“Il mio Islam non è omofobo: in moschea c’è posto per tutti”

Non solo pallottole. Secondo Reporter sans frontières nel 2019 sono stati uccisi nel mondo “solo” 49 giornalisti, mai così pochi da 16 anni. Ma non per questo nel mondo c’è più libertà di stampa: dittatori, mafiosi e politici corrotti hanno semplicemente incrementato metodi meno eclatanti, ma non per questo meno efficaci, per zittire i giornalisti d’inchiesta. Carcere, aggressioni, diffamazioni, ricatti, chiusure di testate e soprattutto le sempre più in voga “querele bavaglio”. Richieste cioè di risarcimenti milionari in modo da bloccare le inchieste giornalistiche preventivamente. Non stupisca allora, che anche in assenza di clamorosi fatti di sangue, l’Italia si piazzi quest’anno al quarantesimo posto per la libertà di stampa dietro paesi come Bulgaria, Cile, Benin e Hong Kong. E “Imbavagliati” è appunto il nome del primo Festival Internazionale di Giornalismo Civile ideato da Désirée Klain di Articolo 21, che da sei anni si tiene a Napoli. Quest’anno sul sito www.imbavagliati.it fino a oggi. Protagonisti di questa edizione, il cui tema è “Diversamente Liberi”, quei giornalisti che difendono i diritti LGBT che in 69 paesi del mondo sono considerati un reato punibile anche con la pena di morte.

Tante le voci: dalla Cina, dalla Colombia, dalla Siria, dall’Algeria, dal Sharawi, e tra tutte spicca quella del franco-algerino Ludovic-Mohamed Zahedm, il primo imam dichiaratamente gay, che dopo un travagliato periplo spirituale dall’Algeria alla Francia, passando per il Tibet, crea nel 2010 l’associazione Omosessuali Musulmani di Francia (HM2F), quindi fonda a Parigi una moschea “inclusiva” aperta a qualsiasi razza e sesso. Quando poi celebra in Svezia un matrimonio tra due donne iraniane scatta la fatwa dei salafiti. Oggi Ludovic-Mohamed Zahed, che conosce il Corano a memoria, ci racconta un altro Islam.

Come fa a conciliare l’omosessualità con il Corano?

Nel Corano l’omosessualità non è mai citata. Purtroppo altri versetti – che non citano l’omosessualità, ma lo stupro rituale inventato nella civiltà mesopotamica come conferma anche Erodoto – sono stati utilizzati fuori dal contesto per arrivare ad aberrazioni come quelle che hanno luogo in Arabia Saudita o in Iran, dove gli omosessuali sono giustiziati o decapitati.

A sentirla predicare esistono due visioni antitetiche dell’Islam: una patriarcale, ideologica e politica. un’altra spirituale ed emancipatrice.

È così, ma attenzione: il connubio che spesso sorge tra religione e violenza è insito in tutte le grandi religioni. In realtà il problema è un altro, ed è la decolonializzazione. Le guerre occidentali contro il Medio Oriente arabo-musulmano. Lì dove infatti c’è guerra e dunque povertà si ritrovano omofobia e superstizione. Nel mondo arabo-musulmano la gente si sente in pericolo e si aggrappa a valori patriarcali, difende la tribù, s’identifica con un capo e trasforma gli uomini in guerrieri. Così la rappresentazione dell’Islam che ne viene fuori è una rappresentazione militare, come nel caso del jihadismo. La maggior parte delle persone che parla o agisce a nome dell’Islam lo fa veicolando fascismo e totalitarismo, nella sfera pubblica come in quella privata.

A dieci anni dall’inizio del suo percorso, in quanto membro dei Musulmani progressisti di Francia (MPF), della rete interreligiosa LGBT, e coordinatore della ricerca clinica presso l’Ospedale Nord di Marsiglia, riceve moltissime minacce sui social.

Sì, ma non sono spaventato. Il problema è che chi, come terroristi e jihadisti, uccide, fa sempre più rumore e quindi sembra anche più importante. Noi siamo più silenziosi ma in realtà da quando abbiamo fondato la moschea inclusiva riceviamo molti più incoraggiamenti che minacce. Non bisogna sottomettersi alla paura né rinunciare alla battaglia per il rispetto dei diritti umani. Si tratta di valori inalienabili.

