Nonostante le immagini dei carri armati russi che vengono caricati sui treni, la Nato e gli Stati Uniti continuano a ribadire di “non vedere alcun segno” di smantellamento delle forze di Mosca al confine con l’Ucraina. Tanto che il comando dell’Alleanza sta prendendo in considerazione di rafforzare i “gruppi tattici”. I giochi di guerra intanto si spostano nel Mediterraneo: il Cremlino conferma una massiccia esercitazione partendo dal porto siriano di Latakia. Fronte diplomatico: il prossimo appuntamento importante è fissato per domani in Germania, a Monaco per la Conferenza sulla Sicurezza che durerà quattro giorni. In quell’occasione il Segretario di Stato, Blinken, tornerà a discutere i temi che possano diventare una piattaforma comune assieme alla Russia. L’Ucraina ieri ha celebrato la “Giornata dell’Unità”, quasi a voler esorcizzare la paura dell’invasione che gli Stati Uniti avevano indicato per il giorno 16 febbraio, e a consolidare questa indicazione persino la Cia aveva deciso di spostare i suoi uffici a Leopoli. L’attacco russo non c’è stato e il presidente Zelenski ne ha approfittato per vestire i panni del leader in mimetica a Mariupol, una delle città che è più esposta perché vicina alle Repubbliche separatiste sostenute dai filo russi: “Non abbiamo paura di nessuno. Siamo forti perché siamo uniti, e siamo pronti a difenderci”.
“Il conflitto incombe ancora, ma a Odessa gli italiani restano”
Anche la notte scorsa le luci delle navi militari russe sono rimaste dei puntini fermi nelle acque internazionali. La paura degli abitanti di Odessa, il porto più importante dell’Ucraina, di un’invasione anche via Mar Nero sembra scongiurata. Se il sollievo sarà di breve o lunga durata non è dato saperlo. L’imprenditore Attilio Malliani, 53 anni, da 20 in Ucraina dove si è sposato e sono nati i suoi figli, da tre anni è il consigliere per gli Affari esteri del sindaco e ora anche responsabile dell’evacuazione degli italiani dal sud-est del paese. Ma la maggior parte dei nostri connazionali residenti nell’area è rimasta.
Quali sono i numeri ?
Su 180 persone iscritte al registro degli italiani residenti all’estero, se ne sono andate poche decine. L’aeroporto di Odessa, nonostante il divieto di sorvolare il Mar Nero, è rimasto parzialmente operativo, ma io ho predisposto che nel caso venga chiuso, il comune metta a disposizione a proprie spese mezzi di trasporto fino all’aeroporto di Kiev.
A quanto pare non ce ne sarà bisogno visto che il presidente Vladimir Putin ha annunciato di aver dato l’ordine di fermare le esercitazioni in Crimea e di iniziare il ritiro. Ne avete ricevuto conferma ?
Per ora no. Attendiamo prove dai nostri partner e informatori. Speriamo che arrivino il più presto possibile per tornare a vivere e lavorare senza questa spada di Damocle sulla testa.
Avete creduto davvero che il presidente Putin si sarebbe imbarcato in una guerra nel cuore dell’Europa pur sapendo che la Russia sarebbe precipitata al rango di nazione paria, colpita da nuove pesantissime sanzioni occidentali e pertanto costretta ad accontentarsi del ruolo di socia minoritaria della Cina ?
Lo abbiamo creduto e pensiamo che potrebbe ancora avvenire se l’Amministrazione americana e l’Europa continueranno a non mostrare unità di intenti. L’Europa per giunta è divisa al suo interno, cosa che la rende debole agli occhi di Putin. Per quanto riguarda la Cina, che sta con la Russia nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a mio avviso avrebbe condannato Mosca solo a parole, ma l’avrebbe o la sosterrà dato che uno degli obiettivi di Pechino è conquistare Taiwan, proprio come il Cremlino ha fatto con la Crimea. Sottolineo, in aggiunta, che Putin ha usato una quantità enorme di denaro pubblico per ammassare più della metà dei soldati e mezzi da guerra della Federazione sui confini con l’Ucraina e molto difficilmente si accontenterà di rassicurazioni a parole da parte della Nato a proposito della sua richiesta di tenere fuori Kiev dall’Alleanza Atlantica. Qualora la sua richiesta non sarà soddisfatta, potrebbe invadere il corridoio tra il Donbass e la Crimea che è molto importante anche sotto il profilo industriale.
