Trump, l’anomalia politica che Barack Obama non ha saputo vedere

Con l’elezione di Joe Biden da parte del Collegio elettorale la parabola di Donald Trump appare chiusa. Date le polemiche e le ripetute accuse di voto “truccato”, il risultato poteva non essere scontato e in realtà mostra quella che il politologo Yascha Mounk ha definito la “resilienza” della Costituzione Usa. Consentendo così di uscire dalla descrizione superficiale del presidente “impazzito” per capirne meglio l’origine e la dinamica. Un compito facilitato dal ponderoso libro di memorie di Barack Obama, Una terra promessa.

Trump ha indubbiamente provato a divellere molte delle regole non scritte della politica e delle istituzioni, senza però riuscirci. L’offensiva più esplicita è quella portata ai checks and balances, i pesi e i contrappesi che secondo Jay Madison, avrebbero consentito di frenare l’ambizione umana proprio “tramite l’ambizione”.

Checks e balances. Trump ha provato a sovrapporre l’esecutivo al legislativo, ha attaccato frontalmente il potere giudiziario per poi cercare di plasmarlo avendo l’opportunità di eleggere ben tre giudici alla Corte suprema. Ha cercato di sottomettere al potere centrale l’autonomia dei singoli Stati. Ma anche questi gli hanno resistito, mentre la rottura finale è stata prodotta dalla “sua” Corte suprema che non l’ha seguito sulla strada dei ricorsi.

Costituzione sana e robusta, dunque? Assolutamente no. La sua fragilità è stata esibita platealmente, a cominciare dalla vetustà del Collegio elettorale, formula che ha consentito la vittoria di Trump nel 2016 nonostante avesse ottenuto circa tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton. Soprattutto, come hanno notato diversi studiosi, Trump è riuscito a incidere negativamente su quelli che Alexis de Tocqueville chiamava i “costumi”, le regole non scritte, la tensione morale del popolo e delle istituzioni americane. Su questo terreno le sue intemperanze, esagerazioni, strappi politici e formali hanno lasciato il segno.

Le radici dell’anomalia. Ma l’anomalia trumpiana non è una eccezione istituzionale operata da una leadership “paranoica” o “disturbata mentalmente”, quanto il frutto di smottamenti avvenuti negli ultimi anni. Lo si deduce chiaramente dalla biografia dell’ex presidente.

Dopo la storica vittoria del 2008, con il primo afroamericano alla Casa Bianca, Obama dimostra di temere il proprio stesso successo e sposta immediatamente al centro la propria amministrazione puntando a rassicurare gli avversari. Da qui, la nomina del repubblicano Robert Gates alla guida del Pentagono o quella di Rahm Emanuel a Chief of staff, braccio destro operativo del presidente, semplicemente perché “conosceva il Congresso, conosceva la Casa Bianca e conosceva i mercati finanziari”.

Obama ammorbidisce l’Affordable Care Act, la sua riforma sanitaria, ricalcandola su quella del repubblicano Mitt Romney quando era governatore del Massachusetts (e che poi sfiderà Obama nel 2012). Scende a patti con l’esercito ampliando il numero dei militari in Afghanistan invece di ridurlo in un incredibile scarto tra le promesse elettorali e i fatti presidenziali.

Per giustificare le sue mediazioni, l’ex presidente fa costante riferimento alla soglia dei 60 voti necessari al Senato per evitare le tecniche di ostruzionismo. Limite che può essere raggiunto solo con il sostegno dei Repubblicani. Quel numero sembra diventare un’ossessione e per quanto nel 2008 Obama debba affrontare la più grande crisi economica dal 1929, appare spesso una giustificazione e una copertura. Sulla crisi i Repubblicani non gli concederanno alcun sostegno, eppure i consiglieri economici sono scelti tra menti “centriste e liberiste” come Larry Summers o Tim Geithner, “gente in grado di tranquillizzare i mercati presi nella morsa del panico: gente che, per definizione, poteva essere contaminata dai peccati del passato”.

La delusione della base. Obama coglie la delusione nel suo campo che lo porterà a perdere le elezioni di Midterm del 2010 e che gli darà la rielezione nel 2012, ma perdendo circa cinque milioni di voti (di questo però il libro non tratta, fermandosi al 2011). Già nella campagna del Midterm avvertiva che “l’atmosfera era diversa: in ogni comizio sentivo aleggiare la presenza del dubbio, risate e applausi avevano un che di forzato, quasi di disperato, come se io e tutta quella gente fossimo una coppia ormai alla fine di una travolgente storia d’amore”.

Il certificato di Trump. Eppure, tornando indietro, non avrebbe optato “per scelte differenti”. Anche nel caso di Trump e della celebre accusa di non aver esibito il vero certificato di nascita, Obama si mostra indignato per lo spazio riservato a quella “bufala” dalla stampa compiacente. Ma alla fine accetta di esibire il certificato limitandosi a sbeffeggiare Trump a una cena di Vip. Lo prende in giro sonoramente, ma non denuncia mai pubblicamente quel messaggio razzista e complottista. Così come sembra sottovalutare quel che si muove nella società americana.

Recensendo il libro sul New York Times, Fareed Zakaria sostiene che Obama non si è dato molto da fare contro la corrente reazionaria che si è alzata durante la sua presidenza, come dimostra la nascita del Tea Party e, prima ancora, l’efficace candidatura di Sarah Palin alla vicepresidenza repubblicana: “Obama parla di queste reazioni isteriche in modo intelligente ma breve, senza mai offrire analisi profonde o rabbia appassionata”, scrive il giornalista. Eppure in quell’irrazionalità esibita e rivendicata c’era una parte consistente, e crescente, della società americana, che alla fine si è rivoltata contro il messaggio compromissorio dei Democratici. Facendo vincere Trump. Ancora oggi i Democratici sembrano non averlo compreso. Potrebbe accadere di nuovo.

L’orrore invisibile in quelle valigie

Un campo, di quelli che corrono ai fianchi dell’autostrada. Valigie, dozzinali e anonime, di quelle che vendono le bancarelle nei paraggi delle stazioni. Oggetti comuni, sui quali gli occhi passano senza fermarsi, dettagli inutili nella corsa della giornata. Eppure quel campo, sulla Firenze Pisa Livorno, in un punto qualsiasi, e quelle valigie chiuse costruiscono il panorama dell’orrore infinito e, salvo sorprese dai lunghi e penosi accertamenti ancora in corso, raccontano una terribile storia di amore e di morte e di vendetta e di silenzio.

E soprattutto raccontano il dolore degli invisibili, che per diventare visibili debbono conoscere l’inferno.

È difficile oggi superare la barriera della diffidenza, della superficialità e del disincanto dell’immenso pubblico passivo dell’informazione. Siamo abituati a tutto, e al contrario di tutto. Il velo che ci appanna gli occhi è tutt’altro che facile a squarciarsi, la notizia dev’essere estrema, le parolacce devono essere forti, la bava alla bocca dev’essere visibile. E purtroppo i pezzi di cadavere rinvenuti nei luoghi più disparati, discariche e cassonetti, piloni e tramezzi, laghi e acque dei porti hanno sufficiente frequenza, tanto da comparire nei romanzi come accensione di un quiz, della ricerca di un investigatore determinato a scoprire la verità. L’occasione di una lettura, un mistero da risolvere. Questo è probabilmente il motivo per cui di fronte al ritrovamento delle valigie di Sollicciano, una, due, poi tre, forse quattro, al di là di una smorfia di raccapriccio non andiamo; una vaga curiosità, un fremito di esitazione sul telecomando se la notizia arriva proprio mentre stiamo cambiando canale, non di più. E invece stavolta la storia è degna di un pensiero in più, e di qualche considerazione.

Perché se il cadavere dell’uomo è realmente quello di Shpetim Pasho, come sembrano indicare le impronte digitali faticosamente ricostruite dai patologi, e quello della donna appartiene alla moglie, Teuta, siamo di fronte a una vicenda di rara tristezza e malinconia, che può perfino indurre a qualche riflessione: il che per una notizia tra decine di migliaia è alla fine un bel traguardo.

A volte la televisione di Stato ricorda di essere un servizio pubblico. Non avviene spesso, ma quando succede va fatto tanto di cappello ai professionisti che si fanno carico di questo complesso compito. Una di queste (rare) trasmissioni è Chi l’ha visto?, condotto dalla brava Sciarelli con costante, accorato, spesso commovente impegno. Questa trasmissione si attivò agli inizi di novembre con appelli e richieste di aiuto per la scomparsa di questi due coniugi, venuti anni fa dall’Albania per stare vicino al figlio Taulant, ventottenne e in stato di reclusione per droga proprio nel carcere di Sollicciano. Le figlie, ancora in patria, non riuscivano a mettersi in contatto coi genitori ed erano molto preoccupate, evidentemente a ragione. Gli appelli non trovarono riscontro, le ricerche delle autorità, ove come speriamo realmente avvenute, non ebbero alcun esito.

Invisibili. I due genitori albanesi che portavano la croce di un figlio in carcere in un Paese che non era il loro. Preoccupazione, dolore. Forse disperazione, nello scoprire di non avere mezzi né capacità per farlo uscire di là, per farlo tornare a casa. Chissà quante volte hanno percorso quell’autostrada ai fianchi della quale i loro cadaveri sono stati ritrovati scomposti e decomposti, stivati in tre e chissà quante altre valigie, forse gettate di notte in quel campo, una breve sosta e di nuovo in viaggio verso il nulla. Invisibili, perché arrivati dal nulla e rimasti nel nulla, forse troppe domande, forse qualche indicazione ricevuta dal figlio in merito ai motivi per cui si trovava in galera, e magari a come uscirne scoprendo i veri responsabili di quello per cui è stato condannato.

Invisibili le figlie, disperate in una città lontana, con la barriera di una lingua e di un confine difficili da attraversare, soffocate da un improvviso silenzio e da un crescente terrore.

Invisibile il figlio, chiuso tra quattro mura, senza difesa e presto dimenticato, privo di prospettive di salvezza, mamma, papà, aiutatemi. E ora magari prigioniero di un ulteriore immenso rimorso, quello di aver gettato i propri genitori nelle fauci di un degenerato assassino.

Chissà in quanti siamo passati a velocità sostenuta sulla Firenze Pisa Livorno, preoccupati per la pandemia e inseguendo i nostri fatui fantasmi. Chissà in quanti abbiamo fatto scorrere gli occhi su quel campo di sterpaglie e di erbacce che nascondevano quel carico di orrore. Senza fare nessuna attenzione, abbandonando al silenzio tutta quella disperazione.

Ascolteremo gli sviluppi. Aspetteremo di capire il perché di queste morti, e il perché di questo accanimento su quei corpi. Non sappiamo cosa sia successo, ma due genitori che partono per stare vicino al figlio in carcere portando il proprio carico di dolore non possono essere dimenticati nel silenzio.

 

Grazia, Graziella e Mario Draghi

Ieri, dopoalcuni giorni passati alla clinica Betty Ford per l’infodemia, abbiamo ripreso a leggere i giornali. Dice: “Sempre bello leggere le riflessioni di Mario Draghi” (Renzi). Dice: “Stupisce che qualche forza politica non abbia immediatamente fatto propria e rilanciato l’analisi curata da Mario Draghi in un rapporto del Gruppo dei Trenta” (Repubblica). Dice: “Da tempo Giorgetti non ha dubbi”: serve “un governo di ampia base parlamentare, con dentro i migliori, guidato dal migliore (cioè Draghi, ndr)” (CorSera). “Parla Draghi, la politica risponde. E gli dà ragione in coro” (La Stampa). Da qui la domanda: e che avrà detto? Ci siamo dunque immersi nel colloquio pubblicato lunedì sempre dal Corriere e abbiamo subito compreso il motivo di tale entusiasmo. Roba illuminante. Per dire: ma perché, con questa crisi, “non stiamo vedendo molte insolvenze di imprese nel mondo?”. La risposta è inattesa: “Sussidi pubblici e credito garantito”. No! Sì invece. Solo che quando caleranno i sussidi, “ci sarà un aumento dei crediti deteriorati in tutto il sistema bancario”. No! Sì invece e se le banche dovranno coprire il rischio di troppi Npl c’è il rischio che facciamo meno credito: insomma, “a un certo momento qualcosa andrà fatto per il capitale delle banche”. Ma dai?! E sul Recovery Fund? Che dice Draghi: meglio progetti nuovi o vecchi? “Quel che bisogna valutare è se un progetto è utile o no (…) Se sono vecchi o nuovi non è importante, ciò che conta – e molto – è che il loro valore sociale sia dimostrabile”. No? Sì invece! E il debito? “La mia congettura è che, in ultima analisi, la sostenibilità del debito pubblico in un certo Paese sarà giudicata sulla base della crescita”. Ma davvero? Sì e infatti, tornando al RF, “se i progetti pubblici saranno disegnati bene, saranno di grande aiuto. Se non lo sono, non contribuiranno alla crescita”. Ah, ecco. Ma com’è la situazione adesso? “Le persone in questo momento si sentono perse, c’è molta incertezza”. E quando ne usciremo? “Il virus e la rapidità della vaccinazione di massa determineranno tutto”. Come ognuno vede, un discorso epocale, destinato a passare in proverbio. Noi, per quel che vale, proponiamo: “Grazia, Graziella e Mario Draghi”.

Il maestro Gergiev e Alvise: cuore di mammà colpisce ancora

Ma chi glielo doveva dire al maestro Valerij Gergiev, sì amato in patria da Vladimir Putin, che in Italia sarebbe stato accolto con tanti onori? E tutto il Senato ai suoi piedi per il concerto di Natale organizzato dalla presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati. In un’aula mesta e deserta, ad applaudire la performance trasmessa su Rai1, pochissimi ospiti ma di lusso: il capo dello Stato Sergio Mattarella, il premier Giuseppe Conte e il presidente della Camera Roberto Fico. E naturalmente lei, la Casellati, padrona di casa raggiante come non mai, che alla fine ha consegnato una targa a suggello dell’amicizia e della gratitudine del Senato al direttore del teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Nel cuore oltre che dello zar di Russia, anche di suo figlio Alvise che giusto qualche mese fa aveva fatto “un’esperienza fantastica” proprio grazie a Gergiev che lo aveva invitato a dirigere il Nabucco

al Mariinskij. Con la promessa di nuove collaborazioni: “Sto pianificando un progetto che ha a che fare con un titolo dimenticato di un compositore italiano”, aveva detto il giovane Alvise, che in Russia accarezza sogni di gloria, sì cari anche a mammà.

MailBox

 

Piombino, una gestione dei rifiuti discutibile

Il Comitato salute pubblica Piombino Val di Cornia aderisce all’iniziativa di protesta dei cittadini che da anni seguono le vicende connesse alle progettualità dell’impianto di smaltimento di rifiuti speciali di Ischia di Crociano a Piombino, gestito da Rimateria. La protesta dei cittadini è nata a seguito della richiesta di Rimateria di realizzare due nuove discariche. Alle porte di Piombino sorge già un immenso altopiano di circa 2 milioni di metri cubi di rifiuti, a poco più di un chilometro dal mare, su un’area paludosa, a poche centinaia di metri da due centri abitati. Ci opponiamo contro questa progettualità devastante per un territorio che ha già sacrificato molto per lo sviluppo dell’industria siderurgica nei decenni trascorsi. La cittadinanza, già penalizzata dal punto di vista ambientale e sanitario, deve essere tutelata e non esposta a ulteriori agenti inquinanti.

Comitato salute pubblica Piombino Val di Cornia

 

Del Turco camperà bene anche senza vitalizio

San Ottaviano martire segue la strada del suo Maestro San Bettino esiliato e disconosce la giustizia democratica rifiutando la sentenza pronunciata nel nome del popolo italiano. Così non restituisce il maltolto che è stato accertato nei vari gradi di giudizio. Non solo, ma chi per lui addita come persecutoria la norma che ai rei accertati toglie il vitalizio pagato ancora dal popolo italiano, ai suoi fedeli servitori. Immaginiamo che l’ex parlamentare Del Turco goda della pensione di dirigente sindacale e dunque non sia affatto indigente e bisognoso di accumulare anche il vitalizio. La gran parte degli italiani tira avanti con la “minima” dunque, a occhio, anche lui ce la dovrebbe fare. E chi per lui, stampa indignata compresa, abbia un minimo di pudore e si dedichi a cause migliori.

Melquiades

 

Pieno sostegno al nostro Tomaso Montanari

Leggo Tomaso Montanari ovunque mi capiti di scorgere suoi scritti. Ho grande stima di lui. Ho letto sul Fatto che anche a Montanari toccherà difendersi da chi lo cita per danni con lo scopo di zittirlo. Voglio perciò invitare Montanari a chiedere il sostegno dei lettori e di tutti coloro che lo seguono per affrontare questa battaglia. In questa società e in questo tempo, ci rimangono pochi punti di riferimento: il Fatto e Tomaso Montanari sono fra essi.

Marco Bernardini

 

Battersi per carceri rinnovate e formative

Coniugare diritti e certezza della pena è sempre una sfida complessa e ritengo che solo il Fatto ci stia provando. Da ex garante delle persone private della libertà a Livorno, ho svolto tutta la mia attività finalizzando il mio impegno a tradurre il vuoto della detenzione. “Licenziato” dall’amministrazione di centro sinistra (ero stato nominato da un sindaco grillino), ho scritto al capo Dap segnalando che a Livorno si ristruttura il carcere senza alcuna attenzione per gli spazi dedicati alla socializzazione, formazione e senza alcuna opportunità per spazi lavoro. Il tema non è solo correlato alla mia città, ma nella logica del pensare a nuove carceri o ristrutturare quelle vecchie senza attenzione per gli spazi e per le strategie del riscatto, non potremo mai avere speranza di immaginare, scontata la pena, persone migliori, come auspica la nostra Costituzione.

Giovanni De Peppo

 

Pubblicità così lunghe da considerare moleste

Comprendo che i mezzi di comunicazione abbiano bisogno di finanziamenti che derivano dalla pubblicità. Quello che non capisco è che le industrie e le società che gestiscono la pubblicità non si rendano conto che oltre un certo limite raggiungono quello che viene definito “stalking”. Quindici minuti consecutivi di pubblicità costringono a cambiare canale, quindi che senso ha pagare per non essere visti?

Pietro Zanon

 

Contribuiremo a difesa del “Fatto Quotidiano”

Gentile direttore, leggo che il Fatto è sotto attacco di chi vuole vivere nell’illegalità e con prepotenza, grazie alle notevoli disponibilità economiche. Leggo anche ci sono tante persone oneste disposte a non piegarsi e a sostenere la voce del Fatto Quotidiano anche economicamente, secondo le proprie disponibilità ovviamente. Ci tenga informati delle necessità, magari per tempo potremmo aprire una sottoscrizione e la cifra sarà certamente superiore a quella dei prepotenti.

C. Moscardi

 

Dopo dieci lunghi anni, ora possiamo esultare

Sono contento che il direttore sia stato assolto in appello nella causa intentatagli da Minzolini e Graziadei, i quali ora dovranno pure pagare le spese legali. Tié!

Guido Bertolino

 

Italia viva può smuovere gli equilibri politici?

Gentilissimo direttore, potresti tu, con la solita chiarezza, spiegare come fa un partito, con neanche il due per cento, condizionare e tenere in stallo un Paese?

Renato Cannizzo

 

Caro Renato, mission impossible!

M. Trav.

Scorsese. Come Kubrick e Hitchcock snobbato agli Oscar: troppo creativo

 

Buongiorno, per motivi che forse mai si comprenderanno, l’Academy ha da sempre palesato un atteggiamento estremamente ostile nei confronti di Martin Scorsese. Negli ultimi 50 anni, infatti, nonostante il grande regista abbia dato alla luce moltissimi capolavori (Toro scatenato su tutti, ma non solo), l’Academy ha deciso di premiare con l’Oscar altri film, nettamente inferiori ai diamanti firmati Scorsese. Nel 2007 ha sì premiato The Departed, ma è sembrato più che altro una “elemosina”… Forse un giorno l’Academy ci spiegherà i motivi di questo ostracismo.

Marco Scarponi

 

Caro Marco, i numeri non si discutono. A fronte dei 26 lungometraggi di finzione diretti, Martin Scorsese ha ricevuto 14 nomination agli Oscar, peraltro suddivise tra film, regia e sceneggiatura, ovvero correlate ad appena 10 titoli. Una miseria, che configura il reato di lesa maestà: i giurati dell’Academy hanno tralasciato, tra gli altri, “Mean Streets”, “Taxi Driver”, “Fuori orario”, “Casinò”. Parlare di ostracismo non è azzardato: perché l’Ampas non ha inteso riconoscere il valore di Scorsese? Di statuetta ne ha appunto avuta una, per “The Departed”, che è “solo” un buon film. Che cos’ha dunque in meno, o in più, di colleghi meno celebrati ma più premiati? Dice qualcosa che Stanley Kubrick si sia fermato a 13 nomination e una sola statuetta, e per gli effetti visivi di “2001: Odissea nello Spazio”? E che Alfred Hitchcock di nomination ne abbia incamerate 5, senza trasformarne alcuna? Non avrebbero Marty, K. e Hitch meritato di più? Certo. Ne avevano bisogno? Forse. Hanno sofferto di questa carestia? Chissà. Il loro valore ne è stato inficiato? No. I premi, anche quelli non avuti, passano, le grandi opere restano: “Quei bravi ragazzi” continueremo a guardarlo e riverirlo, anche orfano di Oscar quale è. Eppure, una ragione di questa irriconoscenza dell’Academy dobbiamo darla. Io un’idea ce l’ho, e mi viene dal ringraziamento del vittorioso Bong Joon Ho di “Parasite”, preferito al “The Irishman” del Nostro, agli scorsi Awards: “Più è personale, più è creativo”, ha detto citando “il nostro grande Martin Scorsese”. Ecco, la personalità del regista italoamericano, così creativa, idiosincratica e irriducibile, all’Academy non è mai andata a genio. Ma Marty non se ne cura, al cospetto dei rosiconi dell’Ampas mette il suo Travis Bickle: “You talkin’ to me?”.

Federico Pontiggia

Milano da mangiare. Tutti in fila per un pasto caldo

Il freddo, non è vero che si sente soltanto: si vede anche. A Milano – la più europea delle nostre città, la capitale morale, la città della gioia e dei balocchi – i poveri sono in fila dal mattino presto per un pasto caldo. Altro che Milano da bere, il problema è mangiare. In viale Toscana, una delle due sedi della onlus Pane quotidiano, la coda non è per lo shopping, è per lo stomaco. S’inizia presto, alle 8, proprio per evitare assembramenti. La gente indossa la mascherina, ha cappucci e baveri alzati, sciarpe e guanti per difendersi dal gelo. Forse anche per nascondersi. I fratelli Goncourt scrivevano che la miseria “ha i suoi gesti”, e che “il corpo prende abitudini da povero”: osservando la fila si vedono molti neofiti. Non sono senzatetto, non sono vestiti di stracci: sono uomini, donne, vecchi e giovani armati di pazienza e disperazione. Sono persone che prima tiravano la cinghia, facevano sacrifici e rinunce, ma riuscivano a camparsi da soli. Molti sono anziani con la pensione minima, ma non mancano giovani precari che non possono contare sul “welfare familiare”. Quando è arrivata la pandemia, tutto è andato a rotoli. A metà ottobre la Caritas di Milano aveva ricevuto moltissime nuove richieste da parte di milanesi che a causa della situazione economica provocata dall’emergenza sanitaria si sono trovati in difficoltà. I ‘nuovi poveri’ con la seconda ondata di coronavirus sono aumentati “in modo importante”. Quasi 700 nuove famiglie (in totale sono circa 9.000) avevano ricevuto la tessera con cui si può fare la spesa gratis negli empori della Caritas. Oltre alla curva dei contagi, bisogna tener conto anche di quella del malessere sociale, dicevano i responsabili della Caritas.

E adesso che il Natale è alle porte la sofferenza si vede benissimo in viale Toscana. La persona che ha fatto il video e lo ha postato sui social ha scritto: vivo qui da trent’anni e non ho mai visto una coda così spaventosa. L’attività della onlus, leggiamo sul Corriere, si ferma solo quando la fila del mattino si è esaurita, ma le persone continuano ad arrivare anche dopo la chiusura: “Il supporto di oltre 150 aziende e le donazioni di 5 mila milanesi garantiscono forniture di generi di prima necessità che però ‘sembra non siano mai abbastanza quando vedi crescere così le file, da una settimana all’altra’, dice un volontario”. La seconda ondata, in coincidenza con l’inverno, è stata fatale per molti. “La crescita delle difficoltà con l’emergenza sanitaria è impressionante, soprattutto a causa della perdita del lavoro negli ultimi cinque o sei mesi – conferma il vicepresidente dell’associazione Luigi Rossi – Molti lavoratori fragili, spesso in nero, hanno pagato per primi le ondate di lockdown”.

Davanti alla sede di Pane quotidiano – che si trova a due passi dalla Bocconi, un club esclusivo da cui frequentemente s’odono alti lai sui pericoli dell’assistenzialismo – si può assistere a una dimostrazione plastica dei danni della pandemia, moltiplicati dagli ultimi decenni di liberismo selvaggio. Se questa è la fotografia della ricca Milano, non osiamo immaginare quale possa essere la situazione in territori e città meno affluenti e “dinamiche” (aggettivo molto amato da una certa pubblicistica politica sulla città). Lo ricordiamo perché sentiamo molte sagge dissertazioni sull’utilizzo dei fondi europei e altrettante austere reprimende sulla nostra natura di scialacquatori. Non sono solo ministri e premier di Paesi “frugali”, sono anche commentatori di casa nostra. Ma attenzione: ricostruire il tessuto sociale, rimettere il lavoro al centro, aiutare i cittadini a uscire dalle difficoltà non è beneficenza. È politica.

 

Sul delitto Regeni l’Europa e l’Italia non sono impotenti

Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera lunedì scorso ha posto crudamente un tema vero. Quali strumenti possiede l’Italia per tradurre l’indignazione univoca verso il regime di al Sisi in una battaglia per ottenere verità, giustizia e la condanna degli assassini di Giulio Regeni? La sua risposta è una dichiarazione di impotenza. Il diritto all’indignazione non si nega a nessuno, ma troppi e troppo alti sono gli interessi dell’economia e della politica che impediscono a un moto delle coscienze di ottenere l’impossibile, la condanna di quattro omicidi e della dittatura che li protegge. La conclusione a modo suo è terribile, lo Stato italiano non possiede alcuna arma per imporre al Cairo di scontare la colpa del suo delitto. E allora? Allora forse, proprio per le verità che Galli della Loggia descrive, questa tragedia deve agire come spartiacque tra un prima e un dopo. In questo senso la novità è una, fare dei diritti umani e del loro rispetto il principio da porre a fondamento della dignità e sovranità di una nazione quale noi siamo. E farlo sollevando in Europa, patria di quei diritti umani, il tema della coerenza nel reagire a un crimine che, se lasciato senza risposta, è destinato a segnare un vulnus irrimediabile per le nostre democrazie.

Posto così, il tema è rivendicare alla politica e all’azione concertata degli Stati che l’Europa compongono una responsabilità sinora venuta a mancare. Dopo il tentativo di avvelenamento di Alexei Navalny, tra i principali oppositori al regime di Mosca, l’Unione europea ha adottato nuove sanzioni contro la Russia, indicando in sei collaboratori di Vladimir Putin e in un’organizzazione specifica, l’Istituto di Stato per la chimica organica e la tecnologia, soggetti coinvolti nella produzione dell’agente chimico usato per l’avvelenamento e nel successivo attentato a Navalny. Tutto abbastanza chiaro? Per un atto gravissimo, il tentato omicidio di un oppositore, l’Unione europea ha attivato sanzioni punitive nei confronti di un regime giudicato responsabile del delitto tentato. Nel caso di Giulio, un ragazzo italiano, un ricercatore, è stato sequestrato, torturato e ucciso da membri dei servizi di sicurezza di un Paese dominato da una dittatura e verso il quale – citiamo ancora Galli della Loggia – il massimo che si può fare è boicottare l’acquisto di prodotti importati o evitare di soggiornare in vacanza a Sharm el Sheikh?

Ma quale Europa pensiamo possa avere orgoglio e stima agli occhi del mondo, se dinanzi a un crimine ignobile non è in grado di determinare lo scarto che le istituzioni del continente dovrebbero già avere prodotto? In questo senso il richiamo – richiamo, non ritiro – del nostro ambasciatore ha di certo un valore, e non solo simbolico. Sarebbe anche il modo per tenere ben accesi i riflettori sul coraggio e la determinazione dei magistrati italiani incaricati dell’inchiesta, magistrati che da ultimo con la loro deposizione dinanzi alla commissione parlamentare istituita, hanno sollevato ogni velo sulle responsabilità accertate e chiesto di percorrere sino in fondo la via di un giusto processo.

A questo punto sia il governo italiano a raccogliere l’appello di Paola e Claudio Regeni perché in cima alle priorità del nostro essere una democrazia e non il suo simulacro vi sia il rispetto della vita, della sicurezza e dell’integrità di ogni cittadino. In cima vuol dire che quel principio deve prevalere su ogni altra ragione di interesse o opportunità, tanto più a fronte di una vicenda lunga cinque anni fatta di depistaggi, bugie, inquinamento di prove sino alla esecuzione di cinque innocenti usati dal regime del Cairo come capro espiatorio. Dunque sia il governo ad assumere una iniziativa pressante verso l’Europa e le sue istituzioni se vogliamo difendere, come doveroso, la memoria di Giulio e dei tanti oppositori tuttora perseguitati e incarcerati in Egitto, a partire da Patrik Zaki e, nel contempo, restituire all’Europa dei diritti e della giustizia un capitolo decisivo della propria coscienza e dignità.

Poltrone e oboli leghisti che fine fa l’imparzialità?

Lungi dal destare scandalo, sembrerebbe al contrario che susciti ammirazione, nei palazzi della politica, l’inchiesta di Stefano Vergine sull’obolo della riconoscenza versato anno dopo anno da centinaia di lottizzati alla Lega lottizzatrice. Mi è bastata una verifica empirica, telefonando (con l’impegno di non riportare i nomi) ad alcuni ex tesorieri di partito, per sentirmi dire: “I tabulati pubblicati su Il Fatto? Sono la riprova che la Lega resta pur sempre un vero partito, nel solco dei vecchi partiti di massa. Certo, sono rozzi e centralisti. Non avrei archiviato il catalogo degli amministratori-donatori nella sede della direzione. Ma anche noi ci aspettavamo la gratitudine dei nominati”.

Ho provato invano a obiettare che c’è una bella differenza fra l’autotassazione imposta nei partiti ai politici candidati ed eletti a incarichi retribuiti, e viceversa la vasta platea degli amministratori di pubblici uffici che – come recita l’articolo 97 della Costituzione – “sono organizzati in modo che ne siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. Quella parola, imparzialità, sembra lasciare indifferenti i miei interlocutori, abituati al “così fan tutti”. Poco importandogli che il successivo articolo 98 della Costituzione chiarisca ulteriormente: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.

Esclusivo, appunto. Vuol dire che il direttore sanitario di un ospedale, il dirigente di una Asl, l’amministratore di una municipalizzata, di una fondazione bancaria o di una grande azienda a partecipazione statale, dovrebbe essere selezionato in base alla competenza e successivamente valutato nella sua professionalità messa al servizio dell’interesse generale dei cittadini. La sua futura carriera non dovrebbe in alcun modo essere condizionata dall’erogazione di finanziamenti al partito, mascherati da donazioni spontanee in chiaro (deducibili dalle tasse) o in nero. Spacciati oltretutto per “dovere morale”, come si legge nella circolare della segreteria organizzativa della Lega, la stessa che cita testualmente una altrettanto singolare delibera: “L’on. Giorgetti avrà l’incarico di sovrintendere alle nomine dei nostri esponenti”. L’immarcescibile plenipotenziario del nominificio pare dunque essere in carica da 19 anni (la delibera risale all’ottobre 2001), il che spiega anche il prestigio di cui gode non solo fra i leghisti, ma fra gli aspiranti a cariche pubbliche ben retribuite.

Niente da fare. Anche di fronte a questa obiezione mi son sentito ripetere: “Se la materia viene codificata da regolamenti interni e i bonifici vengono registrati, non c’è violazione della legge, e quindi…”. L’impropria commistione fra cariche politiche elettive, designazioni di partito e funzioni di Pubblica amministrazione, continua a venir giustificata alla stregua di una consuetudine. Con seguito di richiami nostalgici alla prassi del vecchio Partito comunista, peraltro venuta meno già allorquando si trattava di pretendere contropartite ai vertici delle banche di territorio. Quanto agli altri partiti, a beneficiare dell’obolo erano più spesso le singole correnti in lotta l’una con l’altra. Sono di questa fatta le argomentazioni che spiegano il silenzio persistente lamentato da Maddalena Oliva intorno all’inchiesta de Il Fatto.

Quando fu emanata la regola del 15% la Lega era già per la seconda volta nel governo del Paese, pur continuando a concepirsi come uno Stato nello Stato. Scorrere l’elenco dei suoi donatori ci insegna come si costruisce un ramificato sistema di potere. A cominciare da quella che fino all’anno scorso veniva presentata come fiore all’occhiello: la sanità lombarda. Eccoli in fila, i direttori generali delle Asl di Milano, Varese, Cremona, Como, Pavia, Sondrio, Lecco, Legnano e tante altre. Per proseguire con i responsabili degli ospedali e degli Istituti a carattere scientifico più importanti della Regione. Ebbene, vogliamo dirci che i cittadini lombardi, anche alla luce delle malversazioni e delle inefficienze emerse nel corso della pandemia Covid, non si sentiranno affatto rassicurati dai criteri di selezione e di nomina di questa leva di direttori generali, socio-sanitari e amministrativi?

Il discorso non cambia quando passiamo in rassegna gli autotassati amministratori di banche, energia, informatica, Rai, Coni, aeroporti e quant’altro. Qui financo gli anonimi ex tesorieri, per quanto ammiratori della disciplina leghista, mi sono venuti incontro: riconoscono l’inesorabile, progressivo decadimento qualitativo che contraddistingue i manager abituati a essere prescelti per fedeltà politica. E minacciati di mancato rinnovo se venisse meno quel versamento del 15%. Magari in contanti, e direttamente a Salvini, come – stando al racconto di un’ex segretaria di via Bellerio – pare abbia fatto Giuseppe Bonomi, il recordman di presidenze passato da Alitalia a Eurofly a Sea ad Arexpo a Milanosesto.

 

A Firenze, un centro commerciale al posto del duomo: “è vecchio”

Notizie dal futuro. “Palazzo Vecchio è stato distrutto, la Basilica di Santa Maria Novella è stata distrutta, la Basilica di Santa Croce è stata distrutta, lo stadio Artemio Franchi è stato distrutto. E ora sono ancora lì, più belli di prima. Però se distruggere è un termine troppo forte, allora potrei usare demolire. Anzi, meglio: rifare. Ecco, rifarò il Duomo di Firenze”. Sta tutto in questa brutale dichiarazione di Gaddo Landi, il nuovo sindaco di Firenze, il destino della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, comunemente nota come Duomo di Firenze, ai cui lavori attesero, nel corso dei secoli, Arnolfo di Cambio, Giotto e Pippo Brunelleschi, con contributi di Donatello e Michelangelo (che scolpì per essa il David, poi collocato nella Piazza dei Priori, e ora davanti al McDonald’s di Piazza della Stazione, in modo da essere immediatamente accessibile ai turisti; e devo dire che il David non sfigura, con la parrucca rossa di Ronald McDonald, la clownesca mascotte creata negli anni 60 su cartoni del Vasari). Ma come si può distruggere, demolire, rifare un capolavoro del gotico italiano, un monumento nazionale? Si può, perché un articolo di legge (votato da Pd, Italia Viva e Lega, con l’opposizione del M5S e il parere negativo del Mibact) ha spogliato i monumenti italiani delle tutele che li proteggevano grazie al Codice dei Beni culturali. Cosa avverrà ora? L’idea che prende corpo nelle riunioni che si susseguono è di salvare il celeberrimo campanile di Giotto e la cupola del Brunelleschi, che verranno espiantati e rimontati alle Cascine, dove il campanile sarà riservato ai paracadutisti della Scuola di Guerra Aerea e la cupola farà da terza pavoniera, mentre il corpo dell’edificio sarà destinato alle ruspe: è la stessa leggina a garantire “il rispetto dei soli specifici elementi strutturali, architettonici o visuali di cui sia strettamente necessaria a fini testimoniali la conservazione”. Il Consiglio superiore dei Beni culturali (massimo organo tecnico-scientifico del Mibact) ha stigmatizzato con forza questa ipocrisia, ricordando che “il valore testimoniale di un bene culturale difficilmente si può preservare estrapolandone alcuni elementi e distruggendo l’insieme. Si ricorda che tutta la letteratura specifica riconosce al Duomo di Firenze il merito di aver contribuito a formare la cultura del progetto in Italia e nel mondo, grazie alla definizione della forma architettonica complessiva, al calcolo ingegneristico e alla sperimentazione delle potenzialità turistiche del marmo”. Quando quella legge scellerata sarà portata davanti alla Corte costituzionale verrà, con ogni probabilità, cassata: ma – è la domanda – ciò accadrà prima o dopo che il capolavoro di Arnolfo di Cambio, Giotto e Pippo Brunelleschi sia fatto a brani, devastato, cancellato? Il vero punto sono i 50.000 mq di negozi che il Comune di Firenze vuole costruire dove ora sorge il Duomo. Esatto: un’opera d’arte sarà sostituita da un nuovo clamoroso centro commerciale, alla faccia della retorica della bellezza sventolata ogni giorno dal sindaco. Nei giorni scorsi, l’avvocato di Marco Brunelleschi – pronipote di Pippo e presidente dell’associazione “Filippo Brunelleschi in quanto tale” – ha inviato una diffida al Comune di Firenze: “Tutte le modifiche all’Opera che ne alterino la percezione e che, conseguentemente, risultino di pregiudizio alla reputazione e alla stima sociale dei suoi artefici, saranno considerate ridicole”. Già 420 persone hanno firmato la petizione per salvare il Duomo lanciata su Change.org da un architetto cinese che ha dei cugini a Prato. La battaglia, culturale e legale, è appena cominciata.

Ultim’ora. Crisi economica. I fabbricanti di cinghie aggiungono buchi.