Ritorno a Fortapàsc. Il patto clan-politica tra bombe e Pnrr

A Torre Annunziata, prima hanno arrestato per tangenti sugli appalti il capo dell’ufficio tecnico comunale, Nunzio Ariano. Ma si provò a liquidare l’episodio come sporadico, la mela marcia turbata da gravi problemi familiari. Poi hanno arrestato per le stesse tangenti l’ex vicesindaco, Luigi Ammendola. Trascorreva ore e ore con l’architetto Ariano nell’ufficio tecnico, ne divideva le pratiche e le abitudini. Ma la città, narcotizzata alla malapolitica, ha avuto un sussulto di dignità solo ad aprile quando è scesa in piazza dopo l’omicidio assurdo di un signore mite, Maurizio Cerrato, ucciso per aver difeso la figlia da quattro delinquenti inferociti per un posto auto, per una sedia spostata dalla strada. Infine pochi giorni fa è arrivata un’altra procura, l’antimafia di Napoli, a perquisire a tappeto il municipio e le case del sindaco Pd Vincenzo Ascione e di alcuni consiglieri e assessori. Scrivendo che il clan Gionta detta ordini alla politica, attraverso un proprio uomo, Salvatore Onda. Il nipote di un killer della cosca, cognato di una consigliera comunale, dipendente di una partecipata interessata ad appalti locali, nonché regista di trame politiche e di nomine in giunta. Onda è il referente di Ascione per i fondi del Pnnr ed è stato vicino a un ex capogruppo di una lista del governatore Vincenzo De Luca, secondo le intercettazioni divulgate sul decreto.

 

“Tante avversità…”consiglio dimezzato

Qui, nell’anno 2022. Come se l’orologio di Torre Annunziata fosse tornato indietro al 1985. All’anno di Giancarlo Siani ucciso sotto casa a Napoli per aver scritto sul Mattino di “Fortapàsc”, di una camorra che qui sparava ad alzo zero nei bar lasciando i cadaveri sui marciapiedi, tesseva e disfaceva alleanze interne, si arricchiva con il racket e lo spaccio. Alla quale i politici locali obbedivano senza fiatare.

Il sindaco Pd Vincenzo Ascione, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione, ieri si è dimesso. Era politicamente assediato, scaricato dai dem, preoccupato per la relazione della commissione prefettizia consegnata al Viminale.

Ascione ha provato a rimanere aggrappato a una nave piena d’acqua, convocando una conferenza stampa per dire che “non si possono incolpare le persone solo per il cognome e le parentele”. Il giorno dopo ha gettato la spugna: “So che avevo dichiarato di voler proseguire il mio mandato, ma prendo atto delle dimissioni di alcuni consiglieri e in particolare del presidente del consiglio Giuseppe Raiola, che mi ha seguito in questa avventura resistendo alle tante avversità”. Si tratta dei politici coindagati sul decreto di perquisizione. Ma non solo. Tra chi si era già dimesso o era pronto a farlo, il numero era salito a 16. La nave stava affondando.

 

Gli affari Gare illegittime e imprese infiltrate

Il primo a capire che sarebbe colata a picco era stato Lorenzo Diana. L’ex senatore anticamorra, una reputazione costruita negli anni 90 trascorsi a combattere il clan dei Casalesi, era stato chiamato a fare il vicesindaco per ripulire l’immagine della città e le incrostazioni dagli uffici. Ci ha provato, non ci è riuscito. E da salvatore della patria ne è diventato un feroce accusatore. Si è dimesso a giugno, poche ore dopo l’arresto del suo predecessore. “Ho subito resistenze a ogni proposta di cambiamento e ho trovato almeno otto gare illegittime”. I pm lo hanno sentito durante le indagini. Infatti alcune di quelle gare sono ricordate nelle perquisizioni come tra quelle “sospese per gravi anomalie”.

