“Sbagliammo nel 1996 (facevo parte di quel Governo) non comprendendo che la rete Tlc era strategica per il Paese quanto l’energia e l’industria della difesa…”. Franco Bassanini è il primo fra i protagonisti della “stagione delle privatizzazioni” ad avanzare un’autocritica. Piero Barucci, ministro del Tesoro durante i cruciali governi Amato e Ciampi (’92-’94), in un libro del 1995 pieno di slancio civile, prevedeva: “Fra 20-30 anni, con a disposizione una nuova cultura politico-economica e una situazione della economia dai contorni non prevedibili, tornerà ad affacciarsi e a riaffermarsi la voglia di uno Stato protagonista della vita economica”. È di questi giorni la notizia, storica nel bene e nel male, che Ilva di Taranto, privatizzata nel 1995, tornerà in mani statali.
Nel 1991, 12 delle 20 più grandi società per ricavi e un terzo delle prime 50 società erano in mano pubblica. Le banche pubbliche assorbivano il 70% dei depositi. La maggior parte delle società erano nelle holding Iri, Eni ed Efim. Poi c’erano enti pubblici come Enel o Ferrovie. Le 93 operazioni di dismissione a partire dal ’92 garantirono introiti per 119 miliardi. L’Italia è stata al secondo posto per proventi dietro il Giappone. In relazione al Pil, le privatizzazioni italiane furono le maggiori al mondo. Contribuirono ad alimentare la fornace delle privatizzazioni la crisi dei partiti, l’incancrenirsi della corruzione, la firma del trattato di Maastricht, la liberalizzazione dei capitali, il dissesto di molte partecipate. A trent’anni di distanza, appare un’impresa non proprio gloriosa.
La privatizzazione di Telecom è stata un disastro. Nel 1997, l’anno della vendita, aveva un utile stellare ed era la principale aziende di telefonia mobile europea e stava per comprare Vodafone. Dopo la privatizzazione, l’azienda accumulò debito, diminuì la redditività e rimase immobile sul fronte tecnologico. La cronaca di questi giorni racconta le gesta dei Benetton e dei loro compagni di cordata che, preso il controllo di Autostrade, hanno accumulato 11 miliardi di utili, mentre agli automobilisti sono stati imposti continui aumenti delle tariffe e si lesinavano gli investimenti in sicurezza con tragiche conseguenze. Con un settore bancario totalmente privatizzato dopo la vendita delle banche Iri, quelle attive in Italia sono passate da 1037 nel 1993 a 485 nel 2019. Questa “razionalizzazione” ha fatto perdere decine di migliaia di posti di lavoro senza migliorare né la capacità di finanziamento né la solidità, se è vero che si sono susseguiti i fallimenti bancari, l’ultimo dei quali è quello del Monte dei Paschi, oggi nazionalizzato e ancora in crisi.
I due fiori all’occhiello della privatizzazione, aziende di cui lo Stato ha saggiamente mantenuto una quota di controllo, nascondono più spine di quanto si pensi. Enel è la maggiore azienda italiana per fatturato, altamente internazionalizzata. Eppure nel 1993, quando era totalmente pubblica, era già in attivo: in appena trent’anni dalla sua creazione, nel 1962, aveva triplicato l’energia prodotta per dipendente, offrendo ai cittadini elettricità ai prezzi più bassi in Europa. Dieci anni dopo la vendita della prima tranches di azioni nel 1999, il prezzo medio dell’elettricità in Italia era del 35% più alto della media europea. Anche Eni nel 1992 era già in attivo, nonostante dovesse sostenere numerose attività in perdita, tra cui la chimica. Dopo migliaia di licenziamenti, mantenendo inalterati i privilegi sulla produzione nazionale di cui aveva beneficiato ai tempi di Enrico Mattei, oggi le azioni di Eni (con un prezzo del petrolio a 50 dollari il barile), valgono solo il 60% più di quanto valessero quando è stata quotata nel 1995 (con un prezzo attorno i 16 dollari). La redditività è dunque scesa, e l’azienda ha perso capacità di visione di lungo periodo, se è vero che ha bucato la sfida della “transizione” dalle fossili.
Sabino Cassese sostiene che, paradossalmente, le privatizzazioni hanno “rafforzato lo Stato”. Certo non hanno migliorato il tenore di vita degli italiani. Nella più completa panoramica del processo, risalente oramai al 2010, la Corte dei Conti ammoniva come le public utilities privatizzate, da Autostrade a Enel a Eni, fossero caratterizzate da scarsi investimenti, mentre le “tariffe a carico di ampie categorie di utenti siano notevolmente più elevate di quelle richieste negli altri paesi”.
Di fronte agli enormi investimenti necessari per la “transizione energetica” e per ridurre le crescenti diseguaglianze, sociali e territoriali, le partecipate dovranno ritrovare una “missione” collettiva. Il problema è se potranno farlo mantenendo gli assetti giuridici e istituzionali ideati nella stagione delle privatizzazioni.