Iran, mistero atomico. Ecco l’ultimo sito “segreto” per l’uranio

Chissà se la notizia rivelata dall’agenzia di stampa internazionale americana Associated Press (AP) circa la costruzione, ben avviata, di un nuovo sito militare in Iran, indurrà il presidente eletto Joe Biden a rivedere la propria posizione data a favore del rientro degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa). L’accordo firmato nel 2015, quando era presidente Barack Obama, dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più Germania e Unione europea, aveva abbassato la tensione tra l’Occidente e il regime teocratico sciita che ottenne in cambio la rimozione delle sanzioni.

La fuoriuscita degli Usa dal Jcpoa era stata promessa in campagna elettorale dal presidente Donald Trump che la realizzò nel 2018. L’AP non ha dato solo l’inedita notizia, ma è riuscita anche a mostrare le immagini satellitari del nuovo sito presso l’impianto nucleare sotterraneo di Fordo sulle montagne a un centinaio di chilometri da Teheran.

L’Iran non ha tuttavia ammesso alcuna nuova costruzione a Fordo, la cui scoperta da parte dell’Occidente risale al 2009, cioè prima della firma del Jcpoa. Sebbene lo scopo della costruzione rimanga poco chiaro, qualsiasi lavoro a Fordo suscita nuove preoccupazioni, specialmente a Washington e a Tel Aviv. L’Iran intanto ha ripreso i lavori di costruzione nel suo impianto nucleare di Natanz dopo una misteriosa esplosione avvenuta lo scorso luglio e che Teheran ha descritto come un attacco di sabotaggio. “Qualsiasi cambiamento in questo sito di Fordo sarà attentamente osservato come un indicatore su come stia evolvendo il programma nucleare iraniano”, ha detto Jeffrey Lewis – un esperto indipendente e ferocemente anti Trump – del James Martin Center for Nonproliferation Studies presso il Middlebury Institute dove si analizza costantemente ciò che accade a livello militare in Iran. La missione dell’Iran alle Nazioni Unite non ha risposto a una richiesta di commento. Anche l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, i cui ispettori sono in Iran come parte dell’accordo sul nucleare (che non è stato smantellato poichè le altre nazioni firmatarie non hanno seguito l’Amministrazione Trump, ndr) non ha ottenuto informazioni in merito da Teheran. La costruzione del sito di Fordo è iniziata alla fine di settembre come mostrano le immagini satellitari della Maxar Technologies divulgate dall’AP. Una foto satellitare dell’11 dicembre evidenzia quelle che sembrano essere delle fondamenta scavate per ospitare dozzine di pilastri. Si presume che questi pilastri servano per sostenere gli edifici nelle zone sismiche. Del resto quasi tutto l’Iran è altamente sismico. Tra questi edifici c’è il National Vacuum Technology Center dell’Iran. La tecnologia Vacuum è una componente cruciale delle centrifughe a gas per l’arricchimento dell’uranio.

“Organi internazionali indipendenti, quali l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica di Vienna, hanno confermato più volte, anche in tempi recentissimi, come l’Iran abbia oltrepassato i limiti stabiliti dal Jcpoa in merito all’arricchimento di uranio e l’accumulo di riserve di uranio arricchito. Ciò detto, queste violazioni non sembrano aver subito un’accelerazione notevole nel 2020 come possibile indicatore di una volontà di avvicinarsi più velocemente allo sviluppo di un ordigno nucleare”, sottolinea Andrea Gilli, ricercatore senior presso il collegio di Difesa della Nato nonchè ricercatore affiliato alla prestigiosa università di Stanford.