Ora Diana dice: “Non siamo agli anni 80, lo Stato ha inferto duri colpi alla camorra. Ma resta il problema irrisolto di un sistema criminale affaristico del quale non sono state recise le radici, e che punta alla spesa pubblica per gestire la ricchezza accumulata”. Come? “Infiltrandosi negli appalti più lucrosi che avevo indicato ai pm: le strisce blu, la videosorveglianza, l’immondizia, il noleggio degli automezzi”. Alcuni affidati a imprese con interdittive. Però si spara di meno. “Ma la violenza non è stata abbandonata, i negozi sono stati intimiditi a suon di bombe per il pizzo”, ricorda Diana. L’ultima indagine è nata da un attentato a uno studio di commercialisti. Tutto torna.

 

Spari e social Le chat delle “donne d’onore”

Carmela Sermino presiede l’associazione di legalità ‘Giuseppe Veropalumbo’. Ha sede in un appartamento confiscato ai Gionta. È intitolata al marito ucciso il 31 dicembre 2007 da un proiettile vagante. Un gruppo di ragazzini malavitosi scaricò in alto le loro pistole, all’inizio si pensò ai festeggiamenti criminali di Capodanno. “Ora i clan sparano meno, ma quando sparano riflettono ancora meno, si ammazza per poco. Mentre dietro l’omicidio di Siani c’era un mandante, una strategia. Oggi quella capacità strategica si è trasferita sull’economia. E leggere che la camorra era in grado di intervenire sul sindaco per i fondi del Pnrr mi ha inquietato”. È vero che il clan Gionta si sente meno tollerato dopo la morte di Cerrato, che sta contando chi è con loro e chi contro? “Forse sì, sono insofferenti al fatto che dopo diverso tempo qualcuno era tornato a scendere in piazza”. Sta di fatto che sui social la furia delle donne della cosca è incontenibile. Seminano insulti e minacce nei commenti ai post degli articoli che raccontano gli arresti di camorra. “Tu sei un grande cornuto… Pezzi di merda non vi permettete di parlare di persone che non conoscete! Stanno persone innocenti, vigliacco. Gionta con le sigarette vi ha tolto la fame in faccia”. Il tutto rigorosamente in un italiano più sgrammaticato della nostra sintesi. In maiuscolo, che sul web equivale a urlare.

Torre Annunziata in effetti non è stata un’avanguardia di ribellione civile. Lo conferma Pasquale Del Prete, della Fai antiracket, il cosiddetto ‘modello Ercolano’, la vicina cittadina dove le estorsioni sono scese quasi a zero “perché tutti abbiamo fatto squadra denunciando, mentre a Torre Annunziata c’è una economia molto infiltrata”. E dunque “questo spiegherebbe – secondo Del Prete – quel che stiamo leggendo, e perché il nostro progetto ‘Mai Più’, presentato qui nel 2019 in Comune, abbia raccolto solo poche denunce di usura e nessuna di pizzo”.

Il fratello di Giancarlo Siani, il pediatra Paolo Siani, è un deputato dem. “Sa cosa mi fa più impressione? Giancarlo scriveva queste cose negli anni ’80 ma da allora non è cambiato nulla, il clan è sempre lo stesso e i nomi sono sempre gli stessi. I capi vanno in carcere ma c’è sempre qualcuno pronto a prenderne il posto. Non siamo riusciti ad offrire a questi ragazzi altra opportunità che fare il camorrista. Un destino segnato peggio di una malattia autosomica dominante”. Che significa? “Che si trasmette per forza di padre in figlio”.

Ruby ter, geometra di B: “Rigato voleva una casa e si infuriò”

“Avevo trovato una casa a Giovanna Rigato (ex Olgettina, imputata per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza, ma anche per tentata estorsione ai danni di Silvio Berlusconi, nda). Lo voleva subito, ma andavano fatte delle verifiche. In un incontro ad Arcore ebbe una reazione scomposta e arrabbiata, fece un gesto per far capire che le dovevano essere versati dei soldi, penso 500mila euro, e Berlusconi rimase sbigottito”. Lo ha raccontato, testimoniando nel processo Ruby ter, il geometra Roberto Trombini che si occupa delle proprietà immobiliari di B. da 32 anni.

