Con l’elezione di Joe Biden da parte del Collegio elettorale la parabola di Donald Trump appare chiusa. Date le polemiche e le ripetute accuse di voto “truccato”, il risultato poteva non essere scontato e in realtà mostra quella che il politologo Yascha Mounk ha definito la “resilienza” della Costituzione Usa. Consentendo così di uscire dalla descrizione superficiale del presidente “impazzito” per capirne meglio l’origine e la dinamica. Un compito facilitato dal ponderoso libro di memorie di Barack Obama, Una terra promessa.
Trump ha indubbiamente provato a divellere molte delle regole non scritte della politica e delle istituzioni, senza però riuscirci. L’offensiva più esplicita è quella portata ai checks and balances, i pesi e i contrappesi che secondo Jay Madison, avrebbero consentito di frenare l’ambizione umana proprio “tramite l’ambizione”.
Checks e balances. Trump ha provato a sovrapporre l’esecutivo al legislativo, ha attaccato frontalmente il potere giudiziario per poi cercare di plasmarlo avendo l’opportunità di eleggere ben tre giudici alla Corte suprema. Ha cercato di sottomettere al potere centrale l’autonomia dei singoli Stati. Ma anche questi gli hanno resistito, mentre la rottura finale è stata prodotta dalla “sua” Corte suprema che non l’ha seguito sulla strada dei ricorsi.
Costituzione sana e robusta, dunque? Assolutamente no. La sua fragilità è stata esibita platealmente, a cominciare dalla vetustà del Collegio elettorale, formula che ha consentito la vittoria di Trump nel 2016 nonostante avesse ottenuto circa tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton. Soprattutto, come hanno notato diversi studiosi, Trump è riuscito a incidere negativamente su quelli che Alexis de Tocqueville chiamava i “costumi”, le regole non scritte, la tensione morale del popolo e delle istituzioni americane. Su questo terreno le sue intemperanze, esagerazioni, strappi politici e formali hanno lasciato il segno.
Le radici dell’anomalia. Ma l’anomalia trumpiana non è una eccezione istituzionale operata da una leadership “paranoica” o “disturbata mentalmente”, quanto il frutto di smottamenti avvenuti negli ultimi anni. Lo si deduce chiaramente dalla biografia dell’ex presidente.
Dopo la storica vittoria del 2008, con il primo afroamericano alla Casa Bianca, Obama dimostra di temere il proprio stesso successo e sposta immediatamente al centro la propria amministrazione puntando a rassicurare gli avversari. Da qui, la nomina del repubblicano Robert Gates alla guida del Pentagono o quella di Rahm Emanuel a Chief of staff, braccio destro operativo del presidente, semplicemente perché “conosceva il Congresso, conosceva la Casa Bianca e conosceva i mercati finanziari”.
Obama ammorbidisce l’Affordable Care Act, la sua riforma sanitaria, ricalcandola su quella del repubblicano Mitt Romney quando era governatore del Massachusetts (e che poi sfiderà Obama nel 2012). Scende a patti con l’esercito ampliando il numero dei militari in Afghanistan invece di ridurlo in un incredibile scarto tra le promesse elettorali e i fatti presidenziali.
Per giustificare le sue mediazioni, l’ex presidente fa costante riferimento alla soglia dei 60 voti necessari al Senato per evitare le tecniche di ostruzionismo. Limite che può essere raggiunto solo con il sostegno dei Repubblicani. Quel numero sembra diventare un’ossessione e per quanto nel 2008 Obama debba affrontare la più grande crisi economica dal 1929, appare spesso una giustificazione e una copertura. Sulla crisi i Repubblicani non gli concederanno alcun sostegno, eppure i consiglieri economici sono scelti tra menti “centriste e liberiste” come Larry Summers o Tim Geithner, “gente in grado di tranquillizzare i mercati presi nella morsa del panico: gente che, per definizione, poteva essere contaminata dai peccati del passato”.
La delusione della base. Obama coglie la delusione nel suo campo che lo porterà a perdere le elezioni di Midterm del 2010 e che gli darà la rielezione nel 2012, ma perdendo circa cinque milioni di voti (di questo però il libro non tratta, fermandosi al 2011). Già nella campagna del Midterm avvertiva che “l’atmosfera era diversa: in ogni comizio sentivo aleggiare la presenza del dubbio, risate e applausi avevano un che di forzato, quasi di disperato, come se io e tutta quella gente fossimo una coppia ormai alla fine di una travolgente storia d’amore”.
Il certificato di Trump. Eppure, tornando indietro, non avrebbe optato “per scelte differenti”. Anche nel caso di Trump e della celebre accusa di non aver esibito il vero certificato di nascita, Obama si mostra indignato per lo spazio riservato a quella “bufala” dalla stampa compiacente. Ma alla fine accetta di esibire il certificato limitandosi a sbeffeggiare Trump a una cena di Vip. Lo prende in giro sonoramente, ma non denuncia mai pubblicamente quel messaggio razzista e complottista. Così come sembra sottovalutare quel che si muove nella società americana.
Recensendo il libro sul New York Times, Fareed Zakaria sostiene che Obama non si è dato molto da fare contro la corrente reazionaria che si è alzata durante la sua presidenza, come dimostra la nascita del Tea Party e, prima ancora, l’efficace candidatura di Sarah Palin alla vicepresidenza repubblicana: “Obama parla di queste reazioni isteriche in modo intelligente ma breve, senza mai offrire analisi profonde o rabbia appassionata”, scrive il giornalista. Eppure in quell’irrazionalità esibita e rivendicata c’era una parte consistente, e crescente, della società americana, che alla fine si è rivoltata contro il messaggio compromissorio dei Democratici. Facendo vincere Trump. Ancora oggi i Democratici sembrano non averlo compreso. Potrebbe accadere di nuovo.