Quando gli Stati Uniti hanno intensificato le sanzioni, l’Iran ha gradualmente e pubblicamente abbandonato i limiti imposti dall’accordo. In base all’accordo nucleare del 2015, l’Iran ha accettato di interrompere l’arricchimento dell’uranio a Fordo, ma non di chiudere la struttura perché la Guida Suprema, l’ayatollah Kamenei ha detto che mantenerla era “la linea rossa”. Il Parlamento iraniano nel frattempo ha approvato un disegno di legge che prevede un arricchimento fino al 20%, che gli esperti però non ritengono pericoloso, per ora. Il disegno di legge elimina anche i controlli in loco degli ispettori dell’Aiea. Gli esperti dicono che l’Iran ora ha abbastanza scorte di uranio a basso arricchimento per mettere a punto almeno due armi nucleari. Questa nuova attività a Fordo arriva dopo che il 27 novembre è avvenuto l’agguato mortale allo scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh. Teheran ha subito puntato il dito contro Israele. E tra pochi giorni, il 3 gennaio, sarà passato un anno dall’attacco aereo Usa con un drone, che all’aeroporto di Baghdad, in Iraq, eliminò il generale Qassem Soleimani.

Caso protesi San Donato: “I prezzi gonfiati sono una precisa scelta di politica aziendale”

Una “precisa scelta di politica aziendale, attuata se non da parte dei vertici aziendali, quantomeno dei dirigenti preposti all’ufficio acquisti, al fine di massimizzare i profitti a discapito della correttezza e trasparenza nei rapporti con l’ente regionale”. È in queste poche righe contenute nel decreto con il quale il Gip Roberto Crepaldi ha convalidato ieri il sequestro d’urgenza di 34,7 milioni effettuato il 10 dicembre scorso, la pesante accusa rivolta dalla Procura di Milano al Gruppo San Donato. La presunta maxi-truffa ai danni di Regione Lombardia sui prezzi rimborsati per l’acquisto di protesi, non sarebbe quindi frutto di un accordo tra un paio di manager disonesti, ma una precisa scelta gestionale. Tanto che il Gip aggiunge: “La rispondenza della frode a una precisa politica aziendale, rende finanche superflua qualsiasi disquisizione circa la colpevolezza, anche sotto il profilo soggettivo, dell’ente”.

Per gli inquirenti, il Gruppo oggi presieduto da Angelino Alfano e che vede nel Cda anche Roberto Maroni, sapeva che fosse prassi non comunicare gli sconti ottenuti dai fornitori sui prezzi delle protesi (le “note di credito”), facendosi rimborsare il prezzo pieno, intascando la differenza.

Una pratica già contestata nell’altra inchiesta gemella, sulla fornitura di farmaci, per la quale GSD ha già risarcito la Regione con 10 milioni di euro.

Il Gruppo di Rotelli ieri ha ribadito: “Nessun parallelismo può esistere con altra vicenda (i farmaci, ndr). Si tratta di fattispecie palesemente differenti e per quest’ultima emerge esclusivamente un profilo di natura amministrativa (…). Nell’insieme si tratta di vicende risalenti e riguardanti soggetti da tempo estranei al Gruppo San Donato”.

Il caso ripropone il problema dei controlli nei rapporti pubblico-privato. Secondo la legge 23 del 2015, il sistema di controllo fa capo ai Nuclei Operativi di Controllo (NOC) delle ATS, coordinato dall’Agenzia di Controllo. Ma non funziona, come sottolineato anche nella relazione Agenas (rivelata ieri dal Fatto) secondo cui l’Agenzia di Controllo deve essere un organismo indipendente, sottratta all’influenza della Regione. “La volontà di adottare un blando sistema di controllo nasce dal preciso obiettivo di favorire il privato tramite una legislazione favorevole, non solo circa le modalità di contrattualizzazione ma, soprattutto, con un sistema in cui il pubblico tramite le ATS adottava un ruolo connivente”, accusa il consigliere M5S, Marco Fumagalli.

“In caserma hanno picchiato anche me Sentivo. Emanuel gridare ‘Aiuto! Basta!’”