L’impressione è che il presidente russo non ha mai davvero pensato all’opzione invasione, con il rischio di trovarsi anche i russi contro. Non pensa?
Se Putin non otterrà un impegno scritto da cui risulterà impossibile che l’Ucraina entri nella Nato, a quel punto potrà ancora richiamare velocemente la maggior parte dei suoi militari e mezzi vicini ai nostri confini e prendersi almeno questa parte dell’Ucraina.
Putin però si è dimostrato molto più astuto del presidente Usa, Joe Biden. Non solo ha bloccato l’escalation proprio il giorno precedente il 16 febbraio, cioè il giorno indicato dagli americani come data d’inizio del conflitto, mettendoli in ridicolo, ma ha raggiunto l’obiettivo di essere riconsiderato un interlocutore dirimente con cui gli Stati Uniti sono obbligati a trattare, dopo lunghi anni di emarginazione. E in più ha messo zizzania tra Biden e il presidente ucraino Zelenski.
Certo, dopo aver più volte gridato alla guerra, gli Usa hanno spinto molti investitori esteri a lasciare l’Ucraina ma hanno anche fatto uscire allo scoperto la codardia della maggior parte degli oligarchi ucraini. Allo stesso tempo il presidente Zelenski è riuscito a compattare attorno alla bandiera ucraina tutta la popolazione. Ne stiamo uscendo più forti, a partire dal presidente.
Oms, Tedros che disdetta!
Una notizia passata inosservata, apparsa su pochi media, alcuni giorni fa, è la visita (la prima durante la pandemia), del direttore generale dell’Oms, Tedros, alla Cina, avvenuta ufficialmente, per la partecipazione all’inaugurazione dei Giochi invernali. Nel comunicato emesso si leggeva, en passant, che sarebbe stata anche l’occasione per parlare dell’origine del virus. Lascia perplessi che la missione di esperti non sia riuscita a venirne a capo e diventi conversazione salottiera tra Tedros e Xi Jinping. Non si immagina come l’argomento sia stato affrontato, né a quali conclusioni siano arrivati.
Pochi sanno che, malgrado le critiche e le accuse da più parti, Tedros, nel settembre del 2021, è stato confermato nel suo incarico, unico candidato. Sono stati 17 i Paesi dell’Unione europea ad avergli dato sostegno. Tra i più impegnati, Germania e Spagna, che hanno dichiarato che il rafforzamento dell’Oms sulla scia della pandemia “deve continuare con un impegno pieno e completo”. Ogni voto ha un suo significato. Alcuni sono noti, altri meno. Per esempio, la Germania deve gratitudine all’Oms, che il 1° settembre scorso ha inaugurato il suo primo hub di pre-allarme per le pandemie. E tedesca è BioNTech, che produce e distribuisce milioni di dosi di vaccino antiCovid in consorzio con l’americana Pfizer. Torniamo alla Cina. È stato valutato che il suo favore valga anche quello di altri 50 Stati, soprattutto africani. Fra questi predomina l’Etiopia, nazione di provenienza di Tedros, dove, non dimentichiamolo, la Cina ha ingenti interessi. Il curriculum del direttore generale è ricco di “meriti” politici. Fra questi ne spiccano due. Uno dei primi atti ufficiali di Tedros all’Oms è stato proporre come ambasciatore “di buona volontà” per l’Africa, Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe accusato di molteplici violazioni dei diritti umani. Il 14 gennaio, a epidemia Covid ormai conclamata, lo stesso Tedros diffonde un tweet in cui ricorda come le indagini preliminari condotte dai cinesi “non dimostrano la diffusione tra umani”. Tedros sarà in carica fino al 2025. Buon lavoro!
I Btp decennali al 2%: e allora ’sto Mes?
