Matteo, lettera e sorpresa: pure lui vuole la task force

Una letterina per farsi lasciare, infarcita di paradossi. Il messaggio pubblico di Matteo Renzi per Giuseppe Conte andrebbe raccontato parola per parola, per metterne in luce contraddizioni, provocazioni, perdite di senso e di coerenza. Renzi diserta i tavoli di governo per giorni e poi scrive le sue richieste su Facebook, “per trasparenza totale”. Ci vuole tanta spregiudicatezza per chiamare “trasparenza” l’anticipazione pubblica di una trattativa politica, che vizia e manomette la trattativa stessa. Con un dettaglio comico: nella stessa lettera Renzi rimprovera Conte per l’uso eccessivo dei social (“Non bastano i like su Facebook per amministrare un territorio”).

Quella di Italia Viva non è una mediazione, ma un intero programma di governo, alternativo a quello attuale: detta la linea su Recovery Fund, Mes, Sanità, Lavoro, Scuola, Ambiente, legge elettorale, Giustizia, diritti civili, intelligence, infrastrutture e grandi opere.

Un governo nuovo, ma con chi? Come farà Renzi a pretendere il Mes in maggioranza con Matteo Salvini? Chiederà anche al leghista di trovare all’Italia un posto “nel nuovo mondo dell’America di Biden?”.

Non manca nemmeno una spiritosa provocazione, quando nomina l’uomo che tutti pensano possa prendere il posto di Conte: non c’era nessun motivo per citare Mario Draghi (Renzi lo fa nel primo periodo: “Come nota acutamente Mario Draghi: il problema è peggiore di quello che appare”). E poi mezze verità o autentiche bugie, come il passaggio sulla Sanità: “In tre anni il mio governo ha messo 7 miliardi in più” (a smentire questa mistificazione c’è una cospicua letteratura specialistica, noi rimandiamo all’analisi della fondazione Gimbe, che definisce quegli anni “sotto il segno di un definanziamento senza precedenti”).

In cima a tutto questo, c’è la più sublime e macroscopica delle contorsioni logiche. Renzi ha iniziato la guerra a Conte nel nome del Recovery Fund: “Quando un Paese può spendere 209 miliardi di euro non si organizzano task force cui dare poteri sostitutivi rispetto al governo”. E allora cosa propone Renzi? Nella lettera a Conte consiglia l’“ottimo contributo” di Minima&Moralia, un’associazione che riunisce manager, economisti e professionisti più o meno vicini all’universo renziano (tra gli altri, l’ex ministro Pier Carlo Padoan, Fabrizio Pagani e Stefano Firpo, alla guida delle segreterie tecniche del Mef e del Mise durante il suo governo). E cosa propone il documento di M&M allegato da Renzi? Una struttura – definita “Unità” – “che avrebbe un forte orientamento operativo, composta da esperti in materia economico-finanziaria, ingegneristica e giuridica (…), dovrebbe poter far ricorso a competenze non solo dei ministeri e della Pubblica amministrazione, ma anche del settore privato”. Con quali poteri? “In caso di ritardi da parte delle Amministrazioni, potrebbe esercitare poteri sostitutivi”. Forse non se n’è accorto, ma Renzi ha scritto una lettera a Conte per proporgli una task force.

Crisi & nomine: il gioco preferito dell’ex premier

“La madre di tutte le battaglie per Matteo Renzi è la cabina di regia sul Recovery. Per questo fa ripetere e ripete di essere contrarissimo: vuole accomodarsi a capotavola”, suggerisce chi del capo di Italia Viva è stato compagno di partito ai tempi del Pd.

Ma lo suggerisce perfidamente anche Giorgia Meloni: “Trovo molto curiosa la tempistica che vede sempre sovrapporsi le crisi governo aperte da Renzi con le nomine”, ha detto la leader di Fratelli Italia, ricordando la propensione dell’ex premier ad alzare la posta proprio in certi momenti, quando l’appetito si fa incontenibile.

Per questo, con la gestione dei 200 e passa miliardi promessi dall’Europa di mezzo, l’altro giorno, quando al Senato Renzi ha provato a bullizzare Giuseppe Conte, a nessuno nel centrodestra è venuto in mente che potesse arrivare a staccare la spina, sicché “è carta conosciuta” da tempo.

E allora che vuole? Un ministro in più, un posto per sé alla Nato? Niente strapuntini, giura lui nella lettera che ha inviato al presidente del Consiglio in vista dell’incontro a Palazzo Chigi che dovrebbe chiudere la verifica di governo. E dove ha indicato le suo priorità, anzi le due o tre posizioni strategiche che gli sono più care: quella in cui si daranno le carte sul Recovery, la poltrona dell’Autorità delegata ai Servizi, da sempre il suo pallino e su cui vedrebbe bene il suo Ettore Rosato o Emanuele Fiano del Pd. E poi le infrastrutture, ché ci sono da nominare 50 commissari con poteri extra sul modello ponte di Genova.

