Alle partecipate statali occorre una nuova missione collettiva

“Sbagliammo nel 1996 (facevo parte di quel Governo) non comprendendo che la rete Tlc era strategica per il Paese quanto l’energia e l’industria della difesa…”. Franco Bassanini è il primo fra i protagonisti della “stagione delle privatizzazioni” ad avanzare un’autocritica. Piero Barucci, ministro del Tesoro durante i cruciali governi Amato e Ciampi (’92-’94), in un libro del 1995 pieno di slancio civile, prevedeva: “Fra 20-30 anni, con a disposizione una nuova cultura politico-economica e una situazione della economia dai contorni non prevedibili, tornerà ad affacciarsi e a riaffermarsi la voglia di uno Stato protagonista della vita economica”. È di questi giorni la notizia, storica nel bene e nel male, che Ilva di Taranto, privatizzata nel 1995, tornerà in mani statali.

Nel 1991, 12 delle 20 più grandi società per ricavi e un terzo delle prime 50 società erano in mano pubblica. Le banche pubbliche assorbivano il 70% dei depositi. La maggior parte delle società erano nelle holding Iri, Eni ed Efim. Poi c’erano enti pubblici come Enel o Ferrovie. Le 93 operazioni di dismissione a partire dal ’92 garantirono introiti per 119 miliardi. L’Italia è stata al secondo posto per proventi dietro il Giappone. In relazione al Pil, le privatizzazioni italiane furono le maggiori al mondo. Contribuirono ad alimentare la fornace delle privatizzazioni la crisi dei partiti, l’incancrenirsi della corruzione, la firma del trattato di Maastricht, la liberalizzazione dei capitali, il dissesto di molte partecipate. A trent’anni di distanza, appare un’impresa non proprio gloriosa.

La privatizzazione di Telecom è stata un disastro. Nel 1997, l’anno della vendita, aveva un utile stellare ed era la principale aziende di telefonia mobile europea e stava per comprare Vodafone. Dopo la privatizzazione, l’azienda accumulò debito, diminuì la redditività e rimase immobile sul fronte tecnologico. La cronaca di questi giorni racconta le gesta dei Benetton e dei loro compagni di cordata che, preso il controllo di Autostrade, hanno accumulato 11 miliardi di utili, mentre agli automobilisti sono stati imposti continui aumenti delle tariffe e si lesinavano gli investimenti in sicurezza con tragiche conseguenze. Con un settore bancario totalmente privatizzato dopo la vendita delle banche Iri, quelle attive in Italia sono passate da 1037 nel 1993 a 485 nel 2019. Questa “razionalizzazione” ha fatto perdere decine di migliaia di posti di lavoro senza migliorare né la capacità di finanziamento né la solidità, se è vero che si sono susseguiti i fallimenti bancari, l’ultimo dei quali è quello del Monte dei Paschi, oggi nazionalizzato e ancora in crisi.

I due fiori all’occhiello della privatizzazione, aziende di cui lo Stato ha saggiamente mantenuto una quota di controllo, nascondono più spine di quanto si pensi. Enel è la maggiore azienda italiana per fatturato, altamente internazionalizzata. Eppure nel 1993, quando era totalmente pubblica, era già in attivo: in appena trent’anni dalla sua creazione, nel 1962, aveva triplicato l’energia prodotta per dipendente, offrendo ai cittadini elettricità ai prezzi più bassi in Europa. Dieci anni dopo la vendita della prima tranches di azioni nel 1999, il prezzo medio dell’elettricità in Italia era del 35% più alto della media europea. Anche Eni nel 1992 era già in attivo, nonostante dovesse sostenere numerose attività in perdita, tra cui la chimica. Dopo migliaia di licenziamenti, mantenendo inalterati i privilegi sulla produzione nazionale di cui aveva beneficiato ai tempi di Enrico Mattei, oggi le azioni di Eni (con un prezzo del petrolio a 50 dollari il barile), valgono solo il 60% più di quanto valessero quando è stata quotata nel 1995 (con un prezzo attorno i 16 dollari). La redditività è dunque scesa, e l’azienda ha perso capacità di visione di lungo periodo, se è vero che ha bucato la sfida della “transizione” dalle fossili.

Sabino Cassese sostiene che, paradossalmente, le privatizzazioni hanno “rafforzato lo Stato”. Certo non hanno migliorato il tenore di vita degli italiani. Nella più completa panoramica del processo, risalente oramai al 2010, la Corte dei Conti ammoniva come le public utilities privatizzate, da Autostrade a Enel a Eni, fossero caratterizzate da scarsi investimenti, mentre le “tariffe a carico di ampie categorie di utenti siano notevolmente più elevate di quelle richieste negli altri paesi”.

Di fronte agli enormi investimenti necessari per la “transizione energetica” e per ridurre le crescenti diseguaglianze, sociali e territoriali, le partecipate dovranno ritrovare una “missione” collettiva. Il problema è se potranno farlo mantenendo gli assetti giuridici e istituzionali ideati nella stagione delle privatizzazioni.

