo che è qui. Li festeggiamo nel modo più appropriato con “la più grande truffa della storia repubblicana” in corso, quella dei Bonus e del Superbonus, razziati dai professionisti delle carte false e dai loro clienti per la bella cifra di 4 miliardi e mezzo di euro, incassati in contanti e trasformati in lingotti, come ai tempi del mai dimenticato Duilio Poggiolini.

Complici anche oggi gli italiani di ogni colore, appartenenza, fede, titolo di studio, classe sociale. Un record che si ripete. E che attraversa orizzontale l’intera Repubblica, nella speciale festa collettiva in ricordo di quel disgraziato di Mario Chiesa, ombra minuscola di Bettino Craxi e di tutti gli altri ras della politica che si rubarono tutto il rubabile, compreso l’onore dei rispettivi partiti, le spalle ben coperte dal Muro di Berlino, che ingessava lo status quo nel mondo, e dall’allegra gestione del debito pubblico che stampava Bot a nastro, scalando il cielo dell’inflazione a due cifre. Tutti arrivati, in quell’inverno di portenti, al capolinea della Prima Repubblica. Per poi consegnare la Seconda al Piccolo Cesare (copy: Giorgio Bocca) quel Berlusconi Silvio che allestì il nuovo spettacolo della comune rovina – morale, sentimentale, culturale, giudiziaria – con il potere dei soldi e la mediocre complicità dell’eterna sinistra aventiniana, sempre convinta della sua astuzia, dissipata in cambio di un po’ di equo canone nei palazzi del potere, qualche fidanzata o figlia assunta, e un ottimo cappuccino caldo, offerto ogni sera in tv, insieme a una vestaglia e alle ciabatte, pregasi non disturbare.

Festeggiamo le maxi, le medie e le piccole “dazioni ambientali” scoperte a suo tempo dal Pool di Milano in quei mesi dell’anno 1992, in cui brillarono i boati di Capaci e via D’Amelio, con le nostre quattro mafie oggi in piena salute. Encomiabile record anche questo, rispetto all’intero Occidente. Mafie evolute al punto da esercitare la pacifica convivenza e la costante infiltrazione nel sistema nervoso del corpo sociale, dal Sud al Nord, nelle amministrazioni locali, nelle imprese per il movimento terra e in quelle finanziarie per il movimento del contante. Mafie al momento impegnate nel sistematico assalto ai 209 miliardi di pasti caldi in arrivo da Bruxelles, vediamo chi sarà più svelto, le guardie, i ladri o la politica. Trent’anni fa l’inchiesta dissipò i dubbi sulla superiorità atletica della politica, veloce al punto da diventare predittiva, come ebbe a spiegare Gerardo D’Ambrosio, l’allora procuratore generale aggiunto di Milano: “Eravamo arrivati al punto che non si prendevano più le tangenti per fare i lavori pubblici, ma si facevano i lavori pubblici per prendere le tangenti”. Gli imprenditori e i finanzieri confessarono e patteggiarono in fretta per tornare al lavoro. Persino Enrico Cuccia, il dominus di Mediobanca, interrogato sul falso in bilancio di una certa società, disse in tribunale: “In verità non ho mai visto un bilancio vero in vita mia”. E in vita sua, per la prima volta, sorrise.

Certo che festeggiamo le trenta candeline. Tutti in lieta attesa di almeno un paio di referendum caricati a pallettoni contro il petto della magistratura, la sua indipendenza, per darle il colpo di grazia, dopo gli innumerevoli danni che in questi anni la magistratura ha subito da tutti i manovratori disturbati, oltre che da se stessa. Incalzata da una opinione pubblica che di giorno in giorno, di legge in legge, è stata istruita e fomentata al suo disprezzo. Fino alla bella avventura di questo tale Luca Palamara, caro a Cossiga al punto da chiamarlo “tonno”, radiato per indegnità dalla magistratura, ma che fa la morale alla magistratura.

“Faccio la lepre e corro fino a che non mi prendono”, aveva detto a suo tempo Antonio Di Pietro, un po’ prima di togliersi la toga, con gesto teatrale, per essere 27 volte inquisito e 27 volte assolto dal Tribunale di Brescia. Gherardo Colombo, nel 1998, propose ai legislatori di interrompere “la società del ricatto” che procede secondo “accordi sottobanco e patti occulti”. Per spiegargli che non doveva azzardarsi, gli caddero in testa tutti i vasi di gerani a disposizione dei partiti. E il mite ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, lo mise sotto processo disciplinare per aver offeso l’onorabilità della politica. E naturalmente della Repubblica.

Da allora si è marciato alacremente al contrario. L’attività legislativa principale non è mai stata quella di contenere la corruzione, ma di arginare le indagini che la scoprivano. Sono state fatte leggi per azzerare le prove, per cambiare i reati o cancellarli, per inceppare le rogatorie sui conti esteri, per allungare i processi e accorciare la prescrizione. Per ridimensionare, in omaggio ai potenti, quella molesta esagerazione che compare in ogni aula di tribunale: “La giustizia è uguale per tutti”. Ultima chicca: l’improcedibilità, ideata dalla ministra Marta Cartabia, che misura la scadenza dei processi, alla maniera degli yogurt, tanti saluti alle vittime dei reati.

E dunque sì, festeggiamo i trent’anni di Mani Pulite con i prossimi che passeremo in compagnia di questa nuova classe politica, selezionata in base alla fedeltà ai segretari di partito e quasi mai per la competenza, salvo che in quella necessaria a moltiplicare, lucidare, arredare le rispettive Fondazioni con il flusso costante di denari che corrono verso la foce. Facendo molta attenzione che non scattino mai gli allarmi per le inondazioni, come sta accadendo al figlio di Tiziano Renzi per eccesso di autostima, viaggi esteri e golosità contabile.