Consegne Amazon, ok del ministero all’intesa

L’accordo nazionale per i driver di Amazon, firmato i 24 novembre, ieri è stato ratificato al ministero del Lavoro. L’intesa tra Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti e Assoespressi (l’associazione nazionale dei corrieri espressi che fa parte di Confetra), per le aziende della distribuzione ultimo miglio per Amazon Italia Transport, prevede diritti e tutele uguali per tutti i corrieri che consegnano pacchi per la multinazionale, orario di lavoro da 44 a 42 ore settimanali, premio di risultato e incremento dell’indennità di trasferta, oltre a una verifica periodica di carichi e ritmi di lavoro. Sono garantiti continuità occupazionale con il mantenimento di diritti, tutele e aspetti economici in caso di cambio appalto o contratto di trasporto.

Pfizer, 230 lavoratori verso il licenziamento

Fumata nera tra sindacati e Pfizer sui 130 licenziamenti imposti dal colosso farmaceutica Usa nello stabilimento di Catania. “Abbiamo rigettato la proposta di Pfizer di un trasferimento ad Ascoli per 50 persone su base volontaria, con integrazione economica di circa 40 mila euro. Chiediamo da anni un piano industriale”, spiega Jerry Magno (Filctem Cgil). Pzifer nel 2021 ha registrato ricavi per 50 miliardi di euro e il titolo in Borsa ha toccato 295 miliardi di dollari. “Oltre a Catania si è aggiunta la procedura di licenziamento anche a Latina per un centinaio di informatori medici”, spiega Giuseppe Coco (Femca Cisl Catania). Venerdì è previsto un nuovo incontro.

“Ponte, bomba a orologeria”: chiesto rinvio a giudizio per Castellucci e altri 58 imputati

Il crollo del ponte Morandi è stata una strage annunciata, che si sarebbe potuta evitare in qualsiasi momento. Il processo di corrosione dei cavi, dicono i pm Massimo Terrile e Walter Cotugno, era noto da anni, ma ciò che non era possibile conoscere era il momento in cui la struttura, una vera e propria “bomba a orologeria”, avrebbe ceduto. Sarebbero stati necessari controlli e manutenzioni particolarmente accurati, e invece esigenze di profitto di Autostrade per l’Italia hanno imposto tagli continui e hanno limitato gli interventi a budget che sarebbero bastati appena per dare “una mano di bianco”. Ancor più grave, in questo contesto, la scoperta che venivano falsificati i report sulla sicurezza.

Con questi argomenti, la Procura di Genova ha chiesto ieri il rinvio a giudizio per 58 persone, manager e tecnici di Autostrade per l’Italia e Spea Engineering, la società controllata che in pieno conflitto di interessi avrebbe dovuto monitorare le opere gestite da Aspi. Le accuse sono a vario titolo di omicidio colposo plurimo, per la morte delle 43 persone uccise il 14 agosto 2018, disastro, falsi, con l’aggravante legata all’omicidio avvenuto in un luogo di lavoro, e cioè su quel cantiere permanente che era il viadotto Polcevera. Insieme a loro sono indagati anche funzionari e dirigenti ministeriali a cui è contestato l’omesso controllo. In cima a questo sistema, hanno ripetuto più volte i magistrati, c’era un grande “manovratore”, e cioè il potentissimo Giovanni Castellucci, prima amministratore delegato di Aspi e poi anche della holding Atlantia. L’uomo che, secondo quanto ricostruito dalla pubblica accusa, è il vero artefice delle politiche di bilancio che hanno consentito alle società dei Benetton di macinare profitti stellari, una strategia che ha portato però a una compressione delle spese sulla sicurezza. Questo, ovviamente, è l’impianto accusatorio, esposto nell’arco di un paio di settimane dai pm.

