“Siri corrotto in 2 occasioni Il senatore vada a giudizio”

Due episodi di corruzione. Due interventi nella veste di allora di sottosegretario alle Infrastrutture, per i quali ora la Procura di Roma ha chiesto il processo per il senatore della Lega, Armando Siri. Ieri i pm capitolini Paolo Ielo e Mario Palazzi hanno depositato la richiesta di rinvio a giudizio per l’ideatore della Flat Tax e per altre quattro persone, tra cui Paolo Arata, l’ex parlamentare forzista, poi scelto dal Carroccio per ideare il proprio progetto sulle energie. Ora la parola passa dunque al Gup al quale i pm, quando verrà fissata l’udienza, chiederanno anche di trasmettere alla Giunta la richiesta per utilizzare alcune intercettazioni. Si tratta di conversazioni, alcune anticipate dal Fatto a ottobre scorso, registrate indirettamente quando Siri era al telefono con Arata, allora intercettato.

Corruzione per esercizio della funzione è l’accusa che la Procura muove a Siri. Per i pm, il leghista – nel suo ruolo di senatore e sottosegretario alle Infrastrutture (carica che lascia a maggio 2019 con l’esplosione dell’indagine) – avrebbe asservito i propri poteri a interessi privati “proponendo e concordando con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia (Infrastrutture, Sviluppo economico e Ambiente), l’inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango regolamentare e di iniziativa governativa di rango legislativo, ovvero proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il ‘mini eolico’”. E in cambio Siri “riceveva indebitamente la promessa di e/o la dazione di 30 mila euro da parte di Arata” “imprenditore che da tali provvedimenti avrebbe ottenuto benefici” economici.

A inguaiare il senatore è stata una conversazione del 10 settembre 2018 tra Arata e il figlio (estraneo all’indagine) “(…) Per me – diceva Arata – quello che non mi fa dormire di notte è il fronte incentivi… perché la grande soluzione di tutti i problemi nostri è il fronte incentivi… allora… l’emendamento che non è stato fatto bene mi ha detto il viceministro, che mi ha chiamato prima, che gli do 30mila euro tanto perché sia chiaro tra di noi… Io ad Armando Siri ve lo dico (…) gli do 30mila euro (…) è un amico come lo fossi tu… però gli amici mi fai una cosa io ti pago…”.

Al senatore leghista è contestato anche un altro episodio di corruzione per esercizio della funzione. Secondo i pm, Siri, in concorso con Arata, con l’imprenditore Valerio Del Duca e con altri due ex lavoratori di Leonardo Spa (società estranea all’inchiesta), “si attivava (…) per ottenere un provvedimento normativo ad hoc che finanziasse, anche in misura minima (…) il progetto di completamento dell’aeroporto di Viterbo, di interesse per future commesse della Leonardo Spa…”. Inoltre, secondo le accuse, il senatore “esercitava pressioni direttamente e per interposta persona, sul comandante generale della Guardia Costiera (…) al fine di determinarlo a rimuove” un contrammiraglio dall’incarico di responsabile unico del procedimento “nell’ambito di un appalto, in essere ma in scadenza, per la fornitura di sistemi radar Vts (Vessel traffic service)”. Contrammiraglio “inviso alla Leonardo Spa…”. In questo caso, per i pm, Siri in cambio “riceveva indebitamente la promessa di ingenti somme di denaro (per il tramite e in parte destinate anche agli intermediari Arata, con legami personali ed illeciti con lo stesso Siri e Del Duca) e comunque la dazione di 8 mila euro, anticipate da Del Duca e Rosati (…) che avevano programmato di riottenere tale provvista, pur non riuscendo nell’intento, mediante il pagamento da parte di Leonardo Spa, di una fattura emessa da una società”.

Sono accuse che Siri ha sempre respinto. Pur non commentando le indagini, ieri il senatore leghista ha parlato anche di “una violentissima campagna diffamatoria fondata su ricostruzioni prive di riscontro probatorio”. “Non sono mai stato corrotto da nessuno – ha aggiunto– ho fiducia che la magistratura accerterà la mia totale innocenza”.

Inchiesta Consip, atto finale: “Processate Tiziano Renzi”

Il “babbo” di Matteo Renzi potrebbe presto dover affrontare un processo. Per Tiziano Renzi la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro capi d’imputazione. Traffico di influenze e turbativa d’asta sono i reati contestati in relazione a due gare: l’appalto Fm4 indetto da Consip (del valore 2,7 miliardi di euro) e la gara per i servizi di pulizia bandita da Grandi Stazioni. Sarà il gup (l’udienza deve essere ancora fissata) a decidere se mandare a processo Renzi e altre dieci persone: tra queste l’amico di Tiziano, Carlo Russo, l’imprenditore campano Alfredo Romeo, gli ex deputati Denis Verdini e Ignazio Abrignani e pure gli ex ad di Consip e Grandi Stazioni, Domenico Casalino e Silvio Gizzi.

Per Tiziano Renzi, inizialmente indagato solo per traffico di influenze, la Procura aveva chiesto l’archiviazione. Respinta dal Gip Gaspare Sturzo che ha disposto nuove indagini. E così le cose si sono messe male: alla fine della ulteriore attività investigativa, i pm hanno contestato a Renzi, seguendo linee guida fissate da Sturzo, non uno bensì quattro reati.