Amianto. Si moriva anche facendo sacchi di juta e bambole

Quando si pensa ai danni causati dall’amianto, nell’immaginario collettivo li si attribuisce immediatamente ai lavoratori del settore o alle esposizioni nell’edilizia. Una strage, che con il tempo è diventata evidente per la comparsa di una tipologia di tumore che è considerato un “marker” dell’esposizione alle fibre tossiche e che ha ben definito lo steccato delle sue vittime. Quello che colpisce è la pervasività di questo problema nell’intera filiera produttiva: l’esposizione di chi ha lavorato nell’indotto dell’industria dell’amianto prima che questo fosse bandito nel 1992 è spesso poco considerata. Così accade che uno stabilimento come Eternit, che dal 1907 al 1986 ha prodotto a Casale Monferrato manufatti in cemento-amianto abbia causato almeno tanti morti tra i suoi lavoratori quanti quelli non immediatamente collegabili, salvo indagini attente. “Ogni giorno cucivamo 50-60 sacchi di juta. C’era molta polvere, ci mettevamo un fazzoletto in bocca per non respirarla perché non c’erano le mascherine. Non avevamo tute da lavoro e usavamo i nostri vestiti”: la testimonianza di Luisa, morta a 65, è stata raccolta nel volume di Pietro Gino Barbieri “Morire d’amianto” (Serra Tarantola editore), un medico del lavoro e già direttore del Servizio Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro dell’Asl di Brescia e autore di pubblicazioni scientifiche sul tema. Preziosissime. Nel ripercorrere storia e cronaca, risultano fondamentali per l’autore (rendendo così fondamentale l’opera dell’ autore stesso) i testi scientifici e i contributi per ricostruire la fonte della contaminazione. Barbieri racconta, infatti, che così come esistevano le fabbriche di cemento-amianto e le aziende che fabbricavano manufatti in quel materiale, c’era anche una filiera pericolosa meno evidente. L’indotto dei sacchi di juta utilizzati per il trasporto dell’amianto dalle miniere, ad esempio, venivano riciclati per la raccolta dei cereali. In mezzo centinaia di mani solerti, soprattutto di donne, addette a scucire, ricucire e riaggiustare (magari nelle proprie cucine o nelle cantine, con figli presenti) le sacche per pochi soldi, senza protezioni e senza alcuna consapevolezza di star marchiando il proprio destino. E ancora, la correlazione con la produzione di bambole di pezza, di barattoli, più in generale di fibre tessili attraverso pezzi dei macchinari. Ad accomunare tutti quei casi, la malattia e una morte spesso, oggi, ancora senza giustizia.

 

Berlino e il Far West lobby. Così è scoppiata Wirecard

Lo scandalo Wirecard, il colosso dei pagamenti fallito con un buco di due miliardi, è il Ground Zero della finanza tedesca e sta mettendo in luce tutta la fragilità di un sistema dove il lobbismo può muoversi indisturbato e tutti i livelli di controllo possono essere evasi. “Il caso Wirecard ha reso concreti una serie di problemi che esistono sul mercato finanziario” in Germania e che “potrebbero ripetersi”, racconta al Fatto Gerhard Schick, ex deputato verde e ora presidente di Finanzwende, un’associazione per la finanza sostenibile. Nel caso specifico tutti i livelli di controllo hanno fallito: il Consiglio di sorveglianza dell’azienda di Aschheim non ha vigilato, anzi ha mandato via la “sorvegliante” ribelle che aveva notato una gestione poco ortodossa dell’azienda; i revisori dei conti di Ernst & Young hanno approvato bilanci sospetti e ora sono finiti sotto indagine; le autorità statali di controllo dei revisori (Apas) non hanno notato nulla di strano; l’autorità di vigilanza bancaria (Bafin) ha protetto nel 2019 Wirecard contro il parere della Bundesbank e infine il controllo politico dei ministeri dell’Economia e delle Finanze è mancato. Quanto basta per un serio esame di coscienza.

Dove il controllo non ha funzionato, il lobbismo invece l’ha fatta da padrone: “Abbiamo da anni un grande problema di mancanza di trasparenza nell’attività di lobbying in Germania”, spiega al Fatto la deputata Lisa Paus dei Verdi, membro della Commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Wirecard. E non solo perché “altrove in Europa almeno c’è un registro dei lobbisti che noi qui non abbiamo ancora, nonostante le trattative nella coalizione” ma anche perché “non ci sono regole chiare su chi possa avere accesso ai circoli più vicini al cuore del governo e chi no. Sembra dipendere da quale ‘apri-porta’ un’azienda può permettersi”.

Il riferimento è all’incontro di un lobbista di Wirecard con la cancelliera Angela Merkel prima del suo viaggio come capo delegazione di una nutrita missione economica in Cina nel settembre 2019. Wirecard, del resto, ha avuto lobbisti di primo piano, racconta Fabio De Masi, deputato della Linke in commissione: “Un ex coordinatore dei servizi segreti del governo, l’ex ministro zu Guttenberg della Csu, un ex presidente della polizia bavarese, un ex sindaco della Cdu di Amburgo e un politico della Spd berlinese. Questo ci dice che Wirecard aveva molti servitori nella politica”. Secondo Finanzwende, il settore finanziario in Germania mette a disposizione 200 milioni l’anno per pagare un esercito di 1500 lobbisti e condizionare la politica.