Adesso la palla passerà alle parti civili. Lunedì la parola sarà presa dalle difese. Il principale argomento dei legali di Aspi è che il cedimento è stato provocato da un vizio occulto del ponte, impossibile da prevedere. Nel processo sono imputate per responsabilità amministrativa anche Autostrade per l’Italia e Spea Engineering. L’inizio del dibattimento è atteso a partire da aprile.

Ielo: “Volevano un procuratore per indagare su di me”

“Sono tre anni che prendo fango in faccia. Di Rocco Fava mi fidavo, ma mi tese una trappola. L’Hotel Champagne? Volevano nominare un procuratore di Perugia che fosse disponibili a fare indagini nei miei confronti, probabilmente perché io non faccio cene e non faccio incontri”. Lo ha detto ieri in aula il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, teste nel processo che vede imputati gli ex pm di Roma, Luca Palamara e Stefano Rocco Fava. A loro viene contestato di aver rivelato notizie d’ufficio “che sarebbero dovute rimanere segrete”. L’obiettivo di Fava, per l’accusa, era “una campagna mediatica ai danni di Giuseppe Pignatone, da poco cessato dall’incarico di procuratore di Roma e di Ielo”. Ielo si è costituito parte civile contro Fava. “Sono anni che covo e sto zitto”, ha detto il pm in aula, ricostruendo la genesi del procedimento 44630/- 2016 nato da una sos, una segnalazione di operazione sospetta, nell’inchiesta sul “Mondo di Mezzo”, fino all’arresto dell’avvocato Piero Amara (ex legale esterno di Eni) e altri. “Io dissi che le dichiarazioni di Amara si potevano utilizzare solo se riscontrate. Fava mi scrisse una mail in cui mi diceva che si doveva denunciare Pignatone” perché “risultavano rapporti con Bigotti e con Amara e il fratello di Pignatone”. E ancora. Per Ielo, Fava “mi ha teso una trappola: disattese la richiesta di fare uno stralcio sulla vicenda Eni-Napag sapendo che su quella vicenda mi sarei astenuto”. Poi ha aggiunto: “Nessuno si è mai permesso di dirmi cosa dovessi o non dovessi fare”.

Morte di David Rossi, Mussari ha dubbi: ”L’email sul suicidio? Non era il suo stile”

“Non era il suo modo di esprimersi”. L’ex presidente di Mps, Giuseppe Mussari, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta che punta a fare luce sulla morte di David Rossi avvenuta il 6 marzo 2013, quando il responsabile comunicazione di Monte dei Paschi di Siena precipitò da una finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni, ieri ha espresso dubbi sull’email e sui biglietti che furono ritrovati nel pc e nell’ufficio di Rossi: “Non riconosco David” in quei testi, ha detto Mussari. L’email è quella inviata il 4 marzo 2013 a Fabrizio Viola, ex ad del Monte, in cui in teoria Rossi avrebbe annunciato il suicidio: “Help stasera mi suicido sul serio, aiutatemi!!!”. “Era questo il registro di Rossi?”, hanno chiesto i commissari a Mussari. L’ex presidente ha prima invitato a fare un confronto fra testi di Rossi, come le prefazioni ai cataloghi di certe mostre promosse da Mps, poi ha chiosato che quei testi “non collimano, no”.

Fu suicidio, hanno chiesto i commissari? Mussari non ha risposto, ma ha assicurato di essere schierato, nella ricerca della verità, con la vedova. “Da parte mia, da chi ha nutrito quel tipo di rapporto così da definirlo fraterno e non in senso massonico, non posso rimanere indifferente a una moglie che si batte come si batte Antonella o ai fratelli che continuano a chiedere giustizia. Non posso che stare dalla loro parte”, ha spiegato Mussari. “Ho amato David come un fratello. Ha iniziato a lavorare alla Fondazione Monte dei Paschi e ho chiesto alla banca di assumerlo perché era il più bravo di tutti”. “In banca per mio costume l’unica persona cui davo del tu era Davide perché lo conoscevo da prima, come anche Morelli”. Per l’ex presidente Rossi “non partecipava alle riunioni del Cda, avrà partecipato a uno, quando doveva esporre le linee guida sulla comunicazione” e ritiene che “nulla sapesse delle operazioni” sotto inchiesta né che “avesse cose di chissà quale rilevanza da riferire ai magistrati”.