Renzi tratta su queste partite nel tempo presente, anche se ce n’è pure una sul tempo differito. Da giocare con gli stessi modi di sempre, non proprio a colpi di fioretto: nel 2014, a ridosso del rinnovo dei vertici delle grandi aziende di Stato, Leonardo, Eni, Enel, Poste, tanto per citarne solo alcune, l’allora segretario del Pd pensò bene di ritirare la fiducia al suo amico Enrico Letta. A cui il rottamatore di Rignano fece le scarpe senza pietà pur di essere protagonista assoluto delle nuove investiture.

Sei anni dopo, al principio di questo 2020 indimenticabile, annusato il rischio di restar fuori dal risiko delle nomine che contano, ha cambiato tecnica facendo di necessità virtù: non potendo torcere un capello a Giuseppe Conte ha preso a pretesto la riforma della prescrizione per scuotere l’albero della maggioranza e ricavarne qualche frutto: non gli era andata male, tutto sommato.

Le conferme dei vertici di Enel e Eni che lui stesso aveva voluto sei anni fa e qualche innesto dei suoi di qua e di là, ben gli hanno fatto digerire le nuove norme volute dal Guardasigilli Alfonso Bonafede nonostante la promessa di far succedere il finimondo.

Stessa tecnica di oggi nonostante gli alleati abbiano promesso di accontentarlo su diverse poltrone: Consap e Fintecna, ma anche BusItalia, già guidata da Renato Mazzoncini che aveva risolto la grana dell’Ataf, l’azienda dei trasporti di Firenze e che Renzi poi aveva messo a capo di Fs: il board di Ferrovie va a rinnovo fra pochi mesi e Italia Viva è interessata a veder rotolare la testa dell’attuale ad Gianfranco Battisti. Altro nome niente affatto sgradito al partito di Renzi è quello di Gaetano Maruccia, fedelissimo dell’ex comandante generale Tullio Del Sette (imputato per favoreggiamento e rivelazione di segreto nell’inchiesta Consip che tanti dispiaceri ha riservato a babbo Renzi) tra i papabili per la promozione a Comandante generale dell’Arma.

E Cassa depositi e prestiti? La cassaforte degli italiani oggi è affidata a Fabrizio Palermo, domani forse toccherà a Domenico Arcuri, oggi a Invitalia e uomo di Giuseppe Conte che lo ha voluto commissario all’emergenza coronavirus. Qualcuno, addirittura più perfido di Giorgia Meloni, fa notare: “Ma sarà un caso che Renzi ha preso a cannoneggiare Arcuri su vaccini, banchi a rotelle e tamponi?”.

Malelingue.

Renzi fa il postino, Conte gelido. Il governo appeso a Italia Viva

Uno sfregio che dura mezz’ora. Il tempo di sedersi davanti al presidente del Consiglio e consegnargli “un documento”, a cui ora potrebbe essere appeso un governo. Più semplicemente, la lettera già pubblicata da Matteo Renzi su Facebook in mattinata. “Queste sono le nostre condizioni per rimanere nel governo e andare avanti, presidente” scandisce il capo di Italia Viva tra gli arazzi e i quadri di un luogo che ben conosce, Palazzo Chigi. Il premier Giuseppe Conte, l’avvocato seduto sulla poltrona che un tempo fu sua, ascolta e cerca di non tradire emozioni, magari di non abboccare. “Grazie per il contributo, l’avevo vista” risponde. Saluti e sorrisi tirati di circostanza.

E all’ora di cena l’incontro tra Conte e la delegazione di Italia Viva è già finito. Tradotto: l’esecutivo fa un altro passetto verso il burrone dopo un incontro breve e solo formalmente cortese. In cui Renzi lascia alla sua capodelegazione, Teresa Bellanova, il compito di sferrare un colpo a Conte: “Basta con questa storia che siamo noi l’anomalia: la vera anomalia è avere lo stesso premier in due governi di colore politico opposto”. Mentre il premier quasi invoca: “Va trovata una soluzione, la maggioranza non può cadere così, in una fase così delicata”. Eppure Bellanova lo ripete davanti a Chigi: “Ora aspettiamo le riflessioni del presidente e che ci faccia sapere se è possibile continuare”.

Ed è in quel “ci farà sapere” che c’è tutta la voglia di Iv di mostrare di poter tenere in bilico Conte e il governo. A cui Renzi chiede di ripensare radicalmente la task force immaginata dal premier per gestire i miliardi del Recovery Fund, e di prendere il Mes, eresia per i Cinque Stelle.