C’è dunque la gara Fm4, appalto indetto nel 2016 e sospeso dopo l’esplosione dell’inchiesta partita a Napoli e poi trasferita a Roma per competenza. Stando alle accuse, era Carlo Russo a farsi promettere denaro in nero da Romeo per sé e per Renzi sr., in cambio della propria mediazione sull’ex ad di Consip, Luigi Marroni (estraneo alle indagini) affinché favorisse le società dell’imprenditore campano nella gara Fm4. Russo (accusato di turbativa d’asta), secondo le accuse, quindi “agiva in accordo con Tiziano Renzi” (che però ha sempre smentito). La “mediazione illecita” di Russo consisteva così nell’istigare Marroni a intervenire “sulla commissione aggiudicatrice della gara Fm4 (…) e in particolare sul presidente Francesco Licci (allora presidente della commissione di gara di Fm4, indagato per traffico di influenze, ndr) anche per il tramite di Domenico Casalino, per facilitare la Romeo Gestioni Spa”, società che partecipava a quell’appalto. In cambio di questa “mediazione illecita”, Russo “si faceva promettere da Alfredo Romeo”, tra le altre cose, “numerose ospitalità negli hotel di proprietà del gruppo Romeo”, oltre che “denaro in nero per sé e per Tiziano Renzi”. Nella questione della gara Fm4, la turbativa d’asta e il traffico di influenze sono contestati anche a Romeo, Casalino e a Italo Bocchino.

L’altra grana di Tiziano Renzi riguarda poi la gara per i servizi di pulizia indetta da Grandi Stazioni. Anche in questo filone, Romeo e Bocchino sono accusati di traffico di influenze e turbativa d’asta. Reato, quest’ultimo, contestato anche a Russo e a Silvio Gizzi, ex amministratore delegato di Grandi Stazioni. Anche in questo caso, per i pm, è il solito Russo a voler favorire la Romeo Gestioni Spa, agendo sempre “in accordo con Tiziano Renzi”. E anche questa volta sfruttava le proprie relazioni, stavolta però con l’ex numero uno di Grandi stazioni, Gizzi, “relazioni – è scritto nel capo di imputazione – ottenute anche per il tramite di Maurizio Gentile, ad di Rfi Spa (estraneo alle indagini, ndr), a sua volta sollecitato da Tiziano Renzi”. Come prezzo della propria mediazione, Russo “si faceva promettere da Romeo, il quale agiva in accordo con Italo Bocchino, utilità consistenti in somme di denaro periodiche”.

Nell’indagine romana, il solo Russo è accusato anche di estorsione: avrebbe minacciato Marroni, spiegandogli che qualora non fosse intervenuto su Fm4 a favore della Romeo Gestione Spa, “sarebbero intervenuti Tiziano Renzi e Denis Verdini, persone che per relazioni e ruolo potevano farlo licenziare”. Non riuscì nell’intento, “per la resistenza” di Marroni”.

Proprio Verdini, che ora si trova in carcere per altre vicende di bancarotta, ha qualche grana pure in questa inchiesta romana. Il fondatore di Ala è indagato insieme anche all’ex deputato Abrignani. I due, per i pm, avrebbero concorso nella turbativa della gara Fm4 parteggiando per Cofely. Sono accusati anche di concussione: secondo i pm, Verdini, nel 2016 quando era ancora parlamentare, “costringeva Marroni”, Ad di una “società pubblica i cui vertici vengono designati proprio dal governo”, “a erogare a Ezio Bigotti (…) l’utilità consistita nell’incontrarlo e ascoltarlo in quanto interessato a conoscere notizie riservate sulla gara FM4 e a sollecitare una minore resistenza di Consip nei contenziosi pendenti”. Ancora qualche tempo e il gup deciderà se dare vita a un ulteriore processo Consip.

Vaccino, il caso degli operatori sanitari “no-vax”: “Punte del 30% in Piemonte”

Mancano otto giorni al vaccine day, il giorno in cui (27 dicembre) in tutta Europa inizierà la campagna vaccinale contro il Covid-19, come annunciato dal commissario per l’emergenza sanitaria Domenico Arcuri. Una partenza, con quasi 1,9 milioni di dosi del vaccino Pfizer, alla quale le Regioni si stanno preparando. Tutte (più o meno) in linea, per vaccinare, in questa prima fase, gli operatori sanitari e gli anziani delle case di riposo. Si dice pronta la Regione Lazio, con un sistema capace di gestire un carico di un milione di dosi, tra venti punti di somministrazione in altrettanti ospedali e nessun problema – assicura – per la conservazione del vaccino in frigoriferi a -80 gradi.

L’Emilia-Romagna di punti di somministrazione ne ha individuati undici, uno per provincia e due in più per Bologna e comprensorio. Undici anche in Puglia, dotati di frigoriferi. Poi, dodici in Toscana, nei principali ospedali, anche se non tutti ancora provvisti degli impianti necessari (quelli che mancano sono stati acquistati). Ancora: la Campania, con 27 punti in strutture ospedaliere, tutte attrezzate per la conservazione. Mentre la Sardegna attende la consegna di 20 ultracongelatori. La Toscana ha già visto il boom delle prenotazioni: ieri erano a quota 111 mila.

