L’intento dichiarato era pensare al futuro dei figli. Per la Corte dei conti le operazioni effettuate a inizio 2017 da quattro consiglieri regionali della Valle d’Aosta miravano a ridurre la loro consistenza patrimoniale, viste le anticipazioni di stampa sull’inchiesta (in cui sono poi finiti a giudizio, assieme ad altri 17 colleghi) sui 140 milioni di euro erogati dalla Regione al Casinò di Saint-Vincent tra il 2012 e il 2015. I giudici hanno così revocato gli atti disposti con “singolare coincidenza temporale” dall’ex presidente della Regione Antonio Fosson (ha donato la nuda proprietà di immobili per un valore di 351.700 euro), dal già assessore Giuseppe Isabellon (donazione di 208.350 euro di una Srl), dall’attuale consigliere Claudio Restano (che ha assoggettato a fondo patrimoniale un’abitazione, un “bed & breakfast” e vari terreni) e dall’“Imperatore” della politica valdostana, ancora oggi in Consiglio, Augusto Rollandin (donazione della nuda proprietà, con riserva di usufrutto a vita di 289 immobili, soprattutto terreni per 1.011.300 euro).
Truffa al Parlamento Ue, sequestrati oltre 500 mila euro a Lara Comi (ex FI)
Denaro pubblico del Parlamento europeo per pagare lo stipendio dei suoi assistenti che invece finiva in modo illegale all’ex deputata Ue Lara Comi. Denaro poi utilizzato in certi casi da persone a lei vicine anche per vacanze a Monte Carlo o Courmayeur. Questa l’accusa della procura di Milano all’ex fedelissima di Berlusconi. L’ex coordinatrice provinciale di FI è indagata per truffa aggravata e ieri la Finanza ha eseguito nei suoi confronti in solido con altri cinque un sequestro da 525mila di euro. Il decreto del giudice segue l’avviso di conclusione indagini per Comi e i coindagati. L’ex europarlamentare è da tempo accusata di corruzione, emissione di false fatture per le quali la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio nell’inchiesta “Mensa dei poveri” con al centro il presunto “regista” Nino Caianiello, ex responsabile di Fi a Varese. Per come ricostruito dal giudice, i soggetti assunti da Bruxelles non svolgevano “alcuna attività” o solo in parte. E parte di quei compensi sarebbero finiti “alla Comi o al padre (non indagato)”, oppure “mediante bonifici” sul conto “dell’associazione Europe4you riconducibile a Comi”. Segnalazioni erano arrivate già nel febbraio 2019 dall’organismo europeo anti-frode (Olaf). Nella nota si legge “di presunte irregolarità a danno del bilancio Ue e gravi inadempimenti degli obblighi professionali da parte di Lara Comi”. Documenti e testimonianze hanno chiuso il cerchio dell’accusa. Tanto che nelle 80 pagine di richiesta di sequestro della Procura si legge: “Lara Comi” ha “in modo sistematico e (…) spregiudicato piegato ai fini personali il proprio ufficio pubblico commettendo (…) illeciti allo scopo di drenare denaro dalle casse dell’Unione europea”. Tra gli indagati il “terzo mediatore”, colui che gira il denaro pubblico al funzionario. E’ Gianfranco Bernieri il quale, interrogato, spiegherà il sistema per retrocedere i soldi. Denaro che monetizzato veniva messo in buste e chiuso in cassaforte. Giovanni Enrico Saia, uno degli assistenti indagati, davanti alle quietanze di pagamento firmate dalla Comi, spiega: “Non so dire perché siano firmate da Lara e Renato Comi”. Per Saia le persone vicine alla Comi “sono riuscite a ottenere da me ciò che desideravano”. Ricorda un incontro con Giannipio Gravina, collaboratore della Comi: “Gravina mi impose (…) il silenzio. Disse: è meglio per te se fai come ti dico (…). Stai sereno che a te ci pensiamo noi, ti paghiamo anche l’avvocato”.
L’inspiegabile silenzio di Aifa sul farmaco anti-Coronavirus
“Il giorno stesso in cui dagli Stati Uniti è arrivata la richiesta di aprire una pratica, l’ho girata all’Aifa per le opportune valutazioni del caso”. Il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, controlla le date. “Era il 7 ottobre, la mail è arrivata alle 18.56 e alle 19.16 l’ho girata all’Agenzia per le opportune valutazioni del caso. Peraltro sapevo che si ventilava la possibilità di avere per l’Italia 10mila dosi di farmaco a titolo gratuito. Credo sarebbe stata utile una approvazione rapida. Ma questo aspetto è in mano ad Aifa, mi informerò”.