Oltre a insistere per la riforma del bicameralismo perfetto, a criticare la gestione dei trasporti nell’emergenza Covid, a “esortare” il premier a cedere la delega ai servizi segreti. Senza contare la trattativa coperta sulle nomine. Un percorso di botole immaginato dall’ex premier, che arriva a Palazzo Chigi un po’ prima delle 19 con il capogruppo in Senato, Davide Faraone. Entra dall’ingresso posteriore per schivare le telecamere, poco dopo il presidente di Iv, Ettore Rosato. Invece arrivano assieme l’altra capogruppo Maria Elena Boschi e le due ministre, Elena Bonetti e soprattutto Teresa Bellanova, la capodelegazione che con la sua trasferta a Bruxelles aveva fatto saltare l’incontro fissato originariamente per martedì. “Non ci ha dato ancora neppure la conferma della sua presenza al tavolo sulle misure anti Covid per Natale” ringhia una fonte di governo grillina poco prima del vertice, tanto per confermare l’aria che tira dentro i giallorosa. Da Iv più tardi arriva la rassicurazione che le ministre oggi andranno in Cdm. Del resto, raccontano, Renzi era stato tentato fino all’ultimo di disertare l’incontro di ieri sera, mandando avanti il resto della delegazione. E sarebbe stato un altro rumoroso schiaffo al premier. Più o meno come la lettera con le condizioni e le critiche per il premier pubblicata ieri su Facebook: molto più dura nella sua prima versione. Ma alla fine il fu rottamatore si presenta. Tanto ha già immaginato un altro sberleffo, da mettere in scena in pochi minuti. Ma Conte non si mostra sorpreso. “Ho già letto la lettera su Facebook…” dice con aria finta cordiale. Ed echeggia quanto aveva già detto ad Accordi&Disaccordi due sera fa: “Ho visto che da Iv mi mandano le loro richieste da tutte le tv, ma io non voglio rispondere dalla tv”. Comunque sia, da Chigi giurano che “l’incontro è stato positivo”. E precisano: “Conte riassumerà gli esiti dei confronti con le varie forze politiche per poi riaggiornarsi a un momento di sintesi finale”. Ovvero arriverà un vertice con i leader dei partiti di maggioranza. Nell’attesa Renzi in privato festeggia, convinto di aver fatto la mossa vincente. Mentre al Nazareno si preparano al prossimo giro.

Dopo la legge di Bilancio starà a Conte fare quello che il Pd gli ha chiesto (e che gli ricorda ieri, riproponendogli i suoi punti), ossia un patto di legislatura. E a quel punto dovrà valutare se è il caso di modificare la squadra. Un gioco dell’oca sempre più pericoloso per il premier e il suo governo.

Maalox Day

E niente, è andata così. Doveva essere il D-Day dello Statista di Rignano, che ci lavorava da giorni a suon di credibili ultimatum, autorevoli broncetti della Boschi e probabili euromissioni della ministra bracciante, fino al papello con 20 richieste di riscatto per il rilascio del governo. Invece a guastargli la festa è arrivato il blitz di quegli incapaci di Conte e Di Maio per liberare i 18 pescatori in Libia, dopo lunghe trattative di quegli inetti dei servizi segreti da loro mal scelti e peggio guidati che bisognava al più presto affidare a Rosato (molto apprezzato da Le Carré) o a un altro James Bond. Colonna sonora: denti che rosicchiano fegati e cappelli alla Rockerduck. L’Innominabile, che passa la vita a fare polemiche soprattutto con i presunti alleati, invita gli altri a “non fare polemiche”. Rosato e gli altri italomorenti esaltano i servizi segreti per non nominare il premier e il ministro degli Esteri: se non liberano i pescatori è colpa loro, se li liberano è merito della Bellanova. La Fusani al seguito secerne bile su Twitter: “La domanda del giorno è: cosa Conte e Di Maio hanno dato o promesso al generale Haftar?” (chiedilo a Pio Pompa). Il Cazzaro Verde dice che “certe cose prima si fanno e poi si annunciano”, tipo quand’era ministro dell’Interno e annunciava gli arresti a Torino di 15 mafiosi nigeriani prima che li prendessero, così qualcuno se la dava a gambe. Gli stessi che accusavano il governo di non andare in Libia a riprenderli, ora che è andato in Libia a riprenderli tuonano contro la “passerella mediatica”, domandano perché ci han messo tanto e perché ci sono andati proprio Conte e Di Maio (dovevano mandarci la Bellanova, ma aveva pilates). Manca poco che si dica che i pescatori li hanno rapiti loro.

Ma le brutte notizie non sono finite. Pare che i primi vaccini arriveranno e verranno somministrati entro fine anno, come Conte e Speranza avevano annunciato fin da giugno, tra i fischi dei soliti “esperti”, che prevedevano tempi biblici di anni. Ancora a ottobre il Corriere intimava a Conte di scusarsi per “l’imperdonabile errore” di annunciare “un vaccino che non arriverà a dicembre, ma non prima dell’autunno 2021”. Ora si attendono le scuse del Corriere (buona questa).

E non basta. Il partito Covid Governo Ladro aveva appena finito di ricordarci che siamo i peggiori del mondo e moriremo tutti, poi s’è scoperto che: in Germania la curva dei contagi non fa che risalire da due settimane mentre la nostra non fa che scendere; la Spagna s’è scordata 30mila morti; il modello svedese del liberi tutti contro la dittatura sanitaria dei Dpcm è stato dichiarato ufficialmente fallito dal re.