I pilastri del controllo nella vicenda Wirecard hanno ceduto uno dopo l’altro prima di produrre il tonfo da 12,5 miliardi a danno di 11.500 risparmiatori. Il primo a cedere è stato il controllo del consiglio di sorveglianza, organo che si affianca al Cda delle società per controllarne l’operato. Nel 2017 Tina Kleingarn, membro del Cds si dimette dicendo che l’azienda è gestita “in modo disinvolto” e l’ad Markus Braun spadroneggia “come fosse il proprietario”. Qualcosa del genere è già accaduto e potrebbe accadere di nuovo, dice Schick.

Il secondo pilastro a piegarsi è stato il controllo della società di revisione dei conti e consulenza E&Y, che per 10 anni ha certificato i bilanci. A fine marzo del 2017 E&Y stava per far saltare il banco, ha rivelato il Financial Times: anche allora la dirigenza di Wirecard si sottraeva alla richiesta di inviare la documentazione completa sugli affari delle filiali in India e E&Y sospettava la manipolazione di mercato. Poi misteriosamente tutto si è risolto e in pochi giorni E&Y ha firmato la certificazione senza fiatare. Solo ora l’Apas ha denunciato alla procura di Berlino il colosso della revisione per errori nelle certificazioni 2015-2017. Anche qui il problema è di sistema, non un caso isolato: “Da anni abbiamo una massiccia concentrazione di potere nelle mani dei revisori dei conti” ci dice Paus. Il riferimento è alle “big four” che verificano i bilanci delle grandi aziende del Dax: Ernst & Young, Deloitte, Kpmg e PwC e che prestano consulenze per il governo federale. “Il loro potere di mercato è troppo grande, così come i loro conflitti di interesse: sono pagate dalle stesse società che dovrebbero certificare e da cui ricevono lucrativi contratti di consulenza”, dice De Masi. Le riforme che riguardano il funzionamento e le responsabilità dei revisori finora sono rimaste su un binario morto, conferma Schick.

Il terzo pilastro a cadere è stata la sorveglianza delle autorità di controllo dei revisori (Apas) e delle banche (BaFin). L’Apas sta riferendo i suoi sospetti alla procura solo adesso, dopo che i buoi sono scappati. Il suo presidente, Ralf Bose, è perfino accusato di aver fatto insider trading: in Commissione ha ammesso di aver comprato azioni Wirecard il 28 aprile, alla prima revisione negativa del bilancio, e averle rivendute un mese prima del tonfo. Mentre BaFin dovrà rispondere dell’accusa di aver protetto i titoli Wirecard nel 2019, vietando la vendita allo scoperto, contro il parere della Bundesbank e dopo l’uscita degli articoli del Financial Times. “La criminalità finanziaria è trattata come un reato minore”, conclude Schick. Wirecard è uno scandalo di sistema che mette a nudo le lacune di Berlino. Resta da vedere se sarà affrontato come tale o come un caso isolato.

La “Stato Spa” cresce ancora. Vale 116 mld tra luci e ombre

La recessione innescata dal Covid spinge la presenza dello Stato nell’economia. D’altronde l’Italia è il Paese del capitalismo senza capitali, dove gli imprenditori sono sempre pronti a privatizzare i profitti negli anni buoni e a pubblicizzare le perdite in quelli di vacche magre. Già oggi le sole partecipazioni del Tesoro nelle imprese, dirette e indirette, valgono 116 miliardi. Troppi, pochi? Difficile dirlo. Ma di certo a breve cresceranno di altri 44.

La mano pubblica agisce nell’economia da oltre un secolo e mezzo: già nel 1861 lo Stato controllava il Monte dei Paschi di Siena, il San Paolo di Torino, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Risale al 1912 la fondazione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni, al 1926 quella dell’Agip. “Quando lo chiuderemo questo convalescenziario?” chiese Mussolini il 23 gennaio 1933 alla firma del decreto istitutivo dell’Iri. L’Istituto per la ricostruzione industriale avrebbe dovuto essere temporaneo e invece sopravvisse al duce e al fascismo, prosperò durante tutta la prima Repubblica toccando il suo apice nel 1983 e scomparve solo nel 2002, un decennio dopo l’avvio della stagione delle privatizzazioni.

 

La ragnatela di imprese e settori

Oggi lo “Stato padrone” spazia dalle banche (Mps, Mediocredito Centrale, Popolare di Bari) ai trasporti (Fs, Anas), dalle reti elettriche (Terna, Gse) a quelle di telecomunicazioni (Tim, Open Fiber), dal petrolio (Eni, Snam, Saipem) all’elettricità (Enel) e all’energia (Italgas), dall’acciaio (Ilva) alle navi (Fincantieri), dalle linee aeree (Alitalia) al traffico aereo (Enav) e alla difesa (Leonardo), dall’elettronica (Stm) ai media (Rai) e alle Poste, dalla Zecca alla finanza e alle assicurazioni (Amco, Sace, Simest). Sono in mano pubblica imprese alimentari (Inalca, Pomì), della moda (Versace), costruzioni (WeBuild), turismo (Rocco Forte, Th Resort), aeroporti (Napoli, Bologna, Torino, Alghero, Milano), farmaci (Kedrion), meccanica (Valvitalia), impiantistica (AnsaldoEnergia), agricoltura (Bonifiche Ferraresi), immobiliare (Eur, Arexpo, Manifattura Tabacchi, Manifatture Milano).