Sileri a parte, c’è un grande silenzio sulla vicenda, raccontata ieri dal Fatto, dei farmaci a base di anticorpi monoclonali prodotti a Latina dalla multinazionale Eli Lilly, che finiscono però negli Stati Uniti e non in Italia. Si tratta della terapia a base di anticorpi ricavati dal plasma che neutralizza il virus ed evita il ricovero. La stessa, per capirci, usata da Trump, che poi ne ha sponsorizzato l’acquisto al costo di 1.000 euro a trattamento, poco più del costo giornaliero di un ricovero. Tanto o poco che sia, a fine ottobre l’Italia ha avuto l’occasione di sperimentarla gratis. Per motivi ancora poco chiari è stata fatta cadere nel vuoto e due mesi dopo – con 18mila nuovi casi e oltre 600 morti – il farmaco fatto in Italia guarisce solo gli americani. Ufficialmente il problema è regolatorio. Tanto che ancora ieri l’ex presidente Aifa, Luca Pani, ha chiesto in un tweet: “Perché non stiamo usando gli anticorpi monoclonali che ci sono e funzionano bene da mesi? Misteri…”. Ancora (o solo) il 10 dicembre il ministro Speranza, presente agli incontri di ottobre con Aifa, ISS e Cts ha sollecitato l’Agenzia. Il neo presidente Giorgio Palù la guida solo dal 4 dicembre. All’epoca, nelle interviste diceva: “Si parla tanto di vaccino, ma c’è già la cura a base di anticorpi monoclonali il cui problema è la quantità”. L’Italia li produce, ma curano gli americani.
Sci, cenoni e colori: Toti e i campioni di giravolta
Il mantra è lo stesso da mesi: “Il governo ascolti le Regioni”. Non sempre è facile però capire cosa le Regioni vogliano, dato che – nella foga di contrastare l’esecutivo – i governatori finiscono per contraddirsi con una certa frequenza.
Il discorso vale sul metodo e sul merito delle restrizioni. Esempio: meglio misure nazionali o differenziate? Dipende dal giorno. In queste ore, in vista di possibili strette natalizie, il presidente della Liguria – nonché vicepresidente della conferenza delle Regioni – Giovanni Toti è una furia: “Ritengo sia un’ingiustizia chiudere anche là dove se ne potrebbe fare ameno”. A sentire il campano Vincenzo De Luca, il sistema delle “zone” era “una gran buffonata” fin dall’inizio ed è ora di riprendere in mano il lanciafiamme, come ha detto ieri il suo braccio destro Fulvio Bonavitacola: “Siamo per misure molto rigorose e restrittive nel periodo natalizio”. A ogni modo, a inizio novembre, prima del Dpcm che divise l’Italia in zone, la posizione ufficiale espressa dalle Regioni era a favore di “misure nazionali uguali per tutti”. Con buona pace del leghista lombardo Attilio Fontana, che l’altro giorno si è detto convinto che il virus “abbia dimostrato la necessità di più regionalismo”.
C’è da dire che gli ultimi assembramenti hanno spaventato alcuni governatori. Dal Friuli-Venezia Giulia il leghista Massimiliano Fedriga si dice favorevole “a un lockdown dal 25 dicembre al 6 gennaio”. Lo stesso Fedriga, però, meno di un mese fa, lamentava la mancata apertura degli impianti sciistici: “La politica è chiamata a fare sintesi tra salute e economia. Invece si è voluto fare una divisione tra i responsabili e gli incoscienti”. Il suo assessore al Turismo aveva infatti appena firmato, insieme ai colleghi dell’arco alpino, un protocollo per il via libera allo sci sotto Natale, negli stessi giorni in cui ora il presidente auspica un lockdown.
Della stessa idea era anche la Regione Marche (oggi favorevole alla stretta), che per bocca del vicepresidente Mirco Carloni criticava il governo: “Non ha senso tenere chiuse le piste, sulle piste non può esserci assembramento. È un errore”. Favorevole al libero sci pure il Veneto di Luca Zaia, che si è appena messo in proprio dichiarandosi zona rossa dal 19 dicembre al 6 gennaio. Una mossa con cui peraltro il governatore si distanzia una volta di più dal suo leader Matteo Salvini, ben più tiepido nei confronti di nuove restrizioni.