Secondo voi, da zero a cento, quanto rosicano?

“Let it snow”: in classifica a Natale ci sono ancora Sinatra e Martin

Ricordate Will interpretato da Hugh Grant in About A Boy, tratto dal romanzo di Nick Hornby? Ebbene, nel film il personaggio vive di rendita grazie ai proventi delle royalties della canzone natalizia scritta da suo padre, Santa’s Super Sleigh, La super slitta di Babbo Natale. Profezia magicamente avverata per la sempreverde Mariah Carey, dal novembre del 1994 presenza fissa in classifica dal primo dicembre al giorno della befana con All I Want For Christmas Is You. Sedici milioni di singoli tra vendite e stream e oltre 50 milioni netti di guadagno testimoniano un business senza precedenti.

Questa settimana dopo 25 anni la Carey ha conquistato il primo posto in Gran Bretagna – per la prima volta dalla sua pubblicazione – e negli Stati Uniti. È un Natale decisamente vintage, complice l’esercito di brani nati negli anni 50 e 60 ancora considerati quelli giusti per scaldare l’atmosfera, soprattutto in questi tempi grami di Covid. Non troviamo solo la zuccherosa Last Christmas scritta in tempi pre-outing da George Michael (la sua December Song lo ha poi riscattato) e Do They Know It’s Christmas di Band Aid, con la carrellata di artisti organizzata nel 1984 da Midge Uru degli Ultravox ma crooner quali Dean Martin e Frank Sinatra. Unici contemporanei nei primi 50 sono Michael Bublé con It’s Beginning To Look A Lot Like Christmas e Holly Jolly Christmas, Santa Tell Me di Ariana Grande e Christmas Light dei Coldplay, ripubblicata per l’occasione in un vinile in edizione limitata già sold out.

Il resto delle canzoncine con le campanelline appartengono al secolo scorso e sono, ovviamente, le più intriganti. Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow! è stata composta da Sammy Cahn e Jule Stynein nel 1945, portata al successo da Martin e Sinatra (entrambe le versioni sono nella top 50 globale di Spotify) ma esiste anche la versione di Rod Stewart e Carly Simon. Rockin Around The Christmas Tree di Brenda Lee è del 1958, It’s The Most Wonderful Time Of The Year di Andy Williams del 1963, Sleigh Ride è del 1948 tornata in auge con le Ronettes, Happy Xmas (War Is Over) di John Lennon & Yoko Ono è datata 1971. White Christmas di Bring Crosby è il singolo più venduto di tutti i tempi con oltre 50 milioni di copie. Ma la palma della canzone vintage natalizia per antonomasia spetta a Jingle Bell Rock di Bobby Helms datata 1957 e considerata – a torto o a ragione – la più allegra di tutte. Se in radio sentite la voce di Achille Lauro (con Annalisa) non siete ubriachi, l’ha veramente reincisa.

“Il 2021 sarà l’anno del lavoro, l’amore quasi non interessa”

Qualcosina, effettivamente, è successo. “Un tempo la domanda principale era legata all’amore. Ora lavoro e salute hanno conquistato posizioni”.

Parola di astrologo, parola di Simone Morandi, in arte Simon & the Stars, noto avvocato romano esperto anche di Acqua, Terra, Fuoco e Aria, con risultati stellari: migliaia e migliaia di contatti, libri da classifica (è appena uscito l’ultimo per Mondadori con tutto il 2021, segno per segno), una fama che ha attraversato l’oceano Atlantico (“mi conoscono pure in Sudamerica”) e un orgoglio astrologico da difendere dopo il nefasto 2020 (“però se andate a riprendere i miei testi dello scorso anno già accennavo all’anno complicato”).

Quante ore al giorno?

Ci sto dentro sempre, ma soprattutto dal giovedì alla domenica; adesso poi, con l’America Latina.

È sbarcato.

Un giorno ho tradotto l’oroscopo annuale attraverso un sistema del computer, ed è uscita una porcata; poi mi ha chiamato una professoressa d’italiano in Argentina per chiedermi se poteva insegnare la lingua attraverso le previsioni. E io: “Va bene, ma tu mi traduci?”.

E da lì…

Argentina, Venezuela, Bolivia e Colombia. A Medellin ho tanti fan.

Rispetto agli italiani, qual è il loro approccio?

Ci sono molti più uomini: da noi ho il 92 per cento di donne. E sono dati dei social.

E rispetto a prima del lockdown?

Quando la domenica sera pubblico le mie previsioni della settimana, divido le schermate in due parti: la prima è su lavoro, fortuna e altro; la seconda la dedico all’amore. Prima tutti andavano direttamente alla seconda.

Ora?

Si fermano pure sulla prima, ma la vita non si è bloccata, piuttosto si è spostata molto più sui social.

Gli astrologi sono stati presi di mira per le previsioni 2020.

In generale è stato massacrato Paolo Fox, anche un po’ ingiustamente, ma perché lui è iconico, ironico, popolare, perfetto per la satira.