Iniziamoa pensare che quel “Presidente Draghi, lei è il nostro Mes” del deputato renziano Davide Faraone non fosse in malafede. Forse in quelli che per tutto il 2020 e inizio del 2021 hanno parlato ossessivamente della necessità di chiedere un prestito al Meccanismo europeo di stabilità dev’essere scattato davvero una sorta di transfert: quando vedono il premier gli par di vedere pure quella banda di simpaticoni lussemburghesi capitanata da Klaus Regling. Sennò è inspiegabile. “Nessun costo per il contribuente, anzi un guadagno”, ci spiegava Il Sole 24 Ore. “La convenienza del Mes è il differenziale di costo di finanziamento (circa zero vs 1,5% a maggio 2020 e 0,7% recentemente)”, volgarizzava Luigi Marattin. Due tra migliaia. La sindrome “Draghi è il nostro Mes” è invece così potente che di quei 36 miliardi della linea di credito pandemica non ne parla più nessuno: se ne rammaricava, quasi solitario, un articolo de lavoce.info del novembre scorso (“oggi, il rendimento dei Btp a 10 anni è prossimo all’1%, mentre quello dei titoli emessi dal Mes, alla luce del rating dell’istituzione sovranazionale, si attesta poco sopra lo zero”). Eppure ieri mattina l’Ansa ci avvisava che i decennali italiani pagavano un teorico 2% e più di interessi (hanno chiuso a 1,9%), cioè il doppio di novembre e circa tre volte rispetto a un anno fa… Ma niente, il Mes non tira più: gli aedi dei creditori lussemburghesi ormai non gioiscono calcolando, pallottoliere alla mano, i favolosi risparmi per il contribuente italiano. È il vero “effetto Draghi”: forse non esiste sui mercati, ma nel dibattito pubblico funziona che è un piacere. Per proseguire dunque – compito che Il Fatto si è assunto fin dal febbraio 2021 – la campagna a favore del Mes pandemico bisogna prima guarire il Paese da quella che chiameremo “la sindrome del Faraone”. La nostra modesta proposta è la seguente: investire i 4 miliardi che il Pnrr destina alla telemedicina per un bonus psicologo che aiuti le migliaia di vittime della suddetta sindrome e, solo all’esito della terapia, far ripartire il coretto sui 36 miliardi del Mes per rifare gli ospedali eccetera. Ogni cosa a suo tempo: nessuno va lasciato indietro, fosse pure – absit iniuria verbis – la Banda Bassotti (cit).
Mail box
Il Supremo continua a infangare il Conte Bis
Continua la delegittimazione del governo Conte da parte dell’attuale inquilino di palazzo Chigi. Dal cashback fino all’ultima bordata contro il Bonus edilizia, è un continuo infangare l’azione del passato governo. Mi chiedo: che senso ha per Conte restare in questo esecutivo?
Paolo Cimino
Peggio del Caimano c’è solo l’Innominabile
Matteo Renzi è arrivato al capolinea. Ora che non può più fingere quello smalto democratico che indossava, esce fuori con evidenza la sua vera natura, sia politica che antropologica: è il clone di B. Le sue vicende giudiziarie per la Fondazione Open gli fanno delegittimare i pm che lo imputano. Per dirla tutta, neppure il Caimano osò tanto, denunciando i giudici. Renzi invece accusa i tre pm che lo mandano a processo (soprattutto quello che mandò ai domiciliari i suoi genitori) di non essere degni di indagarlo, perché ognuno di loro avrebbe riportato cattive condotte. Da quale pulpito! Capisco l’uomo disperato, che ha perso il potere e che voleva costruire il “nuovo Rinascimento”, ma dover pure digerire per due volte Conte premier, è stato troppo anche per lui, e forse anche per qualcun altro.
Massimo Testa
L’accoppiata “Pallusti” sforna un altro libro
Suggerisco una crasi per definire correttamente i libri che hanno scritto insieme Palamara e Sallusti: Pallusti.
Matteo Bettini
Sembra di essere tornati alla “Crisi dei missili”
Gli accordi stipulati con l’Urss per la riunificazione della Germania prevedevano che la Nato non si sarebbe estesa nell’Est Europa. Questa è la chiave per comprendere l’attuale crisi. Purtroppo però gli Usa, dimenticati quegli accordi, hanno voluto approfittare della debolezza della Russia per estendere l’alleanza atlantica alle ex repubbliche sovietiche alle quali era stata riconosciuta l’indipendenza. Una tale politica aggressiva è stata considerata dalla Russia come una minaccia alla propria sicurezza, perché invece di avere ai propri confini Paesi cuscinetto neutrali e non allineati, si trova di fronte una alleanza guidata da un’alleanza guidata da una superpotenza dotata di armi nucleari e con basi missilistiche puntate contro il proprio territorio. Negli anni Sessanta in una situazione molto simile, gli Stati Uniti reagirono in modo deciso, fino a minacciare di scatenare la Terza guerra mondiale con la famosa “crisi di Cuba”, che si risolse con un compromesso: i sovietici ritirarono i missili e in cambio gli Usa rinunciarono a invadere Cuba. Per salvare la pace è possibile un analogo compromesso: la Russia rinuncia a intervenire in Ucraina, che a sua volta non entra nella Nato.