La rivelazione choc avviene durante un colloquio che si è tenuto in gran segreto ieri presso il carcere di Imperia: “Sono stato picchiato all’interno della caserma dei carabinieri di Albenga. Mi hanno preso a calci e a pugni sul costato. Un militare, che ricordo bene, perché era alto e muscoloso, mi ha colpito con un bastone avvolto in un giornale rosa. Ho perso un dente”. Paolo Pelusi ha 57 anni e un passato difficile, costellato di tossicodipendenza e problemi con la giustizia. Il 4 dicembre scorso è stato catturato durante la stessa operazione antidroga che ha portato all’arresto di Emanuel Scalabrin. La sua testimonianza, se trovasse riscontri e fosse ritenuta attendibile, potrebbe essere dirompente per l’inchiesta aperta dalla Procura di Savona per omicidio colposo. Scalabrin, 33 anni, è stato trovato morto la mattina del 5 dicembre nella branda della cella di sicurezza all’interno della stazione. Fra l’ora della morte stimata dal medico legale, intorno alle 8, e il suo ritrovamento, alle 11, c’è un buco nero di tre ore. Un intervallo su cui non possono fare chiarezza le telecamere: il consulente dei pm ha rilevato che il sistema vdr non ha registrato, era senza hard disk.

Pelusi, insomma, potrebbe essere l’ultimo testimone non appartenente all’Arma dei carabinieri a poter raccontare qualcosa su quanto avvenuto nella stazione. Ciò che racconta ai magistrati contraddice di fatto i rapporti di servizio. A cominciare da un episodio riferito come un’anomalia: “A metà pomeriggio sono stato prelevato dalla mia cella e portato in una sala d’attesa. Mi ero convinto che mi volessero rilasciare. A un certo punto ho sentito delle urla provenire dalla cella di Scalabrin. Ho riconosciuto la sua voce, diceva: “Aiuto! Aiuto! Basta! Basta”. Davanti a me c’erano due carabinieri, li ho guardati, ma non ho ricevuto alcun cenno di risposta”. Il colloquio, cominciato alle 12 di ieri, è durato due ore abbondanti. Pelusi è stato interrogato dalle due pm Chiara Venturi ed Elisa Milocco, alla presenza del suo avvocato Andrea Cechini, senza polizia giudiziaria. “È stato sentito in qualità di testimone, non possiamo rivelare nulla del contenuto delle sue dichiarazioni”, spiega il legale. La famiglia, assistita dall’avvocato Branca e sostenuta dalla Comunità di San Benedetto, chiede di fare chiarezza. Sul caso ha presentato un’interrogazione parlamentare il deputato di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni.

Il giudice Coraggio nuovo presidente della Consulta

Giancarlo Coraggio, 80 anni, napoletano, già presidente del Consiglio di Stato e capo di gabinetto di svariati ministri, è il nuovo presidente della Corte costituzionale. È stato eletto all’unanimità dai giudici della Consulta e guiderà la Corte per 13 mesi. Un periodo abbastanza lungo se paragonato alla presidenza brevi del suo più stretto predecessore, Mario Rosario Morelli, rimasto in carica per 3 mesi. Appena eletto, nella tradizionale conferenza stampa non nasconde la sua emozione. Ma delinea chiaramente il suo modo di intendere la Consulta e soprattutto i rapporti con la politica. “La Corte si muove su un terreno delicatissimo, la legislazione, che è lo stesso del Parlamento”. Per questo ci vuole “senso del limite del nostro ruolo”, il che significa “mai invadere campi in cui si deve esprimere la discrezionalità politica del legislatore” . quanto all’emergenza Covid, Coraggio sottolinea come la la tutela della salute sia uno dei casi in cui la Costituzione ammette la limitazione delle libertà, ma non c’è però “un’inconciliabilità assoluta tra questi diritti”.

“Tarantini, escort per le urgenze sessuali di B.”

“Gianpaolo Tarantini, una volta introdotto nelle stanze di Silvio Berlusconi, ben profittando dell’interposizione di Sabina Beganovic, si è adoperato a soddisfare le urgenze sessuali, mosso dalla finalità di lucrare dapprima la confidenza e quindi la gratitudine e riconoscenza dell’ex premier Berlusconi per l’opera di continuativa ricerca e ingaggio di donne disponibili all’attività di compiacimento sessuale”. Sono alcuni passaggi delle motivazioni della sentenza con la quale la Corte di Appello di Bari, nel settembre scorso, ha condannato l’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini alla pena di 2 anni e 10 mesi di reclusione nel processo “escort”, donne portate nel 2008 e 2009 nelle residenze dell’allora presidente del Consiglio, Palazzo Grazioli, Villa Certosa e Villa San Martino perché si prostituissero. Tarantini, scrivono i giudici, “era divenuto esclusivo referente dell’ex premier nella selezione di giovani donne persuase con la prospettiva di essere scelte” da B. “per concedergli favori sessuali dietro pagamento di laute somme di denaro”.

