Nei piazzali oltre mezzo milione di auto invendute

L’annus horribilis dell’auto italiana sta finendo. Si porta dietro le macerie di un mercato che lascia invendute sui piazzali oltre mezzo milione di macchine, con una chiusura intorno a 1.380.000 pezzi in totale, il 28% in meno rispetto al 2019. Roba da anni 70, con diversi operatori del settore costretti a chiudere i battenti e un’emergenza occupazionale che si farà sentire più in là, quando verranno sbloccati i licenziamenti. La pandemia non fa sconti a nessuno, tantomeno al business, che anche nel 2021 potrebbe subire strascichi poco piacevoli. Secondo le stime del centro Studi Promotor, gli scenari sono mutevoli: si va dalle 1.435.000 immatricolazioni in caso di terza ondata di Covid-19 in assenza di lockdown alle 1.735.000 senza nessuna delle due cose. Comunque poco, se pensiamo agli anni d’oro pre-crisi 2008, quando si viaggiava oltre i due milioni di pezzi. Un livello a cui si potrebbe tornare a puntare dal 2022 in poi.

La rincorsa, nondimeno, si dovrà prendere già da gennaio. E sarà possibile anche in virtù della conferma per gli incentivi statali che stanno prendendo forma dopo l’accordo trovato dalle forze di maggioranza: 420 milioni di euro, 120 dei quali destinati ai veicoli elettrificati e il resto a quelli con motori termici di ultima generazione, che continuano a rappresentare il cuore del mercato. A ben vedere, la differenza la faranno proprio le misure di sostegno che i singoli Stati decideranno di adottare. Perché, da solo, il comparto automotive non può farcela.

Le novità passano solo dall’elettrico

Nel 2021 l’industria dell’auto dovrà rilanciarsi. E per farlo punterà su un ventaglio di novità ad alto tasso di elettrificazione. Regine della metamorfosi green saranno ancora una volta i suv, come la compatta Alfa Romeo Tonale, che avrà pure il motore ibrido plug-in: sarà il primo modello del Biscione commercializzato sotto le insegne di Stellantis, il colosso nato dalla fusione di Fca e Psa.

Lo sport utility cento per cento elettrico Ford Mustang Mach-E, invece, esordirà nelle concessionarie tra febbraio e marzo 2021: nel mirino mette la Tesla Model Y, sempre alimentata a batteria, così come la Nissan Ariya. Anche se il costruttore giapponese scommette tutto sulla nuova generazione del Qashqai, in agenda per febbraio.

Di medesima impostazione, ma dal prezzo più abbordabile, il suv-coupé Renault Arkana, già commercializzato in Russia e pronto a essere riadattato per l’Europa occidentale.

Crede ancora sulla tecnologia full-hybrid la Toyota, che si sta preparando all’arrivo del crossover Yaris Cross.

Mentre l’inedita Grecale della Maserati, Hyundai Tucson e Kia Sorento punteranno sull’ibrido ricaricabile alla spina. Reginette della città saranno la nuova Fiat 500 elettrica e la versione a zero emissioni allo scarico della Renault Twingo.

Anche se a dare scacco matto a tutte quante potrebbe essere la Dacia Spring, piccolo crossover a batteria che verrà proposto a prezzo di saldo. Alimentate a elettroni pure la Cupra El Born, cugina spagnola della VW ID.3, e la versione a elettroni della Volvo XC40.

Più sinuose la Audi e-tron Gt, berlina-coupé sorella della Porsche Taycan (che avrà una versione station-wagon), e la i4 della Bmw, che ha già pronte anche le Sport utility la iX3 e la iX. All’offensiva elettrica delle sue concorrenti, Mercedes risponde con Eqa ed Eqb (nonché con la nuova Classe C), quest’ultima di dimensioni simili alla Volkswagen ID.4.

Avranno una variante a zero emissioni pure le rinnovate Citroen C4 e Opel Mokka. Nel 2021, infine, debutteranno le ultime edizioni di Skoda Fabia, Peugeot 308 e Toyota Aygo.

 

Dopo il disastro 2020, il 2021 sarà l’anno delle sfide industriali

Il rapporto tra causa ed effetto è incontrovertibile in tutte le scienze, ma non nell’auto del Vecchio continente. Tutti i cambiamenti attesi nel 2021 non sono la conseguenza di una pandemia che ha scosso drammaticamente le vendite, crollate del 26,1%. Il rimbalzo dell’economia reale non sarà veloce ovunque, ma sta comunque nella prossima logica delle cose. C’è piuttosto un insieme di spinte industriali, finanziarie e istituzionali che sta trasformando gli equilibri in un settore che sembrava in lockdown dal 2015, dallo scoppio del Dieselgate. Ora è il momento del risveglio, e succede in uno scenario elettrificato dal perimetro ancora incomprensibile. O “impossibile”, come replica l’associazione dei costruttori europei alla richiesta dalla Commissione di Bruxelles di avere almeno 30 milioni di vetture a zero emissioni circolanti entro il 2030.