L’ultimo incontro risale al dicembre 2012, “ero ancora presidente di Abi e la baraonda non era ancora iniziata”. Dal gennaio 2013 “cambia definitivamente il contesto, non era lecito, né utile, né prudente sentirci, scattano meccanismi di difesa, di autodifesa, di etero-difesa, io ero il nemico numero uno e lui gestiva la comunicazione di una banca che era, inevitabilmente, anche contro il nemico numero uno”, ha concluso Mussari.

Giovani Pd, il capo su Scuola-Lavoro: “Incidente d’auto”

“Non è mai facile trovare le parole per esprimere l’amarezza che si prova in simili situazioni”: eppure Mattia Santarelli, segretario dei Giovani Democratici di Fermo, sulla morte a 16 anni di Giuseppe Lenoci durante uno stage del suo percorso scuola-lavoro, riesce solo a dire una cosa che gli preme. “Mi preme dire una cosa però – scrive su Facebook –, Giuseppe non è morto di alternanza, non è morto di lavoro. Giuseppe è morto. In un terribile incidente d’auto”. Proteste e richieste, nate anche dopo la morte di un altro ragazzo di Udine qualche settimana fa, sarebbero “strumentali”: “Strumentalizzare qualsiasi notizia per parlare di un tema vuol dire mancanza di argomenti nel trattare il tema” ha detto. “Chiediamo a Enrico Letta e Andrea Orlando se le affermazioni espresse da Mattia Santarelli siano coerenti e compatibili con la posizione Pd in materia di lavoro, alternanza scuola-lavoro e morti per lavoro” ha twittato ieri la Flp Cgil Crea. Intanto il 18 febbraio è prevista una manifestazione degli studenti a Fermo, il giorno dopo il funerale.

Balenciaga e YSL pagano 210 milioni di multa a Parigi

“Regolamento d’insieme”. Con queste parole, inserite nel bilancio del 2020, altri due marchi famosi del gruppo Kering, Yves Saint Laurent e Balenciaga, hanno giustificato il pagamento di 210 milioni di euro per chiudere le proprie pendenze con il Fisco. Quello francese. Dopo il caso Gucci in Italia, è la seconda volta che il gruppo Kering è costretto a pagare in seguito ad accertamenti fiscali. Il meccanismo è lo stesso. Usare la società svizzera Lgi per incassare i proventi di tutte le vendite nel mondo, anche se il lavoro reale viene svolto a Milano, a Londra o a Parigi. Così da risparmiare parecchio. Come calcolato dal consorzio Eic, grazie a un tax ruling con la Svizzera Kering fino al 2017 ha pagato un’aliquota media sugli utili dell’8,6%, con un risparmio di 2,5 miliardi di euro. A perderci è stata principalmente l’Italia, visto che Gucci è il marchio che garantisce la maggioranza (83%) dei profitti al gruppo.