Ma un mese fa, anche dopo il rifiuto del governo a trattare sugli impianti, Zaia insisteva: “Si potrebbe garantire almeno l’apertura a chi soggiorna nelle località turistiche”. E il governatore veneto se la prendeva pure con la decisione di vietare gli spostamenti tra Comuni durante le feste: “È una bestialità scientifica e una sperequazione a livello costituzionale”. Fontana invitava addirittura a “violare i decreti” perché lo stop agli spostamenti era “una ingiustificata limitazione alla vita dei cittadini” (oggi si dice “preoccupato” e prega i lombardi di non “vanificare gli sforzi fatti”); mentre in Calabria il leghista Nino Spirlì definiva “atto criminale” la chiusura nei giorni di festa. Da qui a Natale farà in tempo a cambiare idea. Almeno un paio di volte.
“Vaccini, Moderna e Pfizer funzionano. Oxford un po’ meno”
Professor Guido Silvestri – luminare dell’Università Emory di Atlanta – crede che in Italia sia stato un errore non ricorrere alle cure monoclonali (quelle che hanno guarito Donald Trump)?
C’era la possibilità concreta di usare diecimila dosi di questi anticorpi fin da ottobre, salvando probabilmente molte vite umane, e purtroppo non si è riusciti a realizzare questa straordinaria opportunità, per ragioni che non capisco, prima ancora di non condividerle. È successa una cosa a mio avviso molto grave e spero che chi di dovere possa far luce fino in fondo su questa tristissima vicenda.
Quale ritiene essere il vaccino più risolutivo nella lotta al Covid?
I vaccini che sembrano più efficaci sono quelli a Rna, cioè Pfizer e Moderna, che stanno sul 95% di prevenzione dell’infezione. Quello di Pfizer, già approvato dalla Fda, ora lo stiamo usando anche qui alla Emory, mentre per il vaccino Moderna l’approvazione è imminente. Pare il russo Sputnik abbia una efficacia del 92%, ma i dati sono meno facili da valutare, mentre sembra che quello cinese a virus inattivato sia sul 85-90% di efficacia. Purtroppo i risultati meno promettenti sono quelli del vaccino Oxford-Astrazeneca, che sui primi dati si assesta sul 70% di protezione.
Dobbiamo aver paura di effetti collaterali di cui ogni tanto c’è notizia? Quando saremo fuori dall’incubo?
No, non dobbiamo avere paura. Gli effetti avversi di questi vaccini non sono gravi, e anche le reazioni allergiche severe, peraltro rare, possono essere controllate a livello ambulatoriale, come si fa con gli altri vaccini. Se ci vacciniamo tutti in tempi rapidi, ed usiamo gli anticorpi monoclonali come “ponte” per arrivare al momento in cui saremo tutti vaccinati, nel giro di sei mesi dovremmo essere fuori dal tunnel. Ma lo sforzo logistico di implementazione di questi farmaci e vaccini è davvero straordinario, una specie di nuovo sbarco in Normandia.
Tenuta della Sanità e scelte politiche di contrasto all’epidemia: come vede l’Italia?
Posso chiedere la protezione del Quinto Emendamento? Scherzi a parte, credo che l’Italia abbia pagato in modo durissimo il fatto di essere stata il primo Paese occidentale colpito dalla pandemia, e molte delle decisioni iniziali, col senno di poi, sembrano molto discutibili, ma sarebbe ingiusto usare il senno di poi per criticarle adesso. Invece la gestione epidemiologica della seconda ondata mi è sembrata più ragionevole, improntata alla valutazione dei dati reali (anziché proiezioni basate su modelli matematici) a cui si risponde con provvedimenti non più generalizzati ma flessibili nello spazio e nel tempo, tipo le cosiddette regioni a colori.
In America tra black friday e Giorno del Ringraziamento i morti sono raddoppiati in quindici giorni.
È tutto da dimostrare. Le curve epidemiche hanno andamenti simili in molti altri Paesi, tra cui proprio l’Italia a fine ottobre, inizio novembre, anche senza il Thanksgiving . Ci sono molti aspetti della diffusione di questa epidemia che ancora non comprendiamo bene, in particolare il ruolo di fattori genetici, dell’immunità crociata con altri coronavirus, e dello strano fenomeno dei superdiffusori, che contribuiscono in maniera sproporzionata al contagio. Spero che presto si possa discutere di questi aspetti in modo scientifico e pacato, senza influenze della politica.