E lei?

Nel vecchio libro avevo parlato di difficoltà negli scambi, di muri, e poi sono meno in vista di Fox; comunque preferisco chi schifa l’oroscopo rispetto a quelli che ci tacciano di portare iella.

Azzardiamo il 2021.

Primo anno di un nuovo corso: piano piano usciremo dalla crisi economica che ci portiamo dietro dal 2008. Ma ci vuole tempo, non sarà immediato.

Oroscopo più fortunato tra i leader.

Conte è Leone, quindi Conte contro tutti.

Anche senza oroscopo, è chiaro.

L’anno scorso in trasmissione da Vespa avevo detto che il premier avrebbe attraversato una situazione mai vista tra aprile e maggio.

E…

Dal lockdown ha riconquistato una presenza nelle case della gente: secondo me nel 2021 dovrebbe stabilizzare la sua forza; (ci pensa) e poi meglio questo governo in piedi che a terra.

Lei ogni quanto si fa l’oroscopo?

Vado per grandi cicli, mese per mese, non giorno per giorno; poi se ci sono giornate particolarmente storte, vado a controllare cosa sta succedendo; (sorride) a volte è come ne La storia infinita, quando c’è il Vecchio della Montagna Vagante, e non si sa se è lui a descrivere ciò che accade o il mondo a comportarsi come lui scrive.

Lei è appassionato di cinema.

Da sempre, mio padre era l’avvocato di molti attori, sono cresciuto con Mastroianni in casa.

Torniamo all’oroscopo: le richieste private…

Si sono moltiplicate, ma rifiuto sempre, non mi piace venir pagato in questi contesti.

Perché?

La persona che mi cerca, e quasi mi implora, è spesso in uno stato psicologico particolare: uno potrebbe chiederle quello che vuole e dirle quello che vuole, e non mi piace.

Altre precauzioni?

Evito il più possibile di parlare di salute, uno deve sempre tenere conto della sensibilità altrui e non sappiamo mai chi c’è dall’altra parte.

Serie tv, senti chi sparla. Il doppiaggio perde qualità

Senti chi parla. Basta farsi un giro social per costringere il “doppiaggio migliore al mondo” a un bagno di umiltà: stroncature a mezzo #, critiche motivate, comparazioni spietate. Sarà ancora un’eccellenza globale, ma il doppiaggio italiano ha il fiato corto, e i suoi fustigatori non sono tutti interessati o del tutto malevoli: una sillaba di verità c’è. Lo riconoscono le stesse voci nel buio: la rivoluzione streaming ha levitato la quantità dell’offerta, serialità in primis, non elevato la qualità del servizio di doppiatori, direttori di doppiaggio e dialoghisti. Anzi.

Nastro d’Argento alla carriera nel 2010, curatrice dal 1993, per la Cvd, dei film di Woody Allen, Maura Vespini non ha peli sulla lingua: “Il minor tempo a disposizione catalizza esiti impietosi. Un conto sono le soap, e noi Beautiful lo facciamo da trent’anni, un altro le serie attuali costruite come tv movie: se gli immutabili Ridge, Eric e Brooke sono padroneggiati dagli attori, oggi imperano occasionalità e produttività, e le regole anti-Covid affannano ulteriormente la rincorsa”. La contingenza pandemica, causa sanificazione, decurta i turni di doppiaggio nell’indifferenza della committenza, e Vespini non le manda a dire: “Gli americani sono ignoranti come le capre, non capiscono niente e noi non li aiutiamo: com’è possibile, si chiederanno, avere preventivi da 10, 5 o 3, laddove il contratto nazionale vorrebbe differenze minime? C’è chi deroga e fa concorrenza sleale, ma a giocare al ribasso ci hanno costretto loro”. “Netflix non mi piace, ha portato lavoro, sì, ma quale?”, tuona Vespini, e si prepara “a perdere altre gare, come puntualmente avviene: io no, però c’è chi va sotto, qualcosa non torna”.

“Al mio segnale scatenate l’inferno!”, intimerebbe il suo Massimo Decimo Meridio, ma Luca Ward giudiziosamente si limita al purgatorio: “La questione esiste, e non nasce con la pandemia. Le piattaforme straniere si sono affacciate sul panorama nazionale senza ravvisare soluzioni di continuità, sebbene non siamo tutti uguali: accanto a quelle storiche, certificate, sono nate a Roma società un po’ pirata, che si servono degli studenti di sedicenti scuole di doppiaggio pagandoli una miseria”. Concorda, “la qualità è la prima vittima della guerra in atto per i preventivi: l’eccesso di ribasso non solo va a discapito dell’utente, scoperchia una serie di problemi, dai versamenti Inps non effettuati alle ritenute d’acconto non pagate, per i professionisti”. Il Gladiatore sta con il suo popolo, “è abituato a un certo sound, le schifezze le becca subito”, e guarda alle istituzioni: “Urge un’interpellanza parlamentare, per portare alla luce tutte le magagne serve un ministro più che i sindacati. Al tavolo si sono sempre messi senza vantare conoscenze in merito: io un sindacalista in sala di doppiaggio non l’ho mai visto in quarant’anni”. “Dobbiamo aumentare il controllo sul territorio e agire sull’esempio europeo: dalla Francia a Spagna e Norvegia, c’è chi ha una regolamentazione migliore”, prosegue Ward, che per Ccd Sefit ha prestato voce allo Hugh Grant della serie The Undoing, dall’8 gennaio su Sky: “Intende bene la nostra realtà, Amazon e Netflix invece vanno sulla fiducia, ma confido non durerà: siamo un Paese con mille contraddizioni, il doppiaggio non fa eccezioni”.