Tutto bene, ma solo fin qui. Perché si sta profilando un altro problema: quello degli operatori sanitari – medici, infermieri, operatori sociosanitari, tecnici – che non vogliono essere sottoposti alla vaccinazione. La situazione è a macchia di leopardo. In Piemonte, per esempio, l’adesione alla campagna non è affatto massiccia. “Riscontriamo scetticismo, perplessità, dubbi sull’efficacia del vaccino – spiega Roberto Testi, responsabile del dipartimento Prevenzione dell’Asl Città di Torino –. Alla fine un 25-30% degli operatori non si vaccinerà”. Problema analogo a quello della Provincia autonoma di Bolzano. L’Asl ha mandato quasi tremila email per sondare la disponibilità: fino a ieri aveva risposto solo il 30% del personale e il 40% aveva detto no, con due rifiuti ogni cinque tra tecnici e infermieri.

Numeri diversi da quelli, per esempio, dell’Emilia-Romagna, dove finora ha detto no al vaccino solo il 4% degli operatori. Sorprendente? Niente affatto. “Basti ricordare la bassa percentuale dei medici che si sottopongono alla vaccinazione antinfluenzale – dice Chiara Rivetti, segretario in Piemonte del sindacato dei medici ospedalieri Anaao –. Arrivare a un 75% di adesioni sarebbe già un bel successo”. Certo, l’email della Regione Piemonte per sondare la volontà di medici e infermieri è arrivata solo il 13 dicembre, chiedendo una risposta entro ieri: tempi strettissimi. E in generale vanno esclusi quelli che hanno già contratto il virus. “Ma soprattutto i giovani – spiega Rivetti – potrebbero essere stati frenati dai possibili effetti collaterali”. Il bugiardino dice che il vaccino non deve essere fatto alle donne in gravidanza o che stanno allattando. Quelle che cercano un figlio, invece, devono evitare di rimanere incinte per almeno due mesi dopo la somministrazione. Va aggiunto il fatto che non sono stati fatti studi sul possibile impatto sulla fertilità. Timori giustificati? “In realtà – osserva l’immunologo Sergio Abrignani – non mi stupisce che ci siano medici che non vogliono vaccinarsi. Quando ci fu l’epidemia della febbre suina lo fecero in meno del 50%: non siamo mai stati degli esempi. Se arrivassimo a una copertura del 60-70% sarebbe già un grande risultato”.

Ma il punto vero è quello del rapporto tra rischi e benefici, che in questo caso, dice Abrignani, pende decisamente verso questi ultimi. “Poi è chiaro – spiega – che le donne in stato di gravidanza non devono essere vaccinate e che bisogna aspettare in ogni caso almeno due mesi, dopo la somministrazione, prima di cercare di rimanere incinte. Ma questo vale per tutti i tipi di vaccini, non solo per questo. E vale per tanti farmaci”.

Contagi stabili, Rt risale: Lazio, Veneto e Liguria ad alto rischio

Per la prima volta dall’inizio di novembre, quando aveva iniziato la discesa partendo da 1,72, l’indice di riproduzione del nuovo Coronavirus ricomincia a salire. È passato da 0,82 a 0,86 secondo il report settimanale della cabina di regia Salute/Istituto superiore di sanità, reso noto ieri. Cinque Regioni, secondo i dati dei 14 giorni fino all’8 dicembre, hanno Rt sopra 1, quindi ciascun infetto contagia in media più di una persona: dopo tre settimane c’è il Lazio (1,04), risale la Lombardia (1,02), il Molise (1,16), il Trentino (1,05) e il Veneto (1,08). In Trentino e in Veneto i nuovi casi aumentano, altrove scendono meno di prima. “Rt cresce in tutto il Paese, si inquadra con quanto sta accadendo in altri Paesi dell’Europa. È il primo indicatore a muoversi, poi si muovono i contagi, poi ricoveri, i ricoveri in terapia intensiva e poi i decessi”, ha detto il professor Silvio Brusaferro dell’Iss. Tre Regioni sono classificate a rischio complessivo alto: oltre a Lazio e Veneto c’è la Liguria per le difficoltà nel contact tracing. La Lombardia viene subito dopo. A rischio basso Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia, dove le zone rosse e arancioni hanno funzionato.

I nuovi casi, sono stati 374,81 ogni 100 mila abitanti nel periodo 30 novembre-13 dicembre contro 454,70 tra il 23 novembre e il 6 dicembre (-17,6%). “Incidenza ancora alta”, ha sottolineato il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione al ministero della Salute. “Tale situazione non permette un allentamento delle misure e richiede addirittura un rafforzamento in alcune aree”, scrive la cabina di regia. Secondo gli esperti bisogna scendere sotto i 50 nuovi casi a settimana ogni 100 mila abitanti per riprendere un efficace contact tracing. Così invece, ribadisce Rezza, la riapertura delle scuole il 7 gennaio è a rischio. Quindici Regioni superano almeno una delle soglie critiche nelle terapie intensive, dove il numero dei pazienti lentamente scende ma si registrano oltre 150 nuovi ingressi al giorno (ieri 183), o nei reparti ordinari. Peraltro il sindacato dei dirigenti medici Anaao Assomed getta ombre sulla reale dotazione di terapie intensive in rapporto agli anestesisti rianimatori, specie per Campania, Sicilia e Veneto.

I dati di ieri confermano: 17.992 nuovi casi con 179.900 tamponi per un rapporto positivi/tamponi al 10,01% e quindi stabile. I decessi comunicati ieri sono 674; la media settimanale è 643,8 negli ultimi sette giorni contro 647,8 nei precedenti sette, il che significa che i contagi reali delle scorse settimane sono molto superiori a quelli rilevati. “Abbiamo un eccesso di mortalità che sarà intorno al 40%, sovrapponibile a quello di altri Paesi europei dal Belgio, alla Svezia, al Gran Bretagna. Siamo lì. La Germania sembra averlo più basso, ma in questi giorni purtroppo anche loro hanno molti decessi”, ha osservato Rezza. Un Natale allegro, secondo la cabina di regia, “comporterebbe un conseguente rapido aumento dei casi a livelli potenzialmente superiori rispetto a quanto osservato a novembre”.