In Asia hanno quasi vinto, in Occidente no e dell’Africa si sa poco.
In Asia la pandemia è più sotto controllo che in Europa o America, ma le ragioni non si conoscono del tutto. Per esempio quante persone sono già state vaccinate in Cina e cosa si sta facendo per ridurre i rischi? L’Africa, che tutta intera ha avuto meno morti dell’Italia, è stata protetta probabilmente dal clima e dal fatto di avere una popolazione più giovane, e quindi meno a rischio di mortalità. Purtroppo però l’Africa è stata devastata dagli effetti dei lockdown dei Paesi occidentali, in particolare un aumento terribile della povertà. Questa è una cosa di cui si parla poco, anche in Italia, e ciò mi lascia perplesso.
Dpcm, due ipotesi di zona rossa: festivi e prefestivi o dal 24 al 6
Forse stasera sarà messa la parola fine dal Consiglio dei ministri dopo un nuovo giro di consultazioni tra governo e Regioni, ma sul tavolo restano due ipotesi di zona rossa nazionale: la chiusura completa per tutte le vacanze natalizie, dal 24 dicembre al 6 gennaio, chiesta dai ministri Roberto Speranza e Dario Franceschini; oppure l’idea che al momento pare più probabile, cioè il lockdown nei giorni festivi e prefestivi Epifania esclusa (quindi solo 24, 25 e 26 dicembre, 31 e 1° gennaio) come vorrebbe il premier Giuseppe Conte.
Le due ipotesi ieri sono state portate sul tavolo delle Regioni e dei Comuni dal ministro Francesco Boccia, che per altro senza mezze misure ha fatto intendere di preferire la linea più rigorista. Favorevole alla “mozione Conte”, invece, il guardasigilli Alfonso Bonafede. E poi c’è il nodo dei renziani, con la ministra Teresa Bellanova che fin qui si è negata – ed è uno dei motivi del posticipo continuo delle decisioni – non partecipando ai confronti.
Da parte delle Regioni non ci sono stati troppi distinguo questa volta, il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini ha quasi supplicato: “Se facciamo queste misure che i ristori siano garantiti”; mentre sulle scuole lo stesso Bonaccini ha messo in guardia: “Sono sempre stato per riaprirle il prima possibile, ma se dobbiamo riaprirle il 7 gennaio per richiuderle il 15 allora pensiamoci bene e prendiamo ancora un po’ di tempo”. Anche da parte dei Comuni ci sono state poche obiezioni, col sindaco di Bari Antonio Decaro che ha spiegato: “Siamo preoccupati per i flussi di gente che affolleranno le città soprattutto nelle vigilie. Se n’è avuto un assaggio nell’ultimo weekend e riteniamo utile e opportuna ogni misura di limitazione di questo movimento”.
Rimane in ogni caso il divieto di spostamento da regione a regione dal 21 dicembre al 6 gennaio, già previsto dal Dpcm del 3 dicembre. “Natale è più rischioso di Ferragosto”, ha avvertito Boccia: “La proposta di maggiori restrizioni è legata alla necessità di dare un ulteriore impulso al contenimento del contagio per poter alleggerire sempre più il peso sulle reti sanitarie. Penso che sia più opportuno restringere il più possibile, ma il confronto è aperto. Se qualcuno ipotizza feste, cenoni e assembramenti sbaglia clamorosamente. Ovviamente stiamo andando verso nuove restrizioni”.
C’è chi stringe ancora di più senza aspettare ed è il governatore del Veneto, Luca Zaia: dalle 14 di domani e fino al 6 gennaio non sarà possibile spostarsi neppure da un Comune all’altro. “In Veneto le attività produttive e commerciali non chiuderanno: chi ha la serranda non la abbasserà, ma dalle 14 si lavora solo con cittadini della propria città”. Zaia non ha fatto mancare neppure una frecciata a Roma: “Non ho ben capito cosa accadrà con il governo. Siamo al 17 dicembre e c’è ancora incertezza sulle misure nazionali. Noi non possiamo aspettare”. Quello che Zaia non dice è che non può aspettare perché il Veneto da qualche giorno è stabilmente in testa alla classifica dei nuovi casi di coronavirus: ieri 4.402 (seconda la Lombardia a 2.730).
In tutta Italia, ieri, i contagiati contabilizzati sono stati 18.236 (17.572 mercoledì) a fronte di 185.320 tamponi (199.489 il giorno precedente). Il numero dei morti continua a far paura: ieri 683 (mercoledì erano stati 680).