Lo Stato padrone ha forme diverse: dalle partecipazioni dirette del Tesoro a quelle indirette attraverso Cdp, Invitalia ed enti locali. Cambiano la tipologia dei fondi impiegati, da quelli pubblici del Mef a quelli della raccolta postale (Cdp) e le responsabilità. Il governo ha una missione politica di indirizzo sui settori strategici, Cdp è un mix tra un fondo sovrano e un operatore di private equity, cui corrispondono non solo le responsabilità civili e penali tipiche di una società privata, ma anche quelle soggette al controllo della Corte dei Conti.

 

Quanto vale lo Stato padrone

All’ultima chiusura di Borsa di venerdì scorso, le partecipazioni dirette del Tesoro nelle quotate Eni (4,34%), Mps (68,25%), Enel (23,59%), Enav (53,28%), Leonardo (30,2%) e Poste (29,26%) valevano 27,2 miliardi, 19,7 nel solo gigante elettrico. Poi ci sono le partecipazioni indirette nelle quotate RayWay e StMicroelectronics per altri 4,7 miliardi. A queste si aggiungono, secondo calcoli effettuati dall’Università Bocconi, altri 84,7 miliardi di valore delle società non quotate controllate dal Tesoro: 50 miliardi Fs e Anas, Cdp per 30 miliardi, e poi Amco (gestione crediti in sofferenza), Rai, Invitalia, Gse, Poligrafico dello Stato, Eur, Gse. Il totale vale 116,6 miliardi. Il dividendo incassato dal Tesoro per l’esercizio 2019 è stato di 4,7 miliardi, -33% su base annua, ma si è consolato con la maxicedola da 7,8 miliardi che gli ha versato la Banca d’Italia, pure se l’istituto è totalmente indipendente.

 

Cdp, primo azionista della Borsa Italiana

Cassa depositi e prestiti, controllata per l’82,77% dal Tesoro con il resto in mano alle fondazioni bancarie, con asset totali per 474 miliardi è il terzo operatore finanziario in Italia dopo Intesa Sanpaolo e UniCredit. La sua raccolta è rappresentata soprattutto dai depositi di quasi 30 milioni di clienti delle Poste. Ha depositato 154,6 miliardi sul conto di Tesoreria dello Stato, che le fruttano assai poco, ma possiede redditizie partecipazioni a Piazza Affari: si va dal 25,96% di Eni al 35% di Poste, dal 9,89% di Tim alle quote in Terna, Snam, Itagas, Saipem, Fincantieri, Trevi Finanziaria Industriale, WeBuild (la vecchia Salini Impregilo) e Bonifiche Ferraresi. Cdp ha il controllo di Terna, Snam, Italgas e Fincantieri, è presente nel board senza controllo in Saipem, WeBuild e Bonifiche Ferraresi, mentre non siede nei cda di Eni, Tim e Poste. Questo tesoro vale 23,7 miliardi, 19,6 dei quali riferibili al Tesoro, e rende Cdp il primo investitore a Piazza Affari con il 4,6% della capitalizzazione complessiva delle 40 società dell’indice Ftse Mib (peraltro Cdp diventerà azionista del nuovo gruppo che ingloberà la Borsa: Euronext) .

Ma questa è solo la punta dell’iceberg. L’Istat il 19 febbraio scorso ha censito i dati riferiti al 2017 delle società partecipate dallo Stato e da Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane. Si tratta di un esercito di 6.310 imprese attive con 847mila addetti. Le aziende sono calate del 4%, gli occupati sono rimasti stabili. Le imprese controllate dal settore pubblico hanno creato un valore aggiunto di 58 miliardi (+4,4% sul 2016), il 7,5% del totale nazionale realizzato nello stesso anno dall’industria e dai servizi (779 miliardi).

 

Non è tutto oro quello che luccica

Non sempre però il capitalismo di Stato funziona. A fine ottobre il governo ha firmato il decreto per vendere la quota del 68,25% posseduta in Mps e pagata 5,4 miliardi nel 2017 dall’esecutivo Gentiloni, che in Borsa ora vale meno di un miliardo. Anche l’investimento di Cdp nel 10% di Tim per bloccare i francesi di Vivendi, costato un miliardo, ora vale appena 600 milioni. Ci sono poi operazioni delle quali sfugge la ratio: che senso ha avuto per Cdp acquistare il 20% di Bonifiche Ferraresi, maggiore società agricola italiana e unica del settore quotata in Borsa in Europa? Perché, tra le tante imprese del turismo, Cdp ha investito negli hotel Rocco Forte (con sede in Inghilterra)? C’è chi ricorda lo scivolone del sostegno di Cdp al gruppo Valtur, al cui patron Carmelo Patti e ai suoi eredi nel 2018 la Dia confiscò 1,5 miliardi per legami con la mafia. E perché investire nei plasmaderivati della Kedrion della famiglia Marcucci? I maligni sottolineano i ruoli dei fratelli Marialina, ex vicepresidente Pd della Toscana, e Andrea, capogruppo Pd al Senato.