Maurizio Burattini
Curando un albero mi sono scaldato il cuore
In settimana mi sono accorto che un albero vicino casa non stava bene: aveva la corteccia del tronco rinsecchita a causa dell’attacco di un parassita. Così l’ho curato, invece che tagliarlo per farne legna da ardere. Certamente ho dovuto annullare altri impegni all’apparenza più preminenti, ma dedicare il mio tempo alla cura della salute di un albero mi ha riscaldato più di quanto avrebbe potuto fare in una stufa. Alla sera, prima di chiudere gli occhi, ho pensato che la buona salute della pianta è importante, perché in un mondo senza esseri viventi, anche la mia vita sarebbe più povera.
Wakan Tanka
Perché non posso più prelevare senza carta?
Sono andato in banca per un prelievo in contanti, in quanto odio i numeri segreti e non ho mai voluto carte, se non la tessera sanitaria. Mi è stato detto che la banca non ha più il cassiere, e che se voglio ritirare devo prendere il bancomat. Non pretendo certo di avere la cassa a mia disposizione, ma almeno un orario per ritirare. Altrimenti le banche a cosa servono, se non per un servizio?
Alberto De Infanti
In merito al colloquio con Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo pubblicato ieri, precisiamo che il titolo “La guerra l’han vinta i corrotti, non noi…” si riferisce a una risposta del solo Davigo.
Clima. Il surriscaldamento dipende dall’uomo: lo certifica anche l’Onu
Vorrei capire perché sul Fatto si pubblicano articoli e commenti seriali (vedi Luca Mercalli) sempre a favore della tesi che il riscaldamento globale che causa il cambiamento climatico sia di origine antropica. Sarebbe interessante che si pubblicassero anche articoli di chi contesta l’affermazione che la causa principale sia la CO2 antropica. Questa teoria ci sta spingendo ad adottare politiche energetiche che costano molto, ma se la causa non è la CO2 rischiamo di spendere inutilmente soldi.
Luigi Andrea Vavassori
Gentile Luigi Andrea, lei sarebbe contento se il “Fatto” pubblicasse articoli sulla teoria della Terra piatta? Ormai da millenni sappiamo che è tonda e i satelliti che ci girano attorno lo confermano. Non c’è più bisogno di un dibattito e di sentire diverse campane. Lo stesso avviene oggi per il riscaldamento globale antropogenico: non è più una “tesi” ma è un fatto “inequivocabile” secondo tutta la scienza climatologica mondiale, espressa nei rapporti delle Nazioni Unite tramite il Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc). Si tratta di scienza che ha raggiunto la sua piena maturità anche con l’assegnazione del Nobel per la Fisica 2021, oltre che al nostro Giorgio Parisi, anche ai fisici dell’atmosfera Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann, che già alla fine degli anni 60 avevano correttamente previsto con metodi analitici l’aumento termico terrestre dovuto alla maggior concentrazione di CO2 emessa dalla combustione dei materiali fossili. Oggi nessun ricercatore del settore contesta che il fattore “forzante” del riscaldamento globale siano le emissioni di origine antropica. Chi le nega non propone alternative credibili: sappiamo dagli astrofisici che il sole è quieto, quindi non è causa dell’aumento della temperatura, le eruzioni vulcaniche tendono a raffreddare l’atmosfera con le polveri e non emettono che una minima frazione della CO2, la quale invece – con circa 415 parti per milione – ha raggiunto i valori massimi da oltre 3 milioni di anni, dati ottenuti dai carotaggi dei ghiacci antartici (progetto “Epica”) e alle analisi dei sedimenti marini. Le politiche energetiche rinnovabili che lei ritiene ci costino molto sono in realtà l’unico saggio progetto per evitare di consegnare ai nostri figli un pianeta ostile e per proteggere pure la salute, visto che la combustione di petrolio e carbone non è salubre, indipendentemente dagli effetti climatici. Due piccioni con una fava.