Parisi se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato

Che malinconia! Ieri abbiamo appreso dalle pagine locali dei quotidiani che Stefano Parisi lascia la politica. Come chi? Il fondatore di Energie per l’Italia, il candidato sfortunato del centrodestra a sindaco di Milano nel 2016 e poi alla Regione Lazio nel 2018: siccome non c’è due senza tre, noi lo aspettavamo a un’altra impresa e invece niente, “torno al mio lavoro, il mio impegno nella politica attiva si conclude qui”, ha annunciato in un lunghissimo post su Facebook. Il testo, va detto, è bello e malinconico come certi addii alla stazione, tranne per il fatto che non c’è il treno e nessuno saluta. Che avventura è stata! A Milano “persi per pochi voti ma quell’esperienza generò una grande voglia di politica nuova”. Come non dimenticare la due giorni di “Megawatt”, da cui “iniziò un grande lavoro di elaborazione di un programma di governo per il Paese”. Poi, purtroppo, non è andata. Tutta colpa di Berlusconi, comunque. Parisi, che è un signore, non fa nomi, ma è chiaro con chi ce l’ha. Dice: noi gliel’avevamo detto che “la radicalizzazione della leadership a destra” (cfr. Salvini) alla fine “avrebbe generato la quasi scomparsa del voto liberale e popolare”. E Silvio niente, di coccio: “Quella protervia nel rifiutare qualunque rinnovamento. Quell’ossequioso e ridicolo ripetere che il rinnovamento non era necessario, che chiunque ci avesse provato avrebbe fallito (come effettivamente è stato)”, aggiunge Parisi, con onestà, tra parentesi. Dice: “Non era nostra intenzione, ovviamente, costruire un ennesimo piccolo partitino”. Infatti volevano prendersi quello grosso quando ancora c’era, ma quel vecchiaccio non ha mollato: attaccato alla roba che neanche Mazzarò. E allora, basta, Parisi torna a fare l’imprenditore: “Forse non è questo il tempo per il mio sogno”, s’amareggia annunciando la liberazione delle sue due poltrone (una in consiglio comunale a Milano e una in quello regionale del Lazio). Un addio, dicevamo, ingiustamente sottovalutato dai media nazionali: oh, guardate che questi so’ tutti voti di Calenda eh? Mo’ se va a pija Roma che manco er Libbanese.

La radio pubblica che non fa più servizio pubblico

“Inderogabili norme e cautele devono osservarsi da chi parla al microfono o predispone, scrivendolo, un testo per la Radio”

(Da Norme per la redazione di un testo radiofonico di Carlo Emilio Gadda – Adelphi, 2018 – pag. 11)

Chi ama la radio, e ha sempre ritenuto finora che quella pubblica sia migliore della televisione pubblica, deve registrare con rammarico una progressiva involuzione di Radio Rai. Nei contenuti, nei format e nei linguaggi. Tanto più che la radio nazionale si può ascoltare in streaming anche all’estero, più agevolmente di quanto si possano vedere i canali tv.

A parte l’enclave della terza rete, dedicata in prevalenza alla cultura e alla musica classica, le prime due reti radiofoniche vanno assomigliandosi sempre di più. E ciò che è peggio, com’è già accaduto per la televisione, tendono a omologarsi alle radio private senza avere neppure il logo per distinguerle. Non a caso ricorrono frequentemente alla diretta tv o al video streaming, come per colmare un vuoto o sopperire a una debolezza.