Abbiamo il migliore dei banchieri che ci governa, l’unico, a quanto sembra, capace di pensare al bene collettivo, così tipico dei banchieri. E una fitta schiera di statisti al seguito che Mattarella Primo, alzando il sopracciglio, sgomberò da Palazzo Chigi, giusto un anno fa. Premiato (o condannato) con altri 7 anni di Quirinale, dopo 7 giorni di risse negli spogliatoi dei 16 partiti in circolazione. Ma che si è tolto lo sfizio, il giorno in cui è diventato Mattarella Secondo, di cantarle chiare al suo predecessore. Applauditissimo.

 

Ue: “Ungheria e Polonia, niente fondi; negano lo Stato di diritto”

La sentenza della Corte di giustizia europea è storica: l’Unione può negare i fondi a chi non rispetta lo stato di diritto e mette a rischio il bilancio europeo. La bacchettata arriva a Polonia e Ungheria che sostenendo la mancanza di chiarezza del meccanismo, avevano presentato ricorso: questo regolamento viola i trattati e non garantisce la certezza del diritto. La Corte Ue invece ha sostenuto che il regolamento protegge il bilancio europeo e che il rispetto dei principi quali lo Stato di diritto e la solidarietà sono condizioni indispensabili per godere delle risorse. La ministra della Giustizia ungherese, Judit Varga, ha parlato di “abuso di potere” di Bruxelles. Positiva la reazione della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che però prende tempo: “Adotteremo nelle prossime settimane delle linee guida per fare chiarezza su come applicare il meccanismo”.

Carlo e Andrea, a corte l’imbarazzo è sovrano

Ora che Elisabetta ha superato le sue riserve sul fatto che Camilla diventi regina, sia pure consorte e, naturalmente, a tempo debito, va a finire che Carlo, erede al trono per 70 anni, non diventa più re. Il giubileo di platino della monarca più longeva nella storia d’Inghilterra continua a essere funestato dalle disavventure – se non dalle malefatte – dei figli: Andrea, il terzogenito che ha appena concluso una mega transazione extra-giudiziale con Virginia Giuffre, la donna di cui avrebbe abusato quand’era minorenne; e adesso pure Carlo, il principe di Galles. Dopo un 2021 ennesimo annus horribilis, segnato dalla pandemia, dallo strappo con il nipote Harry e sua moglie Meghan e soprattutto dalla morte del principe consorte Filippo, il 2022 d’Elisabetta non è iniziato meglio.

La regina è ricomparsa proprio ieri in pubblico di persona, dopo le preoccupazioni innescate dai contatti avuti col figlio Carlo la settimana scorsa un paio di giorni prima che questi risultasse positivo al Covid. La stampa britannica scrive che Scotland Yard ha aperto un’indagine formale sulla Prince of Wales Foundation, la fondazione benefica che fa capo a Carlo, 74 anni. L’inchiesta riguarda uno scandalo già noto che non coinvolge direttamente il principe, ma che ha costretto alle dimissioni Michael Fawcett, ex funzionario dell’organizzazione ed ex segretario personale dell’erede al trono, accusato di avere promesso onorificenze reali e la cittadinanza britannica a un ricco donatore saudita, il magnate Mahfouz Marei Mubarak bin Mahfouz. Gli agenti dello Special Enquiry Team stanno collaborando con la fondazione del principe da cui hanno ricevuto diversi documenti, inclusi quelli relativi a un’inchiesta indipendente sulla raccolta fondi da parte dell’organizzazione. Al momento, la polizia non ha fatto arresti e neppure condotto interrogatori. Un portavoce della fondazione ha detto ai media britannici che “sarebbe inopportuno rilasciare commenti ora, mentre c’è un’indagine in corso”. Il contesto è quello d’una compravendita di decorazioni, fra intrecci opachi di intermediazioni, favori e interessi che rischiano di rivelarsi “molto problematici”. Carlo, fin qui, non è chiamato personalmente in causa, ma l’inchiesta è un imbarazzo per lui e, ancora di più, per mamma Elisabetta che, a 96 anni, sta mostrandosi insolitamente severa con Andrea, 62 anni.

Il duca di York, che ha evitato con la transazione un processo, non ha, secondo gli specialisti delle vicende reali, alcuna speranza di ritrovare i ruoli di rappresentanza perduti e rischia pure di perdere pure il titolo: lo chiede una deputata laburista Rachael Maskell, che interpreta la transazione come un’ammissione di colpevolezza. La transazione ha messo fine alla causa civile intentata contro Andrea negli Usa per presunti abusi sessuali da Virginia Giuffre, una delle vittime del finanziere pedofilo, Jeffrey Epstein, suicida in carcere nel 2019. La Giuffre sostiene di essere stata indotta da Epstein e dalla di lui sodale Ghislaine Maxwell ad avere rapporti intimi con Andrea nel 2001, quando aveva 17 anni. Quanto alla cifra della transazione, il Daily Mail ipotizza 7,5 milioni di sterline, il Telegraph va fino a 12 milioni, esperti americani calcolano “almeno 10 milioni di dollari”, tra la somma per la Giuffre e quelle che saranno versate a campagne in difesa delle vittime di abusi. Resta da vedere se la cifra sarà tutta a carico del duca – che ha un appannaggio annuo di 21 milioni di sterline e che ha da poco messo in vendita uno chalet in Svizzera – o se sarà in parte coperta dalla Regina. Una soluzione che non piace a Carlo e neppure a William, altro futuro re.