“Tu cerchi nemici ovunque: crisi da irresponsabile”

Da un Matteo all’altro, da una crisi all’altra. Molto di quel che Giuseppe Conte rinfacciò a Matteo Salvini nell’agosto del 2019 è oggi parecchio attuale: basta rileggere quelle parole pronunciate dal premier in Senato e far finta che siano rivolte a Matteo Renzi, invece che al leghista. Abbiamo messo in fila qualche stralcio di quel testo e tutto sembra filare. In caso di nuova crisi, chissà che il discorso di Conte non suoni più o meno così.

 

L’introduzioneassumersi
le responsabilità

“Siamo al cospetto di una decisione oggettivamente grave che comporta conseguenze molto rilevanti per la vita politica, economica e sociale del Paese. Per questo merita di essere chiarita in un pubblico dibattito che consenta trasparenti assunzioni di responsabilità”.

 

Non oragrave, visto
il contesto attuale

“La decisione di interrompere questa esperienza di governo la reputo grave. Innanzitutto, la crisi interrompe prematuramente un’azione di governo che procedeva operosamente. I tempi di questa decisione espongono a gravi rischi il nostro Paese, perché la crisi interviene in un momento delicato dell’interlocuzione con le istituzioni europee”.

 

Interessii primi siluri
all’alleato e ai suoi

“Valuto come fortemente irresponsabile la decisione di innescare la crisi. Considero legittimo mirare a incrementare il proprio consenso, ma affinché un sistema democratico possa perseguire il bene comune ogni partito è chiamato a una mediazione, filtrando gli interessi di parte alla luce degli interessi generali. Quando una forza politica si concentra solo su interessi di parte compromette l’interesse nazionale”.

 

Attacco frontalemano sulla spalla
e accuse: “avete offeso la verità”

“Rinviare la comunicazione di una decisione evidentemente maturata da tempo è gesto di grave imprudenza istituzionale. Avete tentato di accreditare, maldestramente, l’idea di un governo ‘del non fare’ e pur di battere questa grancassa mediatica avete macchiato 14 mesi di governo. Avete offeso la verità dei fatti”.

 

Spregiudicatomanca
senso delle istituzioni

“Caro Matteo, promuovendo questa crisi di governo ti sei assunto una grande responsabilità di fronte al Paese. Se tu avessi dimostrato cultura delle regole e sensibilità istituzionale, l’intera azione di governo ne avrebbe tratto giovamento”.

lingua lungaremare contro l’esecutivo

“Non sei riuscito a contenere la foga comunicativa e hai reso pubbliche dichiarazioni creando una sorta di controcanto politico che ha rischiato di generare confusione e non ha contribuito a rafforzare l’autorevolezza del Paese”.

 

La chiusameno social
e titoli, più politica

“È possibile far politica senza seguire il consenso sui social, senza dipendere drammaticamente dal titolo di un giornale, senza inventarsi nemici dietro ogni angolo. Potrò testimoniare che quando si è chiamati a operare scelte dolorose – e più volte mi è capitato – si può comunque ricevere l’apprezzamento dei cittadini se si riesce a spiegare che queste scelte sono ispirate dall’interesse generale e non dal tornaconto personale”.

Il sogno di un “vaffa” da un Matteo all’altro

Sul Fatto Quotidiano di ieri, Antonio Padellaro raccontava di “aver fatto un sogno” a proposito della crisi di governo minacciata da Italia Viva: “Giuseppe Conte che sfancula Matteo Renzi nell’aula del Senato come fece con l’altro Matteo in quell’indimenticabile (per me, ma penso anche per voi) 20 agosto 2019”. Leggendo queste parole, tantissimi lettori hanno scritto a lettere@ilfattoquotidiano.it per raccontarci come anche il loro “sogno” fosse molto simile a quello del nostro fondatore. Per questo abbiamo deciso di pubblicare qui accanto alcune delle tante lettere ricevute.

 

Io e molti altri siamo con Padellaro

Io credo che il sogno di Antonio Padellaro sia quello di tanti italiani che lo condividono. Io in prima persona.

Alessia Bussetta

 

Ci vorrebbe un altro confronto memorabile

Caro Padellaro, leggendo il suo articolo avrei voluto abbracciarla. Anch’io ho fatto lo stesso sogno! Sono diversi giorni che aspetto che si avveri e pur essendo consapevole che forse non sarebbe opportuno e che il presidente Conte – essendo più saggio di me – probabilmente si asterrà (ma chissà che voglia ne avrebbe anche lui!) non posso fare a meno di sperarci. Il 20 agosto del 2019 è rimasto per me un giorno memorabile, una gioia incontenibile dinanzi ad un discorso perfetto nei modi nei toni e nei contenuti. Sono d’accordo con lei: quanto mi piacerebbe oggi che Conte riservasse lo stesso trattamento a chi forse lo merita se possibile ancor di più…

Ma anche se rimarrà solo un sogno è bello pensarlo.