Ora è vero che viviamo nell’era della multimedialità. E nell’informazione moderna i contenuti scritti, audio e video si contaminano reciprocamente, in quel processo che i massmediologici chiamano “ibridazione”. Un “plus”, un arricchimento e anche una sfida professionale per chi fa il mestiere del giornalista o del comunicatore.

Ma la cosiddetta “ibridazione” non può arrivare al punto di alterare o modificare l’identità e la funzione della radio. Né tantomeno imbastardire quella che fa (o dovrebbe fare) servizio pubblico. Rispetto alla televisione, la radio privilegia per sua natura la parola sull’immagine, ciò che si dice su come si dice, la sostanza sull’apparenza.

Sta di fatto che Radio 1 e Radio 2 tendono a sovrapporsi nei palinsesti, con trasmissioni che forniscono notizie in chiave ironica, di “cazzeggio creativo” per dirla con Mister Allegri. Nella prima rete, si distinguono per qualità alcuni programmi d’informazione, tra cui al mattino Radio Anch’io condotta da Giorgio Zanchini, un modello di servizio pubblico. O al pomeriggio, Italia sotto inchiesta di Emanuela Falcetti. Né mancano nella seconda rete trasmissioni apprezzabili, come Non è un Paese per giovani con Massimo Cervelli e Tommaso Labate. Ma è la commistione con l’infotainment, quel genere ibrido che confonde l’informazione e l’intrattenimento dietro l’alibi della satira, a togliere credibilità ed efficacia anche all’esercizio legittimo della critica.

Non si può annunciare – per esempio – che il presidente del Consiglio è risultato “negativo” al tampone, per poi aggiungere con una battuta che non lo è soltanto al test anti-Covid. Oppure, scherzare su un tema sensibile come la religione, per sostenere in piena epidemia che il Signore è dovunque e quindi si può anche fare a meno di andare a messa, ignorando che per i credenti il rito della Comunione è il momento centrale della celebrazione. E tutto ciò tra frizzi, lazzi e sghignazzi dei due conduttori che si parlano addosso ed escludono il pubblico.

Va bene che la radio è uno strumento interattivo, capillare, destinato a “tenere compagnia” mentre l’ascoltatore sta facendo la doccia o la ginnastica, studiando o cucinando, guidando la macchina in viaggio o in mezzo al traffico. Ma proprio per questo sarebbe opportuno garantire la qualità tecnica dei collegamenti che troppo spesso s’interrompono di colpo o risultano disturbati e incomprensibili. Nessuno pretende una perfezione assoluta. Basterebbe, però, assicurarsi prima che le linee telefoniche funzionino regolarmente. Nel costo dell’abbonamento, è compreso il “bello della diretta”, non il brutto del frastuono.

 

In Libia i rosiconi avrebbero preferito lacrime e sangue

Rosicare pallidi e assorti. Subito tutti i chiacchieroni da divano hanno stretto i denti per la sorpresa, soffocato la stizza, e grattandosi la testa hanno concesso il loro cauto evviva. È un bel regalo di Natale dell’Italia agli italiani, hanno bofonchiato, una gioia per i suoi bravi pescatori. E che belle le lacrime di commozione di Rosetta, l’anziana mamma che da tre mesi aspetta di riabbracciare il figlio. E di Paola, meschina, che vuole finalmente riavere il marito in salvo. Però, però, però.

Si sono alzati tutti insieme dai divani e asciugata la prima lacrima d’irritazione, i rosiconi hanno cominciato a rosicare in coro, proprio come fanno i gatti quando accorrono davanti ai croccantini e fanno le fusa tutti insieme. Tanto per cominciare, hanno detto, è una bella giornata per l’Italia, ma una giornata nera per la politica. E poi hanno detto con felice sillogismo: abbiamo vinto i pescatori, ma abbiamo perso la Libia. Ma sì, ma sì, ma sì.

Sono stati bravi gli uomini dei Servizi. Anzi “i nostri uomini dei Servizi”: silenziosi, competenti, efficaci. Tutto il contrario degli uomini di governo, lenti, inconcludenti, inesperti. Tre mesi per liberare gli ostaggi è un tempo enorme, ha detto mamma Meloni, mentre già cominciava a freddarsi il cappuccino, è il segnale che chiunque può metterci i piedi in testa. Dunque possiamo festeggiare solo a metà: è una vittoria avvolta nella carta della sconfitta. Abbiamo vinto i pescatori, ma abbiamo perso l’onore. Giusto, giusto, giusto.