 

L’espansione continuerà: il “patrimonio destinato”

Ma la presenza pubblica si estenderà ancora. Venerdì scorso lo Stato ha firmato con ArcelorMittal l’accordo per riacquistare il 50% dell’Ilva di Taranto (salirà poi al 60%, con una spesa di 1,1 miliardi). La nuova Alitalia, rifinanziata dal Tesoro con 3 miliardi, tornerà a volare. Poi c’è il piano di Cdp per rilevare l’88,06% di Autostrade per l’Italia detenuto da Atlantia insieme a Blackston e Macquarie (si parla di offerte intorno agli 8 miliardi). Se poi Mps si fondesse con UniCredit, il Tesoro diverrebbe socio di riferimento del nuovo gruppo bancario. Lo stesso avverrebbe se invece Mps si unisse a Mediocredito Centrale, controllata di Invitalia, che a sua volta ha investito 900 milioni per salvare Popolare di Bari. Cdp lavora poi alla fusione tra Open Fiber, la società di reti a banda larga di cui controlla il 50% (l’altra metà è dell’Enel), con Tim, di cui possiede quasi il 10%, ma il progetto avanza a rilento.

Non è finita qui: complice la crisi causata dalla pandemia, aumentano le imprese che vedranno un ingresso dello Stato. Il decreto Rilancio ha previsto che, per “attuare interventi e operazioni di sostegno e rilancio del sistema economico”, Cdp possa costituire un “patrimonio destinato” da 44 miliardi in cui confluiranno “beni e rapporti del Tesoro” finanziati con obbligazioni di scopo emesse da Cdp. Alcuni osservatori, però, pongono due quesiti: qual è la visione degli obiettivi di sviluppo, qual è la logica di lungo termine di questo piano? Il Parlamento avrà un reale potere di controllo o le imprese “salvate” saranno scelte solo dal Tesoro e dai vertici di Cdp, nominati dal governo? Il nuovo capitalismo di Stato che avanza pare destinato a durare a lungo, ma dovrebbe darsi una visione d’insieme, che per ora manca.

Carosello forever. Quando la pubblicità in tv era parte della nostra vita (proprio come oggi)

Stanotte ho fatto un sogno al contrario, dove tutto era rovesciato, ma non era un incubo. Ho sognato che il tenente Colombo saltava su un materasso Ondaflex cantando bidibodibù, che l’uomo in ammollo dopo aver scoperto che non esisteva lo sporco impossibile, si lanciava da una montagna e dei bambini gli chiedevano “Gigante aiutaci tu!” e allora lui gridava “E che ci ho scritto Jo Condor?”. Che Paulista il caballero misterioso, ci provava con la mia amica Manolita, lei ci stava, ma era tanto gelosa di Carmencita. Che Paolo Ferrari a torso nudo, con un pannolone e un gran martello urlava “Plasmooon, non li voglio due fustini di un detersivo qualsiasi per uno di Dash, voglio solo i miei biscotti!”.

Che mia mamma era arrivata alle semifinali di “Giochi senza frontiere”, mio padre si era trasformato in Topo Gigio, odiava i formaggini, ma giocava con una Susanna Tutta Panna gonfiabile. Mio fratello conduceva “90º minuto”, introduceva la lettura della schedina trasformandosi in Calimero, che non era piccolo e nero, era solo sporco.

Che Pippo Baudo giganteggiava su un cartellone che pubblicizzava Coppertone, con il costume abbassato si voltava sorridendo con il cane che gli tirava lo slip. La linea, il personaggio animato delle pentole Lagostina, si trasformava in mia nonna Pina. E io, estenuata dal traffico, scendevo dalla macchina e mi sedevo con Calindri a bere un Cynar al carciofo contro il logorio della vita moderna. Il sogno finiva con un imbianchino che andava in bicicletta con un pennellone attaccato alla schiena e mi sono svegliata.

È tutto il giorno che rimugino su un interrogativo da cui non riuscirò a liberarmi. Per dipingere una parete grande, ci vuole un pennello grande o un grande pennello? Che ansia. Gli spot ci lavorano dentro.

 

La cura di Mieli. Dimenticare il passato è meglio che ricordare tutto. Ma l’oblio non nega la Storia?

Ci sono eventi e notizie che col tempo allargano il tronco, affondano le radici, aggiungono rami, si fanno robusti, possono essere cambiati in questo o quel punto, ma non possono essere sradicati. Altri perdono, più o meno in fretta, forza e senso, si possono separare dal contesto, risultano fuori posto in ciò che è accaduto e in ciò che accadrà. Perciò prima si appannano e poi scompaiono. Ecco la spiegazione storica e politica (ma anche psicologica) del traboccare e del mancare di memoria, secondo il racconto ricchissimo di grandi fatti e minimi dettagli di Paolo Mieli, ne La terapia dell’oblio – contro gli eccessi della memoria (Rizzoli).