Luca Mercalli
Pipistrelli, medaglie e neve finta: la Cina si mette in candeggina
L’aumento globale delle temperature, dovuto a miliardari disposti a tutto pur di fare soldi, estinzione della specie umana compresa, e a quel punto che te ne farai dell’Nft del primo tweet di Jack Dorsey, fondatore di Twitter, dico io, obbliga le località sciistiche a sparare sempre più di frequente neve artificiale sui manti erbosi, in fiore già a dicembre. Dal 1980 (Lake Placid, Usa), le gare alle Olimpiadi invernali si disputano su neve artificiale; e in tutto il mondo gli impianti sciistici, che in poche settimane devono incassare abbastanza da permettere ai proprietari di fare vacanza nei 10 mesi successivi, fallirebbero se dovessero basare la propria apertura solo sulle nevicate naturali. Fra l’altro, quella bellissima dell’anno scorso fu sprecata: i turisti erano bloccati a casa dal lockdown, per via di una pandemia originata da uno spillover (passaggio del virus Sars-Cov-2 dagli animali all’uomo) nel mercato umido di Wuhan, Cina, dove pipistrelli, serpenti, ratti, procioni, cani, gatti e scimmie (tenuti in gabbie impilate l’una sull’altra) sono tuttora macellati vivi per i ghiottoni. Il mercato umido di Wuhan puzza di urina, sangue e feci, i visitatori sono migliaia ogni giorno (bit.ly/3BxEhHe): non è un caso se ogni influenza stagionale arriva dalla Cina, che invece di chiudere i wet market (bit.ly/351DnpX) si affida alle Olimpiadi per candeggiare la propria reputazione di appestatori del mondo, un pannicello che usò anche Goebbels. Ogni gara, ogni sorriso vittorioso, ogni medaglia di queste Olimpiadi cancella dalla memoria collettiva l’associazione lugubre Cina=Covid (a parte che lo sanno tutti che il curling, uno sport per cui il doping andrebbe fatto agli spettatori, è controllato dalla Triade).
Le Olimpiadi invernali, benché costose da organizzare, sono ambite da dittature e democrature perché ogni nazione vuole partecipare, i soldi sono soldi, fanculo i diritti umani calpestati dallo Stato ospite, specie se sta investendo in mezzo mondo, volemose bene. Così, quelle del 2014 furono organizzate dalla Russia a Sochi, sul Mar Nero, dove le temperature sfioravano i 20° C; e quelle di Pechino si stanno svolgendo in zone dove non nevica quasi mai: condizioni in cui è indispensabile sparare vagonate di neve artificiale, vantaggiosa per gli sport sdrucciolevoli in quanto è più compatta della neve naturale e si scioglie più lentamente. Basta slittini che d’un tratto si arenano nell’erba! Quell’enorme quantità di neve, però, dev’essere raccolta con appositi cucchiaini al Polo Nord e trasportata su frigo volanti fino alla località deputata. Questa è la modalità più costosa, dunque preferita all’economico snowfarming (accumulare in uno spiazzo milioni di pupazzi di neve proteggendoli dal sole con un telone di plastica fino all’anno dopo, tecnica di cui il norvegese Mirko Martikainen dimostrò la fattibilità conservando con successo una palla di neve in un sacchetto di carta per cinque minuti), in attesa del nuovo procedimento, più caro ancora, su cui stanno lavorando gli scienziati cinesi: creare a mano ogni singolo fiocco di neve usando la loro manodopera non sindacalizzata (schiavi) e una macchinetta che consuma un fracco di energia (a fiocco, la stessa quantità che serve a produrre un milione di bitcoin). Per non fregare l’acqua alla popolazione (nella contea di Yanqing non si lavano da una settimana in modo da permettere le gare di Super G), come gocce d’acqua saranno usati i droplet degli sternuti dei malati di Covid internati nel maxi-ospedale da campo (1.000 pazienti) costruito in 6 giorni a Wuhan due anni fa. Se la pandemia verrà debellata, basterà piazzarsi al mercato e aspettare la prossima. Et-ccì! Buone medaglie a tutti.
La Scuola-Lavoro serve ai padroni, non agli studenti
Lunedì, Giuseppe Lenoci, di 16 anni, è morto dopo che il mezzo su cui viaggiava è finito contro un albero in provincia di Ancona. Giuseppe frequentava un corso di accompagnamento al lavoro che prevedeva una parte di lezioni in aula e una parte pratica con uno stage presso un’azienda. Lorenzo Parelli, 18 anni compiuti a novembre, è morto il 21 gennaio: nel suo ultimo giorno di lavoro (doveva tornare in classe) è stato travolto da un tubo metallico che lo ha ucciso sul colpo. Stava affrontando uno dei percorsi duali Scuola-Lavoro in un’azienda in provincia di Udine. Il ministro Bianchi, esprimendo la sua vicinanza alla famiglia di Giuseppe, ha precisato che non si trattava di alternanza scuola-lavoro: “Stava affrontando un percorso di formazione professionale. Nel nostro Paese abbiamo troppi morti nei luoghi di lavoro”. Non c’è dubbio, certo è meglio che ai ben oltre mille infortuni mortali sul lavoro all’anno, non si aggiungano quelli dei ragazzi che fanno stage gratuiti presso le aziende, un sistema che serve soprattutto a fornire manodopera gratuita. Come spiega un comunicato della rete degli studenti “Non è possibile morire di lavoro a 16 anni. Questi fatti evidentemente ci devono far interrogare profondamente non solo sul rapporto fra scuola e lavoro, ma anche su quanto ci sia urgenza di risolvere il problema della sicurezza”. Non per nulla la mamma di Lorenzo ha detto, in attesa che l’inchiesta faccia luce su quanto accaduto a suo figlio, “Un solo fatto è certo. Lorenzo è uscito per andare a scuola e non è più tornato”.
Ora, mentre gli studenti si danno appuntamento venerdì in piazza per chiedere l’immediata abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, la politica convoca tavoli di revisione, confronto con le Regioni e messa a punto di soluzioni che evitino simili tragedie. Noi ai tavoli non ci crediamo molto, anche perché non è chiaro cosa altro si debba aspettare per prendere atto che il sistema non funziona. Quanti altri studenti devono morire prima che venga scardinato un meccanismo che ha come unico scopo il profitto (delle aziende) e lo sfruttamento (dei ragazzi)?
L’alternanza scuola-lavoro, che è cosa diversa dai percorsi professionalizzanti ma va nella stessa direzione, è stata introdotta nel 2015, con la riforma della “Buona Scuola” del governo Renzi, e prevede 400 ore di formazione obbligatoria dedicata al lavoro nell’ultimo triennio per tecnici e professionali e 200 ore per i licei. Ancora oggi si può leggere sul sito di Matteo Renzi che quella riforma rappresentava “una consapevole via di uscita dal modello teorico della riforma Gentile del 1923 (che Mussolini definì la più fascista delle riforme) di una scuola elitaria e separata dalla società del lavoro”. E qui casca l’asino (non è una battuta). Non solo perché la riforma Gentile fu un’ottima riforma per quell’Italia (e come diceva il professor Severino, era il fascismo a essere gentiliano e non viceversa), ma perché bisogna capirsi sulla funzione delle istituzioni formative. L’idea efficentista di una scuola in cui s’impara solo ciò che serve è disastrosa.
In un’intervista di qualche anno fa, Claudio Magris ci raccontò quest’assurdo con un episodio: “Una volta a uno studente che mi spiegava che non veniva a un seminario, che pure gli interessava, perché non dava crediti, ho chiesto: ‘Hai mai baciato gratis una ragazza?’. Investire non vuol dire guadagnare ma spendere. L’idea che ogni cosa che uno fa deve essere tradotta in un vantaggio distrugge la libertà e la creatività”. Il ministro Berlinguer diceva che gli studenti sono “clienti”, ora sono diventati manodopera gratuita per le aziende. La scuola forma cittadini, non lavoratori: c’è tutto il tempo, dopo, di imparare a lavorare. Prima bisogna imparare a pensare, anche per non farsi sfruttare.
Csm, la riforma gattopardesca lascia il potere alle correnti
La “ineludibile”, “epocale” riforma del Csm, approvata dal Consiglio dei ministri su proposta dell’ex ciellina Marta Cartabia, ha partorito un “topolino”. Eppure, lo “scandalo delle nomine” del 2019 – che aveva sconvolto il Csm portando alle dimissioni di sei componenti e del Pg Fuzio – aveva disvelato all’opinione pubblica il perverso strapotere delle correnti che: a) condizionava l’elezione dei membri togati; b) pilotava e lottizzava le nomine dei posti direttivi e degli incarichi; c) determinava la nomina del vicepresidente, essendo emerso che la genesi dell’ultima nomina si rinveniva in accordi sottobanco, fuori del Csm, tra capi corrente e politici (si trattava della nomina di quell’Ermini che, scoppiato lo scandalo, aveva tuonato contro “il miserabile mercimonio di ciniche pratiche correntizie”). Eppure, vi era stato un durissimo intervento del capo dello Stato che aveva parlato di “quadro sconcertante e inaccettabile” e aveva più volte invitato “alla riforma della composizione e formazione del Csm con il superamento di logiche di appartenenza”. Eppure, vi era stato un forte segnale costituito dalla circostanza che ben 1.787 magistrati (su 4.000) si erano espressi favorevolmente per il sistema di nomina dei membri togati mediante sorteggio integrato.
Nonostante tutto ciò, ecco che la Cartabia – (e per essa il Consiglio dei “Migliori” che l’ha approvato all’unanimità) – propone, ancora una volta, un sistema elettorale, costituito da un maggioritario binominale nei diversi collegi, con correttivo proporzionale su base nazionale con possibilità di apparentamento tra candidati: una vera manna per le correnti, responsabili della degenerazione. In tal modo, la Cartabia: a) fa propria la, del tutto infondata, tesi della responsabile giustizia del Pd, Anna Russomando, secondo cui “il sorteggio anche integrato è incostituzionale e, peraltro, non esclude a priori accordi di potere”; b) recepisce la proposta, di cui è sempre portavoce la Russomando, di “approvare una legge che garantisca il pluralismo, grazie alla quale un outsider possa candidarsi ed essere eletto” (senza l’appoggio delle correnti neanche Falcone vi riuscì ); c) recepisce anche l’istanza della Anm per “un sistema di ispirazione proporzionale”, cioè, che “assicuri la presenza delle diverse sensibilità associative anche minoritarie all’interno del Csm”. È appena il caso di sottolineare che quelle che “pudicamente” vengono indicate come “sensibilità associative” non sono altro che le correnti, centri di potere e malcostume che hanno distrutto la credibilità della magistratura e del Csm.
La genesi dell’elezione dell’ultimo vicepresidente – che ha fornito “la prova provata” dell’assoluta necessità di una radicale riforma – avrebbe imposto che tale nomina avvenisse mediante estrazione a sorte tra i dieci membri laici, ovvero – in ipotesi subordinata – mediante designazione di uno di essi da parte del presidente della Repubblica, capo del Csm, onde sottrarre tale fondamentale nomina a impropri accordi e condizionamenti delle correnti.
La riforma ora prevede di portare da 16 a 20 i membri togati. Era l’occasione buona per aumentare almeno a 4 i rappresentanti della corte di Cassazione (che rimangono 2) che sono, certamente, i più esperti e autorevoli, ma saranno inviati al Csm ben 18 magistrati di merito (rispetto agli attuali 14) che l’esperienza di questi anni ha dimostrato essere in gran parte esperti di pratiche associative e correntizie più che di diritto. In conclusione, si invoca il cambiamento “epocale” per poi non attuare alcun reale cambiamento, sì da preservare lo status quo e conservare poteri e privilegi. Si tratta di una riforma di stampo e finalità “gattopardeschi”: “Tutto cambi perché nulla cambi”, ossia, se tutto cambia esteriormente, tutto rimane com’è.
Draghi premier inadatto mandiamolo al Tesoro
La stampa prona al premier Mario Draghi ha dovuto interrompere il tormentone sul se fosse meglio averlo a Palazzo Chigi o al Quirinale, dove è rimasto Sergio Mattarella. Giornalisti celebrativi hanno così iniziato a magnificare il suo futuro in politica, che Draghi ha rigettato con un netto “un lavoro me lo trovo da solo”. Ma questo “lavoro” – alla luce della sua controversa gestione dell’emergenza sanitaria e di altri limiti mostrati da capo del governo – sarebbe logico che lo portasse prima possibile a concentrarsi sulle enormi difficoltà della finanza pubblica italiana, gravata dal maxi debito pubblico salito oltre il 150% del Pil. Il premier, in quanto ex direttore generale del ministero del Tesoro, ex governatore della Banca d’Italia ed ex presidente della Banca centrale europea (Bce), appare il candidato più qualificato come ministro dell’Economia in qualsiasi governo uscisse dalle prossime elezioni. Anche perché l’Italia super-indebitata corre il rischio che il grande creditore Ue (Bce e altre istituzioni) la privi di parte della sua sovranità, come avvenne con la Grecia. In fondo Draghi seguirebbe l’esempio del suo mentore ed ex governatore di Bankitalia, Carlo Azeglio Ciampi, che – dopo un periodo da premier d’emergenza – divenne ministro del Tesoro e del Bilancio.
Il curriculum del capo del governo rivelava dall’inizio l’inesperienza in ruoli politici. Non è risultata compensata dalla storica abilità a entrare in sintonia, da tecnocrate, con i poteri dominanti. Draghi premier ha mediato a fatica con i partiti e non ha ritenuto prioritarie varie realtà svantaggiate del Paese. Soprattutto non sta raggiungendo gli obiettivi più attesi da lui: il risanamento della finanza pubblica e un maggiore peso dell’Italia in Europa negli affari economici e monetari. Da ministro in via XX Settembre potrebbe rendere il maxi debito più sostenibile, restare garante con i creditori Ue e i mercati finanziari, gestire i fondi del Pnrr per il rilancio dell’economia, seguire le riforme nei settori di sua competenza (compresa la lacunosa “legge Draghi” sulla finanza e le successive modifiche). Potrebbe far crescere i dirigenti interni e rimediare al suo antico errore da direttore generale, quando aprì le porte della Pubblica amministrazione alle voraci multinazionali private della finanza e della consulenza, spesso in conflitto di interessi a causa dei loro clienti privati. Recuperando il fidato attuale ministro dell’Economia, Daniele Franco, potrebbe ridividere il ministero, appesantito da quando ha accorpato tre dicasteri (Tesoro, Finanze e Bilancio).
Al di là della pandemia, i conti pubblici restano emergenza primaria dell’Italia in quanto alla base di tante altre problematiche (dalle carenze del sistema sanitario fino alle disuguaglianze o alla lentezza della giustizia). Draghi, se riuscisse nel risanamento finanziario, ne uscirebbe da salvatore della patria. Potrebbe frenare la Germania e i Paesi nordici, che nella riforma del Patto di Stabilità stanno rilanciando una linea dell’austerità pericolosa per l’Italia. Mentre ora il pur competente Franco sconta a Bruxelles l’immagine di “telecomando” del premier. E non ci si può mica affidare in alternativa al commissario Ue Paolo “er Moviola” Gentiloni.
Giornali celebrativi pronosticavano Draghi addirittura leader politico dell’Ue, dopo l’addio della cancelliera tedesca Angela Merkel. Giocavano a suo vantaggio i rinnovi dei vertici dell’asse franco-tedesco nelle recenti elezioni in Germania e nelle Presidenziali in arrivo in Francia. Invece, in Europa, l’Italia soffre perfino nei settori in cui Draghi avrebbe autorevolezza e competenza. Non è stata sbloccata la garanzia europea sui depositi bancari. Non si prevede più flessibilità di bilancio. La presidente francese della Bce, Christine Lagarde, dichiara e smentisce sulla politica monetaria, barcamenandosi tra le diverse posizioni di Parigi e Berlino, ma trascurando gli effetti negativi sul maxi debito italiano. La furba Lagarde, da direttore del Fondo monetario internazionale di Washington e partner della Bce di Draghi nella troika dei creditori, fu dura con la Grecia al tracollo. Non va richiamata sui legittimi interessi dell’Italia prima che sia tardi?
La prospettiva di Draghi all’Economia imporrebbe ai partiti di assumersi la responsabilità di tirare fuori presto leader o alleanze in grado di vincere le elezioni e poi di governare. Il vantaggio di avere pronto un ministro autorevole per via XX Settembre andrebbe però compensato frenandone l’attitudine da “Robin Hood al rovescio”, che elargisce ingenti aiuti pubblici ai ricchi (così possono investire di più nella finanza) e poco o nulla ai poveri (che spenderebbero nei consumi di base).