Alessandra Martini

 

Matteo-destra insieme e sarà guerra al “Fatto”

È dal lontano 1960 che sogno un governo e un leader che onorino il loro ruolo. Ho sognato di vedere Andreotti in carcere, poi Craxi, poi Berlusconi. E poi Renzi che si ritira a vita privata assieme alla Boschi, come da loro promesso, dopo il flop del referendum. Però sono ottimista, spero che il sogno di Padellaro si avveri! Ma temo che il governo cada, se andasse al potere la destra con Renzi che occupa una poltrona, prevedo una guerra al Fatto di proporzioni bibliche!

Marco Pedriali

 

Gli italiani sono stufi delle minacce di Iv

Matteo Renzi ormai ha stufato gli italiani responsabili.

Credo che abbia voluto provocare il premier per visibilità, atteso che i vari sondaggi lo vedono sempre in preoccupante discesa.

In ogni caso, basterebbe il simpatico sorriso con cui il buon Bersani ha risposto a un conduttore televisivo che gli chiedeva il parere sull’argomento.

Ritengo che Conte adesso debba essere consequenziale per sua dignità, anche perché non vi è preoccupazione in quanto nessun parlamentare, compresi i renziani, vorrà tornarsene a casa prima della lontana scadenza del mandato, con la grande eventualità di non ritornare in Parlamento, anche per via della riduzione dei seggi.

Mario De Florio

 

Da Briatore a Verdini: un governo da incubo

I have a dream! Eccolo.

Prima di tutto Matteo Salvini come presidente del Consiglio, poi i seguenti ministri: Giorgia Meloni all’Interno, Niccolò Ghedini alla Giustizia, Ignazio La Russa alla Salute, Maurizio Gasparri alla Difesa (“Dichiaro guerra alla Jugoslavia”, ha subito proclamato nel sogno), Daniela Santanchè all’Istruzione, Adriano Galliani allo Sport, Roberto Calderoli agli Esteri, Denis Verdini all’Economia, infine Flavio Briatore al Lavoro…

Da questa Repubblica delle Banane credo che scapperebbero persino le pantegane romane! I partiti della maggioranza vogliono davvero arrivare a tutto questo? Allora si adoperino per evitarlo.

Andrea Pellizzari

 

Per quanto ancora si andrà avanti?

Tra noi poveri amministrati/governati è ormai diffusa l’impressione di trovarsi nella curiosa circostanza di cui al celebrato film di Tarantino: un duello in cui ciascun partecipante tiene sotto tiro un altro ed è a sua volta tenuto sotto tiro da un terzo e così via, con conseguente totale e buffa immobilità.

Sarebbe l’immagine plastica del celebre aforisma di Flaiano: la situazione è grave ma non è seria. Allo stato, sembrerebbe che Renzi, dopo aver scatenato l’inferno per le nobili ragioni che possiamo intuire, abbia provato ad uscirne fischiettando, con la sciocca farsa della sua ministra impegnata a Bruxelles.

Questo soggetto è infatti del tutto indifferente alle figuracce che va collezionando. E ugualmente indifferenti al “bagno” di discredito sono anche i suoi accoliti, sia nel partitucolo di riferimento che nel Partito democratico, cioè i “nominati” dal suddetto, rimasti a presidiare “da vicino” gli interessi del capo e dei suoi sponsor.

Ma fino a quando si può continuare in questo modo? Mi chiedo se si sia già verificata in passato una simile paralisi nel funzionamento delle istituzioni a seguito delle manovre pregresse, spudorate, si direbbe premeditate, di costui e di chi ha avuto e ha ancora interesse a ostacolare la rinascita del nostro Paese. Tutto ciò in piena pandemia e con ottocento vittime al giorno. Come si fa a governare con questi?

Patrizia Cozzolino

 

Adesso non resta che incrociare le dita

Stranamente anche io ho fatto lo stesso sogno di Antonio Padellaro!

E credo che, come me, moltissimi italiani abbiano fatto lo stesso sogno.

Allora adesso incrociamo le dita e speriamo che si avveri presto.

Fiorella Fant

Dai vaccini al Recovery Casellati usa il piccone

Ancora non è stata promossa al Quirinale, ma ha già imbracciato il piccone caro a Francesco Cossiga. Maria Elisabetta Alberti Casellati non si tiene più e pare pronta a non essergli da meno: e così da settimane lancia moniti presidenziali dallo scranno più alto del Senato all’indirizzo della squadra di governo che non ama affatto, anzi. “Le famiglie non sanno a oggi se, quando e con chi potranno vivere il Santo Natale: è incomprensibile”, ha tuonato da ultimo durante il brindisi di fine anno con la stampa parlamentare, dopo aver ricordato che oltre a mandare di traverso il panettone agli italiani, l’attuale inquilino di Palazzo Chigi, che pure non cita mai, ha responsabilità ben peggiori. Come in fatto di misure di sicurezza imposte anche per l’ultimo saluto alle vittime del Covid, “un atto di civiltà che non si può negare, neanche nell’emergenza”. E giù via con le accuse, perché oltre alle mancate certezze sul cenone e brindisi di fine anno, gli errori si sprecano, a sentir Sua Presidenza. Che già rampogna il governo giallorosso sui ritardi per l’organizzazione della distribuzione dei vaccini, perché sui banchi a rotelle che, dice, le hanno levato il sonno, aveva già infierito a suo tempo. E pure sugli aiuti agli italiani in difficoltà è nient’affatto soddisfatta: “Interventi assistenziali a pioggia: non è la risposta che il Paese si attende”.