Il titolo attrae ma confonde. Domanda: esistono eccessi della memoria, quando l’intera ricostruzione degli eventi (ora e nel lungo corridoio dei secoli) dipende dal fitto e ininterrotto racconto tramandato da protagonisti, storici, testimoni indiretti e creatori più o meno fantasiosi di leggende, o correttori attenti e abili di fatti che, se consegnati intatti ai posteri, cambierebbero storia e memoria?

Paolo Mieli, come si sa, oltre che grande giornalista ha affrontato molto volte (spesso con importanti risultati di correzione o rivelazione) fatti della storia tramandati dalla memoria, accettando sia le complesse ricerche d’archivio sia le testimonianze orali e inedite del passato. Forse il caso più importante e chiarificatore, in questo libro, è il capitolo dedicato al grande latinista Concetto Marchesi: caso straordinario di un fascista-antifascista (nello stesso tempo, nelle stesse circostanze, non come infiltrato o infido, ma come altero protagonista che decide e ubbidisce solo a se stesso) nel quale il personaggio, ma anche i suoi sostenitori, utilizzano tutti gli equivoci e le manipolazioni della memoria.

“Alla notizia che Marchesi non obbediva al partito e aveva raggiunto un accordo con il comando tedesco (durante la Resistenza, ndr) , i dirigenti del Pci furono sconvolti (…) Poi tutto ciò finì nell’oblio e nella contraffazione storica”. Togliatti – racconta Mieli – quando parlò alla Camera del grande latinista scomparso (che, nel frattempo, era divenuto parlamentare Pci) non fece alcun cenno delle vicende che lo avevano legato e contrapposto ora alla Repubblica di Salò, ora alla Resistenza”. E sulla Resistenza, nel libro La terapia dell’oblio – contro gli eccessi della memoria Mieli apre così il capitolo sugli anni di guerra partigiana: “Occorre domandarsi come mai quella stagione rappresenti ancor oggi un fattore di divisione, e non goda dell’ampio e condiviso riconoscimento che sia la Repubblica sia la Costituzione hanno saputo guadagnarsi”.

La risposta è nella frase che Mieli dedica alla conclusione ambigua della storia ambigua di Concetto Marchesi: “Poi tutto ciò finì nell’oblio”. Segno che il problema della Storia contorta, e negata, non è l’eccesso di memoria ma l’uso deliberato dell’oblio.

 

La terapia dell’oblio

Paolo Mieli

Pagine: 304

Prezzo: 18

Editore: Rizzoli

Israele. Bibi&Gantz: un marchio ormai scaduto

Israele corre velocemente verso le quarte elezioni parlamentari in meno di due anni. Lo scontro dentro il governo dei “due nemici” – Benjamin Netanyahu e Benny Gantz – ha raggiunto il suo apice. Kahol Lavan, il partito di Gantz, ha votato con l’opposizione per lo scioglimento anticipato della Knesset. Se poi il bilancio dello Stato non sarà approvato entro la prossima settimana, il Parlamento si scioglierà automaticamente. Sono questi gli esiti di un governo nato male e vissuto peggio in questo anno di pandemia. Nessuno aveva mai creduto che Netanyahu – imputato in tre processi per corruzione – avrebbe mai consegnato la poltrona di premier e l’immunità che ne deriva a Benny Gantz dopo 18 mesi di governo. È vero invece che Bibi ha tentato tutte le strade, lecite e meno lecite, per bloccare ogni decisione del governo che non fosse una sua idea. La sinistra, sempre orfana di un leader vero, è alla caccia dell’ennesimo generale in pensione come frontman, ripetendo un errore marchiano perché uomini del calibro di Yitzhak Rabin e Ehud Barak – che da generali divennero leader politici – non nascono poi così spesso. Gantz – protagonista di un clamoroso voltafaccia per aver formato un governo con Netanyahu – dice di essere ancora lui l’anti-Bibi, ma il suo partito potrebbe essere spazzato via dal risentimento degli elettori.

Netanyahu pensava di poter stare tranquillo ma non è così. Oltre a dover fronteggiare Naftaly Bennett – suo ex capo di gabinetto e ora leader di Yamina, il partito dei coloni – avanza un altro temibile avversario a destra. Gideon Sa’ar – astro nascente del Likud ed ex collaboratore del premier – sapendo di non poter battere Bibi alle primarie del partito (è già stato sconfitto l’anno scorso) ha deciso di fondarne uno suo, “Nuova Speranza”. I suoi fan nel partito lo paragonano a Yitzhak Shamir, il leader più ideologico del Likud ma anche il meno carismatico. Quando è con i suoi amici, Sa’ar può essere divertente e coinvolgente, ma una rigidità lo tormenta in pubblico. I suoi discorsi sono competenti, ma è incapace di lanciare un incantesimo su un pubblico, come invece Netanyahu può fare, in un modo che sembra quasi senza sforzo.