Lo schema usato per la casa di moda fiorentina fondata a inizio ‘900 è stato però applicato a quasi tutti i marchi del gruppo: l’altro italiano, Bottega Veneta, i britannici Alexander McQueen e Stella McCartney, e poi appunto Yves Saint Laurent e Balenciaga. Rispetto a quanto successo a Milano, dove ha sborsato 1,2 miliardi di euro per chiudere l’accertamento con l’Agenzia delle Entrate, in Francia al gruppo di Francois-Henri Pinault è andata molto meglio. Per chiudere i casi di Yves Saint Laurent e Balenciaga, le autorità fiscali francesi hanno accettato che il gruppo Kering utilizzasse la procedura del cosiddetto “accordo complessivo”. In questo modo l’accusato beneficia non solo di un eventuale sconto di pena, ma anche di una riduzione del prezzo da pagare per chiudere il contenzioso tributario. Il ministero dell’Economia francese non ha sporto denuncia nei confronti di Kering. La Procura nazionale delle finanze (PNF), che aveva aperto un’indagine per riciclaggio, non ha effettuato perquisizioni o udienze, né ha richiesto ufficialmente il fascicolo giudiziario alle autorità giudiziarie italiane. La scelta è stata quella di attendere l’esito della verifica fiscale e un’eventuale denuncia da parte del Dgfip, l’agenzia delle entrate francese. La denuncia non è mai arrivata. La Dgfip non ha voluto rispondere a domande sul caso. La Procura nazionale delle finanze, da parte sua, ha dichiarato a Mediapart di aver archiviato il caso senza ulteriori azioni nel maggio del 2021, rifiutandosi tuttavia di commentare ulteriormente.

La notizia del pagamento di 210 milioni di euro da parte di Yves Saint Laurent e Balenciaga è contenuta nelle dichiarazioni finanziarie ufficiali delle due società. Secondo diverse fonti a conoscenza dell’argomento, il totale pagato da Kering sarebbe più alto dei 210 milioni comunicati dalle sue due controllate. Contattato per un commento, il gruppo controllato da Pinault ha confermato che l’inchiesta delle autorità francesi è “chiusa”, ha detto che la cifra di 210 milioni “non è accurata”, ma ha evitato di rivelare il totale effettivamente pagato. Di sicuro le imposte sottratte per anni da Kering alla Francia sono state tante. Lo dicono i bilanci di Yves Saint Laurent e Balenciaga. Da quando Pinault ha dovuto riportare a Parigi le attività registrate per anni in Svizzera, i fatturati delle due società francesi sono esplosi. Dal 2018 al 2019 i ricavi di Tsl sono passati da 393 milioni a 1,1 miliardo di euro. Quelli di Balenciaga si sono moltiplicati per cinque: da 185 milioni a 927 milioni di euro. Alla fine, la multa che le due società hanno detto di aver pagato al fisco d’oltralpe è stata di 210 milioni di euro.

House of gucci: così la maison ha sottratto 1,5 mld al fisco

La “House of Gucci”, quella vera, concentrato di ricchezza del marchio simbolo della moda italiana, si trova in Svizzera, a due passi dal confine. Una società del Canton Ticino usata per incassare i profitti realizzati in tutto il mondo grazie alle vendite di borsette, cinture e gioielli. Con un obiettivo: abbattere il carico fiscale del gruppo. Ridotto all’osso, è stato questo per anni – almeno dal 2011 al 2017 – il sistema Gucci, la strategia messa in piedi dal magnate francese François-Henri Pinault e dal suo gruppo, Kering, per pagare meno tasse possibili.

Finora si sapeva che per chiudere il contenzioso con l’Agenzia delle Entrate italiana Kering nel 2019 ha pagato 1,25 miliardi di euro. La più grande conciliazione fiscale mai raggiunta tra Roma e un’azienda privata. All’epoca la holding di Pinault si era limitata a pubblicare un breve comunicato stampa per spiegare che nell’accordo con il Fisco (accertamento con adesione) l’azienda ha riconosciuto come la sua controllata svizzera, la Lgi Sa, tra il 2011 e il 2017 avesse in realtà una “stabile organizzazione” in Italia, dunque avrebbe dovuto pagare le imposte di Gucci a Roma invece che a Berna. Come si è conclusa la vicenda? Quanti soldi il gruppo ha effettivamente sottratto al Fisco? A queste domande risponde l’inchiesta condotta dal Fatto Quotidiano insieme a Mediapart e al network di giornalismo investigativo Eic (European Investigative Collaborations).