Il vero vincitore – ci ha spiegato Tajani, il vice del povero Silvio che un tempo se la spassava con le amazzoni di Gheddafi, al quale baciava la mano – è il generale Haftar, il dittatore sanguinario, titolare di nulla, riconosciuto da nessuno. Un bandito, si direbbe. Se non fosse che il primo a riconoscerlo è il suo nemico Al Sarraj col quale tratta a Ginevra da tre anni. E che l’autorità sulla Cirenaica se l’è conquistata con le armi che gli vende l’Occidente, la Russia, gli Emirati, l’Egitto. E un po’ anche i francesi che a suo tempo hanno mandato la Libia in mille pezzi, per poi provare a issare, sui pozzi di petrolio sgomberati, le bandiere della liberté, della fraternité e della Total. E dunque, dunque, dunque.

Conte e Di Maio – hanno detto i leghisti, mentre si preparavano a assaltare a rutti e sputi i banchi del governo a nome di Putin e di Orban – non dovevano baciare la pantofola dei dittatore. Perché in diplomazia, assicuravano da esperti, si comincia col perdere l’onore e non si sa dove si va a finire. E quindi?

Per non diventare gli zimbelli d’Europa, avremmo dovuto reagire subito, con l’astuzia e le cannoniere, come a suo tempo aveva fatto Renzi Matteo (“risolsi tutto in quattro giorni”) ma ognuno ha il suo stile, ha detto. Stupito che da quei tempi gloriosi il destino cinico e baro – oltre alla Consip, alla Fondazione Open e al babbo intraprendente – lo abbia ridotto a senatore semplice di Rignano. Ma sì, ha ragione anche lui, che a fine giornata ha esclamato, con l’entusiasmo di un molare estratto: “Comunque: viva l’Italia viva!”.

Forse, diciamo forse era davvero meglio spezzare le reni alla Libia. Far finire tutto in un bagno di muscoli e di sangue, per poi allestire il lutto nazionale. E ingaggiare altri chiacchieroni a coniugare l’alfa e l’omega dei diritti umani violati, lanciare, dopo gli aperitivi, la raccolta delle firme in solidarietà, preparare il libro in memoria, lo sceneggiato come omaggio. Ascoltare il vescovo che dice dal pulpito ai pescatori defunti “so che navigate in cielo e state pescando con gli angeli”. Avremmo avuto altri dieci se non venti anniversari da celebrare. Il governo sarebbe imploso. L’Italia rinata con la verifica, il rimpasto, le larghe intese. E una pattuglia di Renne Tricolori ci avrebbe finalmente regalato un Draghi col fiocco.

 

Calembour e retorica: lo sproloquio di Renzi

“Abbiamo sbagliato a comunicare”, lacrimò il grande comunicatore al termine (poi rimandato) della sua dis-avventura istituzionale, lasciando intendere che nella politica era invece ferratissimo. Oggi, alla luce dell’attuale, inconcepibile chiasso che ha alzato contro il governo di cui fa parte, dobbiamo dargli ragione, e ammettere che è scarso pure in comunicazione. Si è infilato in un cul-de-sac e non sa come uscirne; quindi – come i fidanzati che minacciano di lasciare e quando vengono lasciati ribadiscono il concetto di stare lasciando, mandando messaggi a raffica e contraddicendosi – sfida, avvisa, dichiara, sdichiara, twitta, chiede perentoriamente udienza e poi non si presenta, precisa sul Corriere cinque pagine di lettera, delira.