Insomma la seconda carica dello Stato distribuisce voti al governo. Anzi lo boccia proprio: già cinque mesi fa, in un’intervista al vetriolo, Casellati ebbe il suo bel dire contro l’esecutivo accusato di non coinvolgere a dovere l’opposizione, oltre che di fare pasticci a non finire sul merito e nel metodo.

Ieri è tornata a picchiare duro evocando la necessità di costruire “il Progetto Italia dei prossimi 30 anni”. Ma ci vuole “la politica con la P maiuscola”, ha detto rimpiangendo i tempi belli del suo Silvio Berlusconi pronto a promettere un milione di posti di lavoro col casco da capo-cantiere in testa. “Come per il Piano Marshall, l’opportunità del Recovery Fund capita una volta sola nella storia. Disperdere le risorse disponibili in mille rivoli improduttivi sarebbe un errore imperdonabile, che finirebbe per ricadere sulle spalle dei nostri figli e nipoti” ha detto prima di affondare l’ultimo fendente contro Conte, troppo autonomo nelle decisioni: “il Parlamento deve tornare a essere centro reale per la definizione delle scelte programmatiche e legislative”.

Il messaggio è chiaro, proprio come ripete l’opposizione: niente cabine di regia o task force, ci sono le Camere, e a maggior ragione la sua. Che Casellati pretende di dirigere a bacchetta: infrangendo la prassi ha co-assegnato il decreto Sicurezza oltre che alla commissione Affari costituzionali anche alla commissione Giustizia presieduta dalla Lega, che poi in questi ultimi due giorni ha messo a ferro e fuoco l’aula in un clima da anni 20. E che dire della programmazione dei lavori dell’emiciclo? A novembre i senatori sono rimasti a girarsi i pollici per qualche giorno dopo che Sua Presidenza ha avallato il rinvio a data da destinarsi di provvedimenti già pronti per l’emiciclo, come il disegno di legge sulle liti temerarie a tutela dei giornalisti tanto inviso a Forza Italia e renziani. A Palazzo insomma si fa come dice lei che vorrebbe anche ridurre all’obbedienza il governo. Che pare invece resisterle attirandosi le ire della presidente. Specie per via dei decreti che per tener dietro all’emergenza si trasformano durante l’iter di conversione in legge, sfuggendo al suo controllo. Sul dl Ristori, da ultimo, ha perso letteralmente le staffe: ha disposto rinvii, sospeso sedute, depennato emendamenti poco prima del voto. Per poi sfogarsi a pieni polmoni (ché i carabinieri a Palazzo Chigi ancora non li può inviare): “Mi auguro che non si proceda più a legiferare così”.

Risse, ritardi e dubbi Pure Zinga s’infuria: “Decidete o faccio io”

Assediato dai commercianti, dai ristoratori, da tutte le categorie che da giorni chiedono di sapere cosa aspettarsi per le prossime due settimane, alla fine anche Nicola Zingaretti, il governatore del Lazio e segretario del Pd, sempre assai cauto nelle sue dichiarazioni, ieri mattina ha sbottato: “Se non si decide il governo, facciamo un’ordinanza noi”. Come uno Zaia qualunque, nel senso dei governatori a cui certo non sta a cuore la buona reputazione di Giuseppe Conte e del suo esecutivo. Perché anche lui, il più “governista” dei dem, ha esaurito la pazienza. Troppo lunga e confusa la trattativa che da giorni tiene banco sulle chiusure tra Natale e la Befana. Troppe le indecisioni su come affrontare la pandemia che non molla la presa. Più o meno lo stesso tenore di critiche che il ministro Francesco Boccia si è trovato ad affrontare nella riunione con le Regioni di ieri pomeriggio. Al punto che – ascoltando le accuse del marchigiano Francesco Acquaroli (Fdi) – ha dovuto sbottare anche lui: “Non accetto che mi si dia dell’ondivago: sono pronto a pubblicare i verbali di tutte i nostri incontri, così si vedrà chi è sempre stato per il rigore e chi invece chiedeva di aprire”.

Boccia in effetti ha ragione a dire che lui – insieme ai ministri Roberto Speranza e Dario Franceschini – è stato da subito sostenitore del lockdown natalizio, perfino sostenendo l’ipotesi di una zona rossa dal 24 dicembre al 6 gennaio. Ma all’interno del governo, come noto, le posizioni erano diverse, a cominciare da quella del presidente Conte, che tutto avrebbe voluto tranne far ripiombare gli italiani nella serrata, tanto più in quel Natale che aveva detto di voler “salvare”. Le cose sono andate diversamente, invece. Le indicazioni degli scienziati hanno lasciato pochissimi margini di manovra. E alla fine si è scelta una soluzione che non è il lockdown totale ma gli somiglia parecchio. Nemmeno i giorni feriali – inizialmente esclusi dalla stretta – sono stati graziati. Arancioni loro, rossi i festivi e i prefestivi. Il che significa che per tutte e due le settimane i bar e i ristoranti saranno chiusi, e che non ci si potrà muovere dal proprio comune, a meno che non si viva in un paesino con meno di 5 mila abitanti. E infatti il ministro Franceschini, autorevole voce dei “rigoristi” nei vertici ristretti tra capidelegazione subito sentenzia in un tweet: “Il sacrificio va fatto”. Il 5 Stelle Alfonso Bonafede parla di “scelte difficili ma necessarie”. I renziani rivendicano i ristori subito previsti dal decreto (stanziati 550 milioni di euro). In tutto questo rigore, però, c’è un paradosso: Conte strappa la norma “salva nonni”, ovvero quella che permette nei giorni festivi e prefestivi di raggiungere un’altra abitazione privata – muovendosi al massimo in 2, senza contare i minori di 14 anni al seguito – all’interno della stessa regione. Una norma che vuole tutelare chi rischia di restare solo a Natale o a Capodanno, ma che di fatto sarà molto complicato controllare.