 

Kering il gigante del lusso

Kering è una delle principali multinazionali della moda. Nel 2020 ha fatturato 13,1 miliardi di euro. Oltre a Gucci, da cui proviene l’83 per cento dei profitti del gruppo, controlla tra gli altri marchi Yves Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga, Alexander McQueen, Pomellato, Dodo. L’indagine condotta dal pm della Procura di Milano, Stefano Civardi, non ha portato a condanne per Gucci né per la sua consociata svizzera Lgi. Eppure, nel processo verbale di constatazione redatto dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Milano, si dice chiaramente che attraverso il metodo messo a punto, il gruppo della moda ha evaso. Il “reddito sottratto a imposizione” in Italia (cioè l’utile che deve essere ancora tassato) da parte del gruppo Kering nel periodo compreso tra il 2010 e il 2017 è stato pari a 5 miliardi di euro, si legge nel documento compilato dai finanzieri al termine della verifica fiscale. Questi profitti sono stati tassati in Svizzera, con un’aliquota che nel periodo di riferimento è andata da un minimo del 7,2% a un massimo del 12,5%. Se avesse dichiarato quegli utili in Italia, Kering avrebbe pagato mediamente circa il 30 per cento di imposte (risultato della somma delle aliquote Ires e Irap in quegli anni). Fatto il conto, il gruppo ha così evitato di versare in Italia tasse per 1,5 miliardi di euro.

Marco Bizzarri è l’uomo che ha rilanciato Gucci. Le “roi Marco”, il ceo scelto nel 2014 da Pinault per guidare la gallina dalle uova d’oro del gruppo, ha sostituito lo storico capo azienda Patrizio Di Marco. Per il sistema messo in piedi con la Svizzera, omessa dichiarazione dei redditi in Italia della Lgi, entrambi vengono indagati nell’inchiesta del pm di Milano Stefano Civardi.

Bizzarri ha patteggiato una pena di 6 mesi di carcere, convertita in una multa da 45mila euro. “Nella qualità di amministratore di fatto nel periodo di competenza”, si legge nella sentenza pronunciata l’11 gennaio del 2021 dal Tribunale di Milano, “ometteva di dichiarare redditi derivanti dall’operatività di una stabile organizzazione occulta della società di diritto svizzero Lgi”. Secondo i calcoli del giudice, le imposte societarie (Ires) evase dalla Lgi quando Bizzarri ne era l’amministratore di fatto, cioè nel periodo che va dal 2014 al 2017, sono pari a 358,4 milioni di euro. Ma per l’attuale capo azienda di Gucci non c’è stato solo il patteggiamento in qualità di rappresentante del gruppo Kering. L’inchiesta milanese, infatti, ha portato in superficie un altro metodo utilizzato dal gruppo guidato da Pinault per realizzare risparmi sulle tasse. Un trucco che riguarda proprio lo stipendio del ceo Marco Bizzarri.

 

Il ceo e il bonus da 40 mln

L’amministratore delegato di Gucci fino al 2017 ha avuto la residenza in Svizzera e ha ricevuto due stipendi: uno, pari a circa un terzo del totale, pagato dall’italiana Guccio Gucci Spa; l’altro, corrispondente ai due terzi restanti, versatogli dalla lussemburghese Castera, società controllata sempre da Kering. Il problema è che Bizzarri in realtà risiedeva in Italia. Lo ha ammesso lo stesso manager davanti all’Agenzia delle Entrate. “Nel testo della relazione presentata agli Uffici competenti il Bizzarri ha dichiarato che il proprio domicilio fiscale e la residenza per gli anni dal 2009 al 2015 sono da intendersi stabiliti in Italia”, si legge nel verbale della Guardia di Finanza. Il manager è stato condannato per l’evasione fiscale dei suoi redditi? No, perché a marzo del 2018 ha ottenuto l’ok dall’Agenzia delle Entrate per la voluntary disclosure. In sostanza, a fronte dell’immunità penale garantita dall’adesione alla “procedura volontaria”, Bizzarri ha pagato 16 milioni di euro per regolarizzare la sua posizione con il Fisco per il periodo 2009-2015, in più ha versato le imposte per gli anni seguenti. A versare la maxi sanzione è stata di fatto Kering. Nel 2017, proprio quando Bizzarri ha fatto domanda per la voluntary disclosure, il gruppo controllato da Pinault gli ha infatti versato un bonus da 40,6 milioni di euro. Una cifra spropositata, rispetto ai premi da circa 4 milioni di euro che il manager aveva ricevuto durante i due anni precedenti alla guida di Gucci. Bizzarri non ha risposto alle domande inviate dal Fatto, mentre Kering si è rifiutata di rilasciare commenti su questa specifica vicenda.