“Non mi interessa il numero dei sottosegretari ma quello dei vaccinati”, è la perla dell’ultimo sproloquio. Chi lo segue con attenzione sa che adotta sempre il solito trucchetto lessicale dal 2014; questa locuzione-calembour ricalca quasi alla lettera una del 2017, “A noi non interessa chiudere Report, a noi interessa vaccinare i figli”, ottima Stele di Rosetta per decifrare il codice Renzi: gli interessa il primo termine, quello che sostiene non interessargli affatto, e non il secondo, del tutto estraneo all’insieme. È facile interpretarlo, basta rovesciare le sue asserzioni: “Noi non siamo quelli che rincorrono i sondaggi o i titoli, noi facciamo politica” vuol dire “noi rincorriamo i titoli, la politica non sappiamo nemmeno cosa sia”; e quanto ai sondaggi, beh: dal 2,9% c’è solo da scavare. Comunque, il problema non è più la task force per gestire i soldi del Recovery, a quanto pare, ma il numero dei vaccinati. Altra contrapposizione fittizia: “Tolto il volgare argomento delle poltrone possiamo parlare di politica?”. Ma se non vuole poltrone, che altro può volere uno come Renzi? L’altro giorno, echeggiato a pappagallo dalle equipollenti Boschi/Bellanova, ha detto “non vogliamo uno strapuntino”. Ne vuole forse due? Tre? Se volesse il bene del Paese, non se ne starebbe buono e soprattutto zitto a dare una mano? (Può darsi che in qualche villaggio della foresta pluviale del Borneo, dove non lo conoscono e dove non arrivano i giornali che ne pompano l’immagine floscia, ci sia qualcuno che, leggendo la lettera di richieste che ha recapitato a Conte via social, possa credere che Renzi voglia davvero quel che c’è scritto, per esempio più soldi alla Sanità; ma noi sappiamo che il suo governo è stato tra quelli che ne hanno tagliati di più).

“Noi vogliamo discutere di contenuti”. Torna quel “noi” che nell’epoca del renzismo dannunziano voleva dire “noi giovani, noi rottamatori, noi fautori del Nuovo Rinascimento calati su Roma dai campetti e dai presepi viventi del Valdarno per operare la palingenesi” e oggi vuol dire, poveramente, “io, Rosato, Bellanova, Boschi, Bonetti, Faraone, Scalfarotto, Marattin”. E dunque che vuole, questa falange di replicanti? “I populisti si preoccupano degli indici di consenso ma per noi il vero dramma è l’indice di disoccupazione”, dice il capo del Jobs Act. Sottosegretariati vs vaccini, cambiamento vs status quo, e, più avanti nell’autointervista al Corriere, “tirare a campare” vs “provare a cambiare”. Gusci vuoti, tagliole lessicali adattate al contesto e tuttavia false, essendo falso l’assunto principale, cioè che lui rappresenti sempre il termine positivo della coppia. Ma a parte che alla domanda “siete con me o contro di me?” 20 milioni di italiani gli hanno già clamorosamente risposto, a chi diavolo vuole che importi il suo giochino egotico e manipolatorio con 800 morti al giorno?

Lui lo sa, e per questo tenta l’ultima ed estrema carta, lo spasmo della mosca nel barattolo: “Vediamo se siamo d’accordo. Se sì, governiamo. Se no, il governo va a casa, Italia viva saluta tutti e toglie il disturbo” (quella che per lui è una minaccia per il cuore di molti sarebbe una radiosa promessa, se la sua parola valesse qualcosa). Ora, siccome in Parlamento contano i numeri, questo personaggio va aiutato a uscire dalla sua trappola, e gli si concederà qualcosa, posto che se si va a elezioni, come Mattarella ha fatto intendere, è Renzi che finalmente va a casa, con le sue ministre facenti le veci e tutti i suoi parlamentari. Infine l’anti-populista aizza le folle (che per fortuna lo ignorano) contro il governo in merito al lockdown: “Ci sono troppi zigzag. E apri e poi chiudi e poi annunci che riapri e poi richiudi ancora di più”, dal che si evince che se lui fosse capo del governo, in Italia sarebbe stato sempre o tutto aperto, o tutto chiuso, con la preferenza per il tutto aperto, temiamo. Uno che il 28 marzo intimò di riaprire tutto perché così avrebbero voluto i morti di Bergamo e Brescia, oggi non avrebbe titoli per imputare al governo l’alto numero di morti per Covid, e forse nemmeno per parlare; ma per questo bisognerebbe essere persone serie.