 

Niente boiardi, niente visione. L’Iri è stato un’altra cosa

Oltre vent’anni dopo la stagione delle privatizzazioni il ritorno dello Stato è evidente e, per così dire, anche nella logica delle cose; meno evidente è la strategia complessiva. Rimettere il dentifricio nel tubetto dopo i disastri privati, da Tim ad Autostrade, non può essere l’unico impulso, non c’è progresso sociale nel sostituire col pubblico rendite private. La panoramica di dove lo Stato è presente – centinaia di imprese – ci dice due cose: manca la visione complessiva, perché mancano gli uomini per averla. E viceversa. Agli inizi degli anni 90 il processo di privatizzazioni fu guidato al Tesoro dal dg Mario Draghi, all’Iri sedeva Romano Prodi e a Palazzo Chigi Carlo Azeglio Ciampi. Oggi chi guida il ritorno dello Stato?

Per i boiardi il profitto era la cosa meno importante, gli anni 80 e un malinteso “primato della politica” hanno avviato il declino. Ora lo Stato si prepara a tornare all’Ilva ma per 2 anni lascerà la guida a Lucia Morselli, una manager senza esperienza nel settore e scelta dal colosso per fare la guerra al governo. Come può rinascere in questo modo l’acciaio di Stato? Come può funzionare il resto senza un’idea di politica industriale pubblica? Nel dopoguerra la siderurgia nazionale fu costruita da gente come Oscar Sinigaglia. L’Iri fondata da Alberto Beneduce ha potuto contare su una squadra di uomini di valore: Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia, Donato Menichella, per citarne alcuni. Smantellata l’industria pubblica, quella privata non ha saputo creare manager all’altezza, mentre una politica di piccolo cabotaggio produce una burocrazia di piccolo cabotaggio (ma di enorme potere). Quanto agli attuali manager di Stato, non fanno squadra, comprano aziende al grido di “è strategica” e se va bene la considerano una vittoria personale. Nel 2017 il presidente di Cdp Costamagna cedette il controllo della società di gestione del Fondo strategico italiano ai suoi manager, che lo nominarono presidente. Fsi (coi soldi di Cdp) ha investito centinaia di milioni nella Kedrion della famiglia Marcucci che per anni ha operato in sostanziale monopolio sul mercato degli emoderivati. Quale progresso ha prodotto questa operazione se non quello dei suoi protagonisti? Il punto è tutto qui.

Shakespeare & Manzoni: un vaccino letterario e i numeri delle pesti

 

PROMOSSI

Nino non aver paura. Frassica fa settanta, e il Corriere lo intervista. Come le sembra la notizia del suo tondo compleanno? “Cattivissima, sto prendendo un avvocato per controllare all’anagrafe se è vero. Mi sembra impossibile. E me ne accorgo soprattutto ogni volta che cambio decina. Mi dà fastidio non poter sfuggire alla mia età, sui giornali c’è questa strana usanza di mettere nome cognome ed età. Ma a chi interessa?”. Non è mica da questi particolari che si giudica un fuoriclasse! E poi Frassica ne dimostra la metà.

 

After Factor. La diciassettenne Elisa Coclite, in arte Casadilego, ha vinto la quattordicesima edizione di X Factor 2020. Che sarà anche l’ultima condotta da Alessandro Cattelan. L’annuncio l’ha dato il conduttore durante l’ultima puntata, che ha totalizzato uno share del 7,97. “Mi sono reso conto che non sto lasciando un programma, non sta finendo un programma, sta finendo un’epoca per me. Sta finendo un pezzo della mia vita che ho passato insieme a voi. Se avete seguito X Factor dall’inizio è finito anche un pezzo della vostra vita, si cambia pagina”.Super ospiti i Negramaro, ma si sono esibiti anche i giudici. E Manuel Agnelli, scatenato con gli Afterhours, a torso nudo sul palco a 54 anni, è una meraviglia.

 

Chi era costui? Un omonimo di William Shakespeare è stato il primo uomo a farsi vaccinare in Gran Bretagna. La risposta italiana arriva da un altro importante omonimo, Alessandro Manzoni (non un Carneade!). E immaginiamo che in Spagna sarà un Miguel de Cervantes, in Francia un Molière e in Germania Johann Wolfgang Goethe. A un Giorno da Pecora, la divertente trasmissione di Rai Radio1 condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, è intervenuto il signor Promessi sposi: “Sono disponibile a diventare il primo italiano ad esser vaccinato, mi piacerebbe esser utile al Paese”, ha detto il signor Manzoni, nato in un paese vicino Milano, Cornate d’Adda, e ora residente in provincia di Lecco. Lei è parente di “quel” Manzoni? Risposta: “I discendenti diretti sono una categoria a parte, ma risalendo alle carte di nascita dei miei avi si è capito che veniamo da Barzio, il paese della Valsassina dove aveva casa la famiglia Manzoni”, ha detto nonno Manzoni (che ha compiuto 85 anni giovedì). Tutto vero: tra l’altro i paesi della Valsassina, compreso Barzio, sono citati da Manzoni nel capitolo XXIX, quando si parla della discesa dei Lanzichenecchi. Agnese, poi, è di Pasturo, dove ancora oggi una targa ricorda la sua casa natale. Nel capitolo XXXIII Renzo, sopravvissuto alla peste di Milano, chiede notizie della futura suocera a Don Abbondio: “E Agnese, è viva?” – “Può essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui.” – “Dov’è?” – “È andata a starsene nella Valsassina, da quei suoi parenti, a Pasturo; ché là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui”. E però chissà se davvero le montagne erano state risparmiate dall’epidemia. Nei registri ecclesiastici sono segnati 432 morti tra Pasturo e Baiedo, secondo le note del curato “fino al numero di 21 al giorno”. Insomma: dei numeri delle pestilenze non v’è certezza.