Quel contropiede su Renzi e la scelta del basso profilo
Comincia a circolare quando mancano pochi minuti alle 10 la notizia che il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio sono in viaggio per Bengasi per liberare i 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati da oltre 100 giorni. La notizia getta un certo scompiglio nella politica italiana: in quelle ore, Conte avrebbe dovuto vedere Matteo Renzi un incontro ad alta tensione. In realtà, l’operazione si era andata perfezionando nell’ultima settimana, ma solo mercoledì il premier ha capito si era conclusa. Anche se la certezza sulla sua buona riuscita si è avuta solo poco prima dell’arrivo. Che la liberazione sia avvenuta proprio ieri perché il premier aveva bisogno di esibire un risultato in una giornata per lui particolarmente delicata è un dubbio che circola nei palazzi. Secondo le ricostruzioni della tempistica fatte sia da Palazzo Chigi sia dalla Farnesina, si è trattato solo di un’utile coincidenza. Di certo, Conte all’incontro con Renzi arriva più forte di come lo sarebbe stato solo due o tre giorni prima. Tanto più che il leader di Italia Viva aveva cominciato a martellarlo sull’incapacità del governo di portare a casa i pescatori. Mentre da settimane l’opposizione organizzava manifestazioni davanti a Palazzo Chigi (dove più volte le famiglie sono state ricevute). E si rischiava una parlamentarizzazione del caso. Da non sottovalutare il plauso del Presidente Mattarella.
Di Maio ha fatto un post su Facebook, Conte un tweet. Non c’è stata una passerella vera e propria, però, perché il prezzo politico da pagare è stato proprio la visita di Conte e Di Maio a Khalifa Haftar, il generale della Cirenaica. Un evento da non pubblicizzare. L’Italia, nonostante il capo del governo riconosciuto all’Onu della Libia sia Serraj, ha sdoganato il rapporto con lui già da tempo. Ma ieri gli ha fornito una visibilità non scontata. Infatti, Haftar avrebbe posto come condizione la “visita” del premier. Conte ha chiesto al ministro degli Esteri di accompagnarlo. Un’offerta dovuta non solo al fatto che insieme a Palazzo Chigi (dove comunque è sempre stata la palla) hanno lavorato Farnesina e Servizi, ma anche a motivi di politica interna: nei rapporti tra i due non facilissimi (per usare un eufemismo) un gesto come quello di ieri suona distensivo. Conte e Di Maio non hanno incontrato i pescatori, sempre per mantenere basso il tasso di propaganda. Anche se la geolocalizzazione del luogo dell’incontro con Haftar, mandata ad alcuni giornalisti da Rocco Casalino, ha generato la sua dose di polemiche (Anzaldi di Iv su tutti protesta: “Ha messo a rischio la sicurezza di autorità e apparati dello Stato”).
Non c’è solo un fronte politico interno da tenere presente nell’operazione di ieri. Molto ha pesato la diplomazia, che ha attivato tutti i suoi canali sia con gli amici che con i nemici del Generale. Sono stati coinvolti anche Russia e Stati Uniti. Lo stesso Conte ne ha parlato nei suoi colloqui telefonici con l’egiziano Al Sisi e soprattutto con il Principe ereditario di Abu Dhabi e vice comandante supremo delle Forze armate degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed Al Nahyan. Più volte ha sentito il premier tunisino, Hichem Mechichi, che ieri ha espresso il suo caloroso ringraziamento per l’azione che ha portato al rilascio dei pescatori: tra loro ci sono anche alcuni cittadini tunisini. Asse che fa ben sperare per una collaborazione con la Tunisia sul fronte degli accordi per la migrazione, sempre in salita.
Il caso dei pescatori rischiava poi di diventare un boomerang: se non si fosse risolto avrebbe rivelato una debolezza dell’Italia in un’area per la nostra nazione centrale come quella del Mediterraneo. Il fatto che la pressione italiana sia andata a buon fine (seppure con la lentezza dovuta a non aver neanche preso in considerazione strumenti per noi inattuabili come blocchi navali o invii di forze speciali) conferma che l’Italia dal punto di vista politico e diplomatico ha ancora un potere di influenza.