L’accelerazione c’è, ma è ancora al punto critico delle ristrutturazioni, con Fca e Psa che convocano per il 4 gennaio l’Assemblea Straordinaria degli Azionisti per approvare la nascita di Stellantis, con i suoi 5 miliardi di euro l’anno in potenziali sinergie industriali ottenute distribuendo le piattaforme elettrificate francesi sui marchi italiani. Il Ceo Carlos Tavares marca stretto il numero uno di Volkswagen Herbert Diess, fresco di una conferma al vertice accompagnata dalla richiesta da parte dell’azienda di tagliare i costi fino al 5%. Risponde con un piano di automazione della storica fabbrica di Wolfsburg, che lascerà indietro la produzione di vetture tradizionali come Golf per dedicarsi a una ulteriore gamma di maxi-suv elettrici da affiancare alla generazione di auto a batterie già previste o arrivate sul mercato. Dalla prossima estate Tesla disporrà della sua nuova Gigafactory europea a Gruenheide, nei pressi di Berlino, dunque le scelte ovvie sembrano quelle nette, anche quando le infinite sfumature nei tanti Paesi del Sud Europa consigliano una transizione dolce, al passo dell’ibrido. Questo fa la Renault, che nel 2021 porterà al debutto la piattaforma Cmf-EV sviluppata dall’Alleanza con Nissan per reinterpretare in chiave elettrica la berlina media Mégane, ma nel frattempo affida due vere protagoniste di vendite come Clio e il Suv Captur alla doppia motorizzazione. L’idea inventata da una Toyota che ora la riversa nella fasce di vetture più diffuse, crossover piccoli compresi. Johan van Zyl, presidente della divisione europea, prevede di arrivare a una gamma con oltre il 70% di ibride, il 10% di ibride ricaricabili e un 10% di vetture a zero emissioni, che poi vuol dire a batterie, ma anche a idrogeno, lasciando aperta la porta a ogni variante tecnologica esattamente come sta facendo il gruppo coreano Hyundai Kia.

Il mio maestro Gigi Proietti. “Uno spettacolo d’uomo”

Gigi mi raccontava sempre che per lui esistevano tre tipi di attori: chi è dotato di un’intelligenza attoriale (che non è detto riporti tale dote nella vita di tutti i giorni); quello che è una persona intelligente (qui, al contrario, non è detto riporti la sua dote sul palcoscenico); e infine chi fa l’en plein, ed è entrambi. Ecco, in quest’ultimo caso sei immortale, sei tutto. Intendo dire che possiedi la capacità e la conoscenza del mezzo recitativo: i tempi, il mimo, la parola, il linguaggio, tutto. E Gigi era così. Faccio fatica a scrivere “era” mentre lo ricordo a poco più di un mese dalla sua scomparsa, ma voglio dire che Gigi rimane questo: una delle persone più intelligenti, ma anche la più documentata, studiosa, precisa e pignola che ho mai conosciuto. Dietro l’artista che amiamo tutti, ricco e profondo, c’era un uomo estremamente sensibile, che toccava l’alto e il basso con grande consapevolezza e leggerezza. Lavorare con lui in teatro, nel 2004, è stata un’esperienza straordinaria.

La prima volta che l’ho incontrato è stata in Campidoglio, qualcosa come vent’anni fa. Era una serata in onore di quel genio di Garinei, un uomo che è stato così importante per me quando nel ’94 sono arrivata al Sistina. Questa è una cosa che abbiamo avuto subito in comune io e Gigi: all’inizio degli anni 70, lui veniva dal teatro d’autore, dal teatro d’essai, e furono proprio Garinei e Giovannini a consacrarlo sul grande palcoscenico del Sistina con Alleluja brava gente, aprendolo a tutto il repertorio della commedia musicale.

Dopo quel primo incontro con Gigi, in cui abbiamo iniziato a intenderci alla perfezione, ci siamo rincorsi per qualche anno: cercavamo il testo giusto per lavorare insieme. E poi, nel 2004, producemmo La Presidentessa (una commedia di Hennequin e Veber) che funzionò tantissimo. Soprattutto perché Gigi, oltre a dirigerla, la riscrisse dato che prima di ogni altra cosa era un drammaturgo con il termometro della platea. La farcì di tutta la sua leggerezza, ma anche dello sguardo cinico tipico della romanità classica, e la mischiò ovviamente con il dialetto romanesco. Io venivo dagli anni del Sistina, con personaggi tosti, impegnativi, come Rosetta in Rugantino e quello fu il mio debutto nel comico. Quando ne iniziammo a discutere, per il mio personaggio – la protagonista Gobette – Gigi s’inventò che dovesse parlare un miscuglio di francese maccheronico e romano, ché faceva più sciantosa. Ah, quanto amava mischiare i dialetti! Rido ancora se ripenso a come ha trasformato la canzone Ne me quitte pas di Jacques Brel in Nun me rompe er ca…