 

Stipendi I 2/3 dall’estero

Per lo stesso schema è stato indagato dalla Procura di Milano anche Di Marco, predecessore di Bizzarri alla guida di Gucci, ora presidente di End Clothing, marchio britannico di abbigliamento sportivo controllato dal fondo Carlyle. Anche a Di Marco gli investigatori italiani hanno contestato di aver omesso di dichiarare il suo stipendio, che dal 2010 al 2016 è stato di 6,7 milioni di euro all’anno. Da residente in Svizzera il manager percepiva una minima parte della retribuzione dall’italiana Guccio Gucci Spa, mentre gran parte veniva pagata dalla lussemburghese Castera. Ma c’è anche un altro strano giro di pagamenti. Una maxi liquidazione, da 11,2 milioni di euro, pagata da Kering a Di Marco attraverso una società di Panama con conto corrente a Singapore. “Dopo la risoluzione del contratto di consulenza con Castera del 24 dicembre 2014 – si legge nel verbale della Finanza – le pretese economiche vantate dal Di Marco sono state regolate con accordo transattivo, datato 27 aprile 2015, denominato Full Termination and Settlement Agreement”. In base a questo accordo, Kering ha versato “una somma pari a euro 11.219.803,33 a favore del Di Marco presso il conto corrente n. 6000996 intestato alla società panamense Vandy lnternational S.A. e acceso presso la Lgt Bank Ltd Singapore”. L’ex capo di Gucci, che ha dovuto rispondere anche di evasione fiscale come rappresentante della svizzera Lgi, nel 2021 ha ottenuto dal Tribunale di Milano la messa alla prova come pena alternativa. Secondo quanto ricostruito per questa inchiesta, ha dovuto anche pagare alle Entrate più di 20 milioni di euro per chiudere il contenzioso. Di Marco non ha risposto alle domande inviate per questo articolo.

moraleevadere conviene

Fatto il conto finale, però, a Pinault e alla sua Kering non è andata male. La società non ha dovuto rispondere penalmente per quanto commesso. Gli episodi contestati si riferivano, infatti, agli anni compresi tra il 2010 e il 2017, e la legge italiana ha inserito solo nel 2019 i reati tributari tra i motivi di condanna di una società di capitali. Ma il vantaggio è stato soprattutto economico.

Come detto, la Guardia di Finanza ha accertato come dal 2011 al 2017 la multinazionale Kering abbia sottratto al fisco italiano imposte per un totale di 1,5 miliardi di euro. Per sanare tutto gliene sono bastati, però, molti di meno: 1,25 miliardi di euro è quanto la società ha detto di aver pagato nel 2019 all’Agenzia delle Entrate italiana per chiudere il contenzioso. Anzi, ancora di meno, perché Kering ha comunicato di aver versato solo 897 milioni di euro per tasse non pagate (sanzioni e interessi portano il totale a 1,25 miliardi). Insomma, prendi 1 miliardo e mezzo e restituisci solo 897 milioni. Un vero e proprio affare, per Pinault e soci.

1 – Continua