“Smart e preparato com’è, raramente il pubblico sbaglia un giudizio: spesso si va al risparmio e si sente”, constata Rossella Izzo, sangue blu del dubbing, che con la Pumais Due sta adattando Inés dell’anima mia, da Isabel Allende, per Mediaset. Non crede che le piattaforme arrechino danno, al contrario, “l’attenzione posta dai supervisor sulla fedeltà all’originale assicura maggior controllo, e inibisce licenze creative a valle: una scelta autoriale, ormai estendibile a Rai e Mediaset, che condivido”. La paura è per il “degrado del prodotto: un doppiaggio raffazzonato spalanca la strada ai sottotitoli, che pure hanno godibilità inferiore”.

“Parto dall’assunto – replica Roberto Chevalier, Tom Cruise e altre mirabilie in carnet – che si debba vedere le condizioni di lavoro: urgenza, disponibilità di società e attori, altre contingenze. Il cliente ha tutto, dovrebbe almeno, l’interesse che le cose vengano fatte bene, ma se dalla prima scelta arrivi alla quinta qualcosa si perde…”. Dalle piattaforme non eccesso di offerta, “ma di fiducia”, non incompetenza, “ma abbassamento dei costi”, lo stato dell’arte non lascia, raddoppia: “È accaduto per telefilm e serie, potenza delle critiche social”. Già, non tutto il male vien per nuocere: “L’alfabetizzazione del pubblico è conclamata, il doppiaggio materia di discussione, e studio”. E il futuro? “Ridare al cinema – pretende Chevalier – quel che è del cinema: non esistono piccoli doppiatori, solo piccoli schermi”.

 

Veneto: dottor Zaia si è trasformato in mister Fontana

“La zona rossa? Se non ci pensa il governo ci pensiamo noi!”. E fu così che il governatore decisionista Luca Zaia si scoprì un adolescente impacciato che aspetta il permesso di mamma per mangiare la merendina in frigo. Proprio lui, l’uomo che arginò la prima ondata col furore e la risolutezza di chi si assume la responsabilità delle sue scelte, di chi non aspetta burocrazia e indicazioni altrui, ora tentenna come un Fontana qualunque e cerca di svignarsela dalle decisioni impopolari, tentando di mollarle – eroicamente – al governo. La metamorfosi di Zaia, dall’uomo di polso a quello di burro, è tragicamente iniziata già a maggio, a pochi giorni dalla fine del primo, durissimo lockdown. Uscito trionfante dalla gestione della prima ondata, Zaia aveva urgenza di accontentare il suo rampante e produttivo elettorato, per cui il 18 maggio ha riaperto le spiagge e poi, per primo, ha annunciato tronfio: “Le discoteche in Veneto sono fondamentali per l’economia. Conto di riaprirle il 15 giugno”. E poi: “La nuova ordinanza apre tutto: cinema e spettacoli, discoteche e casinò, sport di squadra!”. Insomma, come passare dal “modello Vo’” al modello “Vo’ dove mi pare” nel giro di un paio di mesi. L’ infettivologo Andrea Crisanti, la preziosa bussola della prima ondata veneta, è stato declassato a “mezzo mitomane che si intesta meriti altrui” per poi diventare palesemente uno scomodo, petulante grillo parlante ben presto spiaccicato sul muro della “ripartenza”. Ed è così che Zaia è rimasto l’uomo solo al comando, ormai convinto di saper gestire il virus con la sola forza del suo gel. Invece no. Invece il Veneto è andato dritto verso il disastro e oggi è la regione più in affanno, con più di 3.000 contagi al giorno, 100.000 casi attualmente positivi e 165 morti in 24 ore. “Con i ministri abbiamo parlato della necessità di misure restrittive. Chiedo la zona rossa in Italia fino all’Epifania! Se non ci pensa il governo, lo faremo noi!”, ha tuonato giusto ieri Zaia. Dimenticando non solo che fino a sette mesi fa era capacissimo di prendere decisioni in autonomia, ma anche tutto quello che ha dichiarato e deciso, con calcolato cinismo, da quest’estate in poi pur di accontentare il Veneto che produce e lo vota. A metà ottobre Zaia ricordava fiero che “il sistema veneto dispone di 464 posti in terapia intensiva, che possono essere portati a un migliaio, dobbiamo scongiurare una nuova psicosi e un nuovo lockdown!”. Non si è ben capito quale sia stata la vecchia psicosi, fatto sta che i posti di terapia intensiva dichiarati diventeranno poi, in effetti, ben 1.030, cosa che consentirà al Veneto di rimanere zona gialla e tenere quasi tutto aperto. Peccato che per arrivare a quota 1.030 i posti siano stati ricavati anche da sale operatorie riconvertite e che possedere 1.030 respiratori non equivalga ad avere il personale ospedaliero necessario per gestire 1.030 pazienti in terapia intensiva. E in Veneto quel personale non c’è. Una bella operazione di doping per gonfiare il muscolo della sanità veneta che ha retto finché gli ospedali non sono entrati in crisi. Sui numeri dei ricoveri poi, in molti accusano Zaia di aver adottato alcuni escamotage per ridurre la cifra totale.