 

BOCCIATI

La avvocata Anna Maria Bernardini de Pace ha scatenato il putiferio a Mattino 5 commentando il caso Genovese, l’imprenditore finito in carcere con l’accusa di stupro: “Che le feste di Genovese fossero così si sapeva a Milano. Ho parlato con figli degli amici, persone della moda, invitati e mai andati. Si sapeva che invitava un uomo ogni sette, otto donne. Quindi c’era l’immagine di Genovese con le donne da scegliere. E una donna di 18 anni, che vota, deve essere in grado di capire se andarci o no. Chi ci va o è scemo oppure ha un interesse specifico e gli interessi c’erano. Uno non si deve mettere in una situazione a rischio”. La divorzista ha fatto un distinguo tra responsabilità e colpa: “Non dico che c’è attenuante, lui è ultra colpevole e lei non ha saputo difendersi”. Il proliferare di opinioni nel nostro sgangherato dibattito pubblico è decisamente pernicioso.

 

Addio Champions. Conte come il generale Custer: e per l’Inter è sempre Little Bighorn

Sapete qual è il solo club di Champions che partendo dalla quarta fascia dei sorteggi, quella delle ruote di scorta, è riuscito a qualificarsi agli ottavi? Il Borussia Moenchengladbach. Che per la cronaca gareggiava nel girone dell’Inter. La quale Inter, per la prima volta nella storia, sotto la guida di Antonio Conte è riuscita nell’impresa di finire ultima del girone uscendo sia dalla Champions che dall’Europa League. Uno smacco per il club che assaporò tre trionfi con Herrera prima e Mourinho poi. Domanda: siamo sicuri che il flop, che segue quello di un anno fa (sempre griffato Conte) sia solo uno spiacevole incidente di percorso? A noi non pare. E a dirla tutta, le scuse bofonchiate da Conte in tv nel dopo Shakhtar, così come un anno fa nel dopo Barcellona, appaiono invero risibili.

Tanto per cominciare ad Antonio Conte, cui l’Inter paga uno stipendio di 12 milioni netti pur avendo a libro paga anche un secondo allenatore (Spalletti, 5 milioni), il club ha comprato giocatori, nell’ultimo anno e mezzo, per oltre 230 milioni. Calcio & Finanza ha ricordato le cifre: Lukaku 67,2 milioni, Hakimi 40,5, Barella 40, Eriksen 26,9, Sensi 23, Lazaro 21, Godin 3,5, Darmian 2,5, Young 1,7, Kolarov 1,5 senza contare Sanchez che il Manchester United ha ceduto a zero pur di lasciare all’Inter il sanguinoso ingaggio del cileno: 18,2 milioni di sterline l’anno. Per la cronaca: anche il monte ingaggi dell’Inter è altissimo, tre volte superiore, ad esempio, a quello del Borussia Moenchengladbach che l’ha eliminata. Un anno fa, finito terzo alle spalle di Barcellona e Dortmund, nel famoso discorso del “con chi dovrei vincere, con Sensi che giocava nel Sassuolo e con Barella che giocava nel Cagliari?” Conte accampò la scusa dell’inesperienza dei giocatori. Peccato che a far fuori l’Inter fosse stato il Borussia Dortmund (che ancora non disponeva di Haaland) e cioè la squadra in assoluto più giovane di tutta la Champions League.

Quest’anno, stizzito per le polemiche sull’esclusione di Eriksen e l’impiego a singhiozzo di Hakimi, Conte ha motivato le sue scelte parlando della “maggiore difficoltà del calcio italiano, molto tattico, al quale giocatori come Eriksen e Hakimi devono abituarsi”. E tuttavia non si capisce quali vantaggi porti all’Inter e al movimento questo decantato tatticismo del calcio italiano se l’Inter viene regolarmente eliminata da squadre tedesche non irresistibili (il Dortmund di Hakimi un anno fa, il Moenchengladbach quest’anno) e se Liverpool e Bayern, cioè inglesi e tedeschi, vincono in carrozza le due ultime Champions. Nella finale vinta dal Liverpool nel 2019, detto en passant, in campo c’era anche un certo Eriksen, leader di quel Tottenham che nel suo cammino aveva messo sotto tra gli altri pure l’Inter.

La verità è dunque ben diversa: e riguarda Conte e la sua comprovata inadeguatezza al palcoscenico della Champions. Fuori ai gironi con 1 partita vinta su 6, fuori l’anno scorso con 2 vittorie su 6, Conte in Europa è una tragedia fin dai tempi della Juventus (oltre che del Chelsea): basti ricordare i pareggi con avversari ridicoli come Nordsjaelland e Copenaghen e l’eliminazione ai gironi patita per mano dei turchi del Galatasaray. Lui non vuole sentirlo dire, ma la verità è che la “pazza Inter” esiste ancora: è quella che paga 12 milioni un generale Custer che siede in panchina. E ogni anno porta tutti a Little Bighorn.