Oggi le Regioni sono di nuovo convocate per parlare di scuola. Ci saranno tutti i ministri competenti, dalla titolare Lucia Azzolina a Paola De Micheli (Trasporti) fino alla responsabile dell’Interno Luciana Lamorgese, visto che toccherebbe ai prefetti coordinare i tavoli per organizzare il rientro degli studenti superiori il 7 gennaio. Hanno avvertito, però: l’incontro è solo “interlocutorio”. Non sia mai che la decisione arrivi troppo per tempo.

Vince la linea più dura: a Natale l’Italia è rossa, massimo 2 ospiti in casa

C’è poco da salvare nel Natale di questo terribile 2020. Come previsto, passa la linea dura: l’Italia chiude, nello sforzo di mantenere al minimo i contatti sociali (e familiari) e contenere un nuovo aumento dei contagi. Il premier Giuseppe Conte lo annuncia in tarda serata, dopo il consiglio dei ministri: “La curva può subire un’impennata nel periodo natalizio, il Cts ci ha fatto pervenire un verbale in cui ha espresso forte preoccupazione. Dobbiamo intervenire, vi assicuro che è una decisione sofferta, non facile”.

Dal 24 dicembre al 6 gennaio su tutto il territorio nazionale varrà il regime applicato finora nelle regioni rosse. Tranne nei quattro giorni feriali (28, 29, 30 dicembre e 4 gennaio), quando si applicheranno le norme delle zone arancioni.

Significa, di fatto, che l’Italia vivrà il Natale 2020 in lockdown. Nei giorni “rossi” non si potrà uscire di casa (se non per lavoro o per emergenze). Con un’unica deroga, per evitare che in tanti rimanessero completamente soli a Natale e Capodanno: “Nei giorni festivi e prefestivi – si legge nel testo – lo spostamento verso le abitazioni private è consentito una sola volta al giorno, in un arco temporale compreso fra le ore 05,00 e le ore 22,00, verso una sola abitazione ubicata nella medesima regione e nei limiti di due persone, ulteriori rispetto a quelle ivi già conviventi, oltre ai minori di anni 14 sui quali tali persone esercitino la potestà genitoriale e alle persone disabili”. Traduciamo dal legnoso lessico del diritto: si possono raggiungere i parenti stretti, ma ci si può spostare al massimo in due (esclusi i figli con meno di 14 anni o non autosufficienti). E se si vuole invitare qualcuno in casa propria, il vincolo è lo stesso: solo parenti stretti e non più di due, bambini esclusi.

Mobilità “arancione”. Nei giorni feriali sarà consentito muoversi all’interno del proprio comune senza limitazioni (ma con il coprifuoco dalle 22 alle 5). Inoltre saranno permessi gli spostamenti dai piccoli comuni (meno di 5mila abitanti) ma per una distanza massima di 30 chilometri (e sarà vietato raggiungere i capoluoghi di provincia).

Moblità “rossa”. Nei giorni festivi ci si potrà muovere una sola volta al giorno, all’interno della Regione di residenza e – come detto – al massimo in due. È sempre consentito, con entrambi i regimi, il rientro al proprio domicilio, abitazione o residenza.

Negozi. Per gli esercizi commerciali restano immutate le norme già stabilite per le zone rosse e arancioni nel Dpcm del 3 dicembre. Negozi di alimentari, edicole, tabaccai, farmacie, parafarmacie, ferramenta e librerie possono restare sempre aperti in questi giorni, mentre i negozi di abbigliamento potranno tenere le serrande alzate solo nei giorni feriali. Centri commerciali e gallerie restano chiusi sempre e comunque, dal 24 dicembre al 6 gennaio.

Ristoranti. Chiusi i bar, i ristoranti restano aperti solo per asporto e consegne a domicilio, con lo stesso regime in giorni feriali, prefestivi e festivi: il cibo d’asporto si può ritirare fino alle 22.00 (prima del coprifuoco), le consegne sono possibili senza limitazioni orarie. Conte ha promesso “un immediato ristoro di 645 milioni per ristoranti e bar” e ha ringraziato l’opposizione per la collaborazione.

Parrucchieri. Barbieri e coiffeur possono restare aperti, come pure tintorie e lavanderie. Nei giorni festivi e prefestivi restano chiusi invece i centri estetici. Jogging. La corsa è sempre consentita, nei giorni “rossi” invece le passeggiate sono permesse soltanto “in prossimità della propria abitazione”.

multe. Si annunciano controlli rigidi (ma chiaramente non nelle abitazioni private), le sanzioni sono sempre le stesse: multe tra i 400 e i 1.000 euro.