Ricordo La presidentessa come uno spettacolo intenso e faticosissimo. Eravamo tredici attori con i tempi serratissimi. Era un continuo entrare e uscire dalla scena: in pratica stavi per tre ore dietro al palcoscenico, non riuscivi nemmeno ad arrivare in camerino. Provammo per un mese e mezzo prima, con una media di otto, nove ore al giorno. Come regista, poteva essere anche severo, eh! Ma c’è una cosa che mi porterò sempre dentro di quando seguiva da vicino ogni personaggio: Gigi era un insegnante che aveva scelto di stare tra i banchi e non dietro la cattedra. Da dietro la cattedra, alla fine, insegnare è più facile. Questo dice molto di Gigi, che non seguiva mai la strada del comodo, ma si metteva sempre in discussione: grande virtù, questa, che ha consentito al suo ingegno di mantenersi sempre fresco, e a tutte le sue opere di essere prive di qualsiasi abito retorico o di usura o di vecchio. Dopo quel pezzo di strada e di palco insieme, che fu così divertente e bello, desideravamo fare un altro spettacolo: volevamo mettere in scena una riduzione de Le mille e una notte, ma alla fine non siamo riusciti ad accordare gli impegni di entrambi.

E poi c’era la sua vera passione: andare a cena dopo lo spettacolo con la compagnia. E a me m’ammazzava tutte le sere. Perché io, abituata al cinema, alle sei e mezza sto già in piedi, quindi dopo l’una e mezza, massimo le due di notte stavo sfinita e mi davo. E Gigi mi rimproverava perché diceva che non ero una buona compagna di tavolo. Lui invece tirava fino a tardi, amava il dopo spettacolo. Dopo il lavoro c’era quel momento lì di condivisione con gli attori, la gratificazione del pasto, così diceva, del vino, delle chiacchiere, dei racconti. Si nutriva anche di questo aspetto così caldo e umano.

Potrei non smettere di dire e ricordare Gigi, che era tante cose insieme. Una soprattutto: anche da fermo, con la sua presenza o con la sua sola faccia, quando lo vedevi, lo leggevi. Gigi era lo spettacolo.

Manda al diavolo il disabile, scoprirai la vera inclusione

“La vita è quella cosa che ti accade quando sei occupato a farne altre” diceva John Lennon, forse non esattamente con queste parole, ora non me le ricordo bene, ma il senso era questo. Quando squillò il cellulare e una voce femminile, pacata, con pause giuste e senza inflessioni dialettali, insomma da signora molto elegante, mi salutò con “Buongiorno, sono Paola Severini Melograni, la seguo sempre sul Fatto Quotidiano, mi piace molto quello che fa, sarei felice se lei volesse collaborare con noi” pensai, nell’ordine, che aveva un cognome che pareva inventato da Villaggio, che non riuscivo a immaginare a cosa avrei dovuto collaborare, che dai modi e dal tono della voce forse si trattava di un magazine di Giardini Verticali a Milano. Ero pertanto pronto a rifiutare con grande garbo la proposta, quella voce meritava il miglior british style, spiegando che mi occupavo di fare il culo a strisce alla gente mediante satira e non ero quindi armonizzabile con riviste patinate (fermo restando che se mi pagano bene mi armonizzo subito).

Poi la donna col cognome che pareva inventato da Villaggio mi spiegò a cosa sperava volessi partecipare e pian piano capii, nell’ordine, che era qualcosa di inusuale e bellissimo, che andava a solleticare una mia esigenza di sempre, quella di fare qualcosa per il prossimo, specie per quel prossimo per il quale si fa ancora poco e che, altro che Giardini Verticali, quella elegante signora era più tosta di un portuale livornese. Mi sono ritrovato in uno studio tv a fare vignette e chiacchiere sui disabili. O meglio sul tema dell’inclusione dei disabili nel mondo di noi cosiddetti normali che se scandagli bene nelle nostre teste, siamo in molti a non scherzare quanto a disabilità e seri problemi comportamentali.

Il programma che Paola S. M. (cognome non villaggesco ma lungo e io devo risparmiare spazio) ha inventato, conduce e difende con le unghie e con i denti contro la tirannide dello share in difesa della qualità e della tv come servizio sociale (ora insieme a un satiro entusiasta) si chiama O anche no e va in onda la domenica mattina alle 9.20. “E chi ce vede? Dormono…”, ho pensato ma non l’ho detto, superficialmente. Alla faccia mia, ci vedono molti, tutti quelli che tengono a un appuntamento con un tema importante come la conoscenza di quanto in Italia viene fatto per sfatare l’immagine del povero disabile, triste ed emarginato, incapace di essere un quadro produttivo, per dirla con l’orribile linguaggio di chi riduce le persone, normali o disabili che siano, a numeri. Costi e ricavi, per capirci. Ho accettato di partecipare a O anche no perché era una sfida. Non sono mica facili le vignette a tema disabilità. Corri il rischio di finire nella gara di solidarietà svolta con gli occhi buoni per togliersi un peso dalla coscienza (non sono superiore, sono con voi, ragazzi!) invece di sfruttare l’opportunità di conoscere mondi che non conosci e da lì partire per far ridere mediante satira. Aiutare a far sapere a quelli a casa quanta gente c’è che, senza troppa pubblicità, si dà da fare per i normali con qualche problema. Una mission vitalizzante nonché buon cibo per lo spirito, specie per quelli che come me si monitorano con regolarità per essere sicuri di cosa stanno facendo e se è il caso di farlo. Così il satiro cinico ed esperienzato ha scoperto con stupore che un disabile non è uno cui fare carezze fisiche e morali per fargli sopportare meglio di “non essere come noi”, ma uno esattamente come noi con cui si può scherzare, ridere e se ci litighi mandarlo a quel paese come gli altri, down compresi e questa non è una scorrettezza grave, ma un’inclusione vera.

Puntata dopo puntata, in particolare dopo lo spin off di O anche no per la Giornata Internazionale per l’Inclusione dei Disabili nel Lavoro, due ore di musica, satira, riflessioni, partecipazione di grandi nomi e messaggio del presidente Mattarella, svignettato dal sottoscritto, speriamo bene, le quote di pessimismo decrescono constatando la voglia diffusa di dare una mano e l’esistenza di un’Italia intelligente, non siamo egoisti come vorrebbe qualche untore di intolleranze. Non ultima incoraggia la presenza della Rai facente finalmente funzione di servizio sociale, informando e divertendo, guarda le performance dei Ladri di Carrozzelle e del loro batterista e vedrai se sbaglio. Niente male, questa Paola S.M. Riesce perfino a suscitare interesse senza spararsi 6000 watt di luce in faccia come va di moda tra le teleconduttrici.

Bertolaso sale in cattedra: siluri al governo e elogi per se stesso

“Il dottor Bertolaso non ha bisogno di presentazioni”. E come no: consulente per l’emergenza in Lombardia, in Sicilia, in Umbria; responsabile dei Covid Hospital a Milano e a Civitanova Marche. E allora vuoi che gli studenti dell’Istituto superiore Bramante Genga di Pesaro non abbiano sentito parlare di lui? Bertolaso si presenta nell’aula magna della scuola verso le 10: è stato invitato per raccontare agli alunni la sua esperienza in Protezione civile e per parlare delle due “astronavi” Covid in Lombardia e nelle Marche. Il fatto che la sua presenza sia molto più politica che tecnica sembra sfuggire a chiunque.

Si inizia col racconto del terremoto di San Giuliano di Puglia e l’occasione è già buona per una bordata al governo: “Alcuni bambini si salvarono perché si rifugiarono sotto al banco. Ecco perché quando sento parlare di banchi con le rotelle mi girano le scatole, immaginate se quei bambini avessero avuto i banchi a rotelle”. C’è poi il terremoto de L’Aquila e qui Bertolaso non si tiene più: “Erano tutti stupefatti. Nel primo anno costruimmo 4.500 appartamenti, chi ci vive non è che grato per quello che abbiamo fatto”. Guai a criticare: “Le chiacchiere stanno a zero. La dimostrazione del nostro successo è nel fatto che gli aquilani non se ne sono andati”. C’è poi il capitolo Covid. Solo toni enfatici: “A Milano mi proposero un ospedale da campo, dissi che c’era bisogno di una struttura interamente dedicata a terapie intensive e subintensive. Dopo pochi giorni mi hanno chiesto di fare la stessa cosa nelle Marche”. Le cifre sono generose (“A maggio avevamo 205 posti letto”), il resoconto entusiasmante: “C’è la fila per venire a lavorare da noi”. Ma c’è spazio ancora per un attacco al governo: “Mi dite che oggi le scuole devono rimanere chiuse? È una barzelletta. Certo serve capacità di leadership. Quando si è commissari all’emergenza bisogna prendersi le responsabilità. Se crei continuamente task force è un modo per non decidere mai”.

Essere Vladimir Putin. “L’Occidente pensa che siamo degli idioti”

Nonostante questo sia stato “un anno difficile”, il presidente Putin ha rispettato il tradizionale appuntamento di fine anno: dal 2004, in una maratona in diretta, risponde a domande di reporter, giornalisti e cittadini comuni in collegamento da ogni parallelo della Federazione. Questa volta non lo ha fatto dalle stanze del Cremlino, ma dalla sua dacia di campagna a Novo Ogarevo, periferia di Mosca. Solo pochi reporter lo hanno visto dal vivo, dopo aver trascorso due settimane di isolamento. Per più di quattro ore, Putin ha sciorinato il suo pensiero.

Il caso Navalny

“Il paziente dell’ospedale di Berlino è aiutato dai servizi segreti americani. C’è un’inchiesta giornalistica che ha rivelato i nomi dei presunti agenti russi coinvolti nell’avvelenamento, materiale fornito dall’intelligence Usa per attaccare il nostro governo. La Russia è aperta alle indagini sul presunto uso di Novichok, ma nessuno ha mai fornito alcuna prova. La guerra dell’informazione è in atto, capiamo molto bene cosa sta succedendo. Se qualcuno avesse voluto avvelenarlo, lo avrebbe fatto fino in fondo. Alla fine, chi ha bisogno di Navalny?”.

Lotta alla pandemia

“Nessun sistema sanitario al mondo era pronto al Covid-19, ma quello russo è stato più efficiente. La Russia è stato il Paese che ha eseguito il maggior numero di test, ha messo a disposizione 277mila posti letto per gli infetti in tempi brevi, ha costruito decine di nuovi centri medici. La Russia è stata la prima a iniziare a produrre il vaccino Sputnik V, a elevata efficienza e senza alcun effetto collaterale documentato. AstraZeneca collaborerà con l’Istituto Gamleya. Io mi vaccinerò presto, non appena i protocolli diranno che lo posso fare”.

Usa e trattato Start

“Spero che Joe Biden risolva la questione delle relazioni con la Russia. Il trattato Start sui missili balistici sta per scadere, da parte nostra proponiamo di estenderlo. Per spese militari noi siamo i sesti al mondo, veniamo dopo la Gran Bretagna: allora chiedo, chi è il violento qui?”.

La Nato e l’orso russo

“Siete persone intelligenti, allora perché pensate che siamo noi gli idioti? Noi siamo individui pacifici. La Nato aveva detto che non si sarebbe allargata a Est e invece siamo stati traditi. Vi aspettate che non rispondiamo? Abbiamo tentato a lungo di coltivare rapporti di amicizia con i partner occidentali, ma prenderemo misure per reagire in modo corrispondente, qualora la Nato non tenga fede alla promessa di non espandersi. La corsa agli armamenti è già in corso, da quando gli Stati Uniti hanno annunciato il loro ritiro dal trattato. Spero che la nuova Amministrazione americana rispetti gli interessi dell’Unione europea”.

La guerra in Ucraina

“La Russia comprende la complessità della situazione, le nostre relazioni con il Paese ex alleato dipendono da Kiev. I loro funzionari dicono che non rispetteranno gli accordi di Minsk. E noi continueremo sostenere il Donbass”.

La crisi in Bielorussia

“Il presidente Aleksandr Lukashenko ha dato avvio alle modifiche della Costituzione, ma bisogna evitare le ingerenze esterne in questo processo”.

La Moldavia filo-europea

“Maia Sandu, nuova presidente eletta in Moldavia, ha chiesto il ritiro delle truppe russe dalla Transnistria: siamo d’accordo, ma affinché ciò avvenga, è necessario che le condizioni siano mature. Le pressioni dall’esterno sono come gli ordigni esplosivi o le granate; dobbiamo essere pazienti per i cambiamenti”.

Gasdotti

“Il bilancio dei fondi statali è positivo, il 70% è costituito dai profitti delle risorse energetiche nazionali. Il Nord Stream 2 è vantaggioso per la Russia quanto per la Germania ed il progetto è ormai vicino al completamento”.

Referendum costituzionale

“La Costituzione del 1993 risaliva a un tempo di guerra, quando i carri armati sparavano sul Parlamento a Mosca. Adesso le cose sono cambiate, siamo pronti agli emendamenti.

Elezioni 2024

“Non ho ancora deciso se correrò per le prossime elezioni presidenziali del 2024”.

L’islam in Europa

“La Russia è un Paese multiconfessionale, dalle molte fedi e culture diverse, è un’eredità ancestrale. Noi non accettiamo chi offende le religioni altrui. Dove comincia e finisce il diritto di ognuno? L’omicidio non è mai una risposta. Solo Dio dà e toglie la vita. I musulmani della Federazione sono anche cittadini russi, in Europa invece vivono musulmani immigrati, il multiculturalismo di quei Paesi è fallito”.

L’amore

“È il segreto della felicità, ma questo non è un segreto”.

Sul blogger resta tensione con Berlino

Sull’avvelenamento di Navalny “abbiamo seri dubbi che Mosca voglia cooperare, ma non è un tema bilaterale tra Germania e Russia”. Così si è espresso il ministro degli Esteri Heiko Maas, secondo cui le prove dell’avvelenamento “sono pubbliche e la Russia ha avuto abbastanza possibilità nelle scorse settimane e mesi di prendere parte al chiarimento, che può solo partire da lì. Non è stato fatto e ne prendiamo atto”

Masterchef, che ansia sembra il Cts

Continua a non essere il miglior momento per aprire un ristorante, in compenso è un ottimo momento per chiuderlo, ma alla decima edizione Masterchef è ancora il programma simbolo dell’era talent. I cantanti, i ballerini, i mimi, gli attori, i fini dicitori, i guitti, le pole dancer, le miss si danno alla politica (i più ci provano), oppure languono. Gli chef, no. Gli chef sono una nuova tipologia dello star-system – equivalente agli stilisti degli anni Ottanta –, ma anche una nuova categoria dello spirito. Il potere del video deve essere ancora enorme se la cucina è diventata la stanza più importante della casa non solo di Carlo Cracco, ma di migliaia di candidati pronti a sfidarsi anche quest’anno nel programma partito ieri su SkyUno. Quel rompicoglioni del virus non è riuscito a rovinare più di tanto perché la cucina a distanza ancora non è stata inventata, mantecare fantasia e manualità è il sogno della turba di sedicenti chef che spignattano in ogni canale, a ogni ora del giorno e della notte. A proposito di ricette, quella di Masterchef è inattaccabile: apoteosi del product placement, un po’ di toccanti storie di vita vissuta e un po’ di teatrino tra i giudici; quest’anno Barbieri è pronto per il Comitato tecnico-scientifico, Cannavacciuolo resta il più proustiano (“La cucina deve emozionare”), Locatelli cerca il compromesso tra tegamino rosso e padella arancione. Non facile, quando ti tocca assaggiare di tutto: nella prima puntata i candidati hanno ammannito tra l’altro gnocchi crema e timo alle note di arancio, cappellacci mortadella e alchermes, ravioli ripieni di pomodori ripieni. Noi continuiamo a preferire l’uovo alla coque di Aldo Buzzi, ma capiamo che con lo spirito del tempo non si tratta. La cucina era il luogo della pace, della lentezza e della condivisione, oggi è diventata il luogo dell’ansia, del riscatto e della competizione. Ma questo non vale solo per la cucina, magari. Vale anche per tutto il resto.

Il mio Tommaso e il sale di Goethe

Stirb und werde (Muori e diventa). Discorso preparato per una cena tra amici del 18 dicembre 2010 (prima della quale Tommaso Padoa Schioppa improvvisamente morì) e pronunciato al funerale in Santa Maria degli Angeli, Roma, il 21 dicembre.

In Goethe oltre a questa sapienza – e tutti noi che ti conosciamo abbiamo avuto modo di ritrovarla in te – sono presenti l’ironia,
il dubbio su di sé, una certa leggerezza del vivere, un sorriso sempre sorprendente

Molti anni fa, feci una promessa a Tommaso che naturalmente non ho mantenuto. En passant, gli dissi un giorno: “Tu sei una persona goethiana”.

Vidi che i suoi occhi si accendevano curiosi: Goethe non è una figura irrilevante nella storia della sua famiglia, a cominciare dal padre Fabio che sulle idee educative di Goethe ha tanto pensato e scritto, e che tutti i figli ha come cosparsi col sale di Goethe. Da allora Tommaso di tanto in tanto mi chiede: “Quando scriverai qualcosa su me e Goethe?” e io prometto, prometto e rinvio. Non dico che questo sia il giorno, caro Tommaso. Ma qualche frammento te lo vorrei offrire in questa occasione. In primo luogo ti parlai di Goethe perché è la figura che ha formato sia me, che te. Non a caso la poesia di Marie de France, sul caprifoglio che s’intreccia al tronco e ai rami del nocciolo e nessuno dei due può più vivere senza l’altro, e che contiene la parola-stemma del nostro incontro, “Bele amie, si est de nus: Ne vus senz mei, ne jeo senz vus”, mi ricorda una delle poesie più sublimi di Goethe, Amyntas, molto amata da Altiero e Ursula, i miei genitori. Ma non sono solo la genealogia e l’educazione ricevuta che accomunano Tommaso a Goethe. Di Goethe si usa dire in Germania fin dai banchi di scuola che sia un poeta olimpico, impassibile. Non ha rughe, imperfezioni. Non conosce le fatiche, i dubbi, i disordini del romanticismo. La sua granitica adorazione del classico, l’estraneità o meglio l’allergia al romantico sono la sua strada maestra. E mi pare, anche tratti del tuo carattere o comunque della tua formazione, Tommaso. Ma attenzione: non perché entrambe rigettate il romantico (Goethe era esperto di tutte le lacerazioni romantiche, altrimenti non avrebbe scritto I dolori del giovane Werther e Le affinità elettive), ma perché è come se tutti e due lo sapeste, lo sentiste: è la realtà stessa che viviamo a essere romantica, impastata com’è di tormento e tensione, contraddizione e caos e la risposta a questo tormento oggettivo è l’equilibrio, la ragione, la ‘calma educazione’ del classico. Per Kafka che s’intendeva di sofferenza, era motivo di consolazione leggere e rileggere che “Tutto danno gli Dei, infiniti, / ai loro prediletti, interamente, / tutte le gioie, quelle infinite, / tutti i dolori, quelli infiniti, interamente”.

Ma c’è dell’altro: in Goethe oltre a questa sapienza – e tutti noi che ti conosciamo abbiamo avuto modo di ritrovarla in te – sono presenti l’ironia, il dubbio su di sé, una certa leggerezza del vivere, un sorriso sempre sorprendente che convivono con una assorta e continua serietà. È Goethe a dire parole inconcepibili per un poeta divino che se ne sta appollaiato, imperturbabile e sereno, sempre uguale a se stesso, sopra le diramazioni delle vicende umane. Sono sue parole come: “Tutto si sopporta in questo mondo, tranne una sfilza di belle giornate”. Oppure, in modo non meno trasgressivo, riguardo alle forme della politica: “Nulla è più intollerabile della maggioranza, composta com’è di poche forti avanguardie, di birbanti che s’adattano, di deboli che si conformano, e della massa che rotola dietro senza sapere neppure lontanamente quel che vuole”. O ancora, in uno scatto d’insofferenza, quando dice che le campane che suonano sotto casa sua (proprio le campane che all’unisono con Schiller aveva glorificato) gli procurano un enorme fastidio mentre scrive. O infine quando si sofferma, scettico, sulla serietà che si fa troppo seriosa: “Una costante serietà ha essenzialmente un vantaggio: di tanto in tanto sconfina in estrema allegria, ed è così che raggiunge la vetta.” È lui, con la vita epicurea e non poco agitata e infinitamente attiva, che ha avuto l’ardire di dire, alla fine della sua vita, una frase stoica che mi ha fatto sempre sorridere: “Ho rinunciato a tutto!”. Sorrido perché se c’è stato qualcuno che non ha rinunciato a nulla è stato proprio Goethe: a nessun piacere, a nessuna conoscenza, a nessuna trasgressione, a nessun dolore, a nessuna frase vera fino a risultare impervia, scomoda. Ci hai fatto e ci fai sorridere di questo tante volte anche tu, Tommaso.

Goethe è importante anche per l’educazione, abbiamo detto: ci sono delle cose che bisogna spiegare a lungo, ma non si può spiegare tutto. Per esempio, che due più due fa quattro può e deve diventare una sorta di assioma. L’abbiamo sentita più volte questa frase, quando ci parlavi di economia e non solo. In merito all’educazione dei bambini: Goethe è contrario alle minacce come ai castighi perché cancellano l’originalità della persona e “trasformano i bambini in futuri Filistei”, confida a Eckermann. Ma l’educazione ha un fine altissimo – la formazione – e preclude l’illimitatezza. Di qui il suo fastidio per la Rivoluzione francese e – nel contesto tedesco di allora – per il luteranesimo: due tendenze romantiche o pre-romantiche che a suo parere distruggevano la calma formazione, la ruhige Bildung, del classico. Infine, il principio di realtà, principio molto caro a Tommaso. È il leitmotiv della vita e delle opere di Goethe, che nella sua esistenza ebbe a percorrere così tante vie: di poeta, scienziato, teorico dei colori, e anche uomo politico. Per non lasciare inesplorata alcuna mutazione dell’esistenza, decise di diventare funzionario di Stato alla corte del duca Karl August, a Weimar. Il principio di realtà e la scoperta del bene pubblico spiegano la sua passione politica, ma all’origine c’è anche un suo desiderio più segreto di apprendere il cambio di pelle: divenire adulto e dunque capace di mutare – come scrisse alla madre quando entrò in politica – senza farsi abbattere dal ‘disagio ipocondriaco’ che l’abbandono delle abitudini comporta. Il senso che ebbe questa esperienza, la lezione grandiosa che ne trasse sono racchiusi in uno dei suoi aforismi: “Pensare è facile, agire è difficile. Agire pensando è scomodo.” E un aforisma che si adatta così bene a Tommaso. È scomodo perché siamo mortali e vorremmo avere le nostre comodità. Perché mortali sono le battaglie che facciamo. Perché mortale è la realtà stessa, la cui caratteristica, come nelle piante che Goethe studiava, è la metamorfosi continua, al tempo stesso libera e necessaria. Proprio da qui, sempre, l’avventura dell’educazione di sé e dunque l’avventura della vita ricomincia: “Finché non possiedi questo: / questo muori e diventa, / non sei che un ospite ottenebrato / sopra la terra oscura”. Per me questo verso riassume Goethe, da sempre. Per me è questo Tommaso, dal momento in cui l’ho conosciuto. Qui concludo, caro, amato Tommaso. Per il momento. Ricordo quando recentemente ti sei imbattuto in una frase di Goethe, leggendo i suoi dialoghi con Eckermann. Goethe dice, a proposito di un comune conoscente, il critico letterario Schubart: “Schubart conosce meglio le cose, o la cosa, di come ne parli. Dunque non è in buona fede”. È per non cadere nello stesso difetto che mi fermo e ti saluto con gratitudine.

 

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Italia Viva ammicca ancora al centrodestra

Caro direttore, non sono d’accordo sulla tua analisi su Renzi che sembra non sappia cosa faccia. A mio avviso, sa benissimo cosa sta facendo; sa benissimo che, se cade il governo, alle prossime elezioni stravincerà la destra e che B. sarà nominato prossimo presidente della Repubblica. Tornaconto? Per dirla con Crozza quando imita Zaia, “ragionateci sopra”.

Gianni Cicero

 

IO, un’app da rendere più fruibile e utile

Purtroppo l’app IO non è disponibile per i milioni di italiani che sono senza Internet, non è semplice da utilizzare e ha bisogno della piena collaborazione dei commercianti per poter funzionare. Ci vorrebbe un programma semplice che permetterebbe a quelli senza l’app di poter partecipare anche loro al cashback. Il nuovo programma dovrebbe coinvolgere le banche che sapranno benissimo su quale conto dovranno poi accreditare i soldi.

Claudio Trevisan

 

Gli interessi che fanno scricchiolare il governo

Io sostengo la mia tesi “abbiamo perso”. Abbiamo perso perché in un momento così drammatico per la nostra salute e per la nostra economia un signore con il 2% di voti tiene in scacco il governo fregandosene dei cittadini. Abbiamo perso perché tutti sono contro il governo perché hanno troppi interessi. Tra un po’ arriveranno tanti soldoni, e volete che gli squali non ne approfittino?

Roberto Grillo

 

Sul “Fatto”, errore grammaticale o battuta?

Nel Fatto di mercoledì 16 in seconda pagina, a compendio dell’articolo intestato “Farsa Italia viva”, trovo scritto in grassetto “l’hanno rimasto solo”; chiedo se questo errore è voluto o..?

Mariarosaria Napolitano

 

No, è una citazione del celebre film “I soliti ignoti”.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Dopo aver letto l’articolo a firma di Salvatore Settis, pubblicato sul Fatto Quotidiano sabato, non posso che esprimere profondo rammarico per la superficialità delle considerazioni riguardanti la Carta di Catania e i successivi decreti dell’assessore regionale che, riprendendola, l’hanno disciplinata. Il contenuto dell’articolo dimostra che il Prof. Settis non ha letto il documento originario, talché il suo giudizio risulta gratuito e i suoi commenti piuttosto frutto di suggerimenti ed imboccate che lo fanno cadere in errori grossolani. Ciò non si addice a uno Studioso di tale caratura, per certo ben consapevole che la verità nasce soltanto dalla conoscenza diretta di quanto messo in discussione. Assurdi e privi di fondamento risultano gli strali lanciati dallo studioso, oltre che contro la scrivente, anche contro la Regione siciliana, accusata di non sapere tutelare i propri Beni culturali, finendo addirittura per cederli ai privati, dopo averli fatti scegliere da semplici tirocinanti dell’Università. Niente è più falso e illogico. Invito il Prof. Settis a leggere l’intero documento, che gli parteciperò privatamente, e che contestualmente consegno al Fatto, che della precisione, verità e indipendenza ha fatto la sua ragione di vita (e di nascita), confidando che venga ristabilita la realtà dei fatti. Sono purtroppo convinta che Salvatore Settis non conosca la situazione dei depositi dei Musei e delle Soprintendenze della Sicilia e ahimè dell’Italia intera e, pertanto, sarebbe opportuno che visitasse qualcuno di tali locali per rendersi conto della situazione di assoluto disordine che li caratterizza e dell’impossibilità di rendere fruibile – e, dunque, valorizzabile – una parte di quel patrimonio.

Prof.ssa Rosalba Panvini
co-autrice Carta di Catania

 

È bello che la Soprintendente Panvini sia indignata contro l’incuria in cui versano i depositi dei musei in Sicilia. Confessione interessante, dato che tenere in ordine e organizzare i depositi secondo le migliori pratiche sarebbe primario compito istituzionale dell’assessorato e dei suoi Soprintendenti (fra cui lei stessa). Ma la Soprintendente preferisce attribuire l’incuria nei depositi a un destino ineluttabile, e non si accorge che sta protestando a gran voce contro se stessa e il suo assessore. Quanto al decreto assessorile, com’è ovvio l’ho letto accuratamente prima di scrivere il mio articolo sul “Fatto” e di rilasciare in merito un’intervista a un’ottima giornalista siciliana, Silvia Mazza, di cui va visto un ulteriore articolo su “Finestre sull’arte” dell’8 dicembre. Entriamo dunque nel merito: nella sua lettera al “Fatto”, per il resto assai vaga, la dott. Panvini contesta due mie affermazioni: primo, che il decreto assessorile contempli la cessione temporanea di beni culturali ai privati; secondo, che la scelta dei pezzi da dare “in affitto” possa esser compiuta da studenti tirocinanti dell’università. Leggiamo allora il decreto assessorile n. 74 del 30 novembre, da cui citavo. Primo: l’art. 1 del decreto recita: “La Regione siciliana concede in uso i beni culturali che si trovano in giacenza nei depositi regionali affinché siano valorizzati attraverso l’esposizione in luoghi pubblici o privati aperti al pubblico”. Esattamente quel che avevo scritto. Secondo punto: l’art. 4, ultimo comma, del decreto dice che l’elenco dei beni da darsi in concessione d’uso sarà redatto “dagli esperti catalogatori con l’eventuale ausilio di studenti universitari che operano in regime di tirocinio formativo”. Esattamente quel che avevo scritto. Non resta che una domanda: se la Soprintendente invoca a sproposito un decreto di cui si dichiara co-autrice, come sperare che gestisse al meglio i depositi a lei affidati?

Salvatore Settis