Sonia Tedesco, segretario della Fp-Cgil Veneto, ha dichiarato che i posti dell’osservazione breve-intensiva dei pronto soccorso dove dovrebbero sostare pazienti per 48-72 ore restano come Covid anche per dieci giorni e non rientrano nel conto dei ricoveri, per esempio. Ma Zaia, quello che ora sollecita il governo a convertire in zona rossa il Paese e si lamenta dei cittadini indisciplinati, si dimentica quanto ci abbia tenuto a preservare la sua zona gialla. E con quanto orgoglio, a novembre diceva: “In Veneto il virus c’è, ma è sotto controllo dal punto di vista sanitario, no al lockdown nazionale. In Veneto la maggior parte dei contagiati sono asintomatici! Noi siamo pronti a dar corso a eventuali restrizioni, ma non di sicuro sul fronte delle attività produttive!”. E poi, il 12 dicembre: “Il lockdown sarebbe una tragedia, perché il Paese non può permetterselo!” fino ad arrivare al tracollo di ospedali e morti, con conseguente aggiustamento nella comunicazione, ovvero: “Veneto zona gialla? Decisione presa a Roma!”. E certo, lui insisteva con la rossa, ma proprio niente, Conte s’è impuntato. “La gente non ha più paura di morire”, ha infine aggiunto Zaia dopo le resse dello shopping natalizio, sapendo bene che in Veneto la situazione è già tragica pure se centinaia di persone non si strappano di mano l’ultima sciarpa da Zara. Ma soprattutto, dovrebbe chiederlo agli ospiti delle Rsa venete, se hanno paura di morire, visto che ne sono morti già 1.200 di cui quasi 600 solo nelle 79 Rsa di Verona. Ma già, quei veneti lì non vanno a fare shopping e non producono. Non sono né colpevoli, né elettori. Sono solo invisibili.

Londra e Ue ancorati alla pesca

La giornata ieri è stata un rimpallo di messaggi in codice fra Londra e Bruxelles. Il premier Boris Johnson al Parlamento britannico: “Spero tanto che i nostri amici e partner dall’altra parte del Canale avranno il buon senso di concludere un accordo, e tutto quello di cui hanno bisogno è capire che il Regno Unito ha un diritto naturale, come ogni altro Paese, a controllare le proprie leggi e le proprie acque territoriali”.

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, al Parlamento europeo: “Non posso dire se ci sarà un accordo oppure no. Ma posso dire che ora c’è una via per l’intesa. Una via molto stretta, ma c’è”. Già sentito? Sì, ma almeno i toni sono più positivi della scorsa settimana, quando l’esito più probabile sembrava la rottura dei negoziati. E la posta in gioco è sì politica ed ideologica, ma soprattutto, più prosaicamente, un trilione di dollari di scambi commerciali all’anno. Gli ostacoli? Ora sono due su tre. Von der Leyen: “Sulla governance abbiamo quasi completamente risolto. Restano i contrasti sulla concorrenza e sui diritti di pesca”. Più nel dettaglio, spiega l’informatissimo Tony Connelly di Rte, su concorrenza e aiuti di stato una “landing zone”, una soluzione comune, sarebbe in vista. Ma il contrasto sui diritti di pesca è, per ammissione generale, molto difficile da dirimere. Per il momento le parti sono ferme sulle posizioni iniziali, con l’Ue disposta a concedere il 18% dei 650 milioni di pescato nelle acque britanniche e il Regno Unito che vuole l’80%. Lo scoglio è politico-culturale. Bruxelles deve mettere d’accordo i 4 paesi membri interessati alla pesca nella Manica: Spagna, Danimarca, Paesi Bassi e Francia, che a loro volta sono sotto pressione del loro elettorato. Per il Regno Unito parliamo dello 0,1% del Pil, una industria economicamente molto minore e, fra l’altro, da tempo dominata da un oligopolio fatto di un pugno di famiglie britanniche e società europee, non certo dalla suggestiva ma anacronistica figura del pescatore di Dover. Ma, chiarisce Connelly, “fonti britanniche avvertono l’Ue di non sottovalutare la forza dei sentimenti attorno alla pesca”. Parliamo di sentimenti identitari, con rilevanti ricadute elettorali. Quanto pesce torna nelle reti britanniche è “più tangibile, per gli elettori, dei dettagli iper-tecnici sulla concorrenza”. Da qui l’insistenza del governo britannico e la minaccia, giorni fa, di schierare la Royal Navy per dissuadere i pescherecci stranieri: una polarizzazione puramente propagandistica, ma che alza i toni dello scontro. Intanto mancano due settimane all’uscita del Regno Unito, e anche se un accordo venisse annunciato oggi, mancherebbero i tempi per i parlamenti, britannico ed europeo, di valutarlo.

Charlie Hebdo: 30 anni alla vedova nera del jihad

Nel giorno del verdetto, Charlie Hebdo ha messo in copertina un Dio barbuto, chiuso in un furgone della polizia, direzione prigione: “Dio rimesso al suo posto”, è il titolo della vignetta, firmata Boucq. “Il ciclo di violenza che si è aperto nei locali di Charlie Hebdo sarà finalmente chiuso, almeno sul piano penale perché, sul piano umano, le sue ripercussioni non potranno mai essere cancellate”, ha scritto il direttore del giornale, Riss, nell’editoriale del numero uscito ieri. Dopo quasi sei anni dagli attentati del gennaio 2015, e tre mesi di processo, in una Francia scossa da nuovi attentati e dal Covid, ieri la Corte d’assise di Parigi ha consegnato il suo verdetto. In tutto 14 persone (di cui tre non presenti in aula) sono state giudicate per l’attacco alla redazione del settimanale satirico e al supermercato kosher della Porte de Vincennes, che ha fatto 17 vittime. Tutte, in un modo o nell’altro, hanno spalleggiato i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly, poi morti nei blitz della polizia, nell’organizzare l’attentato rivendicato da al Qaeda. Senza “questa nebulosa” di persone che girava intorno ai terroristi l’attentato non ci sarebbe mai stato, ha detto l’avvocato di Charlie, Richard Malka.

Alla fine di un processo fiume, carico di emozione, sospeso per più di un mese per il tampone positivo al Covid di un imputato, le pene pronunciate, dai quattro anni di reclusione all’ergastolo, sono state in complesso meno dure di quanto richiesto in un primo tempo, anche perché per sei accusati è caduta l’aggravante terrorista. Il principale imputato era Ali Riza Polat, un franco-turco di 33 anni, “braccio destro” di Coulibaly. Si era dichiarato innocente: “Pago per la mia amicizia con Amedy”. Invece per i giudici non solo conosceva le intenzioni di Coulibaly, ma ha anche svolto un ruolo “attivo” fornendogli aiuto logistico. Contro di lui era stato chiesto l’ergastolo. È stato invece condannato a 30 anni e farà appello. È stata condannata a 30 anni, ma non era presente in aula, anche Hayat Boumedienne, la compagna di Coulibaly, che avrebbe raggiunto i ranghi dello Stato Islamico in quanto moglie di un “grande martire”. Era fuggita in Siria appena prima dell’attentato con l’aiuto dei fratelli Belhoucine. Sui tre pesa un mandato di arresto internazionale, ma non sono mai stati trovati. Mohamed Belhoucine, mentore di Coulibaly, forse morto in battaglia, è il solo ad essere stato condannato all’ergastolo. Tra le altre pene più dure, quelle pronunciate contro Amar Ramdani, Nezar Mickaël Pastor Alwatik e Willy Prevost, che hanno fornito le armi a Coulibaly, condannati a 20, 18 e 13 anni. Restano molte zone d’ombra, per esempio sulla provenienza delle armi dei Kouachi. Il processo si era aperto il 2 settembre a Parigi, mentre Charlie Hebdo ripubblicava proprio le caricature di Maometto che avevano scatenato l’odio dei Kouachi. “È stato un processo epico, tragico, movimentato, talvolta degno di un romanzo”, ha detto Richard Malka nella sua arringa. In 54 udienze, in presenza di 200 parti civili e decine di avvocati in mascherina, sono stati ricostruiti i dolorosi fatti del gennaio 2015, sentiti decine di testimoni, chi all’attacco è sopravvissuto e i cari di chi non c’è più, sono state mostrate le immagini strazianti filmate dalle telecamere di video sorveglianza della redazione di Charlie. In questi mesi la Francia non è mai stata in pace. Il mondo arabo si è rivoltato contro Macron, accusato di fomentare l’islamofobia per aver difeso il diritto alla laicità che per alcuni è blasfemia. E si sono verificati tre nuovi attentati, segnati dalla morte del professore Samuel Paty, decapitato per aver insegnato ai suoi alunni la libertà d’espressione, e di tre fedeli attaccati nella basilica di Nizza. Il processo della strage al Bataclan è stato rinviato al settembre 2021. Oggi è atteso il verdetto nel processo dell’attentato del Thalys, agosto 2015. Per Ayoub El-Khazzani, è stato chiesto l’ergastolo.