Haftar, le trattative e la foto con Conte
“Il vero successo di Haftar è stata la stretta di mano di Conte”. Chi era presente ieri mattina sulla rotta Roma-Bengasi, sintetizza così la fine della trattativa che ha portato alla liberazione di 18 pescatori, otto italiani, sei tunisini, due indonesiani e due senegalesi. Sono tornati in libertà dopo 108 giorni di detenzione. Stanno rientrando a Mazara del Vallo: il loro viaggio – cominciato con uno dei due motopescherecci che aveva problemi al motore e non partiva – durerà un paio di giorni e poi potranno riabbracciare i loro cari. A bordo ci sono anche uomini dell’intelligence per monitorare che tutto vada nel verso giusto.
È stata l’Aise (i servizi segreti esteri), guidata da Giovanni Caravelli, uno dei principali esperti di Libia che ha seguito i dossier riguardanti il Paese nordafricano già quando era vicedirettore del dipartimento, a seguire l’intera trattativa. Cominciata fin subito dopo l’arresto dei pescatori, avvenuto il 1° settembre, e che ha subito un’accelerazione una settimana fa quando i dialoghi si sono fatti più intensi e si è capito che nella partita – in cui secondo i media libici sono entrati anche Tunisia, Francia e Egitto – uno spiraglio poteva davvero aprirsi. Un lavoro di collaborazione e relazione che da anni l’intelligence ha messo in campo sul territorio libico. Per una settimana, Caravelli ha fatto avanti e indietro dalla ex colonia per portare avanti una trattativa terminata ieri con l’arrivo a Bengasi del premier Giuseppe Conte e del ministro Luigi Di Maio (e con qualche momento di fibrillazione negli apparati quando è stata fatta uscire la notizia del buon esito della vicenda prima ancora che l’operazione fosse conclusa).
Trattativa politica. Si assicura, come avviene ogni volta che si parla di una liberazione: non è stato pagato un euro, non c’è di mezzo una contropartita in denaro. Stavolta lo scambio sarebbe stato istituzionale. Quello che voleva Haftar era un riconoscimento politico e l’uomo forte della Cirenaica lo ha attenuto in un incontro durato circa un’ora ieri mattina con il capo del governo e il numero uno della diplomazia italiana. Una vittoria sul piano della politica interna ed estera per il generale in un momento di grande difficoltà dopo il fallimento dell’offensiva militare lanciata contro Tripoli.
Secondo i media libici, i discorsi sulla liberazione dei pescatori potrebbero aver coinvolto anche altri personaggi intrecciando i colloqui tra l’ambasciatore Buccino e il ministro della difesa libico, Salah al Din Al Namroush: sarebbe stato quest’ultimo a consigliare all’Italia di coinvolgere la Francia, visti i buoni rapporti di Parigi con Haftar. E, sempre sull’altra sponda del Mediterraneo, c’è chi ipotizza un coinvolgimento di Al Sisi, il presidente egiziano protettore e sponsor di Haftar, al centro anche della difficile questione diplomatica con l’Italia legata all’indagine della Procura di Roma sulla morte di Giulio Regeni.
Le ombre sull’arresto. In realtà intorno alla vicenda restano molte zone d’ombra. A cominciare dai motivi dell’arresto. Era il 1º settembre quando i pescherecci “Medinea” e “Antartide”, con a bordo i 18 pescatori, sono partiti da Mazara del Vallo per una battuta di pesca al gambero rosso. Karoui Mohamed, Daffe Bavieux, Ibrahim Mohamed, Pietro Marrone, Onofrio Giacalone, Mathlouthi Habib, Ben Haddada M’hamed, Jemmali Farhat, Ben Thameur Lysse, Ben Thameur Hedi, Moh Samsudin, Giovanni Bonomo, Michele Trinca, Barraco Vito, Salvo Bernardo, Fabio Giacalone, Giacomo Giacalone e Indra Gunawan sono stati fermati a circa 80 miglia dalle coste libiche dalle milizie del generale Haftar. Fatti scendere a terra, sono stati scortati in una caserma di Bengasi, a est del Paese, in un’area controllata dal generale della Cirenaica. Le autorità locali li hanno accusati di aver sconfinato in un’area marittima di pertinenza economica che loro ritengono esclusiva, appellandosi a una convenzione delle Nazioni Unite che prevede l’estensione della cosiddetta Zee (Zona economica esclusiva) da 12 a 74 miglia. Da quel momento i pescatori sono riusciti a sentire i loro familiari una sola volta per telefono: “Siamo in una palazzina vicina al porto, stiamo tutti bene. State tranquilli, torneremo presto”.
Il reato militare. I pescatori sono stati così accusati di violazioni militari perché quelle acque sono ritenute dai libici territorio sensibile e dunque si tratta di un reato militare. A pochi giorni dall’arresto fu persino fatta circolare la notizia di un’accusa di droga, subito lasciata cadere e che l’intelligence sigla immediatamente come insensata. Di certo maggiori dettagli saranno raccolti dalla Procura di Roma che ha già aperto un’indagine. Il fascicolo è senza indagati o ipotesi di reato, ma dopo il loro arrivo i pescatori italiani potrebbero essere interrogatori per ricostruire i motivi e i particolari della loro detenzione.
I festeggiamenti. “Grazie a tutti in Italia, non vedo l’ora di tornare a casa”, ha detto ieri il comandante della nave Medinea, Pietro Marrone, al telefono con il suo armatore Marco Marrone. Che invece ha aggiunto: “Speriamo che questa vicenda serva da esempio affinché i nostri pescatori non debbano rischiare la vita per guadagnare un tozzo di pane”.
“Siamo felici, oggi è un gran giorno, stavano perdendo le speranze, ma finalmente è arrivata la buona notizia e per questo ringraziamo il premier Conte e il ministro Di Maio. Non vediamo l’ora di poter riabbracciare i nostri familiari e festeggiare con loro”, sono le parole di Rosetta Ingargiola, madre del comandante Marrone. Gli fa eco Ignazio Bonono, 28 anni, figlio di Giovanni, il timoniere dell’Antartide: “Ci siamo tolti un peso dal cuore”. Ancora qualche ora e potranno riabbracciare i loro cari.
Speranza boccia la sanità lombarda: Fontana ha 120 giorni per riformarla
Per la Lega era una riforma simbolo, capace di dare lustro a un modello d’eccellenza. Avrebbe dovuto migliorare l’integrazione tra servizi sanitari e sociosanitari, potenziare la medicina territoriale, rafforzare laprevenzione, ridimensionare la centralità degli ospedali a favore di una continuità delle cure sul territorio. Così non è stato. Anzi. Dopo cinque anni di sperimentazione, la legge regionale di riforma sanitaria fermamente voluta in Lombardia dall’allora presidente Roberto Maroni si rivela un grande flop. Anche alla luce della gestione dell’emergenza innescata dall’epidemia. Tanto da rendere necessaria “la revisione” di vari aspetti “dell’impianto organizzativo e istituzionale, in particolar modo in riferimento all’organizzazione dell’assistenza territoriale, sia sanitaria sia sociosanitaria, e alla prevenzione”.
È Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, a mettere nero su bianco che la riforma spinta dalla Lega con la legge 23 del 2015 non va. Era sperimentale. E da agosto è sotto la lente di ingrandimento dell’agenzia. Ora ne è venuta fuori una relazione tecnica al ministro della Salute Roberto Speranza, oltre 70 pagine elaborate anche da specialisti della Scuola Sant’Anna di Pisa che, a dispetto dei toni soft, decretano il fallimento della riforma. Tanto da indurre Speranza ad allegare una lettera in cui dà alla Regione Lombardia 120 giorni di tempo per cambiare la legge, con inizio del percorso entro 30. Sì perché Agenas, da poco sotto la guida dell’ex capo della Sanità veneta Domenico Mantoan gradito anche ai leghisti, rileva come la riorganizzazione “non abbia causato nel breve e medio periodo una modifica del livello complessivo di servizio e della qualità del sistema sanitario” e indica esplicite “prescrizioni”.
Così ecco che arriva la bocciatura per le Ats, vale a dire le otto Agenzie per la salute che hanno preso il posto delle aziende sanitarie. Agenas mette in fila tutto ciò che non funziona. Si va “dallo sfilacciamento della catena di comando”, con una risposta “non coordinata alle esigenze di salute della popolazione”, all’assenza di un “raccordo organizzativo tra ospedale e territorio che comporta fenomeni di inappropriatezza nel percorso di presa in carico, soprattutto dei pazienti più fragili”.
Non va nemmeno la prevenzione: invece di essere rafforzata è stata ridimensionata dalla separazione delle funzioni, da una revisione dei poteri che ha assegnato alle Ats un compito di programmazione e controllo e alle 27 Asst (Aziende sociosanitarie territoriali) l’obbligo di erogare i servizi. In pratica il dipartimento della prevenzione è in carico alle Ats, ma le prestazioni spettano alle Asst. Un grande caos, un disastro che apre la strada alla soppressione delle Ats: dovranno essere sostituite, scrive Agenas, da un’unica agenzia regionale, capace di evitare la dispersione dell’attività di controllo e di garantire una qualità dei servizi che invece oggi è a macchia di leopardo: una disomogeneità di cui fanno le spese proprio le categorie più deboli. Quanto alle Asst, a cui fanno capo anche gli ospedali, si apre un altro capitolo: “L’assenza di un solido raccordo organizzativo tra ospedale e territorio” ha portato “a ritardi ed errori”. La competizione tra pubblico e privato? Avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello del sistema lombardo, la leva per garantire maggiore qualità. Invece “genera difficoltà nell’assegnazione del budget, nel controllo delle prestazioni erogate e nel garantire omogeneità nella qualità” dei servizi.
“Siamo di fronte alla bocciatura di un sistema che aveva già manifestato tutti i suoi limiti prima della pandemia, l’emergenza li ha portati drammaticamente allo scoperto – dice Samuele Astuti, consigliere regionale del Pd –. Ora è necessaria una profonda revisione e non c’è tempo da perdere: la maggioranza si presenti davanti alla commissione Salute con una proposta”. I problemi, in realtà, erano noti da tempo al governatore Attilio Fontana e alla sua giunta. “È dall’inizio dell’estate che parlano di una revisione della legge – prosegue Astuti –. Ma finora non abbiamo visto nemmeno un documento”.
Sapelli, Tremonti e Giorgetti: la rosa dei premier di Salvini
“Dobbiamo essere pronti a qualsiasi eventualità…”. Nei colloqui riservati, Giancarlo Giorgetti ripete spesso questa frase a Matteo Salvini, che di fronte a una possibile crisi di governo non parla mai di andare a votare, provocando l’ira di Giorgia Meloni. E allora da giorni il leader della Lega sostiene che in caso di caduta di Conte servirà un governo di centrodestra per traghettare il Paese alle elezioni con i “delusi” dalla maggioranza giallorosa, ovvero renziani e dissidenti del M5S.
Ma giovedì sera, durante la presentazione del libro di Bruno Vespa con Meloni e Berlusconi, Salvini ha fornito qualche dettaglio in più di questo scenario: “Non sarebbe un governo Salvini, ma ci sono persone fuori dalla politica di area centrodestra che potrebbero farlo”. Insomma un tecnico in quota Lega che permetta al segretario di tenersi le mani libere e, nella sua testa, di arrivare a Palazzo Chigi dopo le elezioni. “Anche perché adesso, con il Covid e 209 miliardi da gestire, l’Ue non permetterebbe mai un governo Salvini”, dicono dai piani alti del Carroccio.
E allora il segretario ha confidato ai suoi fedelissimi una rosa di nomi che potrebbero essere accettati anche dal presidente della Repubblica. In cima c’è l’economista della Statale di Milano, Giulio Sapelli, professore di Storia economica proprio di Salvini che poi non si è mai laureato. Sapelli nel maggio 2018, durante le trattative per il governo gialloverde, era stato premier per una notte prima di essere scartato dai 5 Stelle. A ottobre, in un’intervista a Formiche.net, Sapelli ha elogiato il leghista invitandolo a una svolta “europeista”, a costruire un “conservatorismo europeo” sul modello della Cdu e abbandonando “sovranismo e velleità anti-euro”. E due giorni fa Salvini ha accantonato quella etichetta: “Sovranismo? È una categoria superata”.
Un altro economista di cui il leader del Carroccio si è invaghito è Giulio Tremonti, che ormai è il suo consigliere economico e piacerebbe anche agli alleati. La carta a sorpresa è quella di Giorgetti. Da una parte Giorgetti sta giocando un ruolo nella crisi sentendosi con Renzi e dall’altra prova ad accreditare la “svolta moderata” della Lega nelle cancellerie europee: come ha rivelato Repubblica, Giorgetti a ottobre era a Berlino per incontrare esponenti della Cdu tedesca. “Ci è andato per conto di Salvini – dice un senatore leghista – ma anche le ambizioni personali contano…”.
Sullo sfondo resta Mario Draghi, che Giorgetti sogna di issare al Quirinale perché è convinto che potrebbe dare garanzie in Ue in caso di vittoria del centrodestra alle elezioni. Salvini pensa che se il ribaltone non avverrà ora, lo spiraglio di un nuovo governo potrebbe aprirsi in luglio quando inizierà il semestre bianco del Colle e non si potrà più andare a votare. E, come ripete Giorgetti, “dovremo farci trovare pronti”.