Raggi e miraggi

L’altra sera a Otto e mezzo Carlo Calenda, reduce da un “tavolo” col Pd, ha dichiarato bel bello: “Il Pd mi ha detto che aspetta la condanna della Raggi per fare l’accordo con i 5Stelle”. Al che mi son detto: “Ora il Pd si affretterà a smentire quell’incredibile affermazione. Altrimenti verrà assalito da torme di garantisti veri o presunti, che avranno buon gioco a denunciare il giustizialismo dei dem e a domandar loro: quando mai abbiano fatto caso alla condanna di qualcuno per eliminarlo dalla vita politica; come facciano a sapere che oggi la Raggi sarà condannata in appello; e, ammesso e non concesso che lo sappiano, cosa si sognano di farlo sapere in giro, mettendo in imbarazzo i giudici che oggi si riuniranno in camera di consiglio e saranno in ogni caso condizionati dal preannuncio del Pd via Calenda: se condanneranno la sindaca, qualcuno dirà che l’avevano già deciso e comunicato al Pd prim’ancora di ascoltare la requisitoria e l’arringa, commettendo un reato; se la assolveranno, qualcuno dirà che han cambiato idea in extremis per smentire la fuga di notizie del Pd”.

Ma, incredibilmente, nessun dirigente Pd ha smentito la rivelazione di Calenda e nessun garantista all’italiana vi ha trovato nulla da ridire. Dunque si suppone che sia vero e normale che il Pd già sappia in esclusiva mondiale che oggi la Raggi sarà condannata e attenda soltanto la formalità chiamata “sentenza” per sedersi al tavolo col M5S per trattare su un altro candidato. Sempreché nel M5S prevalga la corrente dei trombati biliosi De Vito, Lombardi&C., il cui vasto programma politico per la Capitale è invariabilmente “Raggi fuori dalle palle”; e che tutti gli altri fingano di non vedere l’assurdità di un automatismo che non distingue fatti infamanti da accuse neutre, come l’interpretazione della parola “istruttoria” in una dichiarazione all’Anac su una nomina (processo Raggi) o un debito appostato nel bilancio comunale del 2018 anziché del 2016 con l’ok della Corte dei Conti (processo Appendino). Quando Lenin disse “Saranno i capitalisti a venderci la corda con cui impiccarli”, non immaginava che un giorno sarebbero arrivati i 5Stelle non a vendere la corda ai rivali, ma addirittura a regalarla. Infatti l’Appendino, dopo la ridicola condanna, si è autosospesa a norma di Codice etico e non si è ricandidata a Torino. E qualche 5Stelle spera nella condanna della Raggi per liberarsi anche di lei e coronare il sogno di una vita: diventare la ruota di scorta dei dem. I quali, mentre preannunciano a Calenda la condanna della Raggi come cosa fatta, si sono tenuti Beppe Sala sindaco di Milano dopo la condanna per lo stesso reato da cui era stata assolta la Raggi: il falso in atto pubblico.

Un falso che, diversamente da quello contestato alla Raggi senza uno straccio di prova a carico, anzi con tutte le prove a discarico, per Sala è documentale: la retrodatazione di due verbali di gara per il principale appalto di Expo, da lui firmati il 30 maggio con data 17, per sanarne ex post le gravi irregolarità. Condannato a 6 mesi, Sala giurava di non volere la prescrizione: infatti in appello l’ha incassata senza fare un plissé. E ora che si ricandida col Pd, nessuno gli ricorda il suo passato di falsificatore di appalti, anzi tutti esultano per la good news. Un minimo di coerenza, o di decenza, imporrebbe un solo metro di giudizio per tutti: se un sindaco colpevole di falso deve farsi da parte, la regola dovrebbe valere sia per Sala (condannato e prescritto, dunque ritenuto responsabile anche in appello) sia per la Raggi (in caso di condanna in appello dopo l’assoluzione in tribunale); o viceversa. Invece il falso della Raggi, finora assolta, è un reato da ergastolo. E il falso di Sala, confermato da due sentenze, è un falsetto da ridere. Ma la storia dei due gemelli diversi non finisce qui. Da quando la Raggi ha annunciato la sua ricandidatura per completare il lavoro svolto nel primo mandato, non passa giorno senza che i giornaloni deplorino la sua scelta come “ostacolo al dialogo col Pd” e “favore alle destre”, invitandola a “farsi da parte” per la compattezza dei giallorosa. Discorso già bizzarro in sé: chi l’ha detto che i candidati unitari M5S-Pd debba sceglierli sempre il Pd col 18% e mai il M5S col 33%?

I sindaci dopo il primo mandato devono potersi ricandidare per il secondo e, se si trova l’accordo, essere sostenuti dagli alleati: vale a Milano per Sala e a Roma per la Raggi; non vale a Bologna e a Napoli, dove Merola e De Magistris hanno esaurito i due mandati ed è giusto che M5S, Pd e LeU scelgano i nuovi candidati comuni. Se però si attacca la Raggi per la “corsa solitaria” che impedisce l’accordo giallorosa, bisognerebbe attaccare anche Sala per lo stesso motivo: tantopiù che ha già detto di non volere tra i piedi il M5S (se no, come fa a taroccare le carte degli appalti?). Invece Sala può, la Raggi no.

Comica finale: quello che “aspetta la condanna della Raggi” per farla fuori è lo stesso Pd che ha appena chiesto e ottenuto dalla Casellati di violare le regole del Senato per ridare il vitalizio a Del Turco, condannato per tangenti sulla sanità a 3 anni e 11 mesi e a risarcire l’Abruzzo con 700mila euro, ovviamente mai pagati. Lo stesso Pd che chiede a B., pregiudicato per frode fiscale, imputato per corruzione giudiziaria e indagato per strage, di entrare nella maggioranza in veste di “energia migliore”. A riprova del fatto che la politica è la prosecuzione del Circo Togni con altri mezzi.