Stirb und werde (Muori e diventa). Discorso preparato per una cena tra amici del 18 dicembre 2010 (prima della quale Tommaso Padoa Schioppa improvvisamente morì) e pronunciato al funerale in Santa Maria degli Angeli, Roma, il 21 dicembre.
In Goethe oltre a questa sapienza – e tutti noi che ti conosciamo abbiamo avuto modo di ritrovarla in te – sono presenti l’ironia,
il dubbio su di sé, una certa leggerezza del vivere, un sorriso sempre sorprendente
Molti anni fa, feci una promessa a Tommaso che naturalmente non ho mantenuto. En passant, gli dissi un giorno: “Tu sei una persona goethiana”.
Vidi che i suoi occhi si accendevano curiosi: Goethe non è una figura irrilevante nella storia della sua famiglia, a cominciare dal padre Fabio che sulle idee educative di Goethe ha tanto pensato e scritto, e che tutti i figli ha come cosparsi col sale di Goethe. Da allora Tommaso di tanto in tanto mi chiede: “Quando scriverai qualcosa su me e Goethe?” e io prometto, prometto e rinvio. Non dico che questo sia il giorno, caro Tommaso. Ma qualche frammento te lo vorrei offrire in questa occasione. In primo luogo ti parlai di Goethe perché è la figura che ha formato sia me, che te. Non a caso la poesia di Marie de France, sul caprifoglio che s’intreccia al tronco e ai rami del nocciolo e nessuno dei due può più vivere senza l’altro, e che contiene la parola-stemma del nostro incontro, “Bele amie, si est de nus: Ne vus senz mei, ne jeo senz vus”, mi ricorda una delle poesie più sublimi di Goethe, Amyntas, molto amata da Altiero e Ursula, i miei genitori. Ma non sono solo la genealogia e l’educazione ricevuta che accomunano Tommaso a Goethe. Di Goethe si usa dire in Germania fin dai banchi di scuola che sia un poeta olimpico, impassibile. Non ha rughe, imperfezioni. Non conosce le fatiche, i dubbi, i disordini del romanticismo. La sua granitica adorazione del classico, l’estraneità o meglio l’allergia al romantico sono la sua strada maestra. E mi pare, anche tratti del tuo carattere o comunque della tua formazione, Tommaso. Ma attenzione: non perché entrambe rigettate il romantico (Goethe era esperto di tutte le lacerazioni romantiche, altrimenti non avrebbe scritto I dolori del giovane Werther e Le affinità elettive), ma perché è come se tutti e due lo sapeste, lo sentiste: è la realtà stessa che viviamo a essere romantica, impastata com’è di tormento e tensione, contraddizione e caos e la risposta a questo tormento oggettivo è l’equilibrio, la ragione, la ‘calma educazione’ del classico. Per Kafka che s’intendeva di sofferenza, era motivo di consolazione leggere e rileggere che “Tutto danno gli Dei, infiniti, / ai loro prediletti, interamente, / tutte le gioie, quelle infinite, / tutti i dolori, quelli infiniti, interamente”.
Ma c’è dell’altro: in Goethe oltre a questa sapienza – e tutti noi che ti conosciamo abbiamo avuto modo di ritrovarla in te – sono presenti l’ironia, il dubbio su di sé, una certa leggerezza del vivere, un sorriso sempre sorprendente che convivono con una assorta e continua serietà. È Goethe a dire parole inconcepibili per un poeta divino che se ne sta appollaiato, imperturbabile e sereno, sempre uguale a se stesso, sopra le diramazioni delle vicende umane. Sono sue parole come: “Tutto si sopporta in questo mondo, tranne una sfilza di belle giornate”. Oppure, in modo non meno trasgressivo, riguardo alle forme della politica: “Nulla è più intollerabile della maggioranza, composta com’è di poche forti avanguardie, di birbanti che s’adattano, di deboli che si conformano, e della massa che rotola dietro senza sapere neppure lontanamente quel che vuole”. O ancora, in uno scatto d’insofferenza, quando dice che le campane che suonano sotto casa sua (proprio le campane che all’unisono con Schiller aveva glorificato) gli procurano un enorme fastidio mentre scrive. O infine quando si sofferma, scettico, sulla serietà che si fa troppo seriosa: “Una costante serietà ha essenzialmente un vantaggio: di tanto in tanto sconfina in estrema allegria, ed è così che raggiunge la vetta.” È lui, con la vita epicurea e non poco agitata e infinitamente attiva, che ha avuto l’ardire di dire, alla fine della sua vita, una frase stoica che mi ha fatto sempre sorridere: “Ho rinunciato a tutto!”. Sorrido perché se c’è stato qualcuno che non ha rinunciato a nulla è stato proprio Goethe: a nessun piacere, a nessuna conoscenza, a nessuna trasgressione, a nessun dolore, a nessuna frase vera fino a risultare impervia, scomoda. Ci hai fatto e ci fai sorridere di questo tante volte anche tu, Tommaso.
Goethe è importante anche per l’educazione, abbiamo detto: ci sono delle cose che bisogna spiegare a lungo, ma non si può spiegare tutto. Per esempio, che due più due fa quattro può e deve diventare una sorta di assioma. L’abbiamo sentita più volte questa frase, quando ci parlavi di economia e non solo. In merito all’educazione dei bambini: Goethe è contrario alle minacce come ai castighi perché cancellano l’originalità della persona e “trasformano i bambini in futuri Filistei”, confida a Eckermann. Ma l’educazione ha un fine altissimo – la formazione – e preclude l’illimitatezza. Di qui il suo fastidio per la Rivoluzione francese e – nel contesto tedesco di allora – per il luteranesimo: due tendenze romantiche o pre-romantiche che a suo parere distruggevano la calma formazione, la ruhige Bildung, del classico. Infine, il principio di realtà, principio molto caro a Tommaso. È il leitmotiv della vita e delle opere di Goethe, che nella sua esistenza ebbe a percorrere così tante vie: di poeta, scienziato, teorico dei colori, e anche uomo politico. Per non lasciare inesplorata alcuna mutazione dell’esistenza, decise di diventare funzionario di Stato alla corte del duca Karl August, a Weimar. Il principio di realtà e la scoperta del bene pubblico spiegano la sua passione politica, ma all’origine c’è anche un suo desiderio più segreto di apprendere il cambio di pelle: divenire adulto e dunque capace di mutare – come scrisse alla madre quando entrò in politica – senza farsi abbattere dal ‘disagio ipocondriaco’ che l’abbandono delle abitudini comporta. Il senso che ebbe questa esperienza, la lezione grandiosa che ne trasse sono racchiusi in uno dei suoi aforismi: “Pensare è facile, agire è difficile. Agire pensando è scomodo.” E un aforisma che si adatta così bene a Tommaso. È scomodo perché siamo mortali e vorremmo avere le nostre comodità. Perché mortali sono le battaglie che facciamo. Perché mortale è la realtà stessa, la cui caratteristica, come nelle piante che Goethe studiava, è la metamorfosi continua, al tempo stesso libera e necessaria. Proprio da qui, sempre, l’avventura dell’educazione di sé e dunque l’avventura della vita ricomincia: “Finché non possiedi questo: / questo muori e diventa, / non sei che un ospite ottenebrato / sopra la terra oscura”. Per me questo verso riassume Goethe, da sempre. Per me è questo Tommaso, dal momento in cui l’ho conosciuto. Qui concludo, caro, amato Tommaso. Per il momento. Ricordo quando recentemente ti sei imbattuto in una frase di Goethe, leggendo i suoi dialoghi con Eckermann. Goethe dice, a proposito di un comune conoscente, il critico letterario Schubart: “Schubart conosce meglio le cose, o la cosa, di come ne parli. Dunque non è in buona fede”. È per non cadere nello stesso difetto che mi fermo e ti